L’allegria e l’aritmetica della vita
- Chinaglia Ruggero, Rosso Luigi, Silvestrini Antonella
11 giugno 2009 Conferenza di Luigi Rosso e Antonella Silvestrini L’allegria e l’aritmetica della vita svoltasi nel quadro della serie di dibattiti La scienza e la crisi, in presentazione del terzo numero della collana “La cifrematica” dal titolo Il cervello e la bussola. Padova Sala Polivalente, con il Patrocinio di Regione Veneto, Provincia di Padova, Comune di Padova.
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LUIGI ROSSO, ANTONELLA SILVESTRINI
L’allegria e l’aritmetica della vita
Ruggero Chinaglia Buonasera. Cominciamo il dibattito della modernità, intorno al terzo volume della collana “La cifrematica“, Il cervello e la bussola. Abbiamo dedicato questa serie di dibattiti, siamo al penultimo appuntamento, quasi esclusivamente a questa collana, inserendo a fianco il volume La dissidenza cifrematica di Augusto Ponzio, perché in questi libri della collana ci sono contributi straordinari. Si trova un messaggio di cui ciascuno può avvalersi quale sia la fase della vita in cui si trovi, quale sia l’attività che sta svolgendo, quale sia il progetto e il programma, a condizione di non votare questo progetto, questo programma alla mediocrità, all’eutanasia, al luogo comune, ma di dirigerlo in direzione della qualità.
Questi libri danno un contributo a ciò, per i testi che contengono, sia di esponenti dell’esperienza cifrematica in corso, sia di esponenti di un più ampio movimento culturale, quindi anche non psicanalisti, anche non cifrematici, che si avvalgono tuttavia del criterio della qualità. C’è una ricchezza tale in questi libri che invita alla lettura, per promuovere un ragionamento in direzione, ancora una volta, dello sforzo intellettuale e non dell’adeguamento al luogo comune. Il numero tre della collana “La cifrematica”, Il cervello e la bussola, che ci dà il pretesto per l’incontro di questa sera, in particolare affronta la questione della salute intellettuale e del modo con cui acquisirla.
Il cervello e la bussola, come dire che nulla é scontato, nulla va da sé; ciascuna cosa per approdare alla sua cifra esige un dispositivo intellettuale secondo la logica della parola. Questo comporta qualcosa di nuovo rispetto a quella che è una comunicazione, diciamo, “alla Costanzo”, dove si tratterebbe di conformarsi alla mediocrità perché così possiamo stare insieme, uniti, conoscerci meglio, senza l’istanza della qualità, senza quindi la salute. Che la salute non sia cosa per tutti, cosa da protocolli, questo libro lo indica in modo preciso, lo indica con il contributo di medici, filosofi, cifrematici, psicanalisti, scrittori, giornalisti.
C’è veramente una ricchezza notevole in questo volume, per cui è da leggere; non c’è altro da dire, è da leggere! Leggendo questo libro, risulta più chiaro perché leggere anche gli altri. Al momento sono sei i volumi e presto uscirà anche il settimo. È una collana da leggere e da promuovere; non basta leggerla, va anche promossa presso altri, perché ci sia una diffusione di questo modo di affrontare le cose e quindi anche di qualificare la vita. Un conto è vivacchiare, sopravvivere, un conto è vivere.
La mitologia della sopravvivenza è quanto di più affermato negli ospedali, nei tribunali, nelle scuole, è quanto di più in voga. Ebbene, è contro questa mitologia della mediocrità, della sopravvivenza che noi affermiamo invece l’istanza della vivenza, l’istanza della vita, della qualità della vita, della valorizzazione della vita. Rispetto a questo, rimanere indifferenti è già un modo di condividere l’eutanasia; l’indifferenza rispetto a questo è già un modo di scegliere l’eutanasia.
Se lo ripeta bene ognuno, nel momento in cui rimane indifferente a ogni appello, rimane indifferente a ogni attività, rimane indifferente a ogni cenno di vita di questo movimento. Se lo imprima bene dinanzi a sé, ognuno che resti indifferente all’esistenza di questa associazione, di questo movimento, di questa esperienza.
Abbiamo questa sera due ospiti, due protagonisti, due testimoni di questa esperienza, di quello che comporta quanto a qualità della vita e delle cose. Si tratta di Luigi Rosso, avvocato a Pordenone, cifrematico, autore di saggi, sia nel campo del diritto sia per quanto riguarda la clinica cifrematica e Antonella Silvestrini, psicanalista, leader a Pordenone, presidente dell’Associazione cifrematica di Pordenone, che a Pordenone dirige anche l’attività di una sede dell’ufficio stampa della casa editrice.
E quindi ha modo di confrontarsi in varie direzioni con le esigenze pratiche, organizzative, intellettuali che l’esperienza di ciascun giorno esige. Di questo ci daranno testimonianza con un titolo che è bellissimo L’allegria e l’aritmetica della vita. Ciò che andiamo facendo, dicendo, scrivendo è serio, ma proprio per questo si avvale dell’allegria e dell’aritmetica.
Allora invito al suo intervento Luigi Rosso. Prego.
Luigi Rosso Ringrazio Ruggero, ringrazio ciascun membro dell’associazione di Padova per questo invito e mi piace darvi una testimonianza. Allora, l’avvocato si occupa della causa e anch’io credevo così: è quello che all’università s’insegna, è quello che si apprende nei primi anni di pratica e, comunemente intesa, la causa è contrapposizione, quindi contro qualcuno, contro qualcosa. C’è sempre questo “contro” che torna, c’è la controversia, la controparte, il contraddittorio. Anche il pubblico ministero in alcune cause è il contraddittore necessario.
Nei testi di diritto processuale viene identificato in questo modo, quindi anche lo stato, che rappresentato dal pubblico ministero, partecipa e conferma questa contrapposizione. Quando invece ho letto quello che Armando Verdiglione scrive intorno alla causa, ho avuto prima un po’ di smarrimento e poi uno spalancamento, perché ho capito che tutta questa parata di contrapposizioni segna un processo che si svolge tra memorie, comparse e repliche.
In realtà senza ascolto e senza diritto, senza il diritto inteso come diritto dell’Altro, quindi senza memoria, senza interlocuzione, né fra le controparti, le cosiddette controparti, ma neppure tra loro e il giudice. Anzi, c’è spesso una carica di animosità, d’inimicizia, di astio, di risentimento che certo non sono interessanti per l’immunità e per la salute e, tuttavia, è una mole di materiale clinico eccezionale ed è un pretesto che consente nuove acquisizioni e nuovi ragionamenti.
E proprio il contraddittorio diventa il principio, è retto a principio, è quasi sacralizzato e la violazione del principio del contraddittorio è quanto di peggio possa accadere nel processo. Però altra cosa è intendere che invece il processo procede non dal contraddittorio, ma dalla contraddizione e quindi dalla relazione e dall’apertura originaria, quando è originaria. Invece il contraddittorio, tolta, espunta la relazione, conferma l’uguale sociale, la parità sociale.
