
Il diritto, la poesia, la città. Il poema intellettuale
- Amato Francesco, Bagnara Mario, Chinaglia Ruggero, Dal Lago Ugo, Salvarani Nelson, Viero Maria Antonietta
Giovedì 16 marzo 2006, ore 18, nella sala degli Stucchi, di palazzo Trissino, in corso Palladio, Vicenza, presentazione del libro di F. Amato, Appena ieri, edito da Spirali, e conferenza di Francesco Amato, giudice, presidente della Corte d’Assise di Roma, scrittore, dal titolo Il diritto, la poesia, la città. Il poema intellettuale, con il Patrocinio del Comune di Vicenza. Interventi di Maria Antonietta Viero, Mario Bagnara, Ruggero Chinaglia, Ugo Dal Lago, Nelson Salvarani.
FRANCESCO AMATO
Il diritto, la poesia, la città. Il poema intellettuale
coordina
- Maria Antonietta Viero, imprenditrice
interventi di
- Mario Bagnara, giornalista
- Ruggero Chinaglia, cifrante
- Ugo Dal Lago, avvocato
- Nelson Salvarani, giudice
Attrice Non rammento, quando vidi il mare per la prima volta. Forse, fu quando aprii gli occhi alla vita. Il silenzio, il fruscio del silenzio mi consente di sognare, o sperare, mentre il futuro si restringe fra un battito e l’altro del cuore.
Maria Antonietta Viero E nel silenzio, smarrendo la via del vissuto, la pagina dell’avvenire gli si pone dinanzi. Sul banco i ricordi smarriscono i fatti e memoria si appresta, appunta e scrive ciò che ancora è chiamato a fare. E sul banco il filo di collana disperde le perle, semi di vita incominciata lontano. Il gelsomino, il bergamotto, magiche le ombre seducono l’altrove. Per traccia le messi falciate, i covoni di paglia, i campi di stoppie, il tronco contorto, l’odore stantio in una camera angusta che ancora per poco saluta una vita che va, e gli squarci di mare, e via sull’onda. Chi ascolta il cielo? E a chi parlare?
Nel viaggio della vita, in scena, il tempo irrompe e non si lascia misurare, e senza durata obbliga al fare. La piega di un foglio di quaderno, uccello, barchetta, o veloce aeroplanino, incontra il dire, perché qualcosa ascoltando si ode e, dicendosi, la piega introduce il diritto. Punto vuoto, il soggetto, lo chiama Lucrezio; funzione vuota ne consente il silenzio. Il diritto dimora dell’Altro. Con l’Altro la storia si narra, dove il sogno induce gli audaci voli e, dimentico, il filo al crepuscolo tesse il progetto inconscio, dove il programma di vita, l’Altro si fa di diritto, dove il tempo non muore e le cose non finiscono. Nell’abc della vita, chi sa se quell’enunciato. C’è una legge.
A giustificazione e delega nel pronunciar sentenza, dell’essere cacciato per razza, colore o religione, non fu di guida a una toga da portare, per ancora narrare il dire, l’udire, il fare e promuovere dignità e valore, e istituire giustizia su ogni sorta brutale. E intanto sullo sfondo, la storia si rossava di imbecillità criminale, di ogni conflitto, di leggi razziste, deliziosa idiozia di guerra totale. E poi ancora, come di roulette si tingeva di rosso e di nero, città massacrate e vite annichilite. E all’uomo chiede: “Perché? Dove stanno libertà e pace? Quale il bisogno di distruggere e azzerare per richiamare come di formica l’operoso travaglio?” E ancora. Battaglia la vita per l’ideale celato, e poter respirare la gioia dell’esistere e scivolare sull’acqua, ascoltando il canto dell’infinito e sognare terre, cieli incontaminati e giorni fascinosi dell’ignoto.
Amo la libertà, scrive Francesco Amato, anche quella degli altri, senza la quale la mia apparirebbe priva di senso. E venne allora il tempo del magistrato, che aspira al terreno delle cose concrete e il fertile humus, trovare il proprium di ciascuno, nonostante il tronco leso, che l’albero, pur faticando, cresce, perché infisse nella pietraia ha le radici. E interroga quale sia il guadagno di un pentito che valga per l’acquisizione probatoria. Ma non restituisce il padre all’orfano e il figlio alla madre, ma solo guadagna più in fretta dal carcere l’uscita.
Una giusta giustizia non basta a abolire le prigioni. Un processo rimane, sconfitta del vivere civile. La spettacolarizzazione non mitiga né appaga il giudizio che esige ancora silenzio e pietas. Come in un marciapiede di un passo affrettato il piede inciampa, sul piccolo corpo di rondine stesa, caduta chissà da dove. E il giudice nota che solo l’intelletto, nel suo dispositivo, consente la decisione assoluta, consente di non affermarsi sul principio di ragione, per una facile equazione ragione-passione, perché la ragione è ragione dell’Altro, ragione temporale, ragione della poesia. E questa è la riuscita di Francesco Amato, ragione politica dove il tempo dispensa l’evento e, con ironia, coglie il petalo, del petalo ciascun fiore.
Ironia: la questione aperta, l’interrogazione che non fonda la risposta, ma modo dell’inconciliabile fra il sì e il no, tra il bene e il male, tra amico e nemico, modi dell’apertura. E la certa opinione, schermo del tempo, riporta il dubbio al suo logico sito. Alle spalle sta la sola dimora, e rilascia dinanzi sulla via la logica singolare triale, senza alternativa. In scacco la possibile scelta. Terzium datur per la decisione sicura, dubbio ironico incancellabile, dubbio in atto, speranza in atto, senza passione. E, come scrive Francesco Amato, con il dubbio, anticorpo del pensiero contro il virus delle apparenti certezze perché il verdetto corrisponda alle norme come giustizia, la speranza ritorna in un fiorellino celeste, che sbuca da una screpolatura dell’asfalto.
E come fuscello di bambino per il cavallo di legno che muove la groppa, o come occhi di gatto sgranati a seguire il volo di leggera farfalla, si sorprendono alla vita che ragione non chiede, così ritornano all’ora del vespro i rintocchi antichi a consegnare al crepuscolo il filo della verità, per quella necessità del superfluo chiamata poesia, quella di Francesco Amato. E allora, con questo, è il mio modo di dare un saluto e un benvenuto, un accoglimento a questo nostro ospite e in quest’appuntamento dell’associazione di brainworkers ONLUS, che prosegue i suoi incontri qui a Vicenza, quest’associazione che s’interessa della direzione intellettuale dell’impresa, dell’integrazione tra le arti e la scienza, la cultura, la finanza e l’economia.
