Artefiera 2003 – I tesori della Russia
- Pisani Giuliano, Segato Giorgio, Trevisan Maria Luisa
16 novembre 2003 Presentazione della mostra I tesori della Russia, interventi di Ruggero Chinaglia, Giuliano Pisani, Giorgio Segato. Presentazione del libro Artisti di Armando Verdiglione, Spirali. Interventi di: Ruggero Chinaglia, Giorgio Segato, Maria Luisa Trevisan, a Artefiera Padova. Patrocini: Regione del Veneto, Comune di Padova.
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ARTEFIERA PADOVA 2003
Presentazione della mostra I tesori della Russia e del libro di Armando Verdiglione Artisti
interventi di
- Ruggero Chinaglia, curatore della mostra
- Giuliano Pisani, assessore alla Cultura del Comune di Padova
- Giorgio Segato, critico d’arte
- Maria Luisa Trevisan, docente di Storia dell’arte
Giorgio Segato È interessante la capacità di Artefiera di accogliere le varie proposte degli altri padiglioni in una sorta di emulazione. Sicuramente l’anno prossimo avremo 50 performance, perché tutti i padiglioni cercheranno di creare dei momenti di richiamo. Sono dei links, dei ganci di richiamo del pubblico, che diventano molto utili quando c’è un affollamento pari a questa sera. Sono già più di 3800 i biglietti che sono stati ritirati oggi, quindi qua dentro ci saranno 4000 persone come minimo; erano 2500 all’inaugurazione, che è stata un record fra tutte le manifestazioni che sono state organizzate in fiera. Quindi, veramente si può dire che la manifestazione ha avuto un particolare successo.
Tra le varie manifestazioni collaterali, che sono state molto articolate, alcune hanno avuto momenti veramente molto alti, come quello di ieri, l’incontro con Ferdinando Camon sulla poesia dialettale di Pasolini. Camon ha fatto una relazione estremamente originale e bella sulla ricerca del dialetto da parte di Pasolini come ricerca della madre, partendo dal fatto che Pasolini non parlava inizialmente in dialetto, ma poi si è messo a scriverlo. Lui era nato a Bologna e la madre a Casarsa, e quando entra nell’ambiente culturale della madre, comincia questa ricerca dialettale. Oppure la rievocazione di Pierre Restany con la fondazione D’Ars.
C’è stata una sequenza di testimonianze di artisti padovani, veneti e nazionali su questo bellissimo personaggio della critica internazionale scomparso alla fine del maggio scorso, che aveva avuto con Padova e con il Veneto molti momenti importanti: Biennale di Venezia, Premio Marzotto, Biennale internazionale del Bronzetto, Piccola scultura, una edizione di monografie, come quella più recente su Renato Pengo, con cui aveva avuto un rapporto continuo, costante e molto stimolante. Oppure, anche oggi, con la presentazione del Museo di Bernalda, un piccolo museo di arte contemporanea vicino a Matera, con la presenza dell’Assessore alla cultura di Bernalda, ma anche di un famoso giornalista del sud, Mario Trufelli, per trent’anni responsabile della sede di Potenza della RAI e inviato speciale per molti anni, che ha presentato un suo libro.
Con lui si è parlato anche dell’importanza dei musei di arte contemporanea dislocati nella provincia, sottolineando come i giovani della provincia vedano ritardato il contatto col contemporaneo fino a quando se ne vanno dal paese, fino ai diciotto – vent’anni, perché la scuola non parla del contemporaneo, non arriva al contemporaneo, e l’unica informazione, l’unico contatto è attraverso la televisione, che non è sufficiente, anche perché è di per sé acritica, non propone una visione, mentre l’arte, gli artisti propongono una visione più critica, più dinamica, più articolata, più fluida, quindi in continua mutazione, in continua variazione. Ecco l’importanza della presenza del contemporaneo, anche come committenza pubblica.
Qui abbiamo l’assessore alla cultura del Comune di Padova, Giuliano Pisani, che è sensibilissimo alla problematica dell’arte contemporanea. Voglio sottolineare però un errore che è risaltato anche oggi, mi pare, sui giornali: lo spostamento della scultura di Giò Pomodoro dal centro storico, perché forse, come dicono Sgarbi e altri, non si armonizzava nelle linee con le architetture, ma, essendo in un’isola pedonale, non dava certamente nessun disturbo, né al traffico né agli occhi. Invece bloccava lo sguardo su un evento che pochi padovani conoscono a fondo e sicuramente i molti turisti che vengono a Padova non conoscono, cioè che Galileo Galilei ha passato 18 anni importantissimi della sua attività di docente e di scienziato a Padova.
Non solo per questo, ma si è creata, proprio nel centro di Padova, una piccola antologia di scultura contemporanea, che andrebbe non solo rispettata, ma arricchita. Si può partire dalla scultura del primo ‘900, il Portone monumentale, le grandi sculture che sono sull’Altare della Patria, alla facciata monumentale del Municipio, e si può arrivare all’interno del cortile monumentale dell’università, dove si trova Selva, dove si trova Boldrin, e dove si trova anche una delle più belle sculture al mondo che è il Palinuro o Partigiano Masaccio di Arturo Martini, proprio sotto la scalinata del rettorato. Qui c’è una scultura che ci porta proprio al contemporaneo: la parete di Jannis Kounellis, riconosciuto e premiato come tra i più grandi artisti contemporanei a livello mondiale, che a Padova suscita tante discussioni, ma che, nonostante questo, costituisce un documento importantissimo di arte povera, di arte contemporanea. Lì vicino, poi, c’è Emilio Greco e anche Amleto Sartori.
Si è creata una piccola antologia che entra negli occhi della città e dei visitatori della città, dei cittadini, e crea una confidenza con il contemporaneo che non c’è in altre città, che non ci può essere in altri luoghi e che diventa un piccolo museo all’aperto.
Ecco, io ho voluto dire questo, perché c’è anche l’assessore, ma so che nella sostanza è d’accordo su questo fatto: riportare all’interno del cortile storico dell’università Giò Pomodoro, collocazione che non era stata pensata né dallo scultore né da chi aveva progettato l’inserimento, è una rinuncia della città nei confronti di quella che è sempre stata considerata la città nella città, cioè l’università.
C’è sempre stata una certa separatezza, come si diceva fino a qualche tempo fa. E questo vuol dire sottolineare ancora questa separazione tra il corpo cittadino e il corpo universitario, cosa che dovrebbe scomparire sempre di più. Dopo, l’assessore replicherà a queste cose, e io spero che le mie rimostranze e quelle di altri possano restituire il Giò Pomodoro alla piena visione. Oltretutto non era una scultura difficile, era una pagina che riprende proprio una specie di racconto, la spirale e la spazialità che è collegata a Galileo.
Si erano fatte anche delle mostre nel centro storico per sottolineare proprio la bellezza che ha la scultura come luogo delle misure, dei riferimenti, della rilettura del contesto urbano. E questo è sempre più importante, perché il nostro sguardo, il nostro modo di guardare si viene modificando, diventa sempre più televisivo, cioè siamo abituati a uno sguardo superficiale e che scorre, non più a una lettura lineare, attenta come quando si leggeva. Adesso si legge pochissimo, io continuo a leggere, ma la maggior parte della gente legge pochissimo.
È stato studiato in psicologia che la mancanza di una lettura lineare fa sì che ci sia meno deposito di memoria, meno deposito di impressioni, di sensazioni, una minore capacità di elaborazione. La lettura lunga porta a questa prensilità della mente, la lettura breve o simultanea o istantanea della televisione si cancella, e quindi non abbiamo sedimenti di memoria. Allora, in una società sempre più caratterizzata da una lettura breve e che si smarrisce rapidamente, avere dei segnali visivi plastici, scultorei, che impegnano lo spazio tridimensionale, impegnano le misure, i riferimenti anche spaziali e impegnano quindi anche il rapporto interpersonale – perché il problema dello spazio è anche lo spazio che spetta a me, lo spazio che spetta a voi, lo spazio che spetta tra l’uno e l’altro, e quindi una conoscenza dei limiti, che è fondamentale oggi – ci dà proprio la percezione dello spazio disponibile e dei limiti.
La consapevolezza del limite è una delle consapevolezze portanti che si stanno smarrendo. Si perde il senso dei limiti, i giovani, gli adulti stessi; si va continuamente oltre, nelle velocità, nei tempi e nei modi dei comportamenti, nel linguaggio. Un’altra conseguenza, a mio avviso, è l’alzarsi dei toni, la volgarizzazione del linguaggio, un superamento dei limiti, che in questa cultura sembra ormai essere consentito continuamente. Allora, la scultura è indubbiamente una delle forme d’arte che maggiormente aiutano a capire e a rendere importante questa consapevolezza.