E proprio a garanzia di questa parità si pone il giudice che, a volte, diventa parte anch’egli e si contrappone anch’egli, confermando così la mancanza d’ascolto. L’idealità dell’uguale sociale è proprio il pregiudizio sull’Altro, del resto in questa correità sociale non ci può essere ascolto. Perché chi è uguale, in questa sorta di specularità, avrebbe qualcosa di interessante da dire? La presunta controparte, che è uguale, già sa cosa dirà il suo omologo e anche il giudice già sa cosa diranno le controparti e quindi i contendenti. Per forza, con questo sapere già dato non c’è ascolto, non c’è lealtà.
Tutti i protagonisti del processo, delle cause, delle controversie, si conformano a questa rappresentazione, nella cui scena si gettano tutte le piccolezze, i risentimenti, i sotterfugi, le furbizie anche processuali, anche piccole strategie, i nascondimenti: insomma vige l’omertà. Proprio questo sistema, basato sul contraddittorio e non sulla contraddizione, che invece è originaria, non coglie la portata dell’apertura.
Il contraddittorio è la rappresentazione della contraddizione e della relazione nel dialogo, nel rapporto sociale e le udienze civili sono proprio lontane dall’ascolto. Il giudice si trova in una sorta di assedio di avvocati, di praticanti, di parti che a volte partecipano alle udienze, tutti con i fascicoli in mano, con i verbali, che in realtà sono delle verbalizzazioni che non hanno nulla dell’oralità e sono pronti da essere firmati per ricevere la data del rinvio della prossima udienza.
Questa rappresentazione conferma che proprio non c’è udienza, non c’è interlocuzione, ma c’è invece routine, conformazione, standardizzazione. Ciò poi comporta che i clienti siano scontenti, per forza di cose, dei ritardi, della lunghezza dei processi, dei rinvii. Gli avvocati sono indispettiti, perché in questo mucchio di questioni, che devono essere affrontate nella mattinata, proprio le mattinate e le giornate si perdono; il giudice ha spesso troppe cause e questioni da affrontare e comunque tutti questi personaggi sembra abbiano dimenticato, oppure deliberatamente dimenticano, l’importanza dello statuto intellettuale, quindi ognuno è anestetizzato dal proprio ruolo sociale.
Che poi questo intervenga per una comodità o per una delega, questo spetta a ciascuno indagare e cercare quale sia la questione che per lui interviene nel processo o nella pratica. Diciamo che, a volte è per convenienza o anche per abitudine, l’avvocato preferisce accettare la delega e assumere il problema del cliente, non la causa, quindi avvalla l’incapacità del cliente che viene incasellato come incapace o vittima.
E questo consente all’avvocato, che non coglie l’importanza di quello che dicevo prima, dell’apertura, di salire in cattedra, di sedersi su una comoda poltrona, sempre più alta e più comoda di quella del cliente che ha di fronte e di mettersi di fatto nella posizione del maestro, confermando così, nella dicotomia maestro-allievo, il soggettivismo e il fantasma materno del cliente da un lato, e l’idea di sé e il fantasma di padronanza erotica dell’avvocato.
Così facendo, l’avvocato si preclude l’ascolto e perde l’occasione di valorizzare con il racconto l’esperienza, cogliendone la portata intellettuale, artistica e poetica. Insomma, perde la chance di un’elaborazione. Gli atti che scrive sono magari tecnicamente ineccepibili, ma sono poi noiosi; quindi quell’avvocato, diciamo, toglie anche in questo intervento, che è pieno già di per sé di pregiudizio, agli altri interlocutori la chance di intervenire nel loro statuto. Anche al giudice viene tolta questa chance d’intendimento e in quel caso l’unica fortuna che quell’avvocato può avere è che l’altro avvocato, il contraddittore, ragioni anch’egli nello stesso modo.
In questa parità poi il processo prosegue e alla fine una delle parti, il giudice, che come dicevo prima a volte è anch’egli di parte, decide, in genere scontentando quasi tutti. Però la perdita maggiore è proprio questa mancanza di intendimento che questi personaggi non riescono a svolgere rispetto a quello che invece, nella lettura dei testi di Verdiglione, soprattutto riguardo a ciò che dice della causa, è assolutamente straordinario e eccezionale.
Si tratta di questo: il discorso giudiziario si conforma in tutto e per tutto al canone occidentale, che Armando Verdiglione dice costituito dal discorso come causa. Quindi il discorso occidentale pone il senso, il sapere e la verità come causa.
La verità non è ideale e nemmeno una causa finale. E questo è proprio spiegato nei primi scritti di Armando Verdiglione nella rivista che presentiamo questa sera. Quindi, la causa non è rappresentabile, non si rappresenta nel contraddittorio. La contraddizione invece è l’apertura originaria e, immaginarla, visualizzarla o rappresentarla nel contraddittorio, conferma il conflitto sociale e gli effetti per la salute sono devastanti, sia per la salute del cliente sia per la salute dell’avvocato. La rivista che presentiamo questa sera è molto interessante per intendere che la salute non è qualcosa che si possa perdere, la salute è invece istanza di qualità.
Nessuno pensa che la salute sia una questione che riguarda l’interlocuzione con l’avvocato e con il consulente. Sì, sicuramente il professionista s’interessa della propria salute o di quella che ritiene la propria salute, ma non si pone neppure la questione della salute del cliente e viceversa. La salute invece, proprio come istanza di qualità per ciascuno, è l’istanza che interviene in ciascun dispositivo: non è mia, non è tua, non è sua e non si tratta della propria salute o della salute altrui. Allora capiamo che dall’istanza di qualità non sono esenti né l’avvocato, né il commercialista, né il magistrato e neppure il medico.
Ragionando su questa rappresentazione del processo e dell’udienza si intende che è assurdo. E non si capisce perché dovrebbero esserci conversazioni, incontri, avvenimenti o occasioni, come quelle di un processo, senza che comportino l’istanza di qualità. Per Armando Verdiglione la causa non è il problema: è la provocazione, è la condizione dell’incontro, è ciò che lui ha definito il sembiante; è impossibile risolverla in una controversia.
Il contratto, la procedura, il processo, il diritto, la giurisprudenza e anche le questioni che riguardano la pratica dell’avvocato: l’interlocuzione con i clienti, con i collaboratori, con i magistrati, con gli altri avvocati sono una bellissima fonte di analisi e di ragionamento. Il diritto è il diritto dell’Altro, come dicevo prima. Come ci insegnano i romani è una questione pragmatica, è indispensabile per il programma imprenditoriale e per la riuscita: il diritto come diritto dell’Altro.
Altra cosa invece è la tutela dei diritti, che spesso è ciò che muove qualcuno ad avviare un processo. La terminologia dell’agire, l’attore, arriva da agitare, come se ci fosse qualcosa di forte che deve essere sbandierato; si diceva una volta “agitare in giudizio”, nell’idea che ci sia una violazione, una ferita. Quindi altra cosa dal diritto è la tutela dei diritti, che presuppone invece il soggetto naturalmente incapace, debole, il soggetto da tutelare.
Con il diritto c’è l’immunità e la salute, con la difesa dei diritti, invece, c’è proprio la conferma del soggetto debole e potenzialmente malato. La cifrematica consente di introdurre la questione intellettuale nel mestiere di avvocato come in ciascun altro ambito: nell’arte, nella scienza, nell’impresa.
