C’era una volta la filosofia. Scrittura e ritmo della vita
- Arslan Antonia, Ceccato Silvio, Chinaglia Ruggero, Pasqualotto Giorgio
23 ottobre 1997 Conferenza di Silvio Ceccato, dal titolo C’era una volta la filosofia. Scrittura e ritmo della vita, nella sala Rossini del Pedrocchi, Piazza Pedrocchi, Padova, con il Patrocinio del Comune di Padova e della Regione del Veneto. Intervengono Antonia Arslan, Giangiorgio Pasqualotto.
SILVIO CECCATO
C’era una volta la filosofia. Scrittura e ritmo della vita
interventi di
- Antonia Arslan, docente universitaria
- Giorgio Pasqualotto, docente all’università di Filosofia
- Ruggero Chinaglia, cifrante
Ruggero Chinaglia Questo libro di Silvio Ceccato, C’era una volta la filosofia, non dà risposte immediate, non fornisce ricette; dà una traccia che è la traccia stessa della sua vita condotta nella ricerca incessante, nella interrogazione, nella curiosità, svolgendo vari lavori, varie attività, respingendo sempre l’imbrigliamento, l’ingabbiamento. Ceccato è stato a sua volta respinto, soprattutto dalle accademie, dove occorreva un certo consenso o un certo assenso, quando invece, così come lui si definisce “libertino intellettuale”, si tratta, nella sua ricerca, piuttosto di una traccia della dissidenza.
Una dissidenza senza dissenso perché non si contrappone a nulla, ma indaga e quindi trova cose anche scomode per chi preferisce restare in un certo contesto. Vorrei dare una testimonianza dell’ultimo incontro che io ho avuto con Silvio Ceccato, nella sua casa a Milano. Allora ne ho scritto qualcosa, che vi leggo:
“Che cosa si lascia ascoltare? La scrittura dell’esperienza, il suo dirsi, il suo racconto, il suo romanzo. Non già la facilità del modo di dire o del modo di scrivere, o della cosa narrata, ma l’autenticità del racconto e dello scritto, l’autenticità della testimonianza. Bella indicazione nel Teeteto, di cui inventa una versione. Mi sembra che, mentre noi parliamo delle cose, egli parli di sé e di sé, o meglio dell’esperienza che si è andata scrivendo lungo la sua vita nella sua ricerca” scrive Silvio Ceccato in questo suo ultimo libro.
Trovo in queste pagine la curiosità autentica del giovane ricercatore, addirittura del ragazzo che si pone le prime domande dovute alla sua curiosità, con in più l’assenza di vergogna di chi è testimone che la curiosità è insaziabile e il sapere non è mai abbastanza, non è accumulabile, non si volge in conoscenza. E ritrovo, lungo la lettura di questo libro, alcuni elementi del nostro ultimo incontro, qualche settimana fa a casa sua, a Milano. Incontro straordinario, per me, con una persona straordinaria; incontro dove si combinavano semplicità, ingegno, arguzia, entusiasmo.
Esordì dicendo che si riteneva un uomo fortunato per essere nato in una famiglia dove la fiducia era assoluta e la cultura era di casa. Il padre, infatti, aveva una biblioteca di qualche migliaio di volumi e, sin da bambino, Ceccato poteva pizzicare qua e là, appagando la sua curiosità con le letture più varie, senza divieti. “Come avrei fatto senza quei libri? Cosa ne sarebbe stato di me? – mi disse – È stato essenziale; ma è stata pura fortuna, perché mio padre era avvocato, era colto, amava i libri. Ma se io fossi nato altrove?”
Anche il padre, tuttavia, gli dette una mano. Gli diceva nelle occasioni importanti: “Mi me fido de ti. Decidi ti”. “Una bella responsabilità, – notava Ceccato – per chi ne tiene conto; una responsabilità che mi ha costretto a non mollare mai”. A me è sembrato straordinario che un uomo di 83 anni, famoso, illustre, scienziato importante, indicasse con semplicità, come avvio del nostro incontro, le basi della sua fortuna e del suo itinerario: la famiglia, il padre, la fiducia, i libri, il ritmo incessante nella ricerca. Cose che costituiscono in fin dei conti l’essenziale della risposta alla domanda: quale cura? E da cui viene, da Ceccato appunto, l’indicazione di una cura intellettuale.
