
L’analisi
- Chinaglia Ruggero, Dalla Val Sergio, Silvestrini Antonella
4 novembre 2010 Convegno con Ruggero Chinaglia, Sergio Dalla Val, Antonella Silvestrini dal titolo L’analisi, svoltosi a Padova nella Sala Anziani di Palazzo Moroni, con il Patrocinio del Comune di Padova. Il convegno ha inaugurato la serie di conferenze tenute da Ruggero Chinaglia sul tema L’analisi.
RUGGERO CHINAGLIA, SERGIO DALLA VAL, ANTONELLA SILVESTRINI
L’analisi
Ruggero Chinaglia Incominciamo l’incontro di questa sera segnalando alcune novità editoriali che possono costituire un’occasione di lettura proficua. È uscito in questi giorni, proprio in occasione del quattrocentesimo anniversario della beatificazione di San Carlo Borromeo, il libro di Fabiola Giancotti Per ragioni di salute, che sarà in libreria a giorni, come pure il libro di André Glucksmann Le due vie della filosofia, che già ha avuto molte segnalazioni sui giornali e che costituisce un messaggio molto interessante rispetto al discorso dominante, la contro voce. Una lettura sicuramente di rilievo, anche tenendo conto delle vicende che da vari mesi si susseguono riguardo all’applicazione della pena di morte in diversi paesi. Segnalo la trilogia di Robert Badinter, che è stato fautore in Francia, ma non solo, dell’abolizione della pena di morte. È una trilogia che appunto si intitola L’abolizione, L’esecuzione e Contro la pena di morte e, in particolare, questo ultimo volume è sulla esecuzione.
Prossimamente avremo anche occasione di promuovere degli incontri attorno a questi due altri libri, che sono usciti invece qualche mese fa; uno, in particolare, di Thomas Szasz La mia follia mi ha salvato, La follia e il matrimonio di Virgilia Woolf, un contributo al caso molto interessante di Virgilia Woolf. Inoltre, un libro che raccoglie le esperienze, la storia e le vicende di un protagonista della cultura europea e della trasformazione degli ultimi vent’anni in Europa, il regista polacco Krzysztof Zanussi, e il libro si intitola Tempo di morire. Ricordi, riflessioni, aneddoti, pretesto anche per l’incontro di questa sera. Segnalo infine, questo numero della collana rivista “La cifrematica” che si intitola Vivere senza paura, e mi sembra un argomento di rilievo e di attualità.
L’incontro, il convegno di questa sera inaugura una serie di appuntamenti che continueranno settimanalmente (presso la Sala polivalente alla Guizza, con il contributo e il patrocinio del Consiglio di Quartiere n.4), proseguendo l’esplorazione di questo termine “l’analisi” e affrontando, settimana per settimana, specificamente un tema, un argomento per ulteriormente chiarire, dare testimonianza e consentire anche il contributo di ciascuno che intervenga intorno alla questione dell’analisi come questione intellettuale.
Il titolo di questa sera L’analisi marca appunto lo statuto dell’analisi come occasione di un chiarimento, da molti invocato, attorno a ciò di cui si tratta, che cosa comporta, perché farla, qual è la ricchezza, l’arricchimento dell’analisi, il contributo alla vita, alle cose che si fanno, ai progetti e al programma di vita di ciascuno. Si tratta nel titolo di un sostantivo, e non di un verbo, a marcare qualcosa che riguarda propriamente l’analisi, cioè il modo dell’intransitività, e man mano chiariremo.
Perché questo aspetto intransitivo è così importante? E abbiamo messo psicanalisi, e non psicoanalisi, proprio perché questo termine psicoanalisi, per come è stato usato e in qualche modo trattato all’Università o nelle sedi divulgative, risulta fuorviante rispetto a ciò di cui si tratta nell’analisi. Psicoanalisi è stata intesa come una modalità transitiva per analizzare la psiche, la mente, un modo per conoscere i misteri della psiche, un modo per scavare nel passato e giungere alla causa di un male presente. Sono mitologie, leggende metropolitane.
L’analisi ha ben altro rilievo, ha ben altra importanza. Non è un lavoro di scavo, è un lavoro, se vogliamo, piuttosto di elaborazione che riguarda l’attuale e l’avvenire, le cose che si fanno e si faranno, non il chiarimento o l’illuminazione, con la fiaccola illuministica, per ciò che è stato. Se così fosse, sarebbe poca cosa, non darebbe un contributo effettivo alla vita di ciascuno, ai progetti, al modo con cui fare le cose. Allora, proprio attorno a questi malintesi, a questi fraintendimenti, a queste facili divulgazioni che hanno contribuito a svilire la questione dell’analisi, questa sera e per un periodo che seguirà per i prossimi mesi, per quello che sarà il nostro seminario settimanale, il nostro laboratorio intellettuale, proseguirà questo tema dell’analisi. Questa questione come questione intellettuale, come questione che non esige il male per essere attuata, ma va in direzione di un progetto e di un programma di qualità e riguarda la questione del come, attraverso quali modi, quali vie, con quali mezzi.
Questa sera abbiamo due ospiti che ci daranno la loro testimonianza, due ospiti che sono protagonisti dell’esperienza dell’analisi. Si tratta, in ordine alfabetico, di Sergio Dalla Val, che conduce l’esperienza a Bologna, è Presidente dell’Associazione Progetto Emilia Romagna e dirige la rivista trimestrale La città del secondo rinascimento e dunque è in grado di testimoniare dei vari aspetti clinici, intellettuali, culturali, imprenditoriali, di quale è stato il contributo che l’analisi ha consentito a lui e a altri, e proprio nello specifico delle varie cose. Antonella Silvestrini, psicanalista, linguista, presidente dell’Associazione La Cifra a Pordenone, svolge un’attività intensa di ricerca, di traduzione di testi, di scrittura, di coordinamento dell’ufficio stampa della casa editrice Spirali, e proprio per questo è in grado di indicare, non in modo astratto, ma attraverso il contributo che le viene in ciascun istante nell’esperienza, qual è la questione dell’analisi. Allora cedo proprio a Antonella Silvestrini la parola per il suo intervento.
Antonella Silvestrini Buonasera. Sono contenta di essere a Padova; è la seconda volta quest’anno, quindi ringrazio il dottor Chinaglia e l’associazione per questo invito rispetto a un tema che effettivamente interroga molto, perché interroga la questione dell’analisi in un’epoca in cui sembra prevalere l’iperpositivismo, cioè in un’epoca in cui l’inconscio è associato o è ritenuto quasi una superstizione; e ognuno cede, anche le persone più colte e più istruite, alla tentazione di trovare ispirazione per ogni cosa nelle alterazioni biochimiche dell’organismo e in questi tecnicismi. Quindi analisi, anàlysis in greco, questa anàlysis, indica proprio l’assenza di soluzione.
Nella mia esperienza mi sono accorta che chi si accosta all’analisi, chi fa domanda per un itinerario analitico, forse non l’ha capito, forse non ne è consapevole, ma in qualche modo si è avvicinato a questa acquisizione che non c’è più soluzione, non solo perché procede dalla considerazione che non ha alternativa e quindi il disagio in qualche modo lo aiuta. Per avviare l’itinerario di valorizzazione, chiamato itinerario analitico, che è costituito da conversazioni in cui non si tratta di scavare, né di fare gli archeologi, come diceva prima Ruggero Chinaglia, quello che è davvero indispensabile è questa constatazione che “non c’è più soluzione”, che non c’è rimedio.
La questione si pone per le varie tossicodipendenze o tossicomanie, è una questione affrontata in molti testi se, per chi fa utilizzo di sostanze, l’analisi, l’itinerario analitico possa costituire una chance. La questione non è ideologica, è che davvero occorre accostarsi in qualche modo a questa constatazione che “non c’è più soluzione”. Che cosa vuol dire che non c’è più soluzione? Perché chi fa domanda di analisi si aspetta l’istanza di qualità. Perché l’istanza di qualità non è la via della soluzione, non è trovare una soluzione o un rimedio? Perché l’idea di soluzione è l’idea di far cessare qualcosa.