Dicevo che, nell’ambito di queste manifestazioni, di questa serie di appuntamenti che hanno avuto momenti molto alti, c’è anche la presentazione del libro Artisti di Verdiglione. Volevamo che fosse qui con noi, ma è influenzato. Gli avevamo dato il pomeriggio di maggiore affluenza, proprio per il significato che assume il personaggio e il suo libro, dedicato agli artisti della sua esperienza, della sua memoria, non agli artisti in generale. È un saggio che ha raccolto con tante lezioni, altri articoli già pubblicati, ma che diventa un itinerario della sua memoria.
E la mancanza di un apparato iconografico penso che significhi anche che si affida alla propria memoria e che affida alla nostra memoria, come viaggio, come percorso, la riscoperta anche sensitiva delle opere di questi autori, scoperta che può passare per molti casi anche attraverso la mostra che abbiamo intenzione di presentare, e che vede la compartecipazione del Comune di Padova, della Cassa di Risparmio, che ha concesso le sale del Monte dei Pegni, l’ex Monte dei Pegni e della Editrice Spirali. Penso che sia, come organizzazione, che porta questa grossa collezione straordinaria a Padova, una collezione non completa, ma estremamente ricca.
A volte, la ricchezza dei momenti supplisce alla competenza, alla completezza della documentazione e, in questo caso, direi che avviene proprio così, e perciò è stata accolta dal Comune. Per cui invito Giuliano Pisani, come assessore responsabile della cultura, a parlare e a dire le motivazioni e le soddisfazioni che ha ricavato nell’accogliere questa grossa manifestazione.
Giuliano Pisani Grazie. Buonasera a tutti. Anche a me spiace molto che non ci sia il professor Verdiglione, perché era una bellissima occasione per poterlo incontrare, ma capisco le difficoltà dovute a una subitanea influenza, perché da poche ore ne sono colpito anch’io, che peraltro mi muovo da Padova e quindi, da Padova a Padova, non faccio molta fatica. Ecco il motivo per cui mi tengo il soprabito sulle spalle, perché non sono al top della forma. Ma al di là di questa notazione personale, ci sono molti stimoli nell’intervento che mi ha preceduto, molti stimoli legati alla nostra città, dal punto di vista della tematica connessa con la stele di Giò Pomodoro, di cui parleremo magari un momento dopo, e soprattutto connessi al perché – questa era la domanda – il Comune di Padova ha pensato a questa mostra.
A questa mostra, in realtà, ci pensiamo già da due anni, nel senso che due anni fa ho avuto modo di visitare, a Milano e a Senago, i luoghi dove sono raccolte la totalità di queste opere, che sono una parte di una collezione ulteriormente più vasta e più ricca. E l’abbiamo pensata per l’autunno di quest’anno proprio perché avevamo e abbiamo intenzione – lo stiamo realizzando, di fatto – di dedicare l’autunno a una riflessione sulla Russia, dal punto di vista artistico, iconografico e storico–culturale, con questa mostra, e perché domenica 23 novembre, quindi domenica prossima, inaugureremo nella Galleria Civica di piazza Cavour la mostra della Fondazione Feltrinelli sui Gulag, mostra che è nata a Milano l’anno scorso e che è itinerante. In questo momento esatto è a Torino, verrà smontata questa sera dopo la chiusura, e viaggerà verso Padova.
Una mostra molto importante, perché testimonia la realtà sconvolgente di questa autentica tragedia del XX secolo. Ma è perfetto l’abbinamento, se ci pensate, con la mostra che qui esponiamo a Palazzo del Monte, in quanto ci pone davanti il tema della libertà dell’espressione artistica, della libertà della creatività, della libertà dell’intellettuale, in un mondo quale era quello sovietico, che è venuto ovviamente uccidendo l’espressione libera dell’arte, soprattutto alla fine del secondo decennio del secolo scorso.
Voi sapete che dopo la Rivoluzione d’Ottobre (1917) ci fu un grande entusiasmo, anche da parte del mondo degli intellettuali, degli artisti, dei creativi, di avere libertà di espressione. Tutti ricordiamo Majakovskij, per fare un esempio nel campo della poesia, e la disillusione, che fu tragica e drammatica proprio perché Stalin impose a un certo punto, come unico obiettivo dell’espressione artistica, l’esaltazione ideologica del regime e quindi la repressione della libertà creativa. Repressione che troverà, nella mostra dedicata ai Gulag, una sezione che la documenterà, esattamente come ci sarà anche una sezione che documenterà gli internati nei Gulag dell’area veneta e anche dell’area padovana. Quindi abbiamo un piccolo tratto originale all’interno di una mostra che, come ripeto, viaggia già da un anno.
Ma non solo l’Unione Sovietica, non solo il periodo dell’Unione Sovietica in questa mostra, perché la mostra che abbiamo a Palazzo del Monte tiene conto naturalmente dell’espressione artistica dall’800 ai giorni nostri, fondamentalmente. Quindi il periodo pur lungo e drammatico del settantennio dell’Unione Sovietica è solo una parte dell’arco temporale che viene presentato e descritto all’interno della mostra.
Se dovessimo ragionare in termini di ‘800, ovviamente ci viene un’altra suggestione, cioè il collegamento con l’arte e la creatività russa che, a partire proprio dal diciottesimo secolo, si apre verso l’occidente e, all’inizio del diciannovesimo secolo, già troviamo amplissimamente documentata, in un dialogo che è molto più ricco e creativo nello scambio di quanto normalmente non si sia portati a pensare.
Noi abbiamo avuto forse una concezione nostra – faccio una notazione di carattere personale essendo difficile negli anni scorsi, nei decenni scorsi avere un rapporto immediato, libero, senza vincoli, ostacoli e lacci di qualunque genere con l’Unione Sovietica – di questo mondo che, di fatto, era un po’ sequestrato rispetto a noi. Uso l’espressione “un po’” per non dire sequestrato del tutto, nel senso che c’era pochissima libertà per noi di andare a conoscere la realtà. Si era molto guidati, molto vincolati nei percorsi, negli appuntamenti. Poi, sappiamo bene che l’arte, come prima ricordavo, era sottoposta a controlli tremendi e così anche il mercato dell’arte, perché in realtà è testimoniata in questa mostra – come poi ci dirà benissimo il curatore Ruggero Chinaglia – la presenza indispensabile e straordinaria nella sua efficacia, dei collezionisti, di coloro che sostenevano di fatto l’opera dell’artista e la sostenevano sfidando a loro volta la censura brutale, ancor più che severa, del regime.
Quindi il tema su cui ci si potrebbe interrogare, e è un peccato in questo senso che non abbiamo il professor Verdiglione, è proprio la libertà dell’intellettuale, che cos’è l’arte, che cosa rappresenta, se è vero che, come nella concezione marxista, sia una sovrastruttura o se sia invece un’intima esigenza dello spirito umano, se sia un lusso da scioperati, come la definiva Verga, pensando in termini che vanno anche bene per i nostri giorni, o se sia invece ancora una volta una dell’espressioni più alte della cultura e quindi quella che forse più direttamente traduce il sentire, il vedere, il conoscere e il rappresentare intellettuale agli occhi nostri di persone comuni, cioè il farci vedere, il farci intravedere quello che i nostri occhi fisicamente non riescono a cogliere, non riescono a vedere.
Da questo punto di vista, l’arte contemporanea ha e deve continuare a avere per noi un valore assolutamente fondamentale. Perché? Ma anche qui, in Artefiera, si coglie questo, se noi siamo circondati qui, in questa sala, da questi soggetti, che sono tra l’altro di pittori albanesi. Ecco, il sentire oggi dell’Albania. Che cosa sentono gli artisti albanesi oggi? Possiamo dire molte cose. Vederli collegati con altri movimenti vuol dire che non è un paese chiuso. Ma cos’era l’arte albanese dieci o vent’anni fa? Io dovrei dire non lo so, lo ignoro completamente. Quindi, c’era qualche cosa che continuava a muoversi sotterraneamente, per vie carsiche non ben definite.
G.S. Era un riferimento molto giusto e molto interessante. Questa è una sala dedicata a maestri e artisti albanesi. L’artista che ha fatto i quattro grandi paesaggi e i tre alla vostra destra, Alì Oseku, ha passato parecchi anni in carcere sotto il regime, e quindi potrebbe testimoniare – è qui presente – che cosa significhi liberarsi dalla costrizione di esprimersi soltanto in senso di realismo sociale e ritrovare invece i legami a livello internazionale, con un’arte che libera la mente, che libera lo spirito, che libera il corpo dai legami che lui ha direttamente vissuto sulla pelle.