E siamo qui a Vicenza per una combinazione direi particolare. Una triade che vede me, che opero e che proseguo queste attività dell’associazione culturale e della associazione cifrematica di Padova, in collaborazione poi, che ringrazio moltissimo, con il professor Bagnara, esponente della cultura vicentina (il suo apporto è conosciuto), e il sindaco che ci offre questa sala. E quindi possiamo ospitare ospiti illustri, come questo di questa sera. Francesco Amato è un collaboratore, autore della casa editrice, testimone del percorso culturale della nostra casa editrice che è Spirali, e ha partecipato a tantissimi nostri congressi. I suoi scritti sono negli atti dei congressi; partecipa sicuramente, è testimone anche delle attività che ruotano intorno alla casa editrice, che sono quelle del secondo rinascimento.
E quindi dicevo prima della triade particolare: me che lavoro a Vicenza, che faccio queste cose in un’integrazione, visto che sono un’imprenditrice (opero nel campo della moda, però m’interesso anche di cultura), e poi il dottor Dal Lago, che ringrazio per la collaborazione, che ha collaborato per questo avvenimento, suo amico fraterno. E poi, per terzo, questo fatto di essere a Vicenza, in collaborazione appunto con il professor Bagnara (che è effettivamente un collaboratore, più di un collaboratore), è un amico che ormai ci accompagna in questo percorso culturale. Francesco Amato, come avete potuto magari vedere in qualche nota sul giornale di Vicenza, è presidente della Corte d’Assise di Roma. Si può dire?
Francesco Amato Ero.
M.A.V. Era. E da pochi giorni è andato in pensione, da pochi giorni ha portato a casa la toga, diciamo così. E poi è stato protagonista e testimone, lo ha visto impegnato in processi maggiori che hanno visto la trasformazione radicale del nostro paese. Per citarne alcuni: il processo Moro, le brigate rosse, il processo alla, come si chiama? A Marta Russo, eccetera. È una persona che ha impegnato tutta la vita alla ricerca, direi, della verità assoluta, con cui termina addirittura il suo libro.
È una persona che io ho conosciuto nei congressi e che apprezzo per il suo modo ossimorico di porre le cose. È delicato e, nel contempo, è molto forte, c’è questa cosa indivisibile che lo caratterizza moltissimo. È gentile e è una persona profondamente onesta, se posso usare questo termine. Io sono felice di averlo per amico, oltre che come autore della casa editrice. Quindi questa sera siamo tutti felici di averlo qui. Passerei la parola adesso a una poesia, così proseguiamo.
Attrice Compagni di scuola, antichi amici che da tempo non vedo. Talvolta vi penso. Potremmo incontrarci, riprendere a parlare, risuscitare comuni ricordi. No, non voglio vedervi. Lasciamo il discorso interrotto. Non riconoscerei i vostri volti, le figure a me care. Cancellerei dalla vostra vita il giovane che ero e che ancora fate vivere. Guardandovi, ravviserei in voi vecchi il mio aspetto attuale, che accetto, ma non mi piace.
M.A.V. Sono proprio bellissime queste poesie. Cominciamo così. Passerei adesso la parola al suo amico Ugo Dal Lago, di cui conservo una terracotta. Nello studio, il dottor Amato conserva una terracotta in cui è scritto: “Scorre la vita, ma l’amicizia resta per sempre. Ugo”.
Ugo Dal Lago Buonasera a tutti. Grazie di essere venuti a rendere il dovuto omaggio e onore a un amico che è passato a Vicenza, ma che si è sempre considerato vicentino di adozione, anche se la sua vita è trascorsa soprattutto a Roma. In tempi in cui si discute tanto di divisione di carriere, io credo che quella di Franco Amato sia la vita di uno che ha fatto prima il pubblico ministero, poi il giudice istruttore, e poi il presidente di Corte d’Assise. Tre funzioni assolutamente diverse fatte tutte con impegno, con sacrificio estremo e con onore.
Tre episodi per illustrare il carisma, lo spessore di questo uomo, di questo magistrato. Vicenza 1965. Stava per essere trasferito, era in fase di trasferimento. C’era un processo nella sala del territorio, vicino al ponte degli Angeli, allora eravamo distribuiti in diversi posti, un processo per calunnia. Io rappresentavo la parte civile, lui il pubblico ministero, un processo di cui si è dibattuto molto, che la mia Miriam, che anche stasera rende onore e che è sempre praticamente presente nel mio cuore e nel mio studio, ricorderà bene.
Non faccio ovviamente nomi. C’era un collegio, che qualcuno dei presenti individuerà nelle mie parole, c’era stato un processo molto laborioso, molto impegnativo e è era un processo da condanna, come poi, in effetti, fu in appello. Se non che, dopo, sia io e il difensore c’eravamo battuti per ore per dimostrare, che poi era il tecnico, c’erano dei calcoli di mezzo e via dicendo, materia non particolarmente congeniale a certi giudici se non a Bruno Meneghello, che ha fatto filosofia della matematica, per chi non lo sapesse.
Ci si sarebbe atteso che il tribunale per lo meno ci impiegasse mezz’ora per fare la sentenza. Se non che, il presidente si sapeva che alle cinque della sera aveva un appuntamento galante sempre all’angolo di via — Bruno Meneghello sta ridendo — dove c’era il bar Nazionale. Faranno il caffè lì, dove adesso c’è una gioielleria, nel centro del corso, fra la crocevia di corso Palladio e corso Fogazzaro. Sono entrati in camera di consiglio. Non si saranno neanche seduti, penso.
Sono venuti fuori. Assoluzione per insufficienza di prove. Solita sentenza assolutoria delle nebbie. Io dovevo essere amareggiato, ma il più amareggiato di tutti era lui. Io e mia moglie, che questa sera non è presente fisicamente, ma lo è spiritualmente, mia moglie non so se lo conoscesse o meno. Io l’ho portato a casa mia, abitavo in via Vittorio Veneto, abbiamo preso il thè; lui era talmente dispiaciuto di questo fatto che piangeva. Non riteneva possibile che si facesse, da parte del tribunale, lo scempio di un processo in quella maniera.
Siccome doveva partire di lì a un giorno, due giorni, di petto, a scatola chiusa, senza conoscere la sentenza, ha gettato i motivi. Fatti i motivi d’appello, la causa in appello è stata raddrizzata. Questo per dirvi della sensibilità del pubblico ministero. Il giudice istruttore, a Roma, ha fatto dieci anni di segregazione, come Calogero a Padova al tempo delle brigate rosse, ha istituito vari processi, è stato l’artefice del pentitismo, per i modi che lui aveva garbati e convincenti di interrogare. Un giorno vado a prenderlo vicino alla cassazione, in quello che si chiamava praticamente il carcere dei magistrati, perché erano praticamente lì a lavorare, lui, il priore e altri magistrati.
Salgo sulla macchina blindata. Nel tragitto c’è un tentativo di infiltrazione da parte di una 600, che è stata subito bloccata dalla scorta. Vado a casa sua, era il numero uno della lista di quelli da eliminare delle brigate rosse; e mi ha detto: “Ugo, guarda, la mia vita ha i giorni contati. Hai visto, anche oggi hanno tentato di farmi fuori. Quello che mi sarebbe dispiaciuto è che c’eri anche tu. Comunque io ho dei figli che meritano di essere sostenuti. Quel piccolo patrimonio che io ho, sarà la mia pensione. Li affido a te con la pensione”.