Allora, che nell’itinerario analitico ciascuno si imbatta nel ragionamento, in occasioni per dissipare pregiudizi, fantasie, rappresentazioni, credenze, che questo abbia come effetto la qualità, che ci siano degli effetti di qualificazione, è un discorso, ma tutto questo non può essere inserito in un’idea finalistica; cioè l’idea non può essere quella di far cessare nemmeno il peggiore dei disagi, perché in realtà questa idea di far finire conferma e alimenta e fa accrescere l’idea di fine delle cose e quindi alimenta la paura, l’angoscia e la rappresentazione sintomatica e non introduce nessuna chance.
Quindi l’idea di benessere come idea di soluzione è il vero impedimento all’analisi, all’itinerario, perché nella mia esperienza una cosa è chiarissima, ma non solo lo è stato nel mio itinerario, io lo constato anche nella mia pratica di ciascun giorno, che dove c’è analisi, dov’è acquisito questo preambolo che non c’è soluzione, quindi c’è l’itinerario analitico, la riuscita c’è e è bellissima per ciascuno. C’è davvero una chance di riuscita e non c’è assolutamente questione, problematica, disagio che non trovi una via nell’elaborazione. Questa è davvero una constatazione assoluta.
Allora l’analisi, per esempio, è la garanzia della lucidità. Nell’idea comune la lucidità è scambiata per il sapere illuminante che ci consentirebbe di difenderci, di non cadere nelle difficoltà, di vincere sul nemico, vincere sull’Altro, di non farsi fregare, “se so, sono lucido”. Allora moltissimi professionisti, avvocati, lo rilevo dalla mia pratica, commercialisti, architetti, medici sono invischiati in questa credenza che occorra il sapere per essere lucidi e poter riuscire nel loro mestiere, nella loro professione. Questo è davvero il modo di invischiarsi, perché in questa fantasia, l’idea qual è? Che se io so, ho la competenza, riesco a difendermi, a salvarmi, a fare bella figura con il cliente, con il magistrato, con altri interlocutori, con il committente, il paziente. In realtà, questa rincorsa al tecnicismo e alla specializzazione porta alla chiusura e al tunnel.
L’itinerario, che ha l’analisi come preambolo e come condizione, comporta un allenamento intellettuale in cui conta molto di più il capire, l’intendere e non il sapere. Il sapere non instaura l’autorità, il carisma, la lucidità. Il sapere non alimenta la tranquillità, assolutamente. È semmai l’intellettualità, e per intellettualità intendo l’intelligenza, quindi non l’intellettualismo; è l’intelligenza che consente la tranquillità, la lucidità e l’intendimento. Oggi in questa epoca in cui le norme, le regole, la tecnica cambiano velocissimamente, nessuno può pensare di vincere attaccandosi, arroccandosi alla tecnica e alle ultime produzioni, questa ideologia è perdente. Quanti professionisti credono di risolvere la paura con il sapere e così si trovano, angoscia su angoscia su angoscia, a andare diretti alla deriva del panico e del terrore? L’idea del rimedio, l’idea di soluzione alimenta la rappresentazione sintomatica, non è di nessun contributo.
Per esempio, lo saprete dai giornali, è stata tradotta in italiano l’ultima opera di Shakespeare. C’è un’opera di Shakespeare che oggi, nel 2010, è stata inserita in Inghilterra nel corpus delle opere Shakespeariane; pare che tutti gli accademici del mondo hanno acconsentito a ritenerla un’opera di Shakespeare. Forse scritta a quattro mani con John Fletcher. Allora, se voi leggete quest’opera teatrale che si intitola Doppia menzogna, vi accorgete che non c’è la retorica di Shakespeare, cioè non ci sono le figure retoriche, non c’è l’ironia, non c’è l’umorismo; non serve essere degli anglisti per accorgersi che non c’è la portata, il contributo della genialità di William Shakespeare, non serve essere laureati in lingue e letterature straniere. Questo è un esempio.
L’itinerario analitico è davvero un allenamento per divenire lettori, e lettori dell’esperienza, della propria esperienza; è un itinerario indispensabile per capitalizzare l’esperienza. Senza l’analisi noi abbiamo la somma delle esperienze belle e brutte, ma le esperienze belle o brutte sono ricordi che pesano. Anche i ricordi belli pesano. Noi pensiamo che siano i ricordi brutti a pesare esclusivamente, invece ciò che pesa è il ricordo negativo, ma anche quello positivo, perché ciò che è indispensabile è la lettura perché non ci sia più il ricordo, ma ci sia la capitalizzazione dell’esperienza, la valorizzazione dell’esperienza; e perché dall’esperienza ciascuno tragga le acquisizioni indispensabili per vivere, per la sua vita, per sé, per il suo itinerario, per il suo specifico. In questo senso l’analisi instaura la leggerezza dell’avvenire.
L’avvenire non è il domani. L’avvenire noi lo instauriamo in ciascun gesto nell’attuale, e quello che importa è che il gesto pesante preclude l’avvenire. Che cos’è il gesto pesante? È tutto ciò che noi facciamo inseguendo un’idea di rivalsa, di rivendicazione, di vendetta, di dimostrazione, di fuga, di riscatto, perché tutto questo mira a ristabilire lo stato delle cose e quindi preclude l’avvenire, l’inimmaginabile, l’imprevedibile, l’improbabile. Questa idea di rivalersi, di dimostrare, è esecuzione. Noi tendiamo a inseguire un conformismo con noi stessi e moriamo di questo conformismo, ci affatichiamo di questo conformismo. La fatica è il conformismo con se stessi.
Faccio l’esempio di un uomo che qualche giorno fa è venuto per una prima conversazione. Un uomo di poco più di quarant’anni che ha esordito dicendo questo: “Io mi sento come se fossi legato alla pala di un mulino a acqua e questa pala fa il giro della ruota. Va su e torna giù e quando torna giù io ho la testa nell’acqua; poi sale, poi si ferma, poi torna giù e spesso si ferma quando ho la testa giù. Il bello è che non sono io a manovrare questa ruota, non sono io a decidere l’andamento di questa ruota”. E poi ha raccontato la sua vicenda di alcolismo, una questione che era tra le righe non enunciata. Quindi la rovina, tutto va male, io vado male, il lavoro va malissimo, la famiglia a rotoli, ma è il mondo che va a rotoli. Una visione del mondo negativa, negativa proprio, rovinosa e lui dice: “Non so se l’analisi mi possa aiutare. Lei cosa dice?”.
E gli ho detto: “Guardi, per l’itinerario analitico occorre la disperazione estrema. Lei non è nella disperazione estrema, perché lei ha ancora una copertura che è la pala, lei è attaccato alla pala. Quando lei non avrà neanche più la pala a cui rimanere attaccato, neanche più questa copertura euforica, allora ci saranno le condizioni per l’analisi”, perché il pessimismo è sempre una copertura, non è la disperazione estrema, è sempre un modo per eludere l’essenziale. Quindi è come dire il dissenso, ma il dissenso, l’anticonformismo, alimenta il conformismo, il sistema. Non è la dissidenza. Quello che importa nell’itinerario analitico è la dissidenza che fa di ciascuno un caso di qualità. Procedere, tenendo conto della dissidenza per ciascuno, comporta imbattersi nel caso di qualità; è questo il processo di valorizzazione dell’itinerario che ha come preambolo l’analisi.
Perché ci sia questo processo di valorizzazione occorre, è questa è una delle prerogative dell’analisi, che ci sia la simultaneità tra la ricerca e il fare. Nell’idea comune c’è la ricerca, dopo la ricerca c’è il fare, quindi uno prima deve finire la ricerca e poi fare. Invece nell’analisi, lungo l’itinerario, ci accorgiamo che la ricerca e il fare sono simultanei perché la tattica e la strategia sono simultanei: la tattica è la ricerca, la strategia è il fare, che è indispensabile per l’impresa e la finanza. La crisi finanziaria, di cui leggiamo da tre anni, è stata causata da questo, perché a livello bancario è stata inseguita la strategia senza tattica, senza l’economia, che è la ricerca.