G.P. Sì, io direi che dovremmo sempre avere la coscienza, anche nel campo dell’arte, di quanto sia fondamentale difendere la libertà di espressione. Questa è un’osservazione, se volete, molto scontata e molto banale. Ma se pensiamo a cosa è accaduto nel ventesimo secolo e cosa ancora accade in parti varie del mondo, cioè questa brutale repressione dell’arte che, se voleva manifestarsi, doveva comunque essere indirizzata a esaltazione o del regime nazifascista o dei regimi comunisti, ecc., dovremmo avere consapevolezza che, esattamente come le limitazioni della libertà e gli orrori che hanno prodotto in altri campi, questi regimi sono sempre lì in agguato.
D’altra parte, è banale dirlo, ma se ci guardiamo intorno, ne è un esempio anche l’esperienza vissuta pochi anni fa con la tragedia jugoslava. Adesso Sarajevo è una città che è diventata quasi una capitale dell’arte contemporanea della creatività giovanile, sembra proprio una reazione formidabile: il voler negare la brutalità e l’imbecillità e la tragedia, affermando la creatività alla massima potenza, quella cioè dei giovani, che esprimono questo anelito formidabile all’espressione libera della creatività totale. Ci voleva quindi una guerra devastante, un assedio brutale per arrivare a una trasformazione nella positività dell’espressione artistica.
Io chiudo, perché non voglio annoiare nessuno, né voglio assolutamente compiacermi di quello che dico, ma lui mi ha provocato prima con Giò Pomodoro! A questo proposito devo dire due cose per i padovani presenti. Io sono veronese di nascita e ho studiato all’Università di Padova, quindi sono uno dei tanti padovani acquisiti alla città attraverso l’università, e credo che a questo tavolo ce ne sia anche un altro, mi pare Ruggero Chinaglia. Anche te. Ecco, allora siamo tutti e tre acquisiti, acquisiti a Padova attraverso l’università.
L’università ha 781 anni. Allora mi viene sempre un po’ da sorridere quando, giustamente per altro, sento dire che c’è questo rapporto di città nella città, o di due mondi che non dialogano, ecc. Credo che alla fin fine sia un luogo comune. Allora, se la stele di Giò Pomodoro doveva essere posta lì come simbolo di collegamento tra l’università e il comune, e cioè il palazzo – perché sono state usate queste parole da autorevoli persone – da questo punto di vista potrei considerare superabile il problema. Non abbiamo bisogno di una stele per capire che c’è un collegamento tra la città e l’università, anzi, guai se non fosse. Sarebbe ridicolo, perché non è una cosa che è nata oggi. Ripeto, è nata 781 anni fa. E Padova, nella sua storia, nella sua cultura, in quello che è il suo DNA di organismo vivente, ha proprio il rapporto con l’università.
Pensate, per esempio, a tutto quello che è il tema dell’accoglienza, dello spirito di volontariato che c’è nella città di Padova e che non c’è in altre città. Noi la viviamo e non ce ne rendiamo conto, ma in altre città non c’è. Ci sarebbe stato tutto questo se nel 1400 l’università non avesse avuto già allora un primato nel campo della medicina, nel campo dell’assistenza? Avremmo avuto il primo ospedale della nostra storia italiana e via così? Sicuramente no. La nostra università era l’unica in cui potevano laurearsi in medicina e in diritto membri della comunità ebraica, venivano da tutta Europa per studiare all’Università di Padova e per laurearsi, perché era l’unica università che lo faceva.
Quindi lo spirito di accoglienza, quel senso di tolleranza, di apertura. Qualcuno, oggi, penserà che ci sono anche dei beceri che magari dicono il contrario. Bene! Perché, quando ci sono quelli, ci confrontiamo e vediamo che le cose non sono scontate, quindi capiamo meglio quelli che sono i valori a cui guardare, proprio perché c’è qualcuno che si dimostra contrario a questi valori.
Allora, o la stele ha un valore in sé dal punto di vista artistico o dal punto di vista della sua collocazione nello spazio – e è questo il tema su cui ragioniamo, cioè il valore in sé nella sua collocazione in quello spazio – e qui si aprono naturalmente gusti e sensibilità diverse.
Io posso essere stato testimone indiretto – indiretto perché c’ero ma c’ero per caso come si dice – non proprio di un sopralluogo, piuttosto di una situazione in cui era presente il rettore, alcuni prorettori, critici e esponenti della cultura artistica all’interno dell’università. Con un modellino, che è quello che tuttora c’è, si posizionava nei vari punti lungo il liston la stele, che era stata rimossa perché aveva, ricordo, un cancro del bronzo e quindi bisognava comunque rimuoverla.
Poi, alla fine, è stato portato questo modellino all’interno del cortile nuovo e posto sotto un arco, uno di quei grandi archi che ci sono nel cortile nuovo dell’università. E devo dire che, a mio parere, lì non è in contraddizione, ci sta bene, al di là del suo valore simbolico. Ci sta bene perché dialoga con Martini e con Kounellis e, soprattutto, prende un grande slancio dall’arco in cui è inserita. Non inserita nel senso di incastonata. Questo arco fa da sfondo in modo molto suggestivo.
Ecco, non ho altre parole da aggiungere. La stele è stata regalata dalla figlia all’Università di Padova. Poi, io non ricordo, perché in quel momento ero un po’ distratto, come sia finita esattamente sul liston, ma qualcuno mi ha detto che l’università non la voleva all’interno del suo complesso. Se invece in questo momento torna all’interno del suo complesso, ma sempre in un contesto storico e artistico e quindi culturale di grande levatura, io preferisco stare silenzioso e dire: “Va beh”. Insomma, non ne sento la tragedia, non ne sento l’impatto così come di una violazione di qualcosa d’importante sul campo della percezione della città. Spero di non avere deluso nessuno, tanto meno il mio amico Giorgio Segato. E allora gli passerei la parola, perché a sua volta riprenda in mano il filo degli interventi. Grazie.
G.S. È stato molto bello l’intervento dell’assessore, questa proiezione in avanti, questo annuncio della mostra sui Gulag – e spero che siano i Gulag e non i gulasch del nostro amico, che pensava che in Unione Sovietica si mettesse la gente nel gulasch… C’è stata una dichiarazione ufficiale in televisione – e che propone questo problema della libertà dell’artista.
Ma questa mostra al Palazzo del Monte è interessante per un altro collegamento, che è diventato oramai una delle specialità del nostro Veneto,cioè quello con la trasformazione culturale e artistica dell’800.
Belluno, con la mostra Da Corot a Monet. Da Van Gogh a Picasso, Treviso con la mostra L’oro e l’azzurro. I colori del sud da Cézanne a Bonnard, Padova con I Macchiaioli, Ferrara con Degas e gli italiani a Parigi, oramai c’è un forte interesse per questo periodo.
Questa mostra parte quasi dagli inizi dell’800, anzi, ha come riferimento la politica europeistica dello Zar, che rivolge sempre più la sua attenzione e che spinge gli intellettuali a assorbire la cultura francese e italiana, in pittura e scultura soprattutto quella francese, nell’architettura quella italiana. Si parte da un momento decisivo della trasformazione della Russia in senso europeo, di acquisizione della cultura europea, per cui è possibile, anche attraverso questa mostra I tesori della Russia, in particolare la parte prima dell’800 e quella della seconda metà dell’800, ritrovare tutta la scansione dai pre impressionisti agli impressionisti, ai post impressionisti e poi entrare nel nostro secolo con le influenze anche italiane del futurismo italiano.
Qui, nel pieghevole, si dice prima suprematismo e poi futurismo. In realtà il suprematismo è un’emanazione del nostro futurismo, una conseguenza, una cosa parallela. L’arte russa ha risentito della presenza di Marinetti, che andava tranquillamente a predicare a Mosca, e di Boccioni che Marinetti ha fatto conoscere.
Quindi abbiamo una possibilità di itinerario veramente interessante, che specchia quello che succede nell’Europa occidentale. Ma non soltanto questo, perché alcuni artisti, evidentemente, si collegano: così come possiamo notare l’amore dei macchiaioli per la campagna toscana, per la campagna italiana, per la vita contadina, così anche i pittori russi amano rappresentare la vita rurale russa, non solo della zona moscovita o di Leningrado, ma fino alla Mongolia. Per cui ci sono testimonianze proprio di pittura in un certo senso etnica, collegata allo stile che sta variando, al formarsi anche all’interno, nonostante la politica zarista, di una politica molto oculata; il costituirsi, accanto a una forte nobiltà, sempre legata alla proprietà terriera, anche di una piccola borghesia intellettuale che comincia a proporre idee nuove. Questo è molto vicino a quello che succede nella Francia e anche nell’Italia, ma soprattutto nella Francia, perché l’Italia era ancora in formazione. La Francia di una borghesia matura che sente che ha oramai il diritto di parlare, di amministrare, di governare, di manifestare quelli che sono i legami non tanto con la storia del passato, che è il contenuto culturale delle classi privilegiate, ma il rapporto con il presente, le dinamiche del presente, le trasformazioni. Proprio in questo senso sono le trasformazioni anche urbane di Mosca e, in particolare, le trasformazioni urbanistiche di Leningrado, collegate alla spinta di questa nuova borghesia intellettuale che si affianca al potere della vecchia nobiltà.