Terzo episodio. Corte d’Assise di Roma. Processo a Marta Russo. Vado a salutarlo nell’intervallo di un processo, quando si fa la sosta. Mi chiama in camera di consiglio dove servivano il caffè, perchè lui prendeva il caffè con i componenti della Corte d’Assise e con gli avvocati della difesa e gli avvocati della parte civile, insieme.
F.A. E il pubblico ministero.
U. D. L. E il pubblico ministero naturalmente, ma il regista era lui e il suo gatto, perché il gatto, di cui era innamorato, viveva al palazzo di giustizia piuttosto che a casa. La signora Anna lo può dire. Penso che questi tre episodi siano bastevoli per illustrare lo spessore di questo uomo, di questo grande magistrato. Io l’ho sempre chiamato un sacerdote della giustizia, e come lui ce ne sono diversi altri.
Ieri sera — leggo anch’io una piccola poesia che mi ha dedicato ieri sera — a cena non chiedere chi io sia. Non lo so, ti basti sapere che al momento sono. Ebbene, noi dobbiamo essere riconoscenti e grati come cittadini a questo meraviglioso uomo, che è pieno di umanità, soprattutto di sensibilità. E è uno scrittore affermato e piacevole perché ieri sera ha detto una frase che riassume tutta la sua carriera: “Ieri sera erano tre, oggi sono quattro. Ho lasciato quattro giorni fa la toga sgualcita, consunta, ma pulita”. Grazie.
M.A.V. Con questo volevo sottolineare, appunto, che il giudice Amato ha lavorato qui negli anni ’65 — è vero? — quindi è anche un anno particolarmente felice per me, perché è stato il mio anno di scudetto con la pallacanestro. E quindi approda oggi, qui a Vicenza, è un ritorno, ma in veste assolutamente inedita e particolare di poeta, di scrittore. E adesso passo la parola al professor Bagnara, che credo ciascuno di noi conosca e possa apprezzare quanto fa nella città di Vicenza riguardo alla cultura e impegno sociale.
Mario Bagnara Grazie per la presentazione, anzitutto, sempre molto generosa da parte della signora Maria Antonietta Viero, di cui l’organizzazione ha dimenticato di porle un degno cavaliere. Io sono qui a partecipare a questo incontro in forma istituzionale, come rappresentante dell’amministrazione e, quindi anche del sindaco, che è impegnato dove dovrei essere anch’io attualmente in queste ore in consiglio comunale. Mi ha pregato di porgere un suo caloroso saluto, il suo benvenuto al dottor Francesco Amato che noi accogliamo direi festosamente, nel vero senso della parola.
A cinque giorni abbiamo capito, dal suo compleanno, e quindi anche dalla sua, possiamo dire decisione, forse obbligata — non lo so, comunque ce lo dirà poi lui — di abbandonare la professione, per continuare a testimoniare quanto ha testimoniato, ovviamente durante tutta la sua vita, anche a Vicenza. E sono quindi, facendo i conti rispetto alla data che mi è stata suggerita, quarant’anni dal suo passaggio a Vicenza e un altro simpatico anniversario, quindi il suo compleanno, appunto di sabato scorso, se non vado errato il giorno 11, per il quale chiederei un applauso festoso.
E quindi Vicenza è lieta di rivedere e di risalutare una persona, un magistrato che la lasciato un ricordo così profondo, ma credo non solamente nell’avvocato Ugo Dal Lago, ma in tanti altri colleghi legati più o meno direttamente alla gestione della giustizia vicentina. M’ha fatto piacere anche il coinvolgimento del giudice Bruno Meneghello, di cui è stata ricordata anche la sua passione per la matematica, perché anche di lui, credo dieci anni fa abbondanti, ho presentato un volumetto ai chiostri di Santa Corona, che trattava appunto di problemi filosofico matematici.
Quindi la cultura regna in maniera prolifica nell’ambito della magistratura, e questo sta a dimostrare la profonda preparazione che i nostri magistrati, che i nostri avvocati hanno acquisito, naturalmente anche attraverso gli studi, prevalentemente studi classici, perché in passato era possibile accedere alla facoltà universitaria soltanto passando attraverso il liceo classico, quindi conseguendo la maturità classica.
E anche di questo il nostro Presidente Amato dà prova, ricordando le sue esperienze scolastiche di cui dirò qualcosa fra poco. Io non ho mai incontrato il nostro ospite; ho avuto la possibilità di conoscerlo attraverso le sue opere, in modo particolare attraverso questo ultimo volume di poesie, dove è raccontata certamente la sua vita. Quindi potrebbe essere, più che un romanzo autobiografico, un vero e proprio poema, un poema abbastanza lungo perché sono circa duecento pagine di testi poetici e credo di ave capito abbastanza in profondità la sua personalità. Il flash che mi ha poi offerto l’avvocato Dal Lago con il suo intervento, non fa che confermare quello che avevo intuito, o capito, da queste testimonianze poetiche. Quindi sono ben lieto di poterlo incontrare, di poterlo salutare e, quindi, anche di poterlo in qualche maniera omaggiare a nome della città di Vicenza, a nome anche dell’amministrazione.
Però non è, come ho accennato, l’ultimo libro che abbia scritto il nostro ospite Francesco Amato perché, prima di questo volume, dobbiamo ricordare altri tre romanzi. C’è stata quell’Estate perduta, del 1992, poi Il tempo dei Lupi, edito sempre da Spirali, del 1995. E qui ci ritroviamo in questo romanzo proprio nell’ambiente giudiziario, perché protagonista è un ex ufficiale dei servizi di sicurezza che muore in circostanze misteriose nel suo ufficio. E quindi, ecco il problema che pone immediatamente e che pone tutto il suo libro o romanzo: suicidio o omicidio? Quindi ci si domanda in questo libro, leggendo questo libro, se sia veramente un romanzo creato dalla fantasia o se sia invece una cronaca, magari arricchita anche un po’ dalla fantasia, ma direi sopra tutto arricchita dal sentimento.
Certamente c’è un coinvolgimento dei servizi segreti, c’è ovviamente la magistratura, c’è la stampa politica, c’è il mondo imprenditoriale, reticenze, confessioni, eccetera. Quindi è un romanzo particolarmente avvincente, al centro del quale sta, guarda caso, un giudice, un certo giudice Vannini, onesto sostituto procuratore che molti vorrebbero trovasse la soluzione rapida di liquidare questa vicenda, naturalmente per chiudere eventuali, e togliere sopra tutto eventuali pericoli di imputazioni di responsabili. Quindi questo è un romanzo punto di riferimento, ripeto, del 1995.