È una tentazione enorme per ognuno o attaccarsi alla ricerca e posticipare il fare, pensando a un fare ideale, oppure rimanere arroccato a un fare, a un affaccendamento quotidiano che abolisce la ricerca, che comporta la consumazione, e è mortifero. L’itinerario analitico, l’analisi, è la condizione di questa simultaneità della tattica e della strategia, della ricerca e del fare. Cosa vuol dire non abolire la ricerca? Non avere pregiudizi sulla difficoltà, sulla prova di realtà, sul disagio. C’è chi alla prima difficoltà si abbatte, la negativizza, pensa che non ci doveva essere in nome di un ideale, in nome di una vita e di un fare ideale; invece la difficoltà, la prova di realtà è la ricerca, è un elemento della ricerca. Noi non possiamo fare, inventare senza la ricerca, perché senza la ricerca il fare è dell’esecutore, è un fare esecutore, e quindi non inventiamo niente senza novità.
Un’ultima cosa poi concludo. L’analisi comporta la diseducazione all’algebra e alla geometria; l’algebra è quella modalità per cui noi pensiamo per fare di dover avere, di più, di meno, prima, dopo; la geometria invece è quell’idea per cui dobbiamo fare per essere, essere inclusi, essere esclusi, per fare. L’analisi comporta la sospensione dell’algebra e della geometria, del risparmio intellettuale, del soggettivismo, della lamentela che sono tentazioni sostanziali. L’ordinario e l’ordinale sono le tentazioni sostanziali che precludono la novità. L’analisi è la chance di dissipare questa modalità, questi rimedi alla vita e inaugura il viaggio. Ho letto di recente Memorie dal sottosuolo di Dostoevskij e c’è un brano che è veramente un manifesto rispetto al risparmio intellettuale, cioè come il risparmio intellettuale comporta la sopravvivenza. Memorie dal sottosuolo, voi sapete, è praticamente un delirio di un impiegato che dice di parlare dal sottosuolo, cioè dalla sopravvivenza. Ve lo leggo.
Dal formicaio le rispettabili formiche hanno cominciato e con il formicaio certamente finiranno, il che torna a grande onore della loro perseveranza e della loro posatezza. Ma l’uomo è creatura avventata ed assurda e, forse a lui come al giocatore di scacchi interessa soltanto il processo di raggiungimento dello scopo, non già lo scopo stesso. E, chissà (nessuno può giurare il contrario), forse lo scopo cui tende l’umanità consiste unicamente nel mantenere ininterrotto questo processo di raggiungimento, in altre parole è la vita medesima, e non propriamente la meta da raggiungere, la quale si capisce non può essere altro che il due più due quattro, ossia una formula, ma questo due più due quattro, signori, non è più la vita, bensì il principio della morte. Almeno l’uomo ha sempre avuto in qualche modo paura di questo due più due quattro, e per me ne ho tuttora paura. Poniamo anche che l’uomo non faccia altro che cercare questo due più due quattro e solchi gli oceani, sacrifichi la vita in questa ricerca, ma trovarlo poi di fatto, quant’è vero Dio, ne ha paura e invero sente che quando lo avesse trovato non gli rimarrebbe più nulla da cercare.
E poco oltre un’altra frase dice: Ma malgrado tutto il due più due quattro è sempre una cosa assolutamente insopportabile e come mai siete tanto fermamente e solennemente convinti che soltanto il normale e il positivo, insomma soltanto il benessere sia vantaggioso per l’uomo? Questa è la questione. Siamo davvero sicuri che il benessere sia vantaggioso per l’uomo? Quindi dicevo, e concludo, è proprio l’idea del benessere che preclude, che fa da sbarramento all’analisi, fa da sbarramento all’itinerario di qualificazione per ciascuno di noi. Perché, invece, l’istanza di qualificazione è l’istanza di salute e è un’altra cosa dal benessere.
R.C. Antonella Silvestrini ha dato un contributo veramente molto importante per cominciare a entrare nella questione; in particolare, l’accento posto sulla soluzione mi sembra un passo essenziale per cominciare a capire, perché sembra una cosa in controtendenza, sembra una cosa assurda. Ognuno dice: “Hai un problema, risolvilo! Ci vuole la soluzione, bisogna risolvere i problemi; solo risolvendo il problema, il problema non c’è più”. Marcando questa idea di risolvere, notava Silvestrini, si marca l’idea che qualcosa debba finire. Questo è il problema. L’idea che qualcosa possa finire, debba finire, è il problema. Lo raddoppiamo con l’idea di soluzione e allora facciamo la conferma del problema. Sarebbe a dire come trattare un incendio con la benzina, in realtà lo alimentiamo, perché ciò che marcava nel suo intervento Antonella Silvestrini è la questione del tempo, che è uno degli aspetti essenziali rispetto alla questione della vita, del come vivere, del come fare. Come fare se in ogni momento noi pensiamo, coscienti o no, che siamo sotto la spada di Damocle della fine del tempo?
E, infatti, ognuno cerca di amministrare questa paura con il rimando, con l’anticipazione, con la sospensione: “Lo faccio se voglio, lo faccio se mi va, lo faccio proprio proprio all’ultimo momento se non si può più rimandare”. Tutti modi con cui si cerca di venire a patti con il tempo, di amministrarlo, di controllarlo, trovando un rimedio, una soluzione in questo incalzare del tempo, perché in realtà il tempo incalza, non è che si ferma.
E questo riferimento alla disperazione è pure importante. Cioè, occorre dire, disperazione non è che bisogna essere ridotti a mal partito, è la disperazione per cui viene sospeso il possibilismo: “Lo faccio, non lo faccio, mi giova, non mi giova, provo, non provo”. C’è a un certo punto la decisione di vivere, che non può aspettare, non può essere messa ai voti. A un certo punto questa decisione di vivere o irrompe, e quindi trova la direzione, la bussola, il criterio; oppure effettivamente assistiamo all’invischiamento, al trascinamento, all’animalizzazione della vita, cioè l’attesa che finisca, sperando a seconda delle impostazioni che arrivi presto per evitarla prima o poi. Sempre quindi in questo barcamenarsi tra un prima e un poi, tra un controllo, un’amministrazione di ciò che, invece, accade ora e non può aspettare. Bene, questi sono alcuni degli elementi che poi possono anche essere presi e rilanciati. Adesso invito al suo intervento Sergio Dalla Val.
Sergio Dalla Val Prima Antonella Silvestrini parlava della dissidenza, e proprio martedì una radio di Bologna, Ciao Radio, mi intervistava a proposito di alcune situazioni in cui veniva marcata qualcosa della dissidenza. Sottolineavo come questo dissidente cinese, che ha preso il premio Nobel per la Pace, è totalmente dimenticato, trascurato dai media, come del resto faceva notare Bukowskij in un recente nostro congresso. Pensiamo quando ha vinto il premio Nobel per la Pace Obama. Ne parlavano tutti i giornali, tutti i giorni, della famiglia, della sua casa! Innanzi a una dissidenza, innanzi a chi non appartiene a nessun partito, ma è in galera da vari anni perché ha firmato un documento in cui chiedeva il ripristino dei diritti civili in Cina, lì è sceso il silenzio. È sceso, dopo nemmeno un mese, il più totale silenzio, appunto perché si tratta di parlare non della dissidenza cinese, ma dell’industria cinese e dell’economia più importante del mondo.
Pensiamo a un altro aspetto. In questi giorni abbiamo avuto la notizia dai nostri amici cubani che la madre di quel dissidente cubano, che è morto dopo ottantasette giorni di sciopero della fame all’inizio di quest’anno, è stata arrestata, e con essa altri quaranta amici di questo dissidente; ebbene, i giornali non hanno dato di questa cosa nessuna eco, tanto meno la televisione che si occupa di ben altri problemi. Questa dissidenza fa orrore, deve essere messa sotto silenzio e, proprio per questo, nella “Libreria del Secondo Rinascimento” di Bologna – questo è stato un annuncio dato dalla radio l’altro giorno – apriremo uno scaffale dedicato appositamente alla dissidenza internazionale. Allora il giornalista mi ha chiesto: “Ma perché uno psicanalista si occupa di queste cose?”