“Sa – disse – io ho cominciato con la musica. Non leggo male. Ho anche composto delle cose. Ma bisogna essere onesti: se per un musicista occorrono dieci qualità, io ne avevo otto e mezzo, e così mi sono rivolto ad altre cose.” Il suo entusiasmo era evidente. Pur costretto in poltrona per una sopravvenuta difficoltà a muoversi agevolmente, mi raccontava i suoi progetti futuri di ricerca, di scrittura. Mi raccontò che per la prima volta stava tenendo un diario, con appunti del tutto nuovi intorno alle sue riflessioni e ai suoi ricordi; ricordi nuovi che non aveva mai avuto, pensieri inediti.
“Qui – mi diceva toccandosi la testa – sono ancora giovane, come una volta; purtroppo, queste non funzionano più bene – mi disse battendosi le gambe – e posso muovermi poco. Vede, la vecchiaia purtroppo ci riduce a macchine che per vivere necessitano di mangiare”: un riferimento a altre cure non proprio intellettuali che era costretto a fare in quei giorni. Un riferimento anche a un’altra dimensione delle cose, a un’altra dimensione della vita, senza sostanza, senza riferimento alla morte in quanto tale o alla malattia. Proprio come nel suo libro, in cui nella scrittura trascorrono dettagli, ricordi, avvenimenti, non come supporto alla nostalgia, ma come pretesti di ulteriore indagine, di ulteriore scrittura. Pretesti di vita attuale.
Nella sua testimonianza Ceccato non indulge mai nell’autocommiserazione in relazione agli insuccessi, su cui soprattutto si sofferma, né alle rivendicazioni contro la mala sorte o contro il rivale. Positivo e negativo non entrano per lui nell’esperienza, ma sono pretesti per l’esperienza, pretesti per l’itinerario; perché importa non che le cose siano andate bene o siano andate male, non che diventino quindi il segno di un destino favorevole o avverso, ma importa il loro modo attuale. Importa il come fare, ora e da qui in avanti. Come funzionano le cose? Come opera il giudizio? Come facciamo a comunicare? Come facciamo a pensare?
Queste le domande che incessantemente hanno condotto il filo della sua ricerca. Curiosità insormontabili, non risolvibili, dato che ciascuna volta la domanda si rinnova e va affrontata. Un messaggio prezioso e contro tendenza. Ma certamente, per questa via, non cedendo mai alla facilità, non accontentandosi mai, se non della particolarità che trovava nelle cose, è riuscito a interloquire con Socrate, come ci racconta nel suo libro, facendosi per di più rispondere.
Antonia Arslan Avremmo voluto intervistarlo questa sera, avremmo voluto averlo qui con noi, questo straordinario personaggio di 83 anni. E io mi ero preparata proprio a fargli anche delle domande per vedere che cosa mi rispondeva. Di Ceccato puoi essere sicuro che, qualsiasi sia la domanda che tu gli poni, la risposta è sempre in qualche misura sorprendente. Io lo conobbi tanti anni fa, in un’occasione di cui parlerò fra un momento, e devo dire che ne rimasi proprio scioccata. Ero molto giovane e parecchio ingenua e lui era quello che egli stesso definiva “un libertino irridente”, un uomo della libertà che prende in giro tutto e prima di tutto se stesso.
Pur risparmiando la mia ingenuità di allora, pur senza attaccare, come avrebbe potuto (e già poteva benissimo fare in quel momento) l’establishment culturale, letterario e universitario italiano, mi infilò nella mente alcuni sospetti, alcune intuizioni, alcune immagini che poi rimasero lì. Finché, anni dopo, mi capitò di ripensarci quando, mentre scrivevo un piccolo libro su Dino Buzzati che mi aveva dedicato un libro. Questo è stato, in qualche modo, l’origine del mio accostarmi a Ceccato. Tornerò fra un poco su questo libro di Buzzati che, secondo me, è veramente un atto di omaggio straordinario e è il libro di Buzzati forse meno noto: un importante romanzo di fantascienza.
Ma tutti sappiamo come, negli anni ‘60, la fantascienza italiana fosse catacombale. Se qualcosa già si scriveva era solo a livello soltanto di fotocopie – allora neanche c’erano – magari di ciclostilati, di comunicazioni da appassionata o da appassionato, e qualche cosa sulla rivista “Urania” di Mondadori. Ceccato aveva parlato seriamente con Buzzati, lo aveva preso sul serio. Questo narratore che si era appassionato delle sue “formule di Ceccatiev”, lo aveva preso sul serio come prendeva sul serio i bambini cui andava a far lezione.