L’avvocato è advocatus, è chiamata in causa la voce e dunque il narratore, il raccontatore di storie, sempre comunque in una struttura narrativa. Occorre che egli assuma la causa e non la fantasmatica del cliente o la sua delega, e che racconti una storia attraverso gli atti, le memorie nelle udienze e nelle trattative. Se l’avvocato interviene con un approccio intellettuale, questo comporta che i fatti, le lamentele, i torti, le piccolezze, quello che si diceva prima bisogna agitare nel processo, si trovano in una narrazione, in una storia, in un racconto che sfata l’idea di sé, il soggettivismo, il personalismo e quindi anche l’idea della vittima o del carnefice.
Se l’avvocato sovrappone al fantasma del cliente il proprio fantasma, la memoria non si valorizza, anzi gli inghippi, i rimandi, le complicazioni aumentano, si sovrappongono. E anche la giornata di quell’avvocato si appesantisce e si troverà con molte pratiche intricate, affastellate, non compiute, magari per qualche piccolo dettaglio, perché probabilmente, avendo assunto tutte queste deleghe, perde anch’egli lucidità e non conclude poi ciascuna cosa che si trova a fare nella giornata o comunque nella propria attività. Questo può intervenire, sempre nell’ambito dell’interlocuzione con il cliente, nell’ambito del pagamento dell’onorario.
Quindi anche la questione del pagamento dell’onorario è molto interessante e consente di sfatare alcuni residui fantasmatici, cioè il pagamento è appagamento. Soprattutto in questo periodo i compensi degli avvocati sono la prima cosa che gli imprenditori non pagano, cioè, se devono scegliere se pagare un fornitore o un consulente, è sicuro che prima pagano il fornitore, poi con l’avvocato ci sarà sempre tempo di farci sopra un ragionamento.
Dicevo, è interessante questa questione, perché il pagamento è appagamento e non è la conferma del torto subito. Spesso dall’avvocato ci si è andati, invece, proprio per quella fantasia di risarcimento rispetto a una presunta ferita, a un torto, quindi partendo dalla rivendicazione e dalla convinzione che all’avvocato sia attribuita la delega per riparare quel torto, per ristabilire la parità secondo un principio indennitario e non immunitario.
Per forza, se un avvocato deve ripristinare una parità, quel compenso che toglie qualcosa dalla situazione precedente dà fastidio, e quindi salta per primo il pagamento, con l’effetto che non c’è neppure appagamento per il cliente. Però non è per un principio contabile che ci si rivolge all’avvocato: il consulente è l’interlocutore per l’inedito, pertanto l’incontro non è esente da lusso.
L’immunità e l’istanza di qualità s’instaurano invece proprio come un lusso, che è il lusso del tempo, e con l’aritmetica. Così intendiamo che non c’è nessuna ferita da rimarginare. Nell’esporre il caso il cliente cerca spesso un complice. L’avvocato deve invece instaurare l’interlocutore, ascoltare la narrazione e, con gli strumenti a sua disposizione, siano essi tecnici e soprattutto intellettuali. E questo è il contributo della cifrematica: deve restituire un altro racconto in direzione della valorizzazione e della qualificazione.
L’avvocato che interviene tenendo conto della cifrematica difficilmente diventa uno dei personaggi di cui dicevo prima, anzi, coglie che il ruolo sociale è una prigione, assolutamente riduttivo. Il professionista, avvocato, giudice, commercialista, medico, architetto, che non sale in cattedra o non si barrica dietro la scrivania o l’uniforme, ma tiene conto della questione intellettuale, riesce ad intervenire con generosità, lealtà e efficacia. Spetta all’avvocato introdurre la questione intellettuale, introdurre il distacco, introdurre accanto al registro tecnico anche il registro intellettuale.
Insieme, senza relazione sociale, constateranno che il nemico non sta dinanzi, che il diritto è dell’Altro, che metafora, umorismo o motto di spirito, astrazione, diplomazia, retorica sono strumenti intellettuali indispensabili per instaurare un dispositivo di battaglia efficace e leale, sempre secondo la procedura, con l’apertura che ciò comporta, attenendosi alla lealtà senza pervicacia e senza invischiamento. La cifrematica insegna a volgere in capitale l’esperienza e a intendere che nella giornata nulla accade fuori della parola e che la scommessa intellettuale non è mai chiusa.
La controversia giuridica diventa occasione di elaborazione: il nemico non sta dinanzi, l’Altro non ruba, non truffa, non mente. Con l’introduzione della questione intellettuale s’instaura invece la lucidità, l’istanza di conclusione. Cogliere che una cosa è il diritto e una cosa è la tutela del diritto, consente di non essere neppure sfiorati dall’idea della vittima e del carnefice. Chi si preoccupa della tutela del diritto, invece, subito assume questi ruoli.
Armando Verdiglione scrive: “L’aritmetica è propria della vita, è il numero secondo cui si tesse il ritmo. Con i dispositivi di ritmo noi non dobbiamo acquisire uno statuto sociale di appartenenza a una categoria, a un insieme, a una classe, a una corporazione. Lo statuto intellettuale è posto in rilievo dal brainworking. Qual è lo statuto intellettuale, qual è l’intellettualità della vita, qual è il cervello dell’impresa, dell’azienda, dell’istituzione pubblica o privata, e in che modo ciascuno è protagonista? I tecnici sono importanti per l’imprenditore, ma sono da consultare, e anche i tecnici occorre che tengano conto che corrono lo stesso rischio e compiono la stessa scommessa dell’imprenditore”.
Ecco, queste alcune cose intorno alla mia esperienza di avvocato, ma queste constatazioni sono emerse anche nella mia recente esperienza d’impresa. Da circa quattro anni ho avviato un’impresa nell’ambito delle costruzioni e mi sono accorto da imprenditore che spesso il professionista o il tecnico sembrano potersi illudere che il rischio non li riguardi. Invece l’imprenditore non può proprio accomodarsi in questa vacuità.
Per l’imprenditore è più facile intendere che l’immunità viene dal rischio e che non c’è modo di barare. Concludo dicendo che l’auspicio è quello che il professionista intenda che la chance propria è quella del messaggio che già era stato il messaggio del Rinascimento e che Verdiglione ha spesso ripreso, proprio per sfatare la inconsistente differenza tra l’arte liberale e l’arte meccanica. Grazie.
Ruggero Chinaglia Ringrazio Luigi Rosso per il suo intervento. Un contributo rilevante, che invita a riflettere. Sono molte le questioni che ha enunciato; in particolare, forse, potrebbe poi riprendere in sede di dibattito qual è stato il contributo che l’esperienza imprenditoriale ha dato alla sua attività di avvocato; e come questa si è integrata con le acquisizioni dell’esperienza cifrematica.
Quindi anche della formazione imprenditoriale che la cifrematica dà nella sua esperienza, perché questo sarebbe sicuramente un elemento di ulteriore testimonianza e interesse, accanto alle cose che ci ha detto. Interessantissima è la questione della differenza tra la contraddizione e il contraddittorio, e quindi del processo non come rappresentazione della guerra, ma invece come processo intellettuale che sfocia nel giudizio dell’Altro.