E io ho sottolineato che quello che accade in vari paesi del pianeta non è una lotta tra destra, sinistra. Anche in Italia per certi versi, non è più uno scontro tra ideologie, ma la questione è se il pianeta è deciso dalla parola, trova il suo destino nella parola, oppure se trova la sua distruzione nell’omertà, in assenza di parola, in un’assenza di parola che però non è il silenzio, perché il silenzio è una cosa straordinaria. No! È il rumore perpetuo, è il chiasso assordante, è il dilagare di frasi vuote e di invidia, è la polemica, è l’opposizione, è questo rumore assordante che esclude sia la dissidenza, sia la parola. Allora, questa istanza di dissidenza non può che essere un’istanza della psicanalisi, in particolare dell’analisi, e la dissidenza è proprio qualcosa che ha a che vedere con l’inconscio, la dissidenza giustamente, non come opposizione, ma la dissidenza come l’instaurazione della parola.
E è qui che è sorta l’analisi, quando una signora interrogata, secondo la corretta interrogazione socratica di Freud: “Non è forse vero che lei ha questo piuttosto che questo?” Ha detto: “Lasci stare le sue domande e ascolti quello che ho da dire”. Un’istanza di parola e un’istanza di ascolto. L’analisi incomincia qui, quando la parola diventa impronunciabile, quando “non se ne può più”, cioè quando non ci si limita più al potere parlare, al volere parlare, al sapere parlare, e dunque non ci si limita alle tecniche della negazione della parola: “Non ne posso più di tacere, di non fare, di subire, di negare, di non parlare”. Dissidenza è virtù dell’inconscio. L’inconscio è dissidente e in questa dissidenza il senso è l’opposto di consenso, dove c’è il senso di mezzo. Invece nella dissidenza c’è la sede, c’è qualcosa. Dissidenza vuol dire non cedere.
Allora, proprio l’altro giorno, una persona che ha iniziato l’analisi mi diceva: “Non so più da che parte stare, non riesco più a stare seduta”. Eh, può capitare, perché a un certo punto la casa, la scuola, l’ufficio sembrano avere le spine, sembrano dare la scossa, si va avanti e indietro, non si riesce a stare, non si può più stare. Ecco la dissidenza, l’assenza del principio d’inerzia, lo stato di quiete o di moto. Ma è sempre uno stato, anche il moto certe volte diventa uno stato dell’inerzia. Ecco allora la domanda di analisi.
Per esempio: “Non so più da che parte stare”. L’analisi dunque comincia con la domanda, ma la questione è: c’è domanda di analisi? Poi, che cos’è? Una domanda di aiuto, una domanda di salvezza? La questione è che l’analisi comincia con la domanda, ma non è propriamente domanda di analisi; l’analisi comincia con la domanda, che è domanda di qualità, che non è una domanda transitiva, che non è una richiesta, per esempio, di salvezza. La domanda è assoluta, per cui non è più la domanda che vuole la risposta, sì o no.
Una cosa che notavo all’inizio della mia pratica è che qualcuno veniva a fare magari un colloquio e mi domandava: “Ma lei che tipo di analisi fa? Io sono stato già da uno psichiatra…, lei che tipo di analisi fa, cosa intende lei per analisi?” E io zelante gli rispondevo: “Beh, per analisi intendo questo, fatto così, in questo modo, mica i farmaci”, e inevitabilmente la persona rispondeva: “Ah, ma non è quello che cercavo”. E giustamente, perché il problema era che lui effettivamente poneva così l’istanza dell’analisi, che è l’istanza di sospendere la facile risposta alla domanda.
L’analisi si instaura quando la domanda non trova più la risposta, quando non c’è più quella interrogazione fatta apposta per fondare la risposta, quando la risposta non fa più cerchio e non chiude più la domanda. Ecco allora che la domanda è essenziale, proprio perché mette in gioco questo venir meno di quella che è la logica occidentale tipica, cioè quella dell’interrogazione che fonda la risposta. Ce l’ha insegnata Socrate, ce lo insegnano i test: l’allievo è bravo se risponde correttamente alla domanda, ma soprattutto il maestro è bravo se ha fatto la domanda corretta, cioè se ha fondato la risposta corretta. Questo gioco è il gioco in cui non c’è la parola, non c’è l’apertura, non c’è più la domanda.
Ecco, la domanda di analisi è la domanda che procede dalla questione aperta, che non mira a trovare la chiusura; in questo senso c’è domanda, che non è una domanda di analisi nel senso di domanda di un qualcosa di specifico, ma è domanda che va in direzione della qualità procedendo dall’apertura. E in effetti, appunto, altre formulazioni che capitano: “Non sono a posto, non ho più nessuno con cui parlare, non sono più in grado di reagire”. Tutte queste non sono sciagure, non sono mali, anche se vengono avvertite ovviamente come mali, come fastidio da una persona, ma sono prime constatazioni.
È straordinario, quando incomincia un’analisi, constatare che le cose che vengono dette sono cose veramente straordinarie. Sono cose che inventano nuove logiche, nuove matematiche, nuovi modi di pensare; sottolineano come non si avvalgano del principio di non contraddizione su cui si fonda il discorso occidentale; come la paura non sia più governabile, come invece insegna a fare l’educazione frutto del discorso occidentale; insegnano come nessuno più si accontenti di fare le cose che deve fare, cosa che invece è richiesta da ogni buon sistema. Tutte queste istanze che emergono, il “non aver più” e il “non essere più”, quello che dovrebbe bastare e quello che si dovrebbe essere, questo è l’avvio dell’itinerario. Non è un qualche cosa a cui porre rimedio.
E notate che in questo avvio dell’itinerario interviene non a caso, per esempio, un “non ho” o un “non sono più”. Questo è interessante, perché vengono meno l’idea dell’avere o dell’essere, che sono le idee su cui si fonda il discorso occidentale, non solo l’idea dell’avere come credeva Fromm, secondo cui bisogna smettere di avere per essere, no! L’idea dell’essere è l’idea ontologica, la trappola per eccellenza del discorso occidentale. L’essere è del tempo, e questo l’avevano capito anche i filosofi, ma l’essere è ciò che costituisce e trascina in una mancanza irrimediabile nel migliore dei casi. Questo venire meno dell’essere e dell’avere è il venir meno del principio di padronanza.
È ben qui che si gioca la partita. Il discorso occidentale è un discorso opprimente per coloro che vi si trovano. E ci si trova dai tempi di Platone e di Aristotele, che hanno fondato appunto il principio e la logica occidentale, proprio perché è un discorso sulla padronanza, che non è solo la questione di dover criticare il padrone. È che il discorso sulla padronanza è il discorso sulla facoltà, non è che il padrone sia qualcuno che sia padrone su qualcun altro. Ciascuno si trova padrone nel momento in cui ritiene di poter esercitare una padronanza su di sé, su quello che dice, sulla propria vita, e quindi ritiene di dover estrinsecare costantemente le sue facoltà, essere nel pieno possesso delle sue facoltà. Cosa fa dunque? Cerca e ricerca la via facile. Facoltà, facilità.
Ora a un certo punto della vita, nel migliore dei casi, ci si accorge che le cose non sono facili, che parlare non è facile, che amare non è facile, che vivere non è facile, che lavorare non è facile, che persino divertirsi non è più facile a un certo punto, e allora ecco che qualcosa incomincia: l’istanza di un’altra logica, di un’altra parola. In questo senso Chinaglia e Silvestrini hanno già sottolineato la questione dell’assenza di soluzione, perché in effetti la vita ordinaria è proprio il trovare innanzi alle questioni mille rimedi e mille soluzioni, e giustamente, si diceva, non si tratta di tagliare corto, di sistemare le cose, di finire con le cose.
Certamente può esserci chi enuncia nella domanda che occorre smettere con l’alcolismo, occorre smettere con un altro tipo di dipendenza. Allora uno dice: “Ma qui è il contrario di quanto dicevamo, no? Perché, se le cose non devono finire, allora uno deve continuare a vivere la vita sottoposta alla dipendenza”. La dipendenza non è solo dalla cosiddetta droga, è anche la dipendenza dal farmaco, anche la dipendenza dalle abitudini, anche la dipendenza dallo sport, da tutte una serie di cose che si qualificano come dipendenza nella misura in cui non consentono che la parola, il pensiero, la scrittura siano liberi.