Il libro C’era una volta la filosofia è affascinante proprio per questo, perché è una specie di variegato caleidoscopio. Non vi aspettate un racconto dall’inizio alla fine, anche se il racconto dietro c’è. E è una autobiografia che è poi un vero e proprio romanzo di formazione, cioè a modo suo, e non con le strutture dell’inizio del ‘900. Però Ceccato conduce la sua storia raccontandosi attraverso la propria maturazione intellettuale, attraverso la sua propria maturazione psicologica, fino agli scontri, che un carattere come il suo, inevitabilmente, intrattiene con le diverse strutture, cominciando – io amo in questi casi far parlare il testo il più possibile – con la primissima struttura.
Riguardo il suo rapporto col padre anch’io avevo notato questa frase del “mi me fido de ti” che, devo dire, ricalcava anche una mia personale esperienza col mio proprio padre. E è una cosa che ti riempie di un enorme senso di responsabilità nel vedere che un padre si affida a te, si fida di te e ti manda nel mondo. Dopo questo discorso del padre, il primo ironico incontro del bambino, che è già libertino (cioè che istintivamente aspira a rendersi conto personalmente della cultura che gli viene somministrata), è con l’insegnante, la maestra che gli va in casa, per lui e per suo fratello, vecchiottella, zoppicante e compunta. Cosa scrive Ceccato subito dopo? “Ebbi i primi sospetti”.
I primi sospetti sono evidentemente, su che cosa? Su un insegnamento che viene imposto, che esige un oggetto passivo davanti a sé, cioè una persona che ascolta e che recepisce. “La poveretta si era ingolfata nella distinzione dei nomi astratti e concreti. C’era il solito esempio del cavallo grande e grosso, opaco e puzzolente, e della cavallinità sfumante, eterea, impalpabile. Mah, forse però che si tocca il triangolo della geometria?”
Già fin da allora, possiamo dire dai sei, sette anni, questo bambino si pone direi, non in opposizione giusto per fare opposizione, non in forma di capriccio, ma in forma di dubbio: la ricezione secondo il dubbio, che è poi il modo più intelligente di apprendere. “In effetti – dice più sotto – non capivo quello che lei voleva dirmi, ma restavo precoce e testardo”. Dirò adesso una cosa che gli avrei detto anche in faccia. C’è in tutto il libro una forte dose di coscienza di sé e di arroganza.
Cosa c’è nella frase successiva?”Un episodio che faceva presagire il linguista”. Ma è quell’arroganza che, a mio parere, un uomo di 83 anni può benissimo permettersi. Quando la sua vita è riuscita, quando è un uomo di questa statura e di questa intelligenza, può benissimo guardare indietro con un filo di compiacenza di sé. E era una delle domande che gli avrei fatto: “Lei, si sente arrogante?” E, se sì, come, quanto. E penso che avremmo visto qualche scintillío. Più avanti ci racconta la grande passione iniziale della sua vita e cioè la musica. Non capiremmo Ceccato se non sapessimo che è stato prima un musicista di valore, un uomo che ha lavorato molto in campo musicale e che ha imparato molto la disciplina della musica.
Qual è il pericolo per un libertario, come è questo bambino, che è evidentemente di mancare di disciplina, di non sapersi imporre una disciplina? Ma la disciplina della musica è la più forte che ci sia, è quella per cui tutti i giorni ti devi applicare a fare i tuoi esercizi, sempre quelli. E lui racconta di sue esperienze trasmesse poi, essendo Ceccato uno che ha fatto lezione ai bambini delle elementari, come all’università privata IULM, come ad altre università, come in America, come in Francia, cioè facendo corsi liberi alla Sorbona, con una ricchezza inventiva derivante dalla voglia di insegnare, dalla voglia di raccontare, dalla voglia di comunicare ad altri quelle che erano le proprie ricerche e le proprie scoperte, i propri raggiungimenti. E qui comincia la storia che interseca tutto il libro del suo difficile rapporto con le strutture accademiche.
C’è chi esige che lui si schieri. In campo filosofico, occorre dirlo, negli anni ‘50, ci si doveva schierare o in funzione di sinistra ortodossa o in funzione liberale. Prima ci sono rapporti con padre Gemelli della Cattolica, poi ci sono i rapporti con Banfi alla Statale, poi i rapporti con il nemico di Banfi che si chiamava Barié, ma da tutti questi contatti – e vi risparmio i dettagli che vi leggerete da soli – il nostro esce scomunicato.
Chi lo caccia per un motivo, chi lo caccia per un altro. In sostanza è il libero esercizio del suo criticismo, della sua innata tendenza anche, possiamo dire, di bastian contrario, che lo rende poco gradevole a ogni struttura organizzata. Ognuno ha i suoi allievi, i suoi seguaci. Ceccato disturba. A questo punto, noi vediamo delinearsi in filigrana quella che è la sua immagine, la sua proiezione personale.