Quindi è una mostra non completa, nel senso che mancano nomi, mancano certe situazioni, ma è ricchissima di sollecitazioni, di stimoli, di documenti del vedere, con opere per lo più di piccola dimensione che assorbono lo sguardo, ma anche alcune di dimensione consistente, che costituiscono opere di alto pregio museale. Allora lascio a Chinaglia il compito di presentare l’articolazione della mostra, visto che l’ha curata e ne ha anche seguito l’allestimento.
Ruggero Chinaglia Grazie. Già questi interventi che mi hanno preceduto situano questa mostra in un viaggio, in più viaggi, cioè in un viaggio dell’Europa verso la Russia e della Russia nell’Europa, e dei vari artisti le cui opere compongono questa mostra.
E poi un viaggio che è viaggio culturale e artistico lungo cui si è reso possibile fare questa mostra, perché si sono tessute relazioni, incontri, esperienze con artisti, intellettuali, enti russi che si sono andati annodando nel corso degli anni, e che è l’esperienza del movimento cifrematico. Quindi sono più viaggi che si intersecano e in cui c’è anche – come notava precisamente Giuliano Pisani – anche il viaggio di Padova, il viaggio di questa tradizione di apertura, di libertà e di accoglienza.
Per cui non è a caso che si è progettato di fare proprio a Padova questa mostra, sia perché io ho occasione di operare a Padova – e Padova è una città importante nel mio itinerario così come Milano, Barcellona, Roma, Parigi e altre in cui si è svolto nel corso degli anni questo itinerario culturale e artistico – ma anche perché Padova è stata un momento di intersezione di esperienze culturali, artistiche, storiche, scientifiche nel corso dei vari secoli. Per cui sono stato contentissimo di trovare un orecchio sensibile e un accoglimento da parte del comune e in particolare nella persona dell’assessore Pisani.
Questa mostra raccoglie l’esperienza del rinascimento italiano e europeo in viaggio verso la Russia, ma non solo. È la testimonianza di come quest’arte rinascimentale viene accolta nel contesto degli artisti e degli intellettuali russi e di come viene elaborata e restituita. Quindi, contrariamente a altre mostre che noi abbiamo avuto certamente occasione di vedere intorno all’arte russa, dove però viene esaltato maggiormente l’aspetto di questo o quell’artista come maestro di una corrente o di una scuola, qui c’è un itinerario, c’è un percorso che va dai primi dell’800 fino alla fine del ‘900, quindi due secoli di itinerario che mostrano l’integrazione di questo itinerario artistico, ossia come il messaggio della parola cattolica, il messaggio del rinascimento giunga in Russia, operi una trasformazione culturale senza precedenti, attuando la trasformazione dall’arte bizantina all’arte europea.
Questa mostra – come notava con precisione Segato – non è esaustiva di tutti i maestri, di tutti i movimenti e di tutte le scuole che in questi secoli si sono susseguiti nel panorama russo, però certamente ne coglie alcuni, alcuni anche tra i più importanti e significativi e ci dà la testimonianza di questo processo, un processo importantissimo, perché è da quest’arte che sorge poi la letteratura moderna russa, la musica russa, la poesia.
Ciò che oggi noi cogliamo di attuale nella cultura russa sorge da quest’arte: non già dall’arte bizantina, ma da questa che è testimonianza dell’arte europea, dell’incidenza del rinascimento in questa regione apparentemente lontana, ma che si integra nell’Europa, con l’Europa, nella sua tradizione artistica e culturale. Allora questo è un valore sicuramente importante, è una testimonianza unica cui si aggiungono altri elementi.
Queste opere vengono non già da proprietà museali, ma da collezioni private. Sono collezioni private di Mosca e di San Pietroburgo, e ci danno una nozione precisa dell’importanza del collezionismo in Russia. Senza questi collezionisti, molto probabilmente queste opere, come è accaduto a moltissime altre, sarebbero andate perdute.
E noi abbiamo ampie testimonianze che alcune delle maggiori collezioni patrimoniali russe sono andate distrutte, perdute, perché sono state sequestrate all’epoca della rivoluzione russa e negli anni successivi sono andate a costituire piccoli musei del popolo, che poi, a loro volta, si sono frammentati in mille rivoli. Per cui la testimonianza dell’arte che era fiorita nell”800 e molta anche di quella che è sorta nel ‘900, è andata a frammentarsi, è andata perduta.
Il collezionista russo ha avuto questa funzione di custode, di custode di quest’arte, di questa produzione, e poi anche di testimone. Ce l’ha consegnata, e questo è qualcosa di molto importante.
Queste opere non sono mai state viste in Europa, vengono esposte ora. Al visitatore si pongono per la prima volta, così come anche al cittadino russo si sono presentate in maniera molto rara e esigua perché erano nelle case del collezionista e, soprattutto nella seconda metà del ‘900, il possesso di opere d’arte era vietato, contraddiceva la regolamentazione, la legge sovietica che impediva la proprietà privata. Anche l’opera d’arte doveva essere custodita nei musei di stato, nelle collezioni di stato.
Il collezionista è insomma un antesignano del dissidente, è a suo modo un dissidente, un dissidente non violento, un dissidente per amore dell’arte, per amore della cultura. Ma un dissidente, nel senso che rischiava non solo la sua proprietà, sicuramente la sua libertà, talora anche la vita, perché c’erano casi di furti, di invasioni di queste case. Anche il vicino poteva costituire un pericolo, un delatore, un nemico.
Ci sono dei bellissimi romanzi a testimonianza di questo. Per esempio, se leggete Caccia all’uomo oppure La disfatta, di Vasilij Bykov, uno scrittore bielorusso, voi potete veramente avere un’eco del clima che si respirava in Russia, nell’Unione Sovietica, nel ‘900, dove tra gli stessi appartenenti alla stessa famiglia c’era il pericolo delle delazioni, c’era il pericolo di venire denunciati alla polizia, con le conseguenze che ormai sono note. Così come nei libri di Zinov’ev, di Kuznecov, di Bukovskij, testimoni di questi anni, di questo clima che solo adesso qua e là liberamente traspare.
È stato custodito gelosamente, quasi censurato questo clima, negli anni passati. E allora anche questa mostra è testimonianza di questo aspetto della memoria. Parlavo prima di un viaggio culturale di questo movimento cifrematico, in cui il dissidente russo, il poeta, il pittore, lo scrittore è stato testimone costante.
Nel 1975-76 a Milano, anni in cui l’Unione Sovietica era nel pieno fulgore del suo potere, noi organizzavamo congressi, a Milano Sessualità e politica e La follia, a Parigi nel 1981 La verità, a New York Sesso e linguaggio. E ospitavamo esponenti di questa dissidenza, ospitavamo il generale Grigorenko, ospitavamo Kuznecov, Bukovskij, Maksimov, Zinov’ev, testimoni di questa esperienza culturale unica che si svolgeva nella dissidenza, nella poesia, nella pittura, nell’arte. Fino al 1992, anno in cui, organizzando un congresso a San Pietroburgo, Il cielo d’Europa, questa rete di relazioni tra artisti, scrittori, ecc. si è andata ulteriormente stringendo e allargando nello stesso tempo, sfociando finalmente in una scommessa culturale più precisa, rivolta propriamente all’arte, all’arte russa, e con una missione che il Museo della Villa San Carlo Borromeo e il Museum of the Second Renaissance si sono assunti, cioè quella di assumere quest’arte, la testimonianza di quest’arte per mostrarla al pubblico dell’Europa.
Alcune mostre sono già avvenute nel museo della Villa e in altre città. Sicuramente questa è la più importante per ampiezza, per estensione, perché è una mostra che ospita più di 300 opere. Quindi il visitatore può, visitando le sette sale del Palazzo del Monte in cui è ospitata, avere veramente una panoramica straordinaria, una rassegna non esaustiva, ma abbondante e molto ricca di questa produzione, di quest’arte.
Ora, se mi è consentita un’ulteriore parola per quel che riguarda il modo dell’allestimento di questa mostra, che sicuramente non segue dei canoni consueti. Infatti è una mostra – come dicevo – ricca di opere, ma non casuale, e che ripropone nel suo allestimento, o quanto meno tenta di dare, il clima della casa del collezionista. La casa del collezionista russo sicuramente, ma non soltanto, anche del collezionista italiano, francese, del collezionista di ogni paese.
G.S. Basta guardare nei quadri.
R.C. Esatto.
G.S. Alcuni dei quadri hanno anche le pareti con tutti i quadri.
R.C. Infatti era proprio un riferimento…
G.S. Soprattutto se si va a vedere la mostra de I Macchiaioli….