Attenzione! Liberi non vuol dire che si può fare quello che si vuole, perché quella è la vera dipendenza. Liberi vuol dire che non hanno più bisogno di un soggetto che piloti il fare, la libertà, la parola. Ecco, la questione dell’inconscio è questa: è che, come diceva Freud, “L’Io non è più padrone in casa propria”. È chiaro che ci può essere chi cerca di evitare questa realtà, la realtà dell’inconscio e quest’altra logica di cui parlava Freud, ma appunto ciascuno, una o più volte nella vita, si imbatte nella impossibilità di evitare questa logica e occorre che colga questa chance. Allora, la questione non è che si debba finire con la via della droga, con la via del farmaco, con la via facile, la questione è che occorre trovare la via della riuscita, la via della vita, la via della scrittura, la via delle cose che restano.
Da dove partire, come giungere? Eh…appunto. Il racconto è la chance degli umani. Nel racconto quello che può sembrare qualcosa di insostenibile, di insopportabile, diviene la via stessa dell’articolazione. Il racconto comporta un ingegno, comporta una ricerca, comporta una scrittura, comporta già un fare e ciascuno enuncia un problema nell’analisi, non per sbarazzarsene definitivamente. Occorre non cadere in questa trappola, ma lungo la via della narrazione constatare che si tratta di non ancorarsi a questo problema. In tal senso prima qualcuno diceva: “La questione non è quella del ricordo”, perché il ricordo, anche se bello, è un peso e spesso sono proprio i ricordi che riteniamo belli che ci fregano, come diceva Silvestrini prima, perché sono quelli che ci darebbero la misura del piacere: “Come era bello! Come stavo bene allora!”.
Ma no! Allora eri nella miseria, molto più di adesso che finalmente ti stai ponendo una serie di questioni, che stai uscendo dall’ordinario, che non ti accontenti più, che non ti bastano più le cose. Altro che “come era bello”! La bellezza non puoi mai dire di averla incontrata, la incontri quando non te ne accorgi, quando non sai, forse un giorno, scrivendo, te ne accorgerai nella memoria che qualcosa risulta bellissimo, raccontando. Lì per lì era bruttissimo! Nel racconto il ricordo si dissipa nella memoria e ciascuno, procedendo dalla traccia, trova gli elementi, per cui quello che sembrava negativo, problematico ha dato un apporto essenziale al suo itinerario.
Occorre partire proprio da quello, non per contemplarlo, non per cancellarlo, ma per capire quali erano gli elementi che ci erano sfuggiti che hanno portato a uno scarto, a un’altra via, a un’altra esigenza di vita, ci hanno portato al di fuori dell’ordinario. E l’analisi è questa: è una via verso lo straordinario. Allora, straordinario occorre che divenga ciascun giorno; ciascun giorno è straordinario, l’altra vita è questa vita e ciascun giorno è il giorno decisivo. Questo ci insegna l’analisi, questo è assolutamente importante. E vengo alle conclusioni, rispetto all’impresa, per esempio.
Si diceva prima qual è l’apporto che l’analisi può dare all’impresa e si accennava alla crisi. La crisi ha avuto come protagonisti estremi, io credo, gli economisti. Se c’è una cosa che è andata in crisi, ma veramente in modo assolutamente devastante, è stata l’ideologia degli economisti che prosegue da anni e anni il proprio ritornello, vive di ricordi ancora dell’economia dell’ottocento di Smith, di Ricardo, di Marx. E si è trovata totalmente impreparata a affrontare la trasformazione straordinaria che sta avvenendo nel pianeta. Che cosa è veramente di ostacolo all’impresa? Chi ostacola l’impresa sono appunto i ricordi dell’imprenditore, sono i fantasmi, sono i luoghi comuni.
Io incontro degli imprenditori che vanno alla ricerca di ogni piccola frase, di ogni piccola soluzione, di ogni piccolo progettino e credono sia la scoperta dell’America. Dicono: “Ah, adesso io mi metto in questo settore perché è un settore trainante; ah, ma io ho sentito che in quel paese stanno facendo questo” e allora tutti incominciano a fare questo. Oppure, sono andato due anni fa a Ferrara dopo tanti anni, Ferrara era straordinaria, era tutta piena di meli, di pescheti che facevano dei bellissimi fiori. Non ce n’era più uno, e dico: “Avete eliminato tutti i pescheti? Cosa avete messo?”. “Cetriolini. Eh sì, perché adesso la Comunità Europea finanzia cetriolini, non vogliono più le pesche e le mele, adesso le mele le fanno tutte nel Trentino”.
D’accordo, voi vi siete fatti portare via tutto il mercato delle mele, Ferrara era la prima in Italia per le mele. Ma perché? Perché l’Europa un anno chiede i cetriolini, l’anno dopo chiede questo o quest’altro. Oppure quando c’è stato il boom dei kiwi, e mi dicevano i bancari che tutti gli imprenditori romagnoli chiedevano dei gran finanziamenti per mettere su i kiwi. E dopo due anni qualcuno diceva che i kiwi non andavano più bene, e via si partiva con un altro prodotto. Allora, non si può procedere senza una direzione, ma attenzione, la direzione è una direzione circolare se non vengono sospesi i pregiudizi, se non vengono sospesi i ricordi, se ciascuno non parte dalla memoria, dal mito della famiglia, non parte dalla memoria in questo caso della terra, del lavoro e invece va dietro alla prima chimera, al primo animale di fantasia che gli viene posto come salvatore, come appunto ciò che darà la soluzione al problema economico.
Ecco che il discorso dei rimedi che avete fatto è proprio lampante, per cui c’è il rimedio di tagliare le spese, di eliminare gli investimenti, di non ricorrere più al credito e, insomma, ci si muove secondo ciò che è probabile, secondo ciò che abbiamo già visto fare, quindi ben che vada, arriviamo eterni secondi, cioè sempre fuori mercato. È evidente che questo è assolutamente impossibile, prima di tutto per l’imprenditore, perché l’impresa per definizione – ma questo l’ho studiato quando ho fatto giurisprudenza – poggia sul rischio, tanto che il profitto dell’imprenditore è “giustificato” proprio dal fatto che si trova a combinare assieme il dover restituire i soldi al capitalista, il dover dare gli stipendi ai dipendenti e lui non ha né l’uno, né l’altro. Lui deve scommettere sul mercato, deve rischiare sulla produzione e dunque il suo “profitto” è giustificato dal rischio. Non il probabile, il possibile, ma il rischio. E l’analisi, in questo suo “non c’è più”, non c’è più la sostanza, non c’è più il rimedio, non c’è più il farmaco risolutore, è proprio ciò che consente che il rischio non sia più temuto, ma possa essere svolto, sfruttato e quindi risulti qualche cosa sulla via della riuscita, non più limitandosi a campare, che è la formula del benessere che in realtà ci viene proposta. Grazie.
R.C. Prima di passare alle domande, che sicuramente alcuni di voi vorranno rivolgere ai relatori di questa sera, volevo aggiungere sia un paio di annotazioni a ciò che diceva Dalla Val, sia anche alcuni elementi che riguardano la testimonianza della mia esperienza. Quello che notava Dalla Val sulla domanda mi sembra molto importante perché, anche per questa via, viene posto un accento sulla questione del tempo. La domanda che non trova chiusura nella risposta è la domanda che pone la questione del tempo. Una domanda che cosa pone? Una domanda che non venga immediatamente convertita nella richiesta di qualcosa, pone l’esigenza del tempo e è solamente convertendola nella richiesta, e quindi dando ciò che apparentemente sembra chiedere, fornendo subito come modo dell’aiuto questo qualcosa, che diviene così sostanza.
Allora viene tolto il tempo, viene tolto il tempo dell’elaborazione, il tempo della frustrazione, il tempo del racconto, il tempo della trovata, il tempo dell’invenzione, perché è questo che consente l’analisi: trovare il modo opportuno per quel caso, per quella domanda. Quindi non può essere ricondotta per analogia a qualcosa di simile, e occorre lasciare il tempo a ciascuno di accorgersi che, contrariamente a ciò che crede, non sa cosa vuole. Non sa cosa gli ci vuole, non sa di cosa ha bisogno, anche se comunemente questa è la formula più usata o più in vigore: “Io so, so già, so cosa mi ci vuole, so quello che voglio, mi conosco”. Questo è proprio l’impedimento: l’idea di conoscersi, di sapere già. Togliere l’esperienza del tempo. Come avviene l’esperienza del tempo? Con il racconto.