Dunque, l’apporto del giudice e dell’avvocato dovrebbe essere quello di dissipare l’affrontamento, introducendo la terzietà in modo effettivo. Terzietà, cioè la dissipazione della rappresentazione dell’Altro, perché è questo che provoca il duello, il litigio. È questo che provoca quel vittimismo che spesso Luigi Rosso ha citato come elemento costitutivo dell’affrontamento, per cui l’avvocato viene interpellato.
E questo vittimismo che, occorre dire, è dilagante, è nient’altro che l’altra faccia della malattia mentale, l’altra faccia della mentalità che espelle l’Altro, che toglie l’Altro. La mentalità dinanzi, dove si tratta di tu, io senza il terzo, e quindi tra tu e io non c’è altro modo che quello di affrontarsi, per vedere chi può sopravvivere. Il consulente non ha da dare nessuna consolazione, ma occorre che rivolga il suo intervento alla clinica e alla cifra. In questo, forse, sta il bello dell’attività cosiddetta professionale, laddove appunto intervenga lo statuto intellettuale della professione. Molte altre cose mi ha evocato questo intervento, ma abbiamo anche tempo nel dibattito. E adesso invito a intervenire Antonella Silvestrini.
Antonella Silvestrini Grazie per questo invito, sono felicissima di essere qui a Padova, anche perché il titolo è molto suggestivo. Platone nel “Simposio” fa raccontare ad Aristofane la sua idea dell’amore. Così Aristofane enuncia il mito delle sfere, notissimo, secondo cui gli umani sono delle macchiette ridicole, perché gli uomini originariamente erano una palla, erano una cosa circolare.
Dice: “E la figura di ciascun uomo era tutta intera, rotonda, con il dorso e i fianchi a forma di cerchio, avevano quattro mani e tante gambe quante mani, e due volti su di un collo arrotondato del tutto uguali e avevano un’unica testa per ambedue i visi rivolti in senso opposto, quattro orecchie e due organi genitali e tutte le altre parti ciascuno se le può immaginare da queste cose che ho detto.” Quindi, questi esseri circolari con una testa poi, ad un certo punto, sono stati divisi in due e ognuno dei due, vivendo, non avevano altra chance che rincorrere l’altra metà, cioè andare alla ricerca dell’altra metà e inseguire questa unità ideale.
Gli umani per Platone hanno metà testa e quindi hanno bisogno di un’altra metà per fare un’unità. Per Platone il male nasce con la divisione in due, la sfortuna degli umani. La loro disgrazia è proprio quella di procedere da questa divisione in due. Questa immagine, che egli propone per dare una spiegazione dell’amore, in realtà è il modello principe che il discorso occidentale ha assunto per qualsiasi attività. Cioè anche la salute è il ripristino di qualcosa che stava in origine, quindi la vita è una malattia, perché procede da questa divisione in due, maledetta, che ci precluderebbe l’uno ideale e il bene. Allora, questa idea platonica sta alla base della contabilità e della partita doppia a cui ognuno consacra la propria vita. Questa idea di compensazione, di risarcimento, in nome di cui gli umani intendono la loro vita.
Freud introduce una rivoluzione con la constatazione di una logica particolare inconscia, perché parte proprio da ciò che nell’ambito scientifico era un difetto, una mancanza e lui incomincia e dà dignità. Dà la dignità alla castrazione, dà dignità alla mancanza. C’è una dignità nuova a cose che prima di lui, a parte la scrittura e le opere d’ingegno degli artisti e degli scrittori, ma per il discorso scientifico fino a Freud erano difetti. Con la psicanalisi e con la cifrematica la castrazione e la mancanza non sono più difetti, sono proprietà e sono aspetti strutturali della pulsione.
Addirittura, proprio la castrazione e la mancanza, ciò che Freud definiva la rimozione e la resistenza, escludono l’unità. La pulsione travolge l’idealità, non resta nulla dell’idealità con l’irruenza della pulsione e l’unità ideale viene assolutamente sfatata. Allora, ecco perché Verdiglione, da subito, nella sua indagine sostiene che le cose procedono dal due. Perché se le cose procedono dall’uno sono difettate, ciascuno di noi è difettato se le cose procedono dall’uno.
Invece, ben altra chance intendere che le cose procedono dal due, ma non un due che è frutto dalla divisione dell’uno: il due originario e quindi il fatto che bene male, alto basso, positivo negativo, non sono situabili. Noi non abbiamo da prendere nessuna posizione e, anzi, questa impossibilità di rappresentarci l’uno o l’altro ci consente un’assoluta libertà intellettuale. La questione, che io mi sono posta tante volte, è questa: ma perché siamo così tentati dalla mitologia della sostanza?
Perché ognuno di noi ha questa tentazione della idealità, cioè di confrontare quello che fa nella giornata, nella sua vita, a una immagine ideale, a un ricordo, a un’idealità, per poi intervenire correggendo? Perché? Non possiamo dare la colpa a Platone. Perché, per esempio, scambiamo l’idea per l’ideale? Un conto è l’idea o le idee, altro conto è l’ideale. L’ideale è una fissazione. Perché ciascuno di noi si trova a cadere in questa tentazione? È una tentazione, ma il disagio, il sintomo, l’impasse sono già una obiezione a questa utopia personale, sono già un’obiezione nella nostra vita a questo conformismo con noi stessi.
Ognuno ricerca l’ anima gemella che gli consente di ritornare all’unità, ma questo è impossibile, quindi nel suo itinerario incontrerà tantissime occasioni in cui ha la chance di sfatare questa fantasia. È rispetto a questa idea di unità che noi ci rappresentiamo secondo lo standard, e è per questa via che arriviamo a chiederci se siamo capaci di vivere. Il testo di Armando Verdiglione io ritengo che vada letto proprio come un libro di poesia, nel senso che le prime cose che mi hanno colpito degli scritti di cifrematica sono cose molto semplici.
Questa questione per cui non c’è chi possa dire di essere capace di vivere, mi ha dato sempre un grandissimo sollievo pensare questo, perché dire di essere capace di vivere è proprio l’affermazione più stupida che ci possa essere. È questo lo statuto intellettuale. Lo statuto intellettuale non è il sapere, non è il nozionismo, è constatare che non è un valore ritenere di essere capaci di vivere, perché la vita è invivibile in questa accezione. Quindi non abbiamo questa facoltà, grazie a Dio.
Questa idea, che la castrazione e la mancanza siano difetti, porta gli umani a cercare un colmamento in tutto ciò che fanno, nell’amore, nel lavoro, ma anche nella famiglia, in ciascuna attività, come se dovessero cercare un rimedio a queste pecche, a un rimedio al non dell’avere e al non dell’essere. Cosa vuol dire rimedio al non dell’avere e al non dell’essere? Sono rimedi al lutto e al dolore. Allora, il titolo bellissimo di questa sera è intorno all’allegria.
L’allegria non è la contentezza, non è l’euforia. L’allegria è proprietà della pulsione, quindi, se in questa accezione è proprietà della vita non è in contrapposizione al lutto e al dolore. Non c’è l’allegria in assenza di lutto, in assenza di dolore, perché il lutto e il dolore sono estremi, sono inconsci e il lutto indica che non abbiamo nessuna gestione e nessun controllo sull’avere. Il dolore indica che non abbiamo nessun controllo sull’essere. Quindi, nessuno di noi può dire: so quello che ho, conosco quello che ho, so quello che non ho, oppure, so quello che sono o so quello che non sono.