R.C. Il quadro Non potendo attendere era proprio un collegamento che volevo fare per capire che, per indicare il contesto, non è necessario riprodurre la fotografia di questa o quella casa, o questa o quella collezione, ma ci sono le stesse opere che testimoniano il perché, che danno ragione del perché di questo allestimento.
La casa del collezionista è una casa dove ciascun centimetro è essenziale per ospitare i quadri. Il quadro Non potendo attendere nella mostra de I macchiaioli è proprio emblematico di questo: c’è una bellissima dama che va chiaramente a trovare un’amica o un amico, ma evidentemente non lo trova e, non potendo attendere, lascia un biglietto. Allora c’è questo bellissimo quadro dove la dama è intenta a scrivere, e è dipinta nel quadro la parete della casa. I quadri cominciano dal pavimento e proseguono lungo la parete.
Se voi guardate alcuni quadri di questa mostra, è la stessa cosa, perché la casa dell’artista o la casa del collezionista si prestano ugualmente allo stesso intento di ospitare queste opere, quante più possibili. Poi, se teniamo conto che in Russia le case disponibili erano veramente piccole in rapporto all’entità familiare, ogni famiglia abitava in poche stanze e queste stanze ospitavano tutti gli averi, tutto era esibito proprio in ogni stanza, dal bagno alla cucina, all’ingresso, alle scale, tutte le stanze ugualmente ospitavano opere.
Allora anche questa mostra ha voluto riprodurre in qualche modo questo clima, questo ambiente, e i quadri hanno una disposizione nelle pareti sicuramente non museale, ma questo assolutamente per lo specifico che questa mostra presenta, che è quello del collezionista russo e dell’artista russo. Tra questi volevo segnalare, se qualcuno ha ancora la pazienza di ascoltare, il caso di Bielutin, che è l’artista a cui si riferiva sicuramente Segato, con queste grandi tele.
Noi ne abbiamo potuto portare di dimensioni certamente cospicue rispetto alle altre, ma contenute ancora rispetto alla sua produzione, che prevede opere di 3 metri per 2 oppure 3 metri per 3, cioè veramente opere gigantesche. E qui ci sono comunque opere di 2 metri per 1,5 o 2 metri per 2, quindi significative della sua produzione, che ha questo modo di estensione nella tela, perché si ispira – cosa che è difficile da poter cogliere d’acchito al primo sguardo – ai grandi maestri rinascimentali italiani.
Ely Bielutin è russo, è sicuramente russo. È nato a Mosca nel 1925, ma il nonno era italiano, si chiamava Stefano Bellucci, bellunese, direttore d’orchestra, chiamato nel 1850 a dirigere l’orchestra da camera di Cracovia. Da lì, il figlio Mikhail andò a Mosca e russificò il nome da Bellucci a Bielutin. E poi nasce Eligio, che ho avuto l’occasione di conoscere. Gli ho organizzato, appunto, una mostra nel ’92 proprio a Belluno, con l’allora sindaco Gianclaudio Bressa e con l’interessamento del Comune e della Curia.
Quando andammo, in uno dei giorni accanto all’inaugurazione, a Palazzo Ducale a Venezia, per fargli visitare queste opere a cui lui diceva di riferirsi, io fui veramente sorpreso perché, nel momento in cui entrammo nelle varie sale di Palazzo Ducale, lui segnalava a me, e non avevo nemmeno il tempo di leggere l’etichetta o di verificare! Diceva: “Ah, Paolo Veronese, Tintoretto, Tiziano, Cima da Conegliano!”. Io gli chiedevo: “Ma come fa a conoscerli?”, e lui rispondeva: “Questi sono i miei maestri. Questi sono gli ispiratori della mia arte”.
E allora la questione della memoria, dell’importanza della memoria del rinascimento nell’arte russa, che non è facilmente coglibile, ma occorre fare questo sforzo di collegamento, perché la restituzione che questi artisti ci danno, anche con modi a prima vista poco coglibili, ha questa ispirazione originaria del rinascimento, e quindi si inscrivono in quello che è il progetto più ampio in cui anche questa mostra si situa, che è quello che noi chiamiamo il progetto del secondo rinascimento, di cui Armando Verdiglione è l’ispiratore e il fondatore. Ecco, queste erano alcune note.
G.S. Volevo aggiungere una testimonianza, per quanto riguarda le requisizioni che avvenivano durante il regime. Naturalmente molte delle opere che sono esposte in questa mostra sono piccole perché si potevano nascondere, mentre quelle grandi venivano requisite. Otto anni fa esatti, a Parigi, fu organizzata una mostra dell’Ermitage al Louvre e, il giorno dopo l’inaugurazione, si presentarono tre personaggi molto anziani che dicevano: “Questa opera è mia, questa è mia, questa è mia”. E, con documenti, hanno dimostrato di essere i proprietari legittimi ai quali era stata requisita l’opera durante la rivoluzione russa.
La mostra è stata chiusa per quattro giorni, è stata riconosciuta la proprietà, e sono state restituite le opere. Si sono scatenati, immediatamente dopo, altri eredi, che però non potevano documentare la legittima proprietà di alcuni quadri, ma solo queste tre persone hanno ottenuto opere di Monet, di Cézanne e di Gauguin che veramente valevano un patrimonio. Poi, un’altra osservazione dal punto di vista stilistico: la presenza del rinascimento è persistente, perché anche in tutto il realismo sociale sovietico, cinese, albanese il rinascimento è un punto di riferimento obbligato, sempre.
È anche il riferimento del momento liberatorio ma, da un punto di vista della formazione, della cultura, dell’immagine il rinascimento era il punto a cui mirava lo sguardo e anche la formazione del realismo sociale, sia sovietico sia cinese, che è influenzato da quello sovietico, sia anche il lungo periodo del realismo sociale albanese in pittura. Io continuo a citarli perché siamo qui ospiti degli albanesi e li ringraziamo della loro pazienza, perché sono qui tutti gli artisti che espongono. E li ringrazio per la generosità con cui sono venuti, perché si sono portati le loro tele.
Arte Padova non ha la possibilità di finanziare queste manifestazioni collaterali, ruba spazio ai galleristi, ma lo dà gratuitamente alle manifestazioni collaterali, senza investire, purtroppo, denaro.
Questo discorso che si è fatto sulla mostra si collega con il libro Artisti, si collega soprattutto a quanto diceva Chinaglia: la questione del viaggio. Questo libro è un viaggio, è una sequenza di lezioni e di articoli pubblicati, ma in sostanza costruito come un viaggio, un viaggio non attraverso lo spazio, forse anche attraverso il tempo, ma soprattutto un viaggio interiore. Per parlare del libro, abbiamo anche Maria Luisa Trevisan, a cui chiedo di venire qua.
G.P. Io vi lascio, adesso. Grazie.
G.S. Ringrazio l’assessore, che è rimasto qua fino adesso, nonostante questo inizio di influenza, e speriamo sia solo un raffreddore. Ringrazio Maria Luisa Trevisan con la quale ci siamo già visti ieri. Siamo molto sollevati noi due, forse anche Chinaglia, dall’assenza del maestro Verdiglione, anche se ci dispiace tantissimo…
R.C. No, anzi. Io sarei stato più sollevato se fosse stato qui, perché…
G.S. Ah, sì?
Maria Luisa Trevisan Condivido, perché avevo tante domande da fargli.
R.C. Perché lui avrebbe avuto modo di…
G.S. Perché voi avete impostato la questione sulle domande. Siete più furbi di me, che invece cercavo una interpretazione del suo saggio.
Artisti è un libro di 650 pagine con diversi capitoli che sono i suoi incontri di studio, incontri fisici, ricerche, saggi sugli autori con i quali è venuto a contatto, autori del passato. Si parte da Leonardo da Vinci, che è uno degli artisti che ha studiato a fondo e sul quale ha pubblicato anche un libro, però è un viaggio interiore.
Come dicevo, l’assenza – ne discutevamo ieri – di un apparato iconografico, a mio avviso vuole dire proprio che sollecita una visione mnestica, una restituzione di memoria libera dalle immagini, quindi senza il vincolo del riferimento preciso al quadro o alla situazione. E questo mi pare anche interessante, perché costringe anche noi in qualche modo a richiamare un’esperienza visiva che non abbiamo sotto mano.
Lo sguardo che ha esplorato, visto, discusso con gli autori le opere, questo sguardo prensile di Verdiglione si fa evidentemente lettura della pittura, della scultura, anche a volte del personaggio dal punto di vista caratteriale, nel rapporto tra autore, artista e la tipologia dell’opera che realizza. In molti casi ci sono brevi descrizioni eccezionalmente puntuali sull’artista. E poi la lettura tende a farsi scrittura.