Poi c’è stato Dentro la corte, e anche questo titolo ci riporta ovviamente a un particolare ambiente del 1999, e ora, appunto, questo volume di poesia. Ora, abbiamo capito Francesco Amato, splendida carriera di magistrato. Noi questa sera, lo riscopriamo anche come scrittore, scrittore siracusano, come abbiamo capito da tempo, residente a Roma e, tra le varie sedi di servizio, ha toccato anche Vicenza, e quindi anche a Vicenza la lasciato un segno profondo.
A Roma è stato fino all’altro giorno, appunto, presidente di Corte d’Assise per quasi vent’anni. Però a Vicenza egli si ripropone non come magistrato (anche se non dobbiamo dimenticare questa sua attività professionale ma anche la sua amicizia), si ripropone invece come poeta perché, prima di questo volume, a me non risulta che abbia pubblicato raccolte degne di considerazione. Perlomeno, consultando anche i siti internet, sono sincero, io avevo già trovato che veniva usato il tempo passato “era stato”.
E qualcuno mi aveva detto: “Ma guarda che lo è ancora”, e sono entrato in crisi, anche per la mia indicazione del passato come presidente della Corte d’Assise. Quindi evidentemente c’è un aggiornamento on line molto funzionale, naturalmente alle esigenze. Ora, in questo volume intitolato Appena ieri, ma vedremo perché poi questo titolo (che appunto è stato pubblicato da Spirali), egli presenta certamente dei riferimenti autobiografici che sono presenti, a mio giudizio, anche in successione cronologica sopra tutto nella prima parte.
Però contemporaneamente e questo, sia nella prima che nella seconda e sopra tutto nella seconda, ci offre degli elementi di valutazione della complessa realtà attuale e anche del passato recente. Però potremmo dire alla fine, l’autobiografismo, e quindi le varie sfaccettature della sua personalità, emergono chiarissimamente anche quando parla di eventi e di problemi oggettivi che viviamo tutti noi quotidianamente.
Il suo poetare è particolarmente armonico, direi anche molto musicale, in versi che sono sicuramente molto moderni, nel senso di versi sciolti e liberi, però molto incisivi, parole essenziali. Talora anche di una sola parola è costituito il verso, però non dimentica mai il collegamento logico contenutistico fra un verso e l’altro, e quindi conosce bene lanjan the man, questo collegamento poetico che è della grande tradizione antica, petrarcheggiante in modo particolare.
Questi versi, talvolta, sono anche privi di punteggiatura, per lasciare naturalmente spazio anche alla sua sensibilità e all’interpretazione del lettore. Non sono suddivisi in capitoli, in sezioni. Semplicemente sono alcune strofe, alcune lasse, separate da qualche spazio non eccessivo, che quindi nessun insieme va a comporre, anche dal punto di vista grafico, anche dal punto di vista stilistico, una poesia che risponde perfettamente alla spontaneità e alla immediatezza del suo sentire. E il lettore che affronta questi versi ne rimane profondamente affascinato. Anche perché non ci sono espressioni difficili, non ci sono riferimenti equivoci, è una poesia molto comunicativa, quindi il fascino poetico e comunicativo è assicurato e in effetti egli parla come se fosse uno di noi.
E all’inizio, proprio ai primi versi, dice: “Qui non comincia la storia di famosi personaggi che hanno fatto sognare e soffrire, ma comincia il tentativo di uno che ha sognato, gioitosofferto — noto che non mette la virgola tra gioito sofferto, fonde insieme le due espressioni verbali — di uno, come tanti altri, di esprimere ricordi, percezioni, esperienze insignificanti, pensieri talvolta incompleti, se non banali, e le poche superstiti speranze che vorrei non morissero o avessero termine con il mio ultimo respiro”.
Questo è l’incipit del suo poetare, quindi molto chiaro. E da allora nella lettura ci si accorge di alcuni temi che ricorrono. Potrebbero essere molti, anche vari i tagli di lettura e di commento di questa antologia. Il primo che ha colpito me è il ricordo. E in effetti, al pari di Salvatore Quasimodo che, esiliato a Milano fra le nebbie, in altre poesie egli le ricorda milanesi, rimpiange, appunto Quasimodo, la sua Tindari mite e serena, e quindi la solare terra siciliana.
Anche Amato si fa cantore commosso della sua Sicilia, della sua Siracusa, in particolare con la sua fonte Aretusa. E queste immagini siciliane sono rievocate attraverso i ricordi dell’infanzia e dell’adolescenza. Ricordi nei quali, insieme con le suggestive visioni paesaggistiche, si affollano anche delicate figure dei familiari e dei compagni di scuola e di avventure, anche amorose, sopra tutto a livello giovanile, a livello scolastico.
Fra gli elementi della natura, che egli definisce tripudio cromatico, una natura, un paesaggio, una natura percepita sempre quindi idillicamente, ricorrenti i richiami soprattutto al sole, al mare, al nuoto, al delfino che nuota libero, dice ad un certo punto della prima parte, richiami all’alba — c’è una stupenda descrizione dell’alba nella seconda parte (per chi volesse prendere nota, a pagina 153-154) — riferimenti alla pioggia.
E questo legame con la natura è una specie, lui lo definisce, di cordone ombelicale dal quale non riesce naturalmente a staccarsi, un cordone ombelicale che desta per certi versi anche un piacere sensuale, quindi i sensi, che vengono addirittura accarezzati dalla stessa natura. Questo per quanto riguarda la natura e il paesaggio con molti passi poetici, che potrebbero essere letti e anche commentati con questa finalità molto precisa e con questa sensibilità. Tra i familiari vengono ricordati il padre morto e le conseguenti condizioni di lui orfano, di orfano già nella prima parte. Viene richiamata la figura della nonna, la figura della mamma, il fratello, pure morto, che ricorda anche come studente legato da amicizia a un amico, che poi ricorderemo anche per le persecuzioni razziali.
E appunto, insieme con questi familiari, sopra tutto questo Walter, l’amico, l’israelita, che a un certo punto il preside si trova costretto a allontanare dalla scuola e si scusa imbarazzatissimo. Passo commovente, alle pagine 34-35. E in questi ritorni all’indietro, in questi flash back, in cui il passato tende a fondersi, a confondersi con il presente, da qui il titolo Appena ieri, che trova una precisa spiegazione solamente alla fine, dove troviamo delle strofe terminali, ben dodici volte la indicazione, all’inizio di Appena ieri. Appena ieri per dodici volte in successione, quasi da ritornello, quasi da ritmo poetico efficacissimo. Solo, ripeto, nella parte finale. Ora, in questi ricordi non mancano gli amici animali. E mi fa piacere citare, l’avevo già individuato, in particolare il gatto, nominato più volte in questi versi. Ma ci sono anche gli uccelli, ci sono le rondini, ci sono i gabbiani. E anche a Roma, quasi a rinsaldare con il mare siciliano, ritrova il gabbiano che vola sopra il Tevere, alla pagina 179. Un gabbiano a Roma, quindi la sua Sicilia è arrivata fino a Roma.