Le circostanze della vita ci insegnano a intendere questo: il lutto e il dolore sono queste due prove di realtà in cui noi mettiamo in discussione ogni padronanza sull’avere e ogni padronanza sull’essere. Il lutto è questo, non è che riguardi la morte, il dolore o la sofferenza. Se vivere comporta trovare un rimedio, il fare, il lavorare, comporta un rimedio al lutto e al dolore, allora il piacere giunge a ripagare i lutti e i dolori; invece il piacere non arriva a ripagarci del lutto e del dolore, non arriva a togliere il lutto e il dolore, perché il piacere non è la ricompensa per le prove di realtà, che sono essenziali alla ricerca.
Mi consento una giornata di shopping, mi concedo un viaggio, allora io non ho incontrato nessuno, e mi chiedo perché che quando prenota il viaggio, ha le valigie pronte, parte per l’Egitto e incontra l’amico, il nonno, la suocera, non dica: dovevo partire, ero stanco, non ce la facevo più. Ma perché ciascuno non può fare le valigie, partire per un viaggio senza dover giustificare questo gesto? Quante volte noi dobbiamo giustificare il lusso, l’inedito nella nostra giornata, nella nostra vita. Quindi vuol dire che il piacere noi lo intendiamo come ripagamento per le prove di realtà. Questo è assurdo. Allora, il guadagno, sempre rispetto a questa presunzione di conoscenza, andrebbe a colmare ciò che non ho e di cui mi dolgo e mi rammarico, oppure ciò che non sono e di cui mi addoloro.
Ma se il guadagno e il piacere arrivano e approdiamo, giungiamo al piacere con questa idea di colmare un’idea di difetto, di mancanza, è chiaro che ciò che conquistiamo non lo valorizziamo, cioè non entra nel nostro viaggio, rientra in una conformità, in un protocollo, ma non è un valore, non è un’acquisizione del nostro viaggio. Il lutto, la gioia, il dolore, l’allegria sono le particolarità della vita, e non è possibile metterle in rapporto una con l’altra, metterle in rapporto e quindi trovare una compensazione una con l’altra, perché questa idea di compensazione è un’idea di salvezza.
Ma ciascun interlocutore nell’incontro, se noi abbiamo questa mentalità sostanzialistica, mentalità del rimedio, è un salvatore: una donna, un consulente, una fidanzata, un fidanzato sono salvatori e il salvatore sta sempre lì a ricordarci che eravamo difettati e mancanti. Allora, tutta la faccenda delle dipendenze ruota attorno a questa questione, ruota attorno a questa mancata elaborazione del lutto e del dolore. Cesare Pavese nel ‘37, ancora giovane, nel Mestiere di vivere scrive: “Una donna che non sia una stupida presto o tardi incontra un rottame umano e si trova a salvarlo. Qualche volta ci riesce. Ma una donna che non sia una stupida presto o tardi trova un uomo sano e lo riduce a rottame. Ci riesce sempre.”
Quindi, la donna rappresenta il ruolo materno, ma quando la donna è collocata in questa funzione materna salvatrice e rovinosa al tempo stesso, non è la donna, non c’è più la donna, non c’è mai stata. Pavese arriva a cogliere questa trappola mortale, non abbastanza dato l’epilogo della sua vita, in cui davvero l’amore indebolisce, è creduto indebolire proprio perché arriva la mamma. Molte persone pensano che l’amore costituisca un indebolimento. Lo stesso Pavese qualche mese prima di morire, scrive: “Non ci si uccide per amore di una donna, ci si uccide perché un amore, qualunque amore ci rivela nella nostra nudità, miseria, infermità, nulla.”
La questione è l’amore, non un amore. Un amore è questa donna salvifica. Senza l’attraversata del lutto e del dolore, senza quella traversata in cui capiamo che non c’è questa presunzione di conoscenza sull’avere e sull’essere, siamo stupidi, ma davvero siamo stupidi, non ontologicamente, ma abbiamo un momento di stupidità tutte le volte che cediamo a questa fantasia, a questa tentazione. Ogni affermazione che ascoltiamo, se voi ci pensate, tutte le volte che un nostro interlocutore parte da questa presunzione, noi non lo ascoltiamo nemmeno, perché è come se dessimo già per scontato questa stupidità, già non lo ascoltiamo.
Lutto e dolore indicano che non c’è questa gnosi possibile, perché in effetti non è possibile credere di conoscere ciò che si ha, ciò che non si ha, ciò che si è, ciò che non si è. Noi crediamo a queste cose perché pensiamo che ci aiutino a vivere, ma non ci aiutano a vivere, posto che dobbiamo cercare un aiuto per vivere, ma anzi, ci confermano come soggetti, limitati, difettati e forse ci consentono di sopravvivere, forse.
I morti affaccendati di Pirandello sono proprio i soggetti assoggettati, vittime, esseri indifesi. Allora nella mia pratica mi accorgo ciascun giorno che c’è una intolleranza sempre più forte, una inaccettabilità, una reazione a tutto ciò che non è standard: un sonno inquieto, una palpitazione, una sudorazione, un’agitazione. Tutto ciò che non era previsto porta una reazione terribile, suscita una pratica censoria quotidiana.
Oggi una persona mi diceva, che aveva visto una persona in una pizzeria: “Mi è salito il cuore in gola, io questo non lo accetto!” Come non lo accetti! Mi ha detto: “Ma non c’è un modo per eliminare queste cose? La notte non riesco a dormire bene perché sento come una presenza in camera, ma non si può eliminare questa cosa qui?” Magari è interessante esplorare. “Sì, me la segno, poi ci pensiamo. Ma non posso fare niente per eliminarla?” È pazzesco! Certo che il sogno non è standard, come il disagio, quindi eliminare l’angoscia l’alimenta, eliminare la fobia la produce, appianare il sonno complica le notti, insomma questo tentativo sistematizzatore è un disastro.
Questa pratica correttiva censoria sospende la pulsione e sospende l’allegria dalla vita; siamo tristi, da censori viviamo da tristi e soprattutto sospende l’amore. Il binario è l’assenza dell’amore. L’amore non è questa cosa per cui Tizio ama Caio, una tensione che va dal punto x al punto y, no, l’amore è una delle virtù pulsionali e occorre anzitutto non abolire, non correggere l’amore nella nostra vita, purificando tutto ciò che ci risulta inspiegabile.
L’idea di limite che ciascuno tiene con sé, come se fosse una badante, sempre presente di modo che ciascun elemento nuovo venga riportato sulla linea, ciascuna breccia venga chiusa, ciascuna cosa fuori dallo standard venga purificata, rimessa in riga. In questa idea di limite, come dicevo prima, l’interlocutore è il salvatore e pertanto il carnefice, perché è colui che conferma la nostra idea di limite. Certamente se un uomo vede in una donna (o una donna in un uomo) la salvatrice, ribadirà l’idea di limite come abbiamo letto per Pavese. Allora, la questione non è tanto: io mi adeguo o non mi adeguo.