Lo diceva proprio con precisione Dalla Val, lasciando che il racconto si svolga c’è l’esperienza del tempo, a condizione che il racconto non debba confermare l’assunto da cui parte, quando cioè non deve essere un racconto di dimostrazione, un racconto di giustificazione, un racconto che deve evitare la contraddizione. Questo però è impossibile perché, raccontando, l’esperienza è proprio quella della contraddizione. È in questo varco della contraddizione che accade, raccontando, che s’instaura la sintassi. E quindi anche la questione del senso, del controsenso, la sintassi e il suo compimento nella legge, che non è più uguale per tutti, ma la legge a compimento della sintassi, che si svolge e procede dal funzionamento delle cose. E questo non è comune, è impossibile che si possa chiudere nel discorso comune.
La domanda sgorga proprio da questo, da qualcosa di incontenibile che non può venire contenuta in una risposta comune, in un discorso comune, in una formula comune, nell’idea di poter condividere qualcosa con altri, di poter parlare in un gergo comune e condivisibile. Tutto ciò oggi è trascurato, perché questa esigenza del tempo, che non trova il modo senza l’analisi, viene giustificata e convertita nella malattia, nella psicopatologia. L’esigenza del tempo, che talvolta si produce con l’angoscia, con il panico, viene convertita in una formula comune, in una diagnosi che oggi si spreca, come attacco di panico. Attacco di panico codificato, quindi come una formula di malattia per cui bisogna curarla, sedare l’angoscia. Bisogna sedare questo panico, contenerlo. Ma se viene proprio dal contenimento!
Si può considerare cura il raddoppiamento del contenimento o non si tratta di far sì che si elabori questa idea di tempo che viene meno, di tempo che deve essere contenuto, cioè dove il racconto è tolto? Così come la questione comune, dilagante, delle aritmie. Consideriamo le aritmie: la tachicardia, la fibrillazione atriale. Sono sempre più frequenti i casi, e sempre più frequenti i rimedi, che si rivolgono ad abolire questa sintomatologia per via chirurgica o farmacologica. Ma una volta tolto questo sintomo, l’esigenza da cui procede, cioè l’esigenza di tempo che non può essere recuperato, non può essere contenuto, che non ha ritorno, una volta che noi togliamo il sintomo che indica che c’è in atto questo tentativo di recupero del tempo, che non può riuscire, ci sarà un altro sintomo.
Ma intanto l’apparato medico legale attua degli interventi di abolizione: “Aboliamo questo sintomo, non teniamo conto del perché, del come si produce, in relazione a cosa. Lo aboliamo, perché vedrà che starà meglio, la sua vita cambierà radicalmente, non avrà più l’angoscia di questo tempo che può finire, no, starà benissimo!” Certo, anche con la lobotomia si starà benissimo, dicevano una volta. C’è una irrequietezza, c’è una inquietudine, c’è un andare e venire, un girare in tondo? Ma rendiamolo tranquillo. Lobotomia! Oggi la lobotomia non ha più il credito di una volta, allora facciamo un’azione chirurgica della via elettrica del cuore, togliamo quegli stimoli anomali che danno fastidio, che disturbano, togliamo l’anomalia!
Ma se, per esempio, togliamo l’anomalia alla produzione artistica cosa resta? Perché non considerare un’aritmia l’indice di una anomalia che non deve essere tolta, che deve trovare la sua via, la sua articolazione, il modo di quella produzione che in quel momento è barrato, per via di un pregiudizio, per via di un’idea sul tempo, sul tempo che manca, sul tempo che non c’è, sul tempo che può finire? Provate a verificare la statistica, la casistica delle aritmie e la sua crescita negli ultimi dieci, quindici anni e qual è l’incremento dell’uso dei betabloccanti, che una volta si riservavano ai post infartuati e che oggi non si lesinano a nessuno. Come per gli psicofarmaci, uguale.
Ma anche cose molto più comuni. Vi cito il caso recente di uno studente che non riusciva a concludere gli studi, quindi era arrivato all’ultimo esame e non riusciva a superarlo. Una, due, tre volte, la laurea imminente, la tesi già pronta, ma l’ultimo esame insuperabile, invalicabile. E costui si intestardiva a studiare sempre meglio la materia di questo esame, e però non lo superava. Come mai? Allora chiedendogli: “Ma qual è il programma per l’avvenire, cosa farai dopo la laurea?”, “Boh!, non è chiaro, non lo so, vedremo. Intanto mi laureo, intanto devo superare l’ultimo esame” e così prendeva tempo, non avendo modo di affrontare, non volendo, non sapendo, non affrontando la questione programmatica di ciò che sarebbe seguito a questa laurea, prendeva tempo, cioè rimandava, procrastinava. Toglieva tempo, in realtà, alle cose da fare e, indagando sulla sua vita, sulla sua storia, emerge che alle scuole medie e anche alle scuole superiori aveva dovuto ripetere l’ultimo anno. Sempre evidentemente legato a una fantasia di qualcosa che finiva lì, che non aveva seguito, non aveva proseguimento.
Nei casi precedenti lo studente non aveva nemmeno trovato indicazioni, quindi si era trovato a ripetere. In questo caso l’indicazione era di fare altro, di non chiudersi in questo vicolo cieco dell’esame, ma di rivolgersi già a una ricerca intorno al da farsi, a ciò che poteva seguire. E in effetti, cercando, trova l’eventualità di un lavoro se si fosse laureato. In quindici giorni, esame, tesi e comincia il lavoro. Era diventato improvvisamente genio. Prima non lo era? No, c’era una barratura dovuta a una fantasmatica di fine del tempo. Presumendo di sapere prima cosa fare e non sapendolo, questo rappresentava la mannaia, la ghigliottina rispetto alle cose da fare. Quindi tutto ciò è molto semplice, sono cose anche banali, quisquilie, ma proprio considerando le quisquilie, quindi i dettagli, ciò che sta nei ritagli, si può capire, intendere l’esigenza effettiva, che non è conoscibile, che non è a carico della coscienza. È qualche cosa che solo indagando, e quindi con l’analisi di ciascun elemento, può emergere e trovare la sua via.
Ecco, solo questo per dare un’ulteriore eco e materiale alle cose sin qui esposte. Quindi se ci sono domande, elementi, proposte di precisazione, volentieri le accogliamo. Abbiamo un calendario di incontri che è settimanale, sin da giovedì prossimo, alla sala polivalente di Santa Maria Assunta alla Guizza, in cui i vari elementi che sono emersi questa sera e altri possono venire ripresi, elaborati. C’è un calendario con alcuni titoli che sono indicativi delle prime questioni e in parte anche questa sera hanno trovato modo di accennarsi. Intanto, se ci sono domande, è il caso di formularle.
Elio C. Prima accennava al funzionamento delle cose e mi veniva in mente un’altra parola […] Questa è una serata di fisiologia forse, anche se facevo meglio stare zitto.
R.C. Eh, ormai è troppo tardi! No, ha fatto bene invece a parlare, perché è una notazione intelligente e anche interessante, che merita di trovare svolgimento, infatti tra poco avrà un’eco. Intanto sentiamo se ci sono altre domande.
Pubblico Prima, entrambi, avete detto che il presupposto ideale per l’analisi è la disperazione, nel senso di non avere più altre idee o non sapere trovare una soluzione. Però l’affrontare la decisione di andare da uno psicanalista, o l’approcciarsi alla psicoterapia, non ha sempre sotto ancora un filo di speranza, un aspetto positivo, contrario a questa disperazione che dovrebbe invece esserci?
R.C. Bene, abbiamo preso nota. Vedrà che adesso troverà un’eco a questa sua domanda. Vediamo se ce ne sono anche altre.
Cecilia Maurantonio Trovarsi nell’avvenire, e trovarsi a fare in questo incalzare del tempo, può far intervenire la preoccupazione che, se ho capito che il tempo non finisce facendo, “devo” fare. E allora c’è tutta una girandola di cose che devo fare, ma le devo fare finalizzandole a che non finisca il tempo e quindi…
R.C. Per salvare il tempo dalla sua fine! Eh, è la furbizia questa.
C.M. Eh, non so se si tratta proprio di furbizia…
R.C. È una forma di furbizia, cioè un altro modo per cercare di padroneggiarlo. Comunque anche questo merita un’ulteriore ripresa.