La proiezione personale che Ceccato ha di se stesso, e era su questo anche che si legava la mia ipotetica domanda, è l’immagine di Fanfulla da Lodi. Ora, Fanfulla da Lodi tutti lo conoscevano una volta. Oggi forse un po’ meno, ma è l’eroe della disfida di Barletta, cioè quello che è un po’ spaccamontagne, che si batte contro tutti, che sfida a duello i potenti spagnoli; rivendica l’onore nazionale italiano. Siamo all’inizio del ‘500 a Barletta.
Fanfulla da Lodi, soldataccio di ventura, spaccone ma che ama il suo paese, che riesce a imporsi anche in circostanze contrarie, è evidentemente, per Ceccato, un’immagine speculare, un’immagine che lui ama come modello, che cita dall’inizio fino alla fine del libro e che gli dà la sicurezza, lo rassicura. Non sono solo, c’è stato qualcun altro come me, posso specchiarmi in un modello. È l’immagine che gli funziona da modello, che è un’immagine, appunto, di soldato di ventura, di uomo coraggioso.
Allora noi capiamo che nella sua autobiografia, in questo racconto della sua formazione, in questo romanzo di formazione che è questa autobiografia, l’immagine che Ceccato ha di se stesso è un’immagine di coraggio. Alla fine della sua vita, traendo il bilancio, pensa di essere stato coraggioso, e in fondo è contento di sé. Io trovo molto bello che un uomo a 83 anni, dica: “Sono contento di me”, faccia capire di esserlo, perché mi pare un giusto equilibrio e anche un giusto bilancio, non privo mai di ironia e di autoironia, ma in fondo con un sua quieta soddisfazione. Qual è un altro elemento che vediamo in tutto questo suo libro? È un filo rosso che lo percorre tutto: un’insonne curiosità, la curiosità verso il mondo esterno, e è proprio con i grandi temi della filosofia che Ceccato si misura.
E allora ecco, il girare per tutto il mondo, l’andare da solo a proporre sue lezioni alla Sorbona, mettendo degli avvisi, come vediamo nelle università affissi gli avvisi: “Si vende il libro tale”, “Si compra il libro…”. Lui scrive: “Lezioni libere di Silvio Ceccato”. E si trova della gente importante che va a sentirlo e realizza questo provvisorio incontro di pensiero.
Ecco, la curiosità porta in lui incontri di pensiero, a incontri intellettuali, liberi, veri, autentici, da cui nascono poi anche le sue maggiori ricerche, le famose macchine artificiali, l’approdo alla cibernetica, quello per cui poi è più noto; i contratti con l’esercito degli Stati Uniti che gli mettono a disposizione soldi, assistenti, eccetera, e che dopo due, tre anni però si ritirano, per immaginare, perché il sogno di allora, il sogno di quegli anni era la macchina artificiale, il linguaggio artificiale, il pensiero artificiale.
La costruzione del linguaggio, le macchine per tradurre, sono tutti grossissimi progetti che non sono affatto stati risolti, né realmente, né realmente sono vicini a soluzioni, ma che Ceccato affronta. Buzzati, questo grande scrittore del ‘900, così maltrattato dalla critica italiana e così celebre all’estero, tradotto in 40 lingue, si accosta a lui nell’ambiente milanese attraverso suo fratello.
Buzzati è, come credo sappiate, bellunese, ma è sempre vissuto a Milano. La sua famiglia in verità si chiama Buzzati Traverso e suo fratello era un celebre biologo, Adriano Buzzati Traverso, che fece incontrare i due. E lui si innamorò di questa “tavola di Ceccatieff”, perché una delle invenzioni di Ceccato fu, a somiglianza della tavola degli elementi di Mendeleev, di disegnare una tavola di Ceccatiev.
Di fronte a questo, Buzzati, come un bambino si innamora, gli piace tantissimo. E inventa una storia che si chiama Il grande ritratto e che è un romanzo, vi dicevo, di fantascienza del 1960, in cui prodigiosamente questo contatto – che sarà stato provvisorio, così come fra due corpi celesti che a un certo momento si incontrano ma in questo senso non si scontrano, si potenziano – potenziò l’intelligenza di Buzzati, che uscì da un certo suo narrare un pochino più tradizionale. E costruì una storia che, alla base, ha una donna artificiale, un cervello artificiale, costruito da un tal Endriade, uno scienziato matto, il solito tipo di scienziato matto.