Cĕchov è un riferimento nella mia vita, nel senso che i racconti di Cĕchov sono chiarissimi per mettere in luce quali sono gli effetti tragici e comici del soggettivismo. Allora, c’è una novella che ho letto recentemente che si intitola Un essere indifeso, che comincia così: “Per quanto violento fosse stato di notte l’attacco di podagra, che è la gotta, per quanto poi scricchiolassero i nervi, Kistunov s’avvio tuttavia la mattina in ufficio e incominciò in tempo a ricevere i postulanti e i clienti della banca.
Egli aveva un’aria languida, spossata e parlava a stento, respirando appena come un morente. Riceve i questuanti e poi ad un certo punto arriva una signora che dice: Mio marito, l’assessore di collegio S’ciukin è stato malato cinque mesi e mentre, scusate, era a letto in casa e si curava, lo hanno messo a riposo senz’alcuna ragione, eccellenza, e quand’io mi recai a riscuotere il suo stipendio, loro, vedete un po’, detrassero dalla sua paga ventiquattro rubli e trentasei copeche! Per che cosa?, domando.
Ma lui, dicono, ha percepito dalla cassa sociale e gli altri funzionari han garantito per lui. Allora, lei dice che non è ammissibile che lui abbia prelevato dalla cassa senza il suo consenso! Impossibile! Forse ch’egli poteva prelevare senza il mio consenso? È impossibile, eccellenza. Io sono una povera donna, campo solo sui pigionali…sono debole, indifesa…Patisco offese da tutti e non sento una buona parola da nessuno…”
Allora Kistunov, con la sua fatica, prende in mano, analizza il caso, guarda le carte e dice che lei si deve rivolgere all’istituzione dove suo marito lavorava, questa è una banca, un istituto privato e non si può. Lei insiste e lui ribadisce che le ha già spiegato e va avanti un’ora, due ore. Kistunov incomincia a sentirsi male, chiama un impiegato, lo lascia lì con la questuante e lui si va a rintanare di là, a guardare le sue carte, ma sente la voce, e gli viene la bile, si agita.
Nel frattempo anche l’impiegato si agita perché cerca di spiegare alla signora, ma non c’è verso e così uno dopo l’altro vari impiegati della banca. Ad un certo punto lei incomincia a minacciare: io chiamo l’avvocato, io la denuncio, io ho già denunciato tizio, caio, sempronio, li ho già portati dall’avvocato. Alla fine Kistunov non ce la fa più, torna fuori e la cosa non si svolge, il lavoro in banca è bloccato dalla signora S’ciukin. “A Kistunov s’annebbiò la vista. Egli esalò tutta l’aria, quanta ne aveva nei polmoni e, prostrato, si abbandonò sulla seggiola.
Quanto volete avere?- domandò con voce flebile. -Ventiquattro rubli e trentasei copeche. Kistunov cavò di tasca il portafogli, ne trasse un biglietto da venticinque e lo porse alla S’ciukin. -Prendete e…e andatevene! La S’ciukin avvolse in un fazzolettino il denaro, lo nascose e, raggrinzando il viso in un sorrisetto soave, delicato, perfin civettuolo, domandò:-Eccellenza, e non potrebbe mio marito riprendere il posto? -Io vado via…sono malato..disse Kistunov con voce languida.
-Ho una tremenda palpitazione di cuore.
Partito Ch’egli fu, Aleksei Nikolaic’, un impiegato, inviò Nikita, un’altra impiegata, per le gocce di lauroceraso, e tutti, prese venti gocce a testa, sedettero al lavoro, ma la S’ciukin poi rimase ancora un paio d’ore in anticamera a discorrere col custode, aspettando che tornasse Kistunov.
Ella venne lì anche il giorno dopo.”
Cechov è straordinario. Kistunov, che ha lui l’idea dell’essere indifeso, è lui il soggetto incapace, mancante, difettato, malato, alla ricerca del ripristino del sua condizione ideale. Non può che prendere realisticamente la signora S’ciukin, una volta spiegato ragionevolmente due volte, tre volte, quattro volte; follia non ce n’è, la follia qui è assente totalmente in Kistunov, c’è solo psicotizzazione, pazzia, non c’è la follia. E quindi Kistunov è nel binario: o dice sì o dice no, o approva o disapprova, o risponde con il sì o risponde con il no.
Non c’è nessuna conversazione, non c’è nessun miracolo, non c’è nessun accadimento e infatti che lui dica no non serve a nulla, che lui dica sì, che dia i soldi di tasca sua, cosa comporta? Che la signora S’ciukin il giorno dopo va lì lo stesso. Ciascuno di noi ha da porsi questa questione. La questione della valorizzazione comporta che ciascuno ha da restituire in qualità gli elementi in cui si imbatte nella sua giornata. Restituirli non come erano prima, perché se c’è da restituirli come erano già stati, che restituzione è? Kistunov si tiene la sua gotta, le palpitazioni, quell’altro le gocce e la signora le sue grane.
Il soggettivismo, davvero, è sempre una complicità. Rispetto a queste assurdità della compensazione, dicevo, una gioia non può essere rapportata a una tristezza, non è relativa a una tristezza. In una recente conferenza tenuta da Augusto Ponzio una persona dal pubblico ha chiesto: “Scusi ma io come faccio a sapere cos’è la gioia se non la rapporto a una tristezza?” È questa l’idea che abbiamo noi, e è veramente assurda perché, se io misuro la gioia con la tristezza, è una gioia rispetto a un ricordo triste e non c’è nessuna novità.
Se è invece una gioia che è contraria a una tristezza, oppure è una gioia esattamente come quella del 1900, è sempre rispetto a un ricordo gioioso, ma non c’è la novità. Qual è l’inedito? Quindi questo rimane nella dialettica della paura, allo stesso modo la salute rapportata alla malattia, a uno stato di malattia o a uno stato di salute antecedente, ma quella non è la salute. Anche la guarigione, rispetto a questa idea di salvezza, è intesa come un risanamento salvifico, un ripristino allo stato precedente senza acquisizioni, senza conquista, senza novità, nel binario.
Per esempio, la questione della salute evoca una cosa importantissima che è la paura della morte. Allora, la paura della morte non è la paura che le cose finiscano o la paura di morire veramente. Freud è stato molto preciso in questo: dice che l’inconscio non conosce l’idea della morte. Verdiglione dice che la morte è la differenza, non è la morte di qualcuno, la morte non è una funzione. Allora anche la paura della morte è il modo in cui si enuncia la paura della novità.
La paura della morte è il modo in cui avvertiamo l’urgenza della trasformazione, l’urgenza di un salto di qualità, l’urgenza di un altro ragionamento, e noi non ce ne accorgiamo come novità, perché nessuno di noi si accorge di escludere la novità, anzi l’auspichiamo: magari venisse la novità! La vorremmo tutti e invece poi, nel quotidiano, sono tantissime le modalità con cui escludiamo la novità attenendoci allo standard. La paura di morire interviene sempre quando c’è una scommessa narcisistica nuova che noi non avvertiamo come tale, l’avvertiamo come paura di morire. La morte come fine è solo un paravento illusorio per escludere la novità, come un argine contro la novità, ma la vera questione è la differenza assoluta di cui la morte è indice, non è la fine che ci terrorizza, è la differenza che ci terrorizza, è la differenza assoluta.