Ecco, questo è forse l’aspetto interessante, questo di trasformare la lettura visiva, la lettura dello sguardo in una lettura scritta, in una scrittura che è ancora più lineare e che consente due cose: la scrittura, l’emergenza della memoria, l’affioramento dei nuclei di memoria collegati all’autore e alle opere dell’autore, e il decantarsi delle percezioni, delle intuizioni, delle sensazioni che questo dà. Quindi questo stratificarsi consente la scrittura di coscienza, di consapevolezza e di conoscenza, non come un fatto confezionato, ma come una situazione fluida costantemente cangiante che si arricchisce, che torna, avanza e viaggia.
Ecco appunto l’idea del viaggio come percorso, come itinerario conoscitivo, disponibile alle più svariate direzioni. Difatti non è un’antologia sistematica di autori che abbia un senso storico, è un saltare da una parte all’altra a seconda di quelle che sono le sollecitazioni sue, le date a cui sono legate determinate lezioni, le domande che gli vengono poste in queste lezioni e il suo piacere di ricordare – io penso – momenti particolari come significativi della sua esperienza dell’arte. Sarebbe stato molto interessante averlo qua, chiedergli qual è il concetto fondamentale di arte e di artista che ha: lo descrive proprio all’inizio, in maniera molto precisa, e ciascuna volta che utilizza il termine arte e artista cerca di darne un ulteriore chiarimento. È nel suo stile questo aggiungere piano piano qualche cosa a un mosaico che a volte si sfuma, a volte viene messo a fuoco e avanza in più direzioni, in profondità e lateralmente.
Allora, Maria Luisa, se intanto ci dici le tue impressioni su questo libro molto interessante.
Maria Luisa Trevisan Sì. Io ho detto che avrei avuto piacere di avere qui anche il professor Verdiglione per ascoltare direttamente dalla sua voce le sue testimonianze e, soprattutto, sentire se parla come scrive, perché devo dire che mi sono trovata parecchio disorientata nel leggere questo libro, che raccoglie delle brevissime immagini, dei brevissimi incontri che ha raccontato, a volte, con un fare che definirei a flash, che si fa fatica a seguire attraverso un filo unico. Ecco, bisogna seguire vari percorsi. È come un labirinto che porta da varie parti, e quindi è un’associazione continua di frasi collegate a immagini, e se uno tenta di trovare un unico filo conduttore, rischia di naufragare in questo libro di 600 pagine. E poi l’altra cosa che avrei voluto sentire era su quale base ha fatto la selezione degli artisti.
Sì, adesso che abbiamo sentito come è stata organizzata la mostra di Palazzo del Monte capisco un po’ di più anche il libro, il perché mi trovo a vedere accanto a Franz Schubert, Ely Bielutin, Anikushin, poi Rotella, poi Cézanne, Russo, Josif Gurwic e tanti altri artisti, che noi, qui, abbiamo fatto un po’ fatica a riconoscere. Sono artisti che si collegano in qualche modo all’arte europea, alle avanguardie, a Cézanne, ma in periodi molto tardi per noi, come Gurwic, che ancora negli anni ’80 e ’90 fa le nature morte di Cézanne, e che quindi risulta abbastanza tardivo come ricerca, come percorso.
Comunque, la mia curiosità stava proprio nel capire se c’era un filo conduttore per lo scrittore e quali sono i suoi agganci con l’arte, con gli artisti, in quanto intitolare un libro Artisti è abbastanza ambizioso. Ci si aspetta di trovarvi dentro artisti che in qualche modo noi abbiamo già visto, sentito. Invece sono per lo più artisti che per noi sono sconosciuti e fanno parte di un mondo affascinante, che qui si scopre attraverso questi flash, che Verdiglione ci dà attraverso una scrittura che – oserei dire – è veramente farneticante a volte, con un’accezione anche positiva in questo farneticare. Perché?
Perché siamo di fronte non a un critico d’arte, non a uno storico, ma a un filosofo, psicologo che affronta probabilmente anche la scrittura da questo punto di vista, abbinando associazioni talmente lontane e diverse per ognuno di noi. Ecco, questa è la mia impressione.
G.S. Sentiamo una risposta a nome del maestro.
R.C. No, è una risposta mia, che riguarda una testimonianza della mia lettura e che viene dall’esperienza in cui chiaramente Armando Verdiglione è il leader, però certamente è una risposta che non sta in nome e per conto.
Certamente, non è un trattato di storia dell’arte, né un documento di storia dell’arte. È un racconto, una testimonianza, una restituzione dell’itinerario che Verdiglione sta compiendo, anche in relazione all’arte, all’arte italiana, all’arte europea, e che quindi non prende come pretesti e obiettivi del racconto i maestri consacrati dalla storiografia, ma artisti, esponenti dell’arte che ha incontrato nel suo viaggio e che, proprio per questo, assumono per lui valore. E lui restituisce il valore che ha riscontrato in questi artisti.
E allora come non notare che questo viaggio di restituzione comincia con Leonardo da Vinci, che non è proprio un autore contemporaneo, ma che sicuramente è l’artista che, insieme a Machiavelli e all’Ariosto, è tra gli autori che hanno dato la svolta e la traccia per l’arte e la letteratura moderna, ma il cui testo peraltro, così come ampiamente diffuso, altrettanto poco è letto, per cui è diffuso all’interno di un luogo comune, di un’ideologia con cui è stato letto, cioè facendo appello per lo più al pettegolezzo? Allora questo libro procede da una testimonianza che, a mio parere non casualmente, pone nelle prime pagine, nei primi capitoli una testimonianza inerente Leonardo da Vinci.
Attorno a Leonardo da Vinci, come ricordava Giorgio Segato, Armando Verdiglione ha scritto un libro. E io credo che Armando Verdiglione, insieme a Augusto Marinoni, che è stato il curatore della edizione critica di Leonardo da Vinci, sia una delle poche persone, non solo in Italia, ma in Europa, a avere effettivamente letto integralmente il testo di Leonardo da Vinci, codice per codice. Cioè non i resoconti pubblicati dai vari editori che riportavano i brani più famosi o le selezioni, ma uno studio accurato, codice per codice, della scrittura di Leonardo da Vinci, e, questo, con un attraversamento del testo, con una esplorazione portata alle estreme conseguenze, cioè per cogliere che cosa di questo messaggio di Leonardo da Vinci è coglibile oggi negli altri artisti, non per via di consapevolezza, ma nonostante la consapevolezza, cioè secondo una scrittura che è originaria.
Ora, proprio perché non è applicato un principio di selezione, ma assolutamente un modo arbitrario, ci sono artisti disparati e vari che non seguono un criterio alfabetico, cioè un criterio genealogico: non sono qui per importanza, non sono qui per un criterio di eccellenza l’uno rispetto all’altro, cioè un criterio genealogico, dove ci sarebbe un ordine dal migliore al peggiore, ma perché è il frutto di una serie di incontri che – come notava Giorgio Segato con estrema precisione – sono avvenuti nel viaggio di Armando Verdiglione. Per cui abbiamo queste interviste a esponenti dell’arte russa, da Lazykin, a Bielutin, a Anikushin, che lui ha incontrato sia in Italia, ma anche in Russia nei loro atelier.
È interessante questo modo dell’intervista che coglie il dettaglio di come questo atelier è disposto, di come sono disposte le opere, di come l’artista accoglie l’ospite nella sua dimora, nel suo luogo di lavoro, e come questo si traspone poi anche per altri artisti in Italia, che sono peraltro artisti non proprio di prima esperienza: abbiamo Frasnedi, abbiamo Vangelli, abbiamo Nasso, Sandro Trotti, Ferdinando Ambrosino, cioè grandi maestri che hanno passato i settant’anni, non è che sono giovincelli delle avanguardie. Sono persone che hanno fatto la storia dell’arte moderna in Italia negli ultimi anni, certamente magari non passando attraverso l’esaltazione del mercato.
Però noi abbiamo avuto qui a Padova, alla mostra degli anni ’60, quattro Rotella. Ora, Mimmo Rotella ha rappresentato qualcosa nell’arte dagli anni ’60 in poi, quindi negli ultimi cinquant’anni della storia italiana dell’arte. Ma non solo italiana, perché di Mimmo Rotella in Francia, in Germania, in Giappone, nel pianeta ci sono attualmente dodici mostre in atto.
E tuttavia non è per questo che Verdiglione lo ha incontrato e ne parla, ma perché il suo viaggio l’ha portato a incontrarlo, a ospitare le sue opere, a organizzare anche alcune mostre delle sue opere nel Museo della Villa San Carlo Borromeo, e quindi restituisce di questo incontro ciò che lui ha riscontrato come valore. È questo che mi sembra interessante. Non è un’esposizione critica, inserendola in un contesto storiografico o di corrente o di appartenenza di scuola, ma, di ciascun artista, Verdiglione coglie qualcosa di assolutamente specifico che l’artista stesso non conosce.