Ma, forse anche qui, si ispirava a Ceccato, che ha la sua originalità, in quale dimensione? Nella realtà che fa di questa donna artificiale un contenitore in cui lo scienziato riversa l’intelligenza, ma anche il modo di parlare – perché questa macchina parla, è un grande cervello che è sito al centro di una valle e che occupa tutta la valle – e anche i vizi, i difetti, le cattiverie della moglie morta.
Questo scienziato non può vivere senza. Ricostruisce nella macchina la moglie, ma all’inizio le dà una natura buona. Invece la moglie era perfida e lui non la sente autentica. E allora inserisce man mano tutte le crudeltà e le cattiverie di cui la moglie era dotata. Alla fine questa macchina esplode, perché, essendo ormai cosciente di essere la moglie nello spirito ma bloccata nella macchina, si ingelosisce e uccide e viene distrutta. In questo libro, lui cita proprio a un certo punto la sua origine – naturalmente, da buon narratore non ce lo dice subito – e dà a Ceccato il merito dell’invenzione: “Così costruii la voce – la voce della moglie – e l’ho subito messa in rapporto con le estrinsecazioni del pensiero sul filo magnetizzato in base alle formule di Ceccatieff”.
È per questo che io lo andai a cercare, per sapere da lui quando scrivevo questo libro, che cosa e come era avvenuto questo loro incontro. Allora mi sono chiesta: per caso, questa voce incomprensibile non corrisponde a quegli impulsi? Abbiamo subito fatto la prova: bastava tradurre il suono e la banda magnetizzata. Il risultato è stato impressionante, lo stesso identico suono. In questa donna meccanica, che ha tutta la forza emotiva di una donna vera, della donna vera che è stata la donna morta, Buzzati capisce, forse, quello che è il vero paradosso di questo scienziato, del vero Ceccato, che è stato, è tutt’ora un inventore portentoso, un uomo di genio, ma che non è affatto avido, che ha sempre legato le sue invenzioni, le sue teorie, il suo modo di essere con la calda, reale vita dell’essere umano.
E allora non si è chiuso in aule accademiche, non si è piegato alle culture dominanti, ma ha continuamente, ironicamente, fatto sberleffi al destino, ricostruendo sempre daccapo la propria identità e la propria, possiamo dire, missione intellettuale. Per leggervi un pezzettino molto affascinante della sua polemica contro l’establishment accademico, nella seconda parte del libro c’è una specie di lungo racconto in cui lui si sdoppia, in fondo, e è però il vecchio seduto su una panchina. Il vecchio seduce i giovani, li attrae, ma poi, la voglia di far carriera, la voglia di sistemarsi in qualche modo, li separa da lui. Chi voleva brillare di luce propria, chi temeva le università rosse o quelle nere, o quelle rosse-nere, le carriere compromesse -cioè erano quelli che abbisognavano di un nome trascendente che li avesse creati ad hoc, popoli eletti, caste pregiate e privilegiate- dice Ceccato.
Ma quando riferisce il discorso a sé, ecco cosa dice: “Avvicinai il Maestro – cioè il grande professore Antonio Banfi – e offerse anche a me un corso da tenere, un corso di estetica. Musica maestro! Era molto attento che non sfuggissimo, ma anche che non usurpassimo. Con un po’ di libertinaggio ci si barcamena e mi barcamenai fino all’incidente fatale”. L’autoironia è proprio in questo: non è che lui non tenti di barcamenarsi, è che la sua natura insopprimibilmente libertaria gli scoppia fra le mani. E qui due, tre, quattro episodi dove vediamo che c’è questo continuo cercare di accostarsi e poi sfuggir via che gli è tentato proprio dalla sua intima natura. L’unica università con cui sembra abbia mantenuto rapporti più lunghi è lo IULM. E che però è un’università privata e che all’epoca in cui lui parla era diretta da Silvio Barison che l’aveva fondata.
Era un’università, all’epoca, gestita con criteri un po’ curiosi. Questo Barison aveva un albergo a Parigi, e un bel giorno decise di fondare un’università; quindi tutta la questione venne gestita con criteri molto manageriali e molto libertari. Per i principianti, i suoi studenti principianti, aveva preparato un lessico, una lista di valori, per fare un gioco sul tipo del calcio ma con una particolarità: si doveva convenire, come al solito, di segnare un punto ogni volta che il pallone fosse entrato in rete. Allora lui con i suoi allievi costruisce un gioco, ma i punti da segnare sono punti ironici; sono accostamenti scandalosi per il professore che, difatti, reagisce.