E la scelta professionale, maturata attraverso un percorso scolastico a suo dire non particolarmente gratificante (almeno per quanto riguarda la scuola elementare e credo soprattutto la scuola media inferiore e superiore, perché non parla mai in questi versi dell’università), la scelta professionale lo ha strappato, un giorno ormai lontano, da questo mondo, ora rivissuto con una certa nostalgia. Però, non più di tanto possiamo parlare di nostalgia in questi ricordi. Allora era convinto che un giorno vi sarebbe ritornato, e dice in un passo: “Simile ad un uccello migratore che, sfinito, raggiunge la terra dove nacque, per restituire la vita”. Ora però è venuta meno questa illusione, cioè questa illusione di poter ritornare, anche perché è convinto che sarà tutto diverso.
E questo lo dice non alla fine del libro, ma circa a un quarto della parte poetica. Nella prima parte, come ho già fatto capire, sono numerosi e anche molto simpatici i ricordi di scuola, a partire dalla scuola elementare, come dicevo, per arrivare fino al liceo classico. Che cosa e chi ricorda della scuola? Ricorda la ragazzina, che definisce bruttina e scipita, amata però con punto interrogativo da un ragazzino di terza. Hanno fatto l’amore, dice a un certo punto. O meglio, la diceria è questa. E ironicamente fa una sua osservazione. Ricorda l’insegnante elementare che racconta agli allievi della guerra di Spagna; ricorda, appunto, l’episodio doloroso dell’allontanamento dell’amico Walter che, tra l’altro, gli ha regalato durante un periodo scolastico, una penna stilografica. Ma ciò che lo colpisce, naturalmente, è questo allontanamento, perché israelita.
E poi ancora ci propone il ricordo di se stesso, si definisce “arabo” innamorato di una supplente normanna, con il rischio anche di fare brutta figura di fronte a questa giovane supplente. Ma in un altro passo ricorda lui “normanno” innamorato di una compagna bruna come un’araba. Sono, diremo così, ricordi molto accattivanti. Comunque, della scuola il suo è un ricordo critico negativo. La definisce una noia, un male, però necessario, e giudica ancora oggi la fine delle lezioni, a tutti i livelli (mi par di capire anche a livello di scuola elementare), un sollievo lo definisce, un grande sollievo. Per non parlare poi di come si diverte a raccontare della copiatura dei compiti del solito più bravo della classe, Armando, anche molto disponibile, con risultati che poi naturalmente erano anche discutibili sull’esito e sulla votazione degli insegnanti.
Però compagni di scuola. Abbiamo già sentito, dal passo letto, assolutamente nessuna nostalgia, nessun desiderio di ritornare apparentemente fra i banchi di scuola, nei periodici ritrovi degli ex compagni di classe. Si rischia di perdere quel fascino, quel ricordo positivo che si ha appunto del passato e soprattutto dei rapporti con i compagni, che oltretutto, sottolinea, si farebbe un po’ fatica a riconoscere, per la fisionomia che nel frattempo è mutata. Ora però, arrivando alla realtà della sua attività professionale, per lui, magistrato esperto di, si definisce, anzi, definisce l’ambiente di un vociante e per niente disteso ambiente di lavoro, nel quale afferma di aver l’impressione di essere entrato per sbaglio, consapevole che, anche se la storia giudiziaria è zeppa di ingiustizie sotto ogni cielo, la giustizia non è clemenza, non è vendetta, è giustizia soltanto. Affermazioni, diremo, che non ammettono interpretazioni equivoche o di comodo. Quindi magistrato che pensa questo della giustizia, e io non mi dilungo sugli aspetti della giustizia, ma anche la giustizia è un altro tema, è un altro filone interessante da sottolineare nella lettura di questo poema.
Ora la sua visuale invece è aperta, molto aperta, sottolineerei, di esigenze umane e sociali, esigenze che non conoscono confini territoriali. Quindi non c’entra più la Sicilia, non c’entra più Roma, non c’entra più neanche l’Italia, c’entra il mondo e la sua è una visione evidentemente universale. E quindi la poesia diventa una testimonianza non personale autobiografica, ma appunto, perché è vera poesia, diventa testimonianza universale, e quindi attuale.
E mentre ricorda eventi e problemi passati e attuali, che hanno accompagnato e accompagnano la sua vigile, sempre vigile esistenza — ricordo che sono molto puntuali i riferimenti non solo al fascismo, alla guerra di Spagna, come è ricordata, alle persecuzioni naziste, allo stalinismo, alla figura di Stalin, alla guerra del Vietnam, alla caduta del muro di Berlino, all’attentato anche alle due due torri gemelle, e quindi al terrorismo, ma riferimenti anche ai fenomeni della globalizzazione, del consumismo, delle sperequazioni socio-economiche, alla prostituzione, a un certo punto parla anche del pentitismo su cui esprime qualche motivata riserva — comunque ora, ripeto, mentre ricorda questo panorama completo della nostra realtà storico sociale, egli dichiara apertamente e ripetutamente la sua scelta suggerita da una sensibilità per certi aspetti quasi francescana.
Aggiungo questo particolare perché in due passi ricorda il cantico delle creature quando dice: “Preferisco leggermi il cantico delle creature, piuttosto che ascoltare le prediche dei preti”. E poi c’è sopra tutto un passo di dichiarazione di ammirazione per San Francesco, con accostamento anche alla figura di Gesù (questo in particolare alla pagina 153). E quindi ecco la sua dichiarazione, diremo insistita e profondamente anche ritmata quando dice, in varie strofe, o meglio in vari passi poetici: “Patria mia è chi opera con rettitudine; patria mia è il giovane in buona fede che nella contesa politica imbocca l’errato itinerario della violenza; patria mia è il disoccupato; patria mia è l’emarginato; patria mia è il vecchio accettato da nessuno, destinazione ospizio dove muoiono i derelitti; patria mia è il muratore che costruisce case per gli altri, ma non ne ha una propria”.
Questo per quanto riguarda i risvolti sociali. E poi, per ritornare alla natura: “Patria mia è il mare profondo; patria mia è anche tutte le patrie che esistono — ecco la visione, potremmo definire ecumenica — la mia patria vive, l’Italia è la mia patria — quindi non dimentica di essere italiano — e la mia patria è anche — l’abbiamo già sentito prima — la libertà.”. E aggiunge poi: “l volo dei gabbiani”. Quindi è un simbolo, è quasi un mito questo gabbiano o, meglio, il volo dei gabbiani a simboleggiare la libertà. La sua è quindi una visione molto realistica che non rifugge, nemmeno nella seconda parte, da puntuali riferimenti alla vecchiaia e alla morte. Ci sono dei passi, anche molto lunghi, che parlano della vecchiaia, che parlano della morte, però con una grande serenità, con grande distacco.