Allora, perché la differenza terrorizza? Terrorizza quando noi intendiamo la differenza a partire dal principio di uguaglianza, cioè sarebbe la differenza tra pari, quella differenza che arriverebbe, in una gerarchia, a definire che è differenza relativa. Nel senso che tizio è differente da me, nel senso che è più o meno di me. Questa è la differenza che terrorizza. Quando noi intendiamo che la differenza è assoluta non abbiamo più paura, perché non c’è uguaglianza; nemmeno tra fratelli, tra famigliari possiamo postulare questa parità.
Quando intendiamo questo non abbiamo più paura, non avvertiamo più nessun pericolo per noi, anzi si instaura proprio l’immunità. Invece, le donne che nel discorso occidentale sono rimaste custodi di questo concetto di funzionalità, proprio per questa via, come c’insegna Pavese, sono rimaste custodi della morte, dell’idea della morte; cioè il funzionalismo, il meccanicismo è la morte, ma nel senso della mortificazione.
La paura della morte ci mette in guardia, ci avvisa che noi, in qualche ambito della nostra giornata, della nostra vita, stiamo seguendo una linea, un binario, siamo in una sorta di meccanicismo, di funzionalismo. Quindi, un’occasione straordinaria la paura della morte.Infatti, dicevo, Pavese ce l’ha insegnato bene. Vi ricordate quando scrive: “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi.”? È per questa via che la madre è associata alla morte, perché nel discorso occidentale la madre è custode di questa idea di funzionalità: funzione procreativa, funzione di supporto alla genealogia.
Invece nel testo della cifrematica, questa è per me la pagina in cui mi sembra di cogliere di più la novità nel testo di Verdiglione, sono le pagine dedicate al mito della madre, perché non c’è in nessun scritto, in nessun autore, in nessuna cultura, qualcosa di avvicinabile a questa elaborazione, davvero. Ho fatto una ricerca che proseguirò, ma davvero non c’è un barlume di questa elaborazione in altre culture. E è questo: il mito della madre non è il mito della procreazione.
Quindi non è il mito del risarcimento, della compensazione, non è il mito della rivendicazione. Il mito della madre è il mito dell’intelligenza, mito della sessualità non procreativa, mito dell’industria, mito del tempo, mito anche dell’aritmetica. L’aritmetica è proprio questo: è il numero secondo cui procede la nostra vita e secondo cui facciamo nell’occorrenza. Il fare è secondo l’aritmetica, nel senso che è secondo il numero, quel numero in virtù del quale la nostra esperienza non è omologabile a quella di nessun altro, per cui ciascuno può leggere il proprio viaggio secondo un caso di qualità.
Chi penserebbe mai di correggere un romanzo, però siamo molto bravi a correggere il nostro romanzo, lì proprio siamo bravissimi. Il fare nella velocità, nella fretta o le remore, i rimandi, i soggettivismi, che sono tutte modalità del fare introdotte in nome di una contabilità ideale, di uno standard, di un’unità ideale, sono l’affaccendamento perché è un fare senza pulsione, quindi senza aritmetica. Un fare binario secondo il protocollo. Solo con l’aritmetica, solo con la sfumatura c’è l’eventualità del salto di qualità, e il salto è una proprietà dell’aritmetica. Intendere che la salute è istanza di qualità e è sempre da conquistare è importantissimo per non vivere da malati potenziali e per non ritenere ciascuna cosa (la famiglia, il marito, i figli, la moglie) una malattia.
Molte persone parlano della moglie, dei figli, del lavoro, delle cose anche belle della loro vita, come fossero una malattia da curare, nel senso da debellare. Anche quando ci sentiamo sovraccarichi, anche quando ci sembra che tutto si affastelli, lì c’è l’istanza di valore, c’è l’istanza di qualità e la chance per instaurare l’aritmetica, perché l’aritmetica non l’instauriamo con la candeggina, con la purificazione, con l’abbattimento, con la distruzione totale, no! La fase nuova si avvia, è nuova perché un elemento entra nella parola e allora lì, c’è l’eventualità del miracolo.
In questa accezione, in questo modo, il tempo non è il tempo cronologico, non è il tempo in cui noi sommiamo le cose, oppure nell’algebra per esempio, non è il tempo geometrico per cui dobbiamo cambiare marito, moglie, lavoro, stanza, città, per fare. Il tempo semmai è proprio la sorpresa in cui ci imbattiamo facendo. Comunemente si dice occorre fare, fare, perché il tempo stringe, ma il tempo non stringe. L’attribuzione dello stringere, della costrizione al tempo è una questione. Il tempo non è ciò che stringe, il tempo è il taglio, è la divisione, ma la divisione non tra due, non la divisione in due, come la valutazione, no.
La scienza e la crisi è il titolo di questa serie di conferenze. La crisi in greco krisis, è proprio giudico, valuto; giudicare, valutare e dividere, ma non è la divisione del bene dal male. C’è un’ideologia che ha voluto leggere questo krisis come critica. La critica è ideologica perché è pensata come commento all’opera d’arte, per esempio al cinema, in cui si stabilisce la gerarchia dei valori, chi sta sopra e chi sta sotto e la divisione del bene dal male, ciò che è buono da ciò che non è buono.
Ma perché questa divisione che sta nel termine krisis, che sta nel significante critica, è intesa come divisione tra due? Ma la valutazione è assoluta, perché non c’è una gnosi, perché non c’è un’idea di conoscenza in cui ho già l’idea del bene e del male, per cui ciò che io leggo, lo leggo in virtù di questa conoscenza del bene e del male. Se non c’è più gnosi, la critica è valutazione e la valutazione è assoluta, come quando incontriamo un fidanzato o una fidanzata e non c’è nessuna valutazione per cui lui è più di o meno di, è una valutazione assoluta.
Quando acquistiamo un vestito in un negozio non è che diciamo questo sì, questo no, questo. E è questo. Quindi è la valutazione assoluta. In questo modo certamente, la salute come istanza di qualità, e qui concludo, s’instaura quando constatiamo la bellezza della vita come dissidenza e come istanza di valore. La dissidenza con i dispositivi di valorizzazione in cui ciascuna cosa ha questa chance comportano che la vita divenga capitale, altrimenti certamente rimane sopravvivenza.
Ruggero Chinaglia Che dire? È ricchissimo l’intervento, bellissimo, semplice, chiaro! A ciascuno trarre la cifra di questo contributo e il modo con cui queste note possono contribuire. L’intervento mi sembra ricchissimo di spunti. Importante soprattutto in termini clinici la questione del difetto, quel difetto che ognuno difende a spada tratta, quel difetto con cui si rappresenta. Quel difetto che ognuno è pronto a attribuirsi ed ecco allora il dubbio metodico di sé, il dubbio sulla riuscita: ce la farò, non ce la farò? C’è questa esigenza, allora per questa esigenza c’è questo dispositivo! Ah, ma ce la farò? Una volta stabilito il da farsi, ce la farò a farlo?
Se ognuno si attesta sul suo difetto non ce la farà, stia pur tranquillo che non ce la farà proprio, prevarrà il difetto cui tiene tanto. Ce la farò? No! Se tiene così tanto al suo difetto non ce la farà! Se invece instaura un dispositivo efficace ce la farà, ce la farà proprio, non c’è alternativa. E un altro modo di attestarsi sul difetto è quello di attribuirlo alla realtà. Allora la realtà è in sfacelo, c’è del marcio un po’ dappertutto, oppure c’è la dissipazione totale di tutto, nulla tiene, non ci sono punti d’aggancio, è un difetto cosmico.