Ceccato pubblica questa ricerca, questo gioco su “Methodos”; senonché il figlio di Banfi leggeva “Methodos” e avvertì subito dello sconcio il padre: “Egli mi telefonò nella notte, una voce da plotone di esecuzione; era un’imperdonabile offesa alla nobiltà del filosofare, soprattutto lo aveva imbufalito l’accostamento dei calzoncini, delle mutande, del sudore con i sacri testi. Mi scacciava dall’università; non dovevo più mettervi piede. Libertino, confesso, per un attimo restò senza fiato. Banfi non era il paladino della libertà di pensiero, ma, forse, tra il dire e il fare c’è in mezzo il teoconare”.
E con questo ti lascia. E naturalmente lo sberleffo ricade anche su di lui. Ecco, io concluderei questo mio excursus di lettura con una piccola dedica proprio al nostro Ceccato. L’ultimo pezzo della prima parte è una visione che lui ha di se stesso, vecchio, intitolata Il buon ritiro: “Ho regalato i libri, l’auto, vivo in 80 metri con mia moglie Daniela, amica della mia mente e del mio cuore; abbiamo un personal, una macchina per scrivere, un fax. Talvolta un conoscente curioso chiede informazioni: “Che cosa fai Ceccato?” Ho impacchettato in una pagina il mio cammino. Il bambino dubbioso, il ragazzo musicato, il soldato fortunato sono volati via. Qualcuno di loro sarà ancora in giro, sbattendo le ali”. Intanto, il libertino ha 83 anni.
Ruggero Chinaglia Certamente non è casuale che ci sia questo accostamento tra l’indagine, la ricerca, la curiosità, quindi non accontentarsi intorno alla questione del giudizio, e l’interesse per la musica, che in fin dei conti, in qualche modo, è l’arte del giudizio. E quindi è interessante e fa riflettere questa combinazione fra la scienza e l’arte, in particolare la musica, almeno in questo caso di Ceccato. Proprio questa combinazione induce a riflettere sull’insistenza da lui posta per la questione della traduzione, della lingua, del cervello artificiale.
Non già come qualcosa che si contrapponesse a un cervello naturale, a una lingua naturale, a qualcosa di naturale da cui partire o a cui tornare per il giro dell’artificio, ma dove proprio la questione dell’artificiale è la questione stessa della ricerca, è la questione stessa del cervello, è la questione stessa della lingua. Non c’è lingua se non artificiale, non c’è cervello se non artificiale.
Ciascun pensiero è imprevedibile, è imprevisto; ciascuna combinazione, inedita, incalcolabile, mai già conosciuta. È considerevole che Ceccato insista proprio su questa questione della conoscenza come qualcosa che non si raggiunge mai. E quindi questo aspetto dell’artificiale indica proprio questa impossibilità di fondarsi, di avere un riferimento su qualcosa che possa invece costituire un paradigma naturale.
Giangiorgio Pasqualotto Comincerò con alcune considerazioni aneddotiche. Il primo libro di Ceccato che lessi era Il tecnico tra i filosofi, del 1964. Allora io ero al liceo e mi fece un’impressione enorme questo libro, perché era un libro, anche per chi, come me, era appassionato in maniera quasi patologica alla filosofia, che apparentemente non aveva nulla a che fare con la filosofia, nel senso che era scritto con un linguaggio innanzitutto molto libero, non codificato.
E poi affrontava problemi che normalmente la storia della filosofia, della scienza, non aveva finora affrontato e cioè i problemi del rapporto con la macchina e il rapporto tra il linguaggio artificiale e quello naturale. Molte delle cose che c’erano scritte lì, ovviamente, io non le capii. E allora cominciai a girare e a chiedere chi era Ceccato.
La cosa mi stupì non poco, perché io pensavo che lui fosse un illustre accademico, un professore affermato. Invece rivolgendomi ai filosofi di professione, ossia ai professori di filosofia, ne ricevevo delle risposte nel migliore dei casi ironiche, talvolta sarcastiche e talvolta proprio addirittura offensive.
Allora, visto questo, mi rivolsi un po’ a quei pochi tecnici che io conoscevo, cioè a qualche ingegnere amico di mio padre, e costoro ebbero una reazione più o meno analoga a quella dei professori di filosofia; lo consideravano uno stravagante, un dilettante, un inconcludente, uno sregolato che era meglio tenere alla larga. Questo, per un po’, mi tenne alla larga effettivamente da Ceccato, finché però scopersi poi, nei suoi libri successivi, una cosa straordinaria che viene fuori anche in questo libro.