E ecco una accettazione molto intelligente e anche molto stimolante: “Ma — afferma a un certo punto — la vita umana non è una fuga, non è un cammino nel buio, non è un freddo viaggio nel deserto, bensì — bellissima espressione — un’esplosione di luce, una stimolante attesa, una tensione, per certi aspetti religiosi, verso l’universo e verso l’assoluto”. E aggiungerei: anche la vita è una costante ricerca della verità. Della verità, abbiamo sentito prima, la verità assoluta con cui egli chiude proprio l’ultima strofa, quindi il suo poema autobiografico. Credo che, di fronte a questi messaggi, nessuno di voi possa rimanere indifferente. E quindi, al nostro poeta magistrato, grazie.
M.A.V. Io ringrazio e devo farlo ciascuna volta con Mario Bagnara, che trova il tono e l’inedito di ciascuna lettura, ma anche l’entusiasmo, e dà sicuramente un contributo a questa città. E allora ancora una poesia.
Attrice Entrò nel bar latteria e comprò una bottiglia di latte. Portava le trecce dell’adolescente, era bella, la guardavo ammirato; mi sfiorò inavvertitamente. Si scusò e mi sorrise. Mi piacque il tono della voce, mi piacque il sorriso. Avrei potuto amarla, mi avrebbe potuto amare, avrei potuto udire le sue parole d’amore. Sulla strada, un uomo l’attendeva. S’incamminarono, tenendosi per mano. Chiesi al barista un bicchierino di grappa. Avevo un appuntamento con una donna che non amavo. Non ci andai.
M.A.V. Passo ora la parola al dottor Salvarani, che ringrazio tantissimo di aver accolto l’invito. E, devo dire, è stato un incontro veramente piacevole, perché non si aspetta magari di andare, di chiedere d’intervenire, di presentare l’ospite. Lui immediatamente ha detto sì, e per questo lo ringrazio.
Nelson Salvarani Innanzi tutto, invece sono io a dover ringraziare voi, perché mi avete dato l’opportunità di conoscere Francesco Amato. Io l’ho conosciuto personalmente questa sera, ma ripetendo una sua frase, appena ieri, leggendo tutto d’un fiato il suo libro, ho potuto conoscerlo meglio, nella sua intimità. Perché tutto sommato questo suo libro ripercorre, sia pure con la incertezza della memoria, un po’ tutta la sua vita, le sue percezioni che sono sì di colori e di luoghi, ma di profumi, di sapori, le zagare, il gelsomini inebriante e i sapori, anche di quelli che sono i cibi della sua terra, che lui indica il millicucchi, il pastizzattu, il sapore della mostarda, ma asprigno. E poi i suoi sentimenti, le sue sensazioni, e cioè le sue aspettative, le sue delusioni, l’entusiasmo, il disincanto, le malinconie che ci assalgono durante la vita di fronte ai vari eventi che ci capitano.
E la sua riflessione ripercorre un po’ anche, appunto, la storia della sua vita, le sue aspettative, ripensando a quelli che potevano essere i grandi valori, le grandi idee delle rivoluzioni, della rivoluzione francese, legalitè, la fraternitè, la libertè. E però ricorda: “Tu dici bene, Senzuste, ma la rivoluzione si è raggelata e i principi sono stati feriti”. E poi ancora, gli eccessi del totalitarismo sovietico, che ricorda nel momento in cui nel marzo 1953 muore Stalin. Muore Stalin e muore un personaggio che si può dire il tutto e il contrario di tutto. Si può dire, come è stato detto da taluni, che fu gigantesco nel bene e nel male? Oppure c’è stato chi, pur sapendo che ha tradito e non ci ha fatto conoscere la verità, pur affermando che la verità, invece, è rivoluzionaria?
Sono queste le delusioni quindi, di una vita a fronte degli ideali rispetto a ideologie che promettevano la liberazione dallo sfruttamento dell’uomo sull’uomo. E è un uomo anche che non ama la retorica, Francesco. Passando di fronte alla statua di Giordano Bruno c’è un’epigrafe che fa ricordare che ci possono essere stati dei secoli di progresso, e allora ricorda l’800 di uno sfruttamento, per l’appunto, dell’uomo nel lavoro, nella preindustrializzazione. Ricorda il 900 delle guerre, il 900 dei gulag e ricorda questo inquietante inizio del 2000, delle confliggenti e delle contrastanti oramai fedi, ideologie, dove è difficile annodare un dialogo perché ci si sente diversi.
E per lui invece il dialogo è proprio l’essenza, il dialogo lui lo ricerca, perché le ideologie oramai sono implose, e quindi, “Di tante speranze resta solo la polvere dei sogni — dice — e la mancanza di dialogo e di rispetto delle idee altrui innalza a valore, invece, il dogma delle proprie convinzioni”. E invece il dubbio che ci vede sempre, in un qualche modo, anche impensierire, perché il dubbio è la ricerca, significa una ricerca della verità, lui la denomina l’ombelico della verità.
E invece il dubbio in questo mondo, oggi in particolare, viene proscritto e l’ideologia diventa delirio, e la fede fanatismo. Mi paiono estremamente attuali queste riflessioni. E voi aspetterete che io parli come giudice del diritto. Mi sono appassionato però davvero in questo percorso a queste riflessioni che, secondo me, sono estremamente profonde. Ma anche sul suo essere giudice, dice delle cose di assoluto interesse che in qualche modo mi trovano così immedesimato in quello che dice che le dico anche con un po’ di pudore, personale ovviamente.
Lui le ha dette, e io non voglio impossessarmene e non voglio neanche che ci sia questa immedesimazione che adesso magari io affermo, ma naturalmente ci sono delle riflessioni che abbiamo fatto l’uno e l’altro nello svolgere una professione che, dice lui e io condivido: “Quella del magistrato è un mestiere come un altro, e bisogna davvero affrontarlo in questo modo”.
Noi siamo dei missionari, viviamo in questo mondo, dobbiamo esercitare la nostra professione estremamente delicata con quella competenza, con quella modestia, con quella onestà che Francesco ci ricorda. È necessario bagaglio del magistrato, ma di noi tutti, di noi uomini in qualsiasi professione che svolgiamo. Rispetto al magistrato, direi che indica quello che potrebbe essere una sorta di decalogo del buon agire. E alcune cose mi sono rimaste particolarmente impresse. “Il magistrato non deve mai dimenticare che, giudicando, si è giudicati.
E non deve neppure dimenticare che la sua decisione lascerà sempre qualcuno scontento, ma dovrà sempre respingere il favore, lo sfavore, le pressioni, i condizionamenti, il consenso della pubblica opinione; dovrà andare anche contro quello che è il comune sentire, che oggi tante volte sento evocare da molti”. Vi ringrazio di questa, però volevo finire, perché Francesco, ancora, fa una riflessione sulla vecchiaia e sdrammatizza, sdrammatizza anche questo che sarà un incontro con la fine della vita, con la morte.