Quello che mi pare interessante della lettura di questo libro, che ha anche un aspetto romanzesco, romanzato, di scrittura non trattatistica è che ci sono queste interviste in cui alcune domande sembrano banalissime. Dove ha studiato? Dove è nato? La famiglia, quali avvenimenti della famiglia, alcuni personaggi importanti della storia come si sono combinati? Ma è solamente dopo questa intervista, per ciascuno degli artisti di cui parla, che Verdiglione si avventura nella lettura delle opere. Perché questo?
Perché l’opera stessa, il modo della cosiddetta creatività, il modo della scrittura, della pittura di ciascuno risente dell’esperienza, della traccia, della questione della famiglia come famiglia originaria. Quindi c’è una dissipazione dell’aspetto genealogico, emerge la questione della famiglia originaria, e questo diventa la traccia per intendere la produzione dell’artista.
Quindi assolutamente una questione non psicologica, non antropologica, non ideologica, ma di indagine intorno all’originario di ciascuno degli artisti. È difficile, chiaramente, questo, perché non siamo abituati a questo modo della ricerca, a questo modo della conversazione. Qui c’è qualcosa di specifico dell’esperienza cifrematica, cioè dell’indagine attorno alla particolarità di ciascuno. Verdiglione coglie in queste conversazioni, in queste interviste alcune particolarità e le restituisce con il suo testo.
Leggendo, ciascuno può coglierle. Qualcosa può anche sfuggire, certamente. Però è un’indagine assolutamente in direzione del valore: del valore delle opere, ma anche del valore dell’artista, che è restituito, dopo queste pagine, con uno statuto differente, con uno statuto intellettuale assolutamente differente, che sicuramente sfugge persino all’artista stesso, che non è artista nel senso di un epiteto con cui si vuole definire un ordine, per esempio, o un genere, ma ciascuno è artista per quella particolarità.
Qui, nelle prime pagine del libro – Segato faceva riferimento a alcune lezioni –, ci sono alcune conferenze che Verdiglione ha tenuto sia a Milano, sia all’accademia di Napoli, in varie sedi dove ha avuto modo di intervenire, e dà dell’arte non una definizione che possa essere applicata in senso generale, ma per aggiunte, per particolarità, per dettagli, per pennellate potremmo dire. Segue quindi un metodo pittorico, dà alcuni elementi per intendere la questione dell’arte non in sé, non filosoficamente, ma nella vita, la questione dell’arte nella parola e nella vita di ciascuno.
Anche nella sua vita, non solo nella vita degli artisti, ma nella vita, quindi nel suo viaggio e nel viaggio di ciascuno, perché l’arte è qui indicata non come qualcosa di cui si può dire che cosa sia, ma di cui si può cogliere la materia, caso per caso, volta per volta, qual è la materia dell’arte, qual è l’incidenza dell’arte, in che modo interviene l’arte vivendo, facendo, quindi nell’opera di ciascuno. Teniamo conto che arte non è un genere di qualcosa.
Si confonde spesso l’arte come produzione di qualcosa che non è scientifico, non è letterario, non è utilizzabile – diciamo così – a fini pratici: allora è arte. Non è solo questo. Arte è ciò che varia, la variazione. Qualche mese fa andava di moda un virus, e quindi abbiamo avuto un’ampia trattatistica sui virus e sulle loro variazioni. Ecco, l’arte è qualcosa che risente di ciò che varia, è come un virus, quindi come interviene il virus, la variazione in ciascuna cosa.
Ora, una certa pubblicistica piglia la variazione come qualcosa di patogeno e ci dice che per ogni cosa che cambia c’è un virus, e quindi ci inserisce in una sorta di genealogia del male per cui ogni cosa, che non è come ce l’aspettavamo, ha un agente patogeno che la causa. Ecco, Verdiglione non fa questa scalata positivistica, causalistica all’agente patogeno, cerca di cogliere l’elemento di variazione, essenziale, decisivo, perché dà valore all’opera. Ora, è qualcosa di nuovo, è qualcosa che ci sorprende, è qualcosa a cui non siamo per nulla abituati nel panorama culturale o inculturale nazionale.
È un libro a cui ci dobbiamo accostare con molta umiltà, perché ci rende testimonianza di un modo unico, assolutamente unico di avvicinarsi alla produzione di alcuni artisti, di avvicinarsi all’arte, a quella che è considerata l’arte, ma passando attraverso esperienze specifiche di incontro con l’opera e con la persona, l’artista che di volta in volta è accaduto di incontrare.
Quindi non c’è la volontà di dare una copertura di un periodo o di un settore. È la testimonianza di una serie di incontri, però restituiti, valutati con un criterio che sicuramente è un criterio nuovo: è il criterio che segue questa esperienza nuova, che è in corso da trent’anni, che è l’esperienza cifrematica e che coglie la particolarità di ciascuna cosa, non secondo uno schema antropologico, psicologico o ideologico, ma secondo il modo della parola originaria, secondo il modo dell’originario, secondo la particolarità, secondo l’idioma.
C’è in ciascuno, artista, scienziato, ciascuno che scriva, che faccia, che pensi un modo particolare con cui le cose si propongono, vengono offerte. La difficoltà è cogliere questa particolarità. Questa è la questione intellettuale, questa è la questione della cifrematica.
G.S. Maria Luisa, adesso ti do il microfono. Hai citato Josif Gurwic come momento problematico, perché riprende Cézanne. Egli veniva chiamato, oltretutto, Cézanne russo. E è interessante dare un esempio della scrittura di Verdiglione, come non sia assolutamente una scrittura critica, un’analisi critica, ma una lettura affettiva, che è legata al proprio modo di rapportarsi non soltanto alle opere, al personaggio, ma anche al personaggio e alla famiglia, all’ambiente del personaggio. Questo breve racconto, altro dal Cézanne russo.
Sono entrato cinque volte nell’atelier di Josif Gurwic e basta una sola volta perché il suo lavoro, la sua pittura, il suo racconto si inscrivano nell’immemoriale della lingua, della storia, della narrazione. Itinerario fatto di ostacoli, difficoltà, circostanze avverse, traslochi, guerre, spiragli di luce, itinerario sempre tranquillo, sempre attinente al disegno, alla pittura, al suo modo di scrivere, tracciando, pennellando, sfumando. Nessuno sa quante opere Josif Gurwic abbia fatto né a chi le abbia date, regalate o vendute, quasi sempre per prezzi irrisori, per lui indispensabili a vivere. La sua bellissima e serena moglie, che con lui ha condiviso abitazioni, città, ripide, ascese, scoscese e ha visto tanti soli, tante opere, ha ammirato man mano la sua produzione, ascoltando ciascun disegno, ciascuna opera, ciascun discorso, e lei non ci vede più. Vede ombre vagamente luminose, sagome lontane ed erranti, soprattutto ora che Josif, il 15 settembre 1993, se n’è andato, lui che non sembrava fatto per morire, lui che sembrava appartenere alle sue opere anziché il contrario. La scuola, la guerra, la pace travagliata, la cara Odessa, Mosca, allievo o maestro, sempre la sorpresa per i suoi paesaggi ammirevoli, scogliere, navi, gabbiani, per i suoi nudi, spiagge, navi, muri indomestici, sempre il miracolo di un tratto, di un gesto, di una finezza, di uno squarcio lungo una produzione di oltre settant’anni, il volto stupendo di una madre con il bambino in braccio ormai nell’altro tempo, non più nella durata delle religioni, l’immagine di ragazze nude senza erotismo. E ciascuno comprava, chiedeva, otteneva opere e opere sparse ormai in ogni angolo della Russia e del pianeta, dal Giappone all’America, all’Europa, a Gerusalemme, oltre settant’anni di scrittura pittorica e di disegno. Josif Gurwic sempre lì al suo lavoro, ciascun mattino, ciascun pomeriggio, con dignità sovrana, con umiltà. Il maestro non ha mai imposto nulla, ha dato un esempio unico per ciascuno, anche alla figlia Elena che si è ispirata e attenuta a lui, sempre a suo modo, e al figlio Mikhail che ha esplorato altre vie, assumendone, però, in definitiva, la lezione. A Josif Gurwic, a Elena Gurwic, a Mikhail Gurwic, alla moglie di Josif Gurwic rendo omaggio in Italia e altrove, un semplice gesto, un eco lontana per questa famiglia dei miracoli.
Questo mi pare esemplare dal punto di vista esplicativo di quello che è l’atteggiamento di Verdiglione. Più che l’occhio che si chiude, lo sguardo che si chiude e focalizza per cogliere gli elementi dei contenuti, è un ascolto, è un abbandono, è una immersione nell’opera, nell’atmosfera del personaggio autore, è un ascolto delle risonanze che questo provoca. E poi, visto anche a posteriori, nella ricostruzione del racconto quasi diaristico, c’è questo itinerario, questo viaggio attraverso la propria memoria, ascoltandola crescere, ascoltandola emergere. A me pare che questa sia la chiave di lettura di questo libro, proprio come un piccolo cabotaggio nel mondo della memoria dell’arte e degli artisti che ha incontrato.