Ceccato in realtà è certamente un dilettante della filosofia, ma nel senso più nobile del termine, mi pare che i francesi dicano amateur. È un amante della filosofia, nel senso che ha la passione per i problemi della conoscenza in generale. Che questa conoscenza sia linguistica, che sia mediata attraverso i problemi della musica, che sia puramente gnoseologica, cioè filosofica, Ceccato ha comunque questa passione, che non lo lascia nemmeno a questa età di 83 anni, per i processi e i problemi che entrano nella conoscenza.
Nonostante lui prenda spesso per i fondelli la filosofia, io credo che abbia la passione filosofica e che, in realtà, la filosofia contro cui si scaglia è la filosofia codificata in disciplina universitaria. Questo è sostanzialmente quello che io ho potuto comprendere e che si evince dai suoi racconti.
Ma questo, secondo me, è perfettamente naturale, ossia: la filosofia accademicamente strutturata, nella maggioranza dei casi, con qualche lodevole eccezione, deve costituzionalmente, necessariamente mantenere ai margini questi personaggi, almeno per com’è e come è stata strutturata in Italia, perché io non credo affatto che gli scontri con Padre Agostino Gemelli, e poi con Banfi, siano dovuti al carattere impetuoso di Ceccato, e che invece le sue ricerche avrebbero potuto entrare nell’accademia.
Non è affatto così. Io credo che proprio la natura delle ricerche di Ceccato sia tale per cui non potevano, e forse non potrebbero nemmeno oggi, essere ammesse all’università, perché sono tutte di frontiera e cioè, sono ricerche che, per esempio, affrontano i problemi che si pongono tra varie discipline.
Ne dico una: la sua ricerca sui linguaggi, sia sul linguaggio grafico, sia sul linguaggio scritto, è una ricerca che si pone tra psicologia, linguistica e gnoseologia nel senso classico; ma, se vogliamo, possiamo metterci anche la logica. È una ricerca che, essendo di confine, continua a sconfinare. Invece le discipline accademiche, così come sono costituite, sono costruite e giustificate sui confini, sui rigidi confini, quindi è ovvio che quando uno rompe i confini non può essere ammesso.
Quando Silvio Ceccato, in questo libro, ma anche in tanti altri libri a cominciare da quello del ‘64 che ha inaugurato la mia conoscenza con lui, attacca la filosofia, in realtà è un attacco per eccesso d’amore nei confronti della filosofia, intesa proprio come – lo sanno ormai tutti – come philosophein, cioè ricerca della sapienza, e non possesso della sapienza. Questo sottolineare il filein, questo sottolineare la tendenza alla ricerca, è l’autentico filosofare dai tempi arcaici, almeno da Platone in poi, che ha inventato questo philosophein.
Io vorrei dire che questo è un libro, nonostante l’andamento autobiografico, nonostante, o anche grazie, i pregi letterari, è un libro di filosofia, inteso in questo senso, cioè è la testimonianza di una passione per la ricerca. E se identifichiamo ricerca con filosofia, questo è un libro letteralmente ricco. Le prove sono evidentissime. Ne cito soltanto due. All’inizio, anche se con una variante ironica, per cui introduce un personaggio che non c’è nel testo originale, cita un testo di Platone; ma Ceccato quale testo – tra i milioni di testi filosofici o letterari – cita? Cita un passo molto noto del Teeteto, che, come molti di voi sapranno, è il dialogo platonico dedicato quasi esclusivamente a capire che cosa sia la conoscenza umana. Credo che questo non sia affatto un caso e, che non sia un caso, lo testimonia un passo che è verso la fine del libro, in cui dice: “I fisici hanno ritenuto che tutto fosse di loro pertinenza, e così hanno baccagliato soprattutto sulle cose mentali”.
E qui Ceccato, secondo me, svela la sua natura di filosofo, perché quando si parla di ricerche cibernetiche, di ricerche sull’automazione, di ricerche bioniche e quando si parla appunto di un tecnico fra i filosofi, si sottolinea più che altro l’aspetto di curiosità tecnologica che aveva Ceccato. Ma io non credo affatto che lui avesse e che continui ad avere questo tipo di curiosità. Il suo è un autentico interesse di carattere gnoseologico, conoscitivo; e questo attacco è rivolto ai fisici, ai biologi, a tutti coloro che tendono a ridurre tutti i fatti mentali a fatti meccanici. Che questa difesa della non meccanicità dei fatti mentali derivi da Ceccato, che è di solito ricordato solo per essere stato uno dei pochi iniziatori degli interessi cibernetici in Italia, la dice lunga sulla sua costituzione più profonda, che, ripeto, è una costituzione filosofica.