“Certo — dice — la vecchiaia diventa consapevolezza della brevità e della irripetibilità della vita che oramai fugge, si allontana. Ma la stiamo attendendo la nostra fine — magari lui dice — nel tramonto, nel crepuscolo di un giorno lungo d’estate, quando oramai c’è la pace in tutte le cose, e la notte annuncia il suo arrivo, perché morire è di ogni creatura, non solo dell’uomo, è l’attesa di tutte le attese e, quando arriverà il domani, e ci sarà l’ineluttabile appuntamento, allora, e solo allora, — dice — io scoprirò veramente la verità assoluta, quella che nella vita non si può conoscere”. E questo è la fine di questo suo meraviglioso, davvero, gliene faccio davvero i complimenti, perché mi ha dato anche la possibilità di commuovermi assieme a lui, nella lettura.
M.A.V. Veramente grazie. Ancora una poesia.
Attrice La curiosità dell’ignoto alimentata dalla fantasia, spinge al sapere. Vale nei traguardi, si estendono i confini, ci sono da aprire nuovi orizzonti in una ricerca mai conclusa, che non potrà mai saziare la nostra sete di conoscenza. L’ignoto è necessario alla mente, come al corpo l’acqua quotidiana.
M.A.V. Passo ora la parola al dottor Ruggero Chinaglia, che è presidente dell’associazione cifrematica di Padova, e è qui in veste di editore, e pratica come cifrante.
Ruggero Chinaglia Allora io oso dire quello che ciascuno dei relatori precedenti ha alluso, ma che nessuno ha avuto l’audacia di dire. È un bel libro, è veramente un bel libro. Bello, non secondo il canone del bello, quel canone che dovrebbe accomunare i pareri, i giudizi sull’abolizione della differenza e sull’abolizione della contraddizione. È bello invece proprio perché, dalla contraddizione inconciliabile e lungo la differenza assoluta, si snoda il filo della narrazione di Francesco Amato.
Il filo quindi di questo poema, che è sicuramente il poema, il romanzo della sua vita, ma è anche il poema e il romanzo che restituisce la sua vita in qualità ossia, cogliendo nello sforzo incessante di precisazione, cogliendo quelle questioni, quegli aspetti che nella sua vita ha incontrato e che restituisce come contributo al lettore, come contributo alla civiltà, come contributo alla civiltà della parola.
Effettivamente la questione della morte sembra una preoccupazione, in particolare all’inizio di questo suo racconto. Ma nella lettura, nello svolgimento del poema, la questione della morte non è indugiata sulla sua maschera lugubre, ma diventa l’indice della differenza e la differenza assoluta, grazie a cui la tensione alla ricerca, la tensione all’indagine, la tensione alla qualità della vita mai è venuta meno, mai viene meno.
E anche oggi dunque, infatti, Francesco Amato dice: “Io chi sono? Non so chi sono”. Sono, ma dunque nel senso non dell’essere ontologico, non sono così, immutabile, secondo delle caratteristiche di una predisposizione acquisita, ma sono vivo. Vivo, cioè quindi incessantemente sono tratto verso la novità, verso il nuovo, verso la precisazione, verso la qualificazione delle cose. E è questo un messaggio che, lungo la lettura, accompagna il lettore.
Un messaggio quindi costantemente di apertura, di tensione alla qualità, un messaggio quindi anche di speranza, anche se talvolta appunto questa preoccupazione apparente per la morte sembra trasparire, anche lì dove dice, per esempio: “Vorrei stare qui fermo a contemplare questo mare che incanta — e offre delle immagini bellissime di questo mare — in un barbaglio di colori cangianti, verdazzurro, verde turchino”. E avanti.
Non vi tolgo il piacere della lettura. Ma conclude: “Ma devo andare. Vorrei stare qui, ma devo andare. Non so se il viaggio sarà lungo o breve”. Ma intanto c’è il viaggio, intanto il viaggio prosegue e intanto la ricerca prosegue, e intanto di questa ricerca lui ci offre una restituzione con la scrittura, perché sicuramente è questa sua una scrittura dell’esperienza.
Una scrittura che viene appunto dalla restituzione della sua vita, dalla restituzione di ciò che ha incontrato, dalla restituzione della questione intellettuale che la sua vita, la sua professione, la sua indagine gli ha offerto. Quindi ricerca, ricerca della verità, ma con insomma la constatazione che questa ricerca non approda a una verità ultima, una verità definitiva, è verità temporale. Ciascuna volta questa istanza della verità si presenta e ciascuna volta lo conduce a indagare.
È questa la questione del diritto che emerge anche da questa sua scrittura, il diritto come diritto dell’Altro. Non il diritto di qualcuno, non il diritto dell’uomo in nome del quale si dichiarano le guerre e si combattono, ma il diritto dell’Altro, che si fa, appunto, della contraddizione, della differenza assoluta, si fa di arte e di cultura nella loro combinazione, si fa della tensione che procede dalla logica del desiderio e dalla logica del dispendio.
Diritto dunque dell’Altro, come Altro irrappresentabile, diritto non assumibile da qualcuno, diritto però su cui si istituisce la città, la civiltà, la civiltà della parola, la città del tempo. Quindi una città in cui ciascuno è ospite, non già padrone, non già amico, non già nemico, mai qualificato una volta per tutte, città in cui si tratta di istituire il dispositivo dell’ospitalità, per vivere in direzione della qualità.
Sono innumerevoli le cose che la lettura di questo libro offre e è bello proprio perché ci sono cose che lui ha scritto, e che sono leggibili nelle parole che ha usato, ci sono cose che sono leggibili fra le righe. Però anche questa lettura fra le righe procede appunto dalla sua scrittura, dalla qualità di questa scrittura, dalla tolleranza con cui affronta ciascuna questione, senza offrire una ricetta, senza offrire una conclusione già prestabilita, lasciando a ciascuno di indirizzarsi, di rivolgersi verso la qualità. E quindi grazie.
M.A.V. Allora, grazie anche a Ruggero Chinaglia. Adesso è venuto il momento. Abbiamo visto che hanno fatto anche un po’ tardi, ciascuno ha indugiato, e quindi è un invito a acquisire e a acquistare il libro. Poi, al termine, magari Francesco Amato potrà autografarlo, sarà felice di farlo, e passo volentieri la parola a lui.
Francesco Amato Ho udito tante belle parole, ma sicuramente sono state condizionate dall’amicizia delle persone che sono intervenute e che hanno per me, dell’amicizia, della simpatia e della bontà. Probabilmente non me le merito. Per quanto concerne la serata, la bella serata di oggi, si doveva presentare e si è presentato il mio libro secondo la tematica diritto – giustizia – poesia, mi sembra. Io mi sono permesso di annotare alcuni pensieri a proposito di questi concetti.
Nei 47 anni di magistratura che mi pesano sulle spalle, mi sono domandato, e mi domando ancora, che cosa sia la giustizia. Lascio da parte i noiosi libri di diritto, esco dall’orto chiuso e asettico dei giuristi. Me lo posso permettere essendo un pensionato da cinque giorni. Apro un buon dizionario e vi leggo: “La giustizia è un complesso di leggi morali, di comportamento di un gruppo e di un’epoca, è un principio etico che consiste nel riconoscere e rispettare i diritti altrui. Quindi è giusto il comportamento conforme a tale principio”.