M.L.T. Allora a questo punto mi chiedo perché ha incontrato proprio questi artisti? Qual è stato il motivo che l’ha condotto da Gurwic, da Bielutin, da Rotella? E qual è il suo percorso artistico, se esiste un percorso artistico, visto che non si tratta di un critico, di uno storico dell’arte? Quindi erano molte le domande che avrei voluto fare a Verdiglione. Se lei gentilmente mi dà una spiegazione, le sarei molto grata.
R.C. Anche il modo degli incontri è artistico, per non dire anche, talvolta, casuale. Questi artisti sono stati incontrati lungo un itinerario che ha portato Verdiglione e il movimento a organizzare avvenimenti e conferenze, a pubblicare libri di intellettuali francesi, spagnoli, americani, giapponesi, cinesi, italiani, greci non per una questione di moda o di appartenenza, ma proprio seguendo le volute di un itinerario che, lungo relazioni che si andavano tessendo, lungo momenti, lungo questioni che si andavano esplorando, ci hanno portato in diversi paesi, in Francia, in Giappone, negli Stati Uniti, in Venezuela, in Portogallo, in Inghilterra, in Jugoslavia, quindi in Russia. E questo è stato anche l’itinerario della casa editrice, che ha trovato i suoi autori lungo questo lavoro di ricerca, lungo questo lavoro labirintico che non è predeterminato, ma segue il modo del tempo, il modo della memoria, il modo delle relazioni, il modo delle cose che avvengono e che ci conducono ora qui, ora là.
Ecco, lungo questo modo, sono accaduti questi incontri: abbiamo incontrato ora Tizio ora Caio, ora John Cage, ora Xenakis, ora Borges, ora Ionesco, ora Nasso, ora Vangelli, ora Gurwic, ora Lazykin, e via via, perché non era un filo predeterminato, ma è stato un filo che si è svolto man mano proprio lungo un itinerario, quindi un filo imprevisto, imprevedibile. Il perché è il perché della curiosità, è il perché dell’impresa stessa come impresa culturale, come impresa di ricerca, come impresa di scrittura, quindi lungo queste traiettorie impreviste, casuali, ma non fatalistiche, perché ciascun incontro non è avvenuto per un fato, ma per un caso di ricerca, per un caso di valore, un caso di cifra.
Ecco che si è prodotto quello che è oggi il catalogo della casa editrice, perché lì dove si è reperito un qualcosa di qualità si è pubblicato un libro, oppure si è organizzato un avvenimento in una città o in un’altra, oppure adesso si è organizzata una mostra o un avvenimento di combinazione di queste opere che si sono qua e là prodotte, anche come modo della restituzione del loro valore, della loro qualità, esplorata non attraverso un canone, il canone del discorso occidentale, per cui il valore deve rispondere a determinati prerequisiti che entrano poi in quello che sono modalità del discorso greco pagano, ma secondo un altro modo che è il modo della parola, il modo della particolarità delle cose. Allora questo è il perché.
Il perché ci porta non tanto a potere dire che è avvenuto per una ragione intenzionale, per una ragione che è conosciuta ma, man mano, nel viaggio è avvenuto così. E questo è anche interessante da cogliere, perché non è una risposta di tipo psicologico, è una risposta che riguarda la constatazione di dove, come e quando qua e la c’è stato qualcosa che ha rappresentato un valore. Questo qualcosa è restituito con la scrittura, quindi come testimonianza.
M.L.T. Allora, quando è nata la collezione? Cioè le opere sono state acquisite prima dell’incontro o dopo? A questo punto, mi sembra dopo che sono stati incontrati questi vari artisti. Poi un’altra cosa riguardo alla qualità: la qualità, purtroppo, è difficilmente coglibile in certe opere, probabilmente proprio perché si è cercato troppo di dare valore a com’era la collezione della casa russa, del collezionista russo, per cui certe opere sono collocate in cima alla parete e sono piccole, difficilmente leggibili, le didascalie sono coperte da altre opere. Penso che questo risulti difficoltoso al visitatore che per la prima volta vede certi artisti e vuole conoscere e sapere.
R.C. Adesso c’è uno scivolamento…
M.L.T. Sì, c’è uno scivolamento dal libro sulla mostra, perché la mostra è legata strettamente – a mio avviso – al libro, perché ritroviamo gli stessi nomi, certi nomi di artisti sia nel libro che in mostra. E infatti sono andata a vedermi la mostra per capire di più il libro, e quindi ho visto opere di Malevich, di Chagall, piccole cose, piccole opere, disegni, ecc. che purtroppo sfuggono nell’affastellamento di un allestimento che, ai nostri occhi di visitatori del terzo millennio, risulta così anomalo. Noi siamo abituati a vedere le opere ben distribuite, con le luci correttamente posizionate, le opere piccole all’altezza degli occhi.
Mi risulta anche strano che una collezione dell”800 potesse avere dei disegni piccoli collocati in alto. In genere, erano opere molto grandi che venivano posizionate obliquamente, affinché l’occhio avesse una giusta visione dell’opera che stava sopra. Sì, conosco bene le collezioni anche italiane del ‘600 e del ‘700: le pareti erano completamente tappezzate di opere da cima a fondo, però con una logica sempre rivolta alla visione che veniva dal basso.
G.S. Sì, forse questo non è vero, anzi. Si trovano molto spesso disegni quasi invisibili in alto, perché nel tipo di collezione privata c’era una confidenza tale con le opere e una conoscenza che non era per l’esposizione, per l’esibizione al visitatore. Era proprio qualche cosa che uno teneva per sé, e era il segreto della sua conoscenza questo modo di distribuire che nasce poi dal costume olandese, in quanto è una cosa importata. Nell”800, alcune famiglie vicentine e veronesi avevano mantenuto questo allestimento vecchio, e proprio nel momento in cui è stato cambiato l’arredamento, sono andato e ho documentato anche con fotografie che la linea più alta era rappresentata dai disegni, perché dicevano che faceva più caldo, meno umido e quindi si rovinavano meno.
Quindi, queste erano le ragioni, ma soprattutto perché non era per farle vedere, ma per raccoglierle e collezionarle. C’era un rapporto molto intimo, sapevano tutto: dove ritrovare il disegno, dove ritrovare l’opera, per quanto piccola. Poi, in questo caso, come dicevo, il fatto che siano di piccole dimensioni è legato al fatto che pochissimi hanno potuto mantenere delle collezioni, perché quasi tutto veniva requisito. Quindi quello che poteva essere conservato era quello che poteva essere nascosto.
R.C. Certo. Comunque è vero che noi, diciamo noi per dire “noi dell’epoca”, noi che riteniamo di vivere in un’epoca con dei canoni riteniamo, o il più delle volte senza ritenerlo, facciamo in modo di espellere l’anomalia. Ebbene, se noi togliamo l’anomalia dalle cose, togliamo proprio l’arte. E allora è proprio questo che in qualche modo ci guida, l’anomalia, con un criterio di tolleranza e di accoglimento che ci porta non ad espellerla, ma a interrogarci perché questa anomalia è lì, ma non per dire: “Togliamola”. No, per apprezzare il motivo per cui è lì, per cercare di capire, prima di tutto. Perché è difficile da capire, non è che lo sappiamo già, però questo è lo sforzo che porta poi alla qualità delle cose: capire, scommettere, sforzarsi di capire, di cogliere quell’anomalia senza disprezzo, senza sufficienza, con umiltà, quell’umiltà che è poi la condizione per intendere.
M.L.T. Una domanda sulla collezione. Come nasce?
G.S. Raccogliendo quello che era disponibile. Ringrazio per avere sopportato per più di due ore, quasi.
R.C. Scusate un attimo. Pensavo ci fosse un intervallo, quindi non l’ho detto prima, ma il professor Verdiglione, chiaramente, è rammaricato e si scusa di non essere potuto venire. Purtroppo ci sono queste questioni legate alla salute, è un momento molto intenso, si sta preparando un congresso per la prossima settimana, ci sono stati viaggi internazionali che si sono susseguiti in questi giorni, quindi si scusa, ma ritengo che faremo in modo che ci sia una prossima occasione per questo.
Ringrazio molto Giorgio Segato, mi scuso con lui e anche il professore lo apprezza molto per l’invito che gli è stato rivolto e faremo in modo perché ci sia un seguito. Grazie anche a Maria Luisa Trevisan.
M.L.T. Grazie per avere risposto alle mie domande un po’ provocatorie.
G.S. Grazie. Arrivederci.