D’altra parte la chiusa dello stesso libro di Ceccato è una chiusa totalmente filosofica, cioè porta due testimonianze epigrafi al suo libro: una di Tommaso Moro, che è un famoso inno alla libertà di ricerca e di pensiero – nonostante fosse, bene o male, un uomo di chiesa, ma anche lui emarginato dalla sua chiesa – e l’altra è il famoso testo dell’ abiura di Galileo Galilei. Anche qui, le testimonianze più forti in tutto questo libro sono testimonianze a favore di una filosofia intesa come ricerca libera, non accademicamente precostituita, predeterminata, destinata alla carriera. Inoltre la questione della ricerca costantemente aperta è di nuovo, per così dire, un tema platonico, cioè classico della filosofia.
Questo è per aggiungere legna al fuoco dell’ipotesi di un Ceccato filosofo. Devo anche dire, però, che si può non ridurlo solo a filosofo. Per esempio in Italia, ci sono stati grandi personaggi, e forse ce ne sono ancora di questa tempra, e cioè personaggi appassionati alla ricerca fuori dalle discipline. Ne vorrei citare solo uno e è Bruno Munari. Le ricerche grafiche, inventive, con tutti i materiali possibili che ha fatto Bruno Munari, è nelle arti figurative l’equivalente di quello che ha fatto Ceccato mettendo insieme linguistica, logica, tecnica, perché bisogna ricordare che Ceccato ha, aveva, ma sicuramente penso che abbia ancora, una notevolissima capacità di risolvere problemi tecnici, proprio ingegneristici. E questo non è da tutti.
Ruggero Chinaglia La ricerca come ricerca di frontiera mi evoca propriamente la ricerca intorno alla parola. In fin dei conti Ceccato ha indagato sulla parola, sulla comunicazione, su qualcosa che ciascuno insegue e non trova mai come acquisito una volta per tutte. Quindi questa parola artificiale, questa parola che esige la ricerca, l’indagine, che mai riesce ad essere padroneggiata, esige sempre qualcosa in più. E, allora, vorrei dare proprio la parola a Ceccato, nell’ultimo modo che ci è possibile, cioè leggendo un brevissimo passo del suo libro, che indica come, pur nella problematicità della sua ricerca e della sua indagine, non mancasse umorismo.
La saga della cibernetica: “La macchina fu inaugurata dal Presidente della Repubblica, alla fiera di Milano, dopo varie traversie; fece rumore su giornali, riviste, dall’Australia alla Russia. Alcuni tedeschi volevano comperarla, ma non era mia. Fu spedita a Roma nella sede della rivista di Sinisgalli dove, quando la cercai per una mostra, appresi che non era mai giunta. Distrutta, perché? Finita nelle segrete del Vaticano? Così come sparì il documentario girato dalla Rai di Milano. Perché? Ma con quella macchina e quel rumore cominciava per me la saga della cibernetica e io ne figuravo il padre.
“Continua!” insistetti “Non scoraggiarti!” L’Olivetti, la IBM, la Fiat forse mi avrebbero aiutato nella costruzione di un cronista meccanico. A loro non mancavano certo il materiale e i tempi morti degli specialisti. All’Olivetti era piaciuta l’offerta, ma solo alla direzione pubblicitaria. Alla Fiat ero stato denunciato quale comunista, perché scrivevo sulla rivista “Il filo rosso” della Feltrinelli. La IBM era reduce da due o tre disastrose iniziative europee. Bastava così.
Continuava il mio successo popolare, anche perché venivano confuse le tre cibernetiche: una della automazione, che non tiene conto di come procede l’animale, purché produca risultati utili, cioè non i passi con le gambe, ma la strada con le ruote […]; la bionica, ispirata ai risultati dell’anatomofisiologia, e la mia, che chiamai logonica perché avrebbe meccanizzato la vita mentale. Mi chiamavano dappertutto. Non poteva esserci un futuro migliore.
A un ricevimento da Grand Hotel, una signora usa il calice: “Non ne capisco molto, ma sento un fascino per questa cibernetica.” – “A sua disposizione, signora!” – “La logonica ti sveglierà, povero meschino! Ti rivoluzionerà.” Al libertino, qualche volta scappava un sorrisetto: “Non essere cattivo, pensa al tuo Fanfulla. Lascia la spada e ama tutto quello che fai e, ahi, diventai un solutore di enigmi”. Un industriale mi visita baldanzoso ed estrae il portafoglio: “Lei è un cibernetico? Mi dirà se è possibile amare contemporaneamente due donne!” “Conviene che si tenga il portafoglio, per le donne!”.