Maria Antonietta Viero Una considerazione. Trovarsi nella domanda di analisi, e quindi nell’assenza di soluzione, che già è un’assenza di alternativa, quindi già sulla via dell’assoluto, è la stessa questione, mi sembra, della sospensione della delega, anche se uno non lo sa; non avvertendola, però si immette in questa sospensione della delega. Forse è proprio questo “non c’è più soluzione” e questa sospensione della delega che fanno sì che ci sia una differenziazione radicale con la psicoterapia. Stavo riflettendo su questo, perché la psicoterapia invoca ancora in qualche modo la delega, quindi la spiegazione, la risposta immediata, il binario, proprio la logica binaria, mentre invece questa accezione di “non soluzione” mi sembra che sospenda radicalmente la delega, anche se non avvertita, come diceva Antonella Silvestrini quando affermava che non è avvertita, ma in qualche modo è posta. Una pala nel racconto di chi si sente appeso alla ruota del mulino è ancora questo supporto probabilmente.
R.C. Bene, altri?
M.A.V. Una domanda. Volevo anche chiedere che cosa vuol dire togliere l’esperienza del tempo in quanto non produzione artistica, non produzione.
R.C. Non produzione?
M.A.V. Sì, prima ha parlato del caso in cui non c’è produzione artistica, quando viene tolta la produzione.
R.C. No, se togliamo l’anomalia alla produzione artistica che cosa resta! Altri? Altri preferiscono pensarci, pensarci ancora un po’. Allora finché altri ci pensano, Antonella Silvestrini dà un’eco alle domande che sono state formulate, e poi anche Sergio Dalla Val.
Antonella Silvestrini Sì, giusto due o tre elementi. Allora, è vero che c’è una distinzione notevole tra psicanalisi e psicoterapia, anzi con la psicanalisi non c’è più psicoterapia. È vero che l’itinerario comporta la sospensione della delega e pertanto viene valorizzata invece la responsabilità, quindi la risposta non è quella che noi ci aspettiamo dall’alto, ma il rispondere è la responsabilità, si sottolinea semmai la responsabilità della parola. La delega è ancora, in quel racconto del signore, l’idea che ci sia qualcuno che gira le pale, la ruota del mulino e quindi c’è una delega che assolutamente non viene ammessa nel racconto in questione. Un naturalismo che lui accetta e tutta la sua reazione e tutto il suo dissenso confermano questo naturalismo della delega. Chiaramente con l’itinerario analitico si sospende la delega e allora c’è l’autore, l’auctoritas, l’aumento e quindi la firma.
Pertanto la questione della disperazione, la disperazione estrema, ovvero non c’è più questa idea di soluzione. La vera speranza è questa disperazione estrema, perché finché io spero che qualcosa accada, quella non è la speranza, è ancora l’ottimismo, è ancora il probabilismo, è ancora stare a immaginare l’avvenire ideale e quindi rimanere arroccati all’impasse e alla paralisi. No! La disperazione estrema è la vera speranza, perché non abbiamo più un’idea dell’avvenire. Quando diciamo non spero più è una constatazione bellissima, per dire che non ci possiamo più fare nessuna idea e non possiamo più avere un’idea di positivo o di negativo rispetto alle cose e rispetto all’avvenire. Quindi, la decisione di intraprendere un itinerario perché non abbiamo alternative. Questa è la vera speranza.
Il tempo non è il tempo cronologico, ma è l’occorrenza. S’instaura il tempo quando noi ci atteniamo all’occorrenza e il tempo è questo: la sorpresa della trasformazione. Quindi non c’è da anticipare, giocare a fare i furbi rispetto al tempo. Noi questo lo possiamo intendere, questa tentazione del prima e del dopo, rispetto all’idea di tempo cronologico, che inizia, che finisce. Ma se noi intendiamo che il tempo s’instaura con l’occorrenza e è la questione della sorpresa e della trasformazione, come bariamo? Non c’è un anticipare, un posticipare, un rimandare. È tutta un’altra cosa. L’itinerario analitico è interessantissimo, perché consente di dissipare i pregiudizi, le fantasie, l’idea del limite e ritrovare l’ingenuità, imbattersi nell’ingenuità.
Quella ingenuità bellissima che è originaria, che noi ascoltiamo dai bambini. Io ho un bambino di tre anni e mezzo che era stato dalla nonna qualche tempo fa, e mi ha detto “Mamma, ma tu abitavi dalla nonna quando eri ragazza?” E io dico “Sì, prima di abitare con il papà abitavo nella casa dei nonni, che era casa mia”, e lui “Ah, noi non ci conoscevamo ancora!”. Cioè, non c’è chi è arrivato prima o dopo, effettivamente non ci conoscevamo. Questa è una formulazione che ci fa sorridere, ma procede dall’ingenuità, non procede dall’idea che ci sia il prima e il dopo o che il tempo sia l’età, è il tempo dell’incontro.
E, per concludere, la questione della funzione della fisiologia. Nel significante funzione c’è il fungere e allude già a una sostituzione, quindi la sostituzione nella parola è la metafora, la metonimia. Le figure retoriche sono modi della sostituzione, cioè con la retorica si avvia la narrazione. La fisiologia è la logia della phỳsis, cioè è come se phỳsis, la natura, rientrasse in un sistema, però certamente quando noi ci accostiamo alla fisiologia ci imbattiamo in ciò che non va e qui c’è la chance, attraverso l’idea della fisiologia, di approdare alla questione del funzionamento delle cose, che è interessantissimo perché è la questione della narrazione, del racconto, della fiaba e della favola per ciascuno e quindi del caso.
Sergio Dalla Val “Sono disperato. Dio mi è nemico e io a lui”così scrive Lutero, dandoci un bellissimo esempio di ciò che Sant’Agostino chiamava la “speranza facile”. Analizziamo questa frase: sono disperato. Già dire “sono disperato” è una civetteria, è un potersi permettere di dirlo. Per chi si trova nel rischio assoluto, per chi si imbatte nel precipizio delle cose, quando le cose non tengono più, quando il sistema non regge, non c’è nemmeno il tempo di dire sono disperato. Oppure lo dici, ma sei già lì che combatti o sembri non combattere, anche nei paralizzati è già un gesto, un’anoressia, una smorfia rispetto al movimento imposto, rispetto ai canoni sociali. Per cui già dire “sono disperato”, farsi soggetto della disperazione, è una civetteria. È chi ancora una volta pensa di poter padroneggiare il disagio.
E poi “Dio mi è nemico”. Chi sei tu per dire che Dio ti è nemico? […] Dio è proprio quell’idea che nessuno può pensare di avere, che nessuno può pensare di conoscere, che nessuno può pensare di sapere. In questo senso Dio è l’idea che opera, è l’idea che c’è in quella frase “non c’è più soluzione”, Dio sta in questa “non soluzione”. “Non soluzione” vuole anche dire non più rappresentazione delle cose. E dunque l’analisi è questo teorema, che forse è stato posto per la prima volta dal monoteismo, non a caso viene da un ebreo della psicanalisi. Questo “non c’è più modo di rappresentarsi le cose” che è nato appunto con il monoteismo “Non ti farai rappresentazione di Dio, né di cosa alcuna”. Se noi cominciamo a rappresentarci Dio: Dio mio amico, Dio mio nemico, Dio è con noi, Dio è contro di noi, è come se dicessimo: io sono padrone delle mie idee, io sono appunto padrone di Dio, so dove metterlo e dove non metterlo. “Dio giocherà, Dio non giocherà”, pensate appunto, tutta la fisica moderna sarebbe sorta attorno a questo inghippo tra Einstein e Born. Noi non sappiamo. Certo, se Dio sappiamo che cos’è, allora sappiamo già quali sono i nostri pensieri e allora ecco che viviamo di pregiudizi, perché proprio i pensieri sono i pregiudizi. Quando dicevo prima che l’analisi è la sospensione del fantasma materno, del fantasma di fine, il fantasma materno è la propria idea; ciò che la domanda sospende è la gestibilità delle proprie idee.