Va subito qui rispettato che giustizia e legge, la norma emanata dagli organi che detengono il potere, non sempre coincidono. Vi possono essere leggi ingiuste; paradossalmente vi possono essere leggi giuste che contrastano le regole che informano di fatto comportamenti generalizzati, leggi giuste disattese dal comune sentire delle genti. Ecco perché è inesatto affermare che il giudice fa giustizia; egli si limita ad applicare la legge.
Ma se la giustizia è causa e effetto del costume di una società determinata nel tempo e nello spazio, il suo è un valore relativo? Parrebbe di sì. Per certe popolazioni il cannibalismo, ovvero il sacrificio cruento di bambini innocenti sugli altari di oscure divinità, rispondeva a un principio etico. Per secoli la schiavitù fu ritenuta un rispettabile istituto giuridico; per secoli, nei processi penali, i magistrati praticavano la tortura.
Fino al concilio Laterano IV, 1224, i preti potevano, senza peccato, validamente sposarsi. Eppure noi tutti sentiamo l’esigenza di enucleare dalla parola giustizia ciò che ha valore assoluto, universale, anche se celato da elementi prevalenti ma non permanenti. Non riesco a sottrarmi alla tentazione di citare Platone, La repubblica. Per il filosofo greco la giustizia è la virtù che rende virtuose le capacità umane. Essa non è in sé, ma si realizza di volta in volta nel sapere essere giustamente razionali, giustamente coraggiosi, giustamente temperanti.
Resta senza adeguata risposta quando si dice giustamente. I pragmatici romani ritenevano che fosse giusto l’uomo che viveva onestamente, dunque onestà come giustizia. Ma l’onestà come si traduceva, come si traduce? Nel dare a ciascuno il suo: “Suum unicuique tribuere”. La formula si presta ad essere male intesa. Che significa dare a ciascuno il suo? Dare allo schiavo nuove catene? Consegnare ai patrizi i latifondi? Consentire a pochi di godere immense ricchezze e tollerare l’estrema povertà di molti? No, di certo.
E ancora A ciascuno il suo, il titolo di un romanzo di Sciascia, ma è anche il titolo di un manuale dell’aerea degli anarco-insurrezionalisti, per i quali il suo, da errare ai servitori dello stato e ai rappresentanti del sistema borghese, consiste in un proiettile omicida. Abbozzo una faticosa risposta. Per riempire del suo vero immutabile valore la formula, a ciascuno il suo, per sostanziare il significato della parola giustizia, occorre operare un transfert.
Un transfert, sì, nel senso di sostituire all’io dell’altro il proprio io, di vedere sé stesso nell’altro. Il laico concetto viene bene espresso dalla frase evangelica “non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te”. Se lo schiavista s’immedesimasse nello schiavo, lo libererebbe senza indugio; se il datore di lavoro s’immedesimasse nel lavoratore, non lo sfrutterebbe; se il prevaricatore s’immedesimasse nel prevaricato, smetterebbe di offenderlo.
Tutto ciò significa in altri termini rispetto dell’uomo. Senza questo rispetto non ci sarebbe giustizia. Per operare il transfert bisogna conoscere se stessi, comprendere l’essenza della vita, capire gli altri, le gioie, i dolori, le speranze, sentimenti, i pianti. La poesia è la via, una delle vie per raggiungere questa conoscenza, questa comprensione. La poesia non è un’evasione dalla vita attiva, non è una fuga dalla pesantezza del quotidiano, ma è ricercare sé stessi attraverso sé, oltre sé.
Mediante la poesia, l’uomo conosce l’anima dell’umanità. A sostegno, mi permetto di leggere alcune riflessioni che fanno parte della mia ultima fatica di prossima pubblicazione. Non parlo con le muse né con le costellazioni né con il chiaro di luna, che taluno voleva bandire, se non dal firmamento, almeno dall’arsenale poetico. Il mio è un monologo, medito su me stesso per cercare di comprendere.
E così, senza volerlo parlo con te. L’ho sconosciuto, l’altro io di me stesso. Per me, poesia è partecipazione alle vicende umane. Verità, libertà, immaginazione sussurrano riso, armonia, parola schietta che vince il silenzio dei sentimenti, espressione sincera dell’essenza di quanto percepito.
Emozione, commozione, atto di fede e la tua anima che su di me si riflette. La mia voce che nella tua si confonde. Concludendo, la poesia è armonia, la giustizia è armonia. Giustizia e poesia si integrano nella vita, giustizia e poesia si muovono nei liberi spazi dello spirito, ma non sono sterili concetti, sono pensieri che spingono all’azione, azioni che alimentano i pensieri.
M.A.V. Darei un’ulteriore eco alla poesia di Amato, attraverso la lettura dell’attrice.
Attrice Appena ieri. Mio padre mi alza verso il cielo. Mamma mi abbraccia. Sono un principino. Favole e realtà hanno un medesimo volto, atmosfere incantate, futuro affascinante. Appena ieri, uscivo coperto da scuola. Giocavo con mio fratello, saltavo leggero le siepi, nuotavo, contemplavo il mare, stavo chino sui libri, leggevo, lavoravo. Appena ieri l’orrore delle guerre, l’atrocità della persecuzione, lo strazio degli uomini, la giustizia lacerata. Appena ieri il primo appuntamento, il primo amore, l’ultimo amore, la felicità di essere padre la gioia luminosa. Soltanto domani l’ineludibile appuntamento, e saprò, saprò finalmente la verità assoluta, ma nessun gallo andrà sacrificato allo sconosciuto Esculapio.
M.A.V. Io credo che sia anche per me la prima volta. Vorrei che terminassimo qui questa serata e che ciascuno porti con sé quanto di quello che ha ascoltato possa aver udito e possa restituire, per sé e per ciascuno che lo avvicina, qualcosa di questa testimonianza che arricchisce ciascuno di noi, e è un pur minimo contributo alla civiltà che spetta a ciascuno di noi. Al tavolo ci sono i libri. Spero che qualcuno venga anche portato qui per essere autografato. E ringrazio tantissimo Francesco Amato di essere qui. E ricordo anche che ci sarà un secondo appuntamento con Francesco Amato, perché sta per essere pubblicato il terzo volume con la casa editrice Spirali, quindi sicuramente lo rivedremo e lo riporteremo a Vicenza.
E ringrazio il dottor Nelson Salvarani che ha fatto una lettura così, direi tra le righe, questo tra, che riprende la traccia con cui ciascuno può udire quel che dice parlando. E ringrazio Ugo Dal lago che abbiamo sentito essere fratello amico, e è bellissima questa amicizia. Ringrazio Mario Bagnara di essergli compagno appena ieri, e anche domani, e poi Ruggero Chinaglia per la lettura altra, di come entrano questi termini della esperienza cifrematica, e un ringraziamento speciale a ciascuno di voi che siete stati qui con noi. Buonasera.