L’inciampo più radicale per l’impresa di ciascuno è attenersi alle proprie idee, perché le proprie idee sono il fantasma per eccellenza, sono le idee che ti servono per l’azione, sono le idee che noi presumiamo non abbiano più bisogno di analisi: “Questa è la mia idea, mi è chiarissimo, guarda possiamo discutere di tutto ma non su questo punto qui”. Un inciampo colossale. È proprio la “propria idea”, ma uno dice: “Devo andare in analisi per le cose che non so”. Ma no! Occorre analizzare le cose che tu presumi di sapere, le proprie idee, perché sono quelle che ti impediscono di aprirti all’invenzione, alla novità, all’intelligenza, al malinteso, all’arte, alla comunicazione. Allora l’analisi è il venir meno delle proprie idee, cioè della gestibilità delle idee, della gestibilità di Dio.
E poi “Io sono nemico a lui”, appunto l’idea ancora del nemico, l’idea che ci sia appunto l’alternativa, ne parlava prima la dottoressa Viero, amico, nemico; chi si trova nell’alternativa, spera ancora nell’idea di poter scegliere: sono amico o sono nemico? In questo senso dicevo la “facile speranza”. Nella disperazione ciascuno non sa più chi è amico o nemico perché non può più scegliere, non può più schierarsi a partire da questa logica del sì e del no, del bene e del male, del giusto e dello sbagliato, che presuppone la logica dell’interrogazione che fonda la risposta su cui poggia il discorso occidentale. Allora, giustamente, diceva Silvestrini, la speranza è la disperazione assoluta, la speranza autentica, è quando non abbiamo più il modo di poter pensare di scegliere, di poter pensare l’alternativa, di poter pensare se sono amico o nemico o se questo mi fa bene o se questo mi fa male.
Quanta gente indugia rispetto all’analisi: “Ma non so se mi fa bene, io sono un artista e mi hanno detto che forse facendo l’analisi non hai più la creatività”, nell’idea che l’arte nasca romanticamente dal male, dalla sofferenza. No, appunto, l’arte è qualcosa lungo il cammino. L’analisi non mira alla cancellazione dell’arte, proprio perché non deve fornire rimedio, proprio perché non trova soluzione, ma l’arte stessa non deve diventare la soluzione, perché che l’arte sia la soluzione lo dice già il discorso occidentale che fa dell’arte la follia consentita. “Voi siete un po’ strambi, beh occupatevi d’arte così vi sistemiamo, facciamo anche un bel museo, mettiamo lì tutta la follia per bene, così ciascuno ha il suo sintomo e se lo gestisce”.
No! La disperazione è proprio l’apertura, l’apertura che non è l’alternativa, l’apertura è quando viene meno l’alternativa, perché l’alternativa è l’apertura che subito ha da chiudersi nella scelta. Allora, ecco la questione aperta, la disperazione è l’apertura della questione e non a caso questione aperta in greco, voi sapete, si dice εἰρωνεία, eironēia l’ironia. Allora la disperazione è l’ironia, la disperazione è l’assenza del principio di non contraddizione, che è il principio dell’alternativa.
Noi ci troviamo così nel viaggio, nell’itinerario. Io questa sera mi trovo in questa città, sono rimasto sorpreso. Io, come potete intuire vengo dal Veneto, ho vissuto a Conegliano Veneto fino a diciotto anni e devo dire che magari andando a Bologna e andando altrove, forse pensavo che qualcosa dovesse finire, che dovessi liberarmi da qualcosa. E appunto devo anche ringraziare l’analisi, proprio anche l’itinerario d’analisi che mi ha portato a Bologna, a Milano poi i congressi a Parigi, New York, Caracas, per avermi consentito di pensare che non c’erano pesi nella mia vita, che quello che poteva risultare un ricordo, una origine, era una opportunità, solo che non lo intendevo, non lo capivo; pensavo che quella fosse la mia origine, allora la ritenevo poco interessante e, giustamente, perché se uno localizza la propria origine è come se sapesse già da dove viene, come se non avesse più motivo della ricerca.
Ecco che con l’analisi qualcosa del fantasma di padronanza si dissipa. Il fantasma di padronanza che è il fantasma di origine, perché uno dice:“Beh, di una cosa so, che sono nato in questa famiglia, che vengo da questo posto”. Ebbene se so questo, nel migliore dei casi me ne vado ma rischia di essere una fuga, nel peggiore, vivo nella vergogna. Allora sospendere il bisogno della fuga, sospendere la necessità soggettiva della vergogna, queste sono le prime questioni che la disperazione inaugura e con l’apertura che questa disperazione consente, l’analisi può essere la condizione per un itinerario di vita senza più appunto l’esigenza del rimedio.
R.C. Bene, mi sembra che gli elementi sono stati posti per proseguire a indagare, a ragionare, a riflettere, a cercare. Abbiamo aperto l’incontro di questa sera con un riferimento a San Carlo Borromeo e possiamo anche concludere dicendo che il modo di indagare di Borromeo era l’humilitas, l’umiltà grazie a cui può accadere l’invenzione, la trovata, può accadere qualcosa di nuovo, perché non conosco, non so già. Non ho la presunzione di sapere già, quindi devo cercare, trovare. Ma l’umiltà è essenziale anche per accogliere ciò che trovo, perché io posso anche trovare qualcosa, ma se non ho l’umiltà di accoglierla, questa trovata è sprecata, non dà nessun contributo se viene respinta.
L’umiltà è anche per accogliere un’ipotesi di avvenire, un’ipotesi di novità, un’ipotesi che non deve confermare il sistema, un’ipotesi anzi che possa sovvertire il sistema. Allora diventa un’ipotesi veramente sovversiva, dissidente, questa ipotesi è un arricchimento, dà un contributo. Perché questo accada però occorre disporsi all’umiltà, occorre disporsi alla trovata, alla ricerca, non è tutto automatico, non avviene per inerzia, occorre la parola e la domanda. La domanda è anche questione di sforzo, di forza e di sforzo, di spinta, quindi non va da sé, non è scontata.
E quindi l’analisi, per non presumere più di poter parlare “sulle cose”, ma per capire “che cosa si sta dicendo”, dunque non per confermare il discorso sulla natura delle cose, come appunto la fisiologia medica che propone apparati il cui funzionamento è obbligato per garantire qualcosa. Non si tratta più di seguire le indicazioni della fisiologia medica, ma piuttosto di indagare sulla natura e sulla struttura delle cose, di non credere più che è l’organico a sovraintendere al funzionamento, anzi, se c’è funzionamento, l’organico è travolto.
L’idea dell’organico prevale quando è prevalente l’idea di fine, è così che allora ogni disturbo, ogni sintomo è collegato, “ma come dovrebbe essere, come deve essere”, e allora noi sappiamo come dovrebbe essere, come deve essere e possiamo rivolgerci a questo o a quell’altro apparato perché lì hanno il rimedio. Prima si parlava delle aritmie, oppure delle varie interruzioni nel corso degli studi, come interruzioni che riguardano i matrimoni, i fidanzamenti, la paura della maternità, della paternità. Fioriscono sempre più nei vari ospedali i centri per la cura delle cefalee. Com’è? Ci siamo accorti adesso di avere una testa e dobbiamo togliere il dolore? E che dire dei centri antalgici? Bisogna togliere il dolore ad ogni costo e la memoria del dolore per avere uno stato di ipnosi permanente.
Forse in questa prescrizione alla conoscenza delle cose per trovare il rimedio, c’è qualcosa che non è proprio soddisfacente, c’è qualcosa che non soddisfa il caso specifico, il caso singolo, perché vale per un’idea di totalità, ma non coglie la specificità del caso singolo. L’analisi è per la valorizzazione della singolarità e della specificità, quindi è senza la possibilità di ammassare i casi in una casistica comune: vale il singolo caso. E questa è una particolarità e una specificità di questa esperienza, per cui ciascuno può raccontare e soprattutto può ascoltare quel che si dice nel racconto. E allora si può trovare qualcosa che travolge la superstizione, travolge la credenza, travolge ogni idea di sé e apre alla verità, apre al bello, alla qualità della vita ed è in questo che sta per ciascuno la questione della salute.
Bene, allora vi ringrazio per essere stati qui questa sera e vi do appuntamento per giovedì 11 alla sala polivalente. Ringrazio Antonella Silvestrini per la sua bella testimonianza e così anche Sergio Dalla Val. A presto arrivederci.