Allora, quello che Antonella Silvestrini chiamava l’urgenza di un altro ragionamento, è in realtà l’urgenza del ragionamento, del ragionamento dove s’instaura l’Altro; perché il ragionamento senza l’instaurazione dell’Altro non è che la riproduzione del difetto, del proprio difetto e quindi la riproposta della propria disfatta su cui ognuno ha costruito il suo lamento, la sua lamentosità, il suo masochismo morale, il suo vittimismo. L’instaurazione dell’Altro avviene ragionando, con la ragione e il diritto dell’Altro.
E allora è proprio ragionando che si instaura quella costrizione, che diceva prima Antonella Silvestrini; costrizione che non è temporale, ma è costrizione sintattica e costrizione frastica. È quella costrizione che, per via di ascolto e per via d’interpretazione, fa sì che la parola s’instauri, s’instauri la lingua della parola dove dunque c’è costrizione. Perché è impossibile che tra un equivoco e l’altro non giunga l’interpretazione, e dunque la sintassi, e che questa sintassi non si compia nella legge; e la costrizione frastica, che riguarda la sfumatura, parlando, tra una differenza da sé e l’altra.
Allora, se non c’è solo la lingua delle cose, che è la lingua del luogo comune, del gergo, della mentalità, la lingua autistica, ma in adiacenza alle cose ci sono anche le parole, allora è impossibile non cogliere il varco, il varco che s’instaura tra un equivoco e l’altro, tra una differenza e l’altra, tra un malinteso e l’altro. Per cui, accanto alla costrizione, l’occorrenza pragmatica. Non può esserci solo la costrizione, di cui tanto si vantava l’Alfieri: volli sempre volli.
Ma non è la costrizione dovuta a un atto di volontà, questa è la costrizione sintattica, che è qualcosa che s’instaura per via d’ascolto, per via di quella lingua che impedisce di litigare, se s’instaura, perché il ragionamento è narrativo e linguistico, non è un ragionamento per assurdo o per logica. Il ragionamento è secondo la logica, quindi della logica, per così dire; ciascuno prende atto per via di ragionamento, non viceversa. Non è che c’è una logica ontologicamente data e seguendo questa logica si produce il ragionamento, no, è il contrario.
Ragionando avviene quell’ordine delle cose che è secondo la logica: s’instaura il secondo rinascimento, s’instaura l’ordine. Se s’instaura quest’ordine nessuno ha modo di ricordarsi del difetto, di ricordarsi di sé, di come può essere, di com’era, di qual è la sua origine a cui deve costantemente rispondere con il ricordo del suo difetto. La questione del ragionamento mi sembra proprio essenziale, perché ragionando allora ci si può accorgere dove stia l’allegria, questa allegria che indicava Silvestrini come una proprietà del cervello e quindi trascorre dall’entusiasmo all’alacrità, alla gioia, alla letizia, alla serenità.
Ma dunque pulsionalmente, non per la volontà di essere allegri, che porterebbe solamente tristezza assoluta. Non c’è modo di voler essere allegri, perché l’allegria è proprietà del dispositivo e l’allegria esige il gerundio del fare, il gerundio della vita, non l’idealità, né l’attestazione del proprio difetto. Queste sono effettivamente cose che ciascuno non può certamente ignorare, tralasciare, per quel che riguarda la direzione verso la qualità. Questo era solamente per dare un’eco immediata al bellissimo intervento di Antonella Silvestrini, ma certamente ci saranno altre domande. Ecco, prego!
Lucio Panizzo Volevo chiedere una precisazione rispetto alla questione dell’intransitivo, ad esempio la questione del lutto e del dolore, l’attinenza con la fantasia di essere o di avere e anche la paura della morte. Solamente nella logica della parola, e non invece del discorso, si può intendere l’intransitivo. Il lutto, la morte o il dolore non sono transitivi. Poi c’è anche la questione del viaggio.
Nel discorso ci può essere la fantasia del viaggio, ma la questione del viaggio intellettuale è nell’accezione, appunto, della logica della parola; nella parola c’è un altro tipo di viaggio e questo viaggio è intransitivo, nel senso che non c’è transitività, altrimenti sarebbe un viaggio non in direzione dell’ascolto. Pavese, che giunge al suicidio, indica il tentativo di padronanza sulla morte, invece nella cifrematica si tratta di tutt’altro: non c’è nessuna padronanza.
Cecilia Maurantonio Ascoltando la dottoressa Silvestrini si è precisata ulteriormente che chi non ha una malattia non vuol dire che abbia la salute, in quanto nella parola non si tratta dell’organismo. All’avvocato Rosso invece volevo porre queste domande: se nell’istruttoria c’è qualcosa che attiene alle cose che si fanno e se l’istruttoria in un processo implica la scrittura di una struttura.
Ruggero Chinaglia La domanda è bellissima, ma potrebbe volgere in positivo quella domanda sulla salute?
Cecilia Maurantonio La malattia è sempre una rappresentazione fantasmatica, quindi non c’è niente da guarire e da ripristinare, la differenza è assoluta.
Ruggero Chinaglia Allora la prima serie di risposte.
Luigi Rosso Interessante la vicinanza con la questione dell’istruttoria. Sia in sede civile che penale, quella dell’istruttoria è la fase che dovrebbe dare poi elementi, materiali sia di ragionamento, di deduzione, di induzione e, come anche le fasi precedenti del processo e la fase poi di decisione, non può di sicuro andare esente da una strutturazione, che è una strutturazione narrativa.
Credo che anche linguisticamente questo “istruire” tragga con sé, è qualcosa anche del “costruire” e comunque nella struttura. Se, appunto, la struttura è narrativa, si leggono anche delle sentenze che sono quasi delle novelle e che danno molti elementi, soprattutto quando c’è questa fase di strutturazione, di costruzione, anche questo come un dispositivo narrativo, secondo me.
Antonella Silvestrini Chi non si trova nella malattia non può dire di trovarsi nella salute. Però, diciamo che non è necessaria la malattia; certo è una buona occasione, ma basta anche un asterisco nell’esame del sangue per promuovere una serie di indagini, senza che ci sia malattia, per interrogarsi rispetto all’istanza di salute; ma anche un sogno, un lapsus, non dobbiamo pensare che sia necessario l’infernale per il paradiso, non dobbiamo fare questa traversata. È la mentalità della soluzione che, davvero, ci preclude l’Altro e quindi il ragionamento. Mi viene in mente il caso di una signora, un caso di molti anni fa, di cui conosco bene il figlio.
Questa signora per una vita ha assunto il Prozac, tutti i giorni della sua vita. A un certo punto, all’età di cinquantacinque anni fa un viaggio, ne faceva tantissimi con il marito, parte per il viaggio e dimentica il Prozac. Per fortuna un viaggio breve, un po’ più di un weekend; ritorna dal viaggio, sta malissimo, va in ospedale, fa delle indagini, non capiscono e trovano un intestino compromesso in modo incredibile e il medico non si capacita di come lei non se ne sia accorta prima. Io ho gli elementi della conversazione dal figlio di questa signora che dice: “Mah, questa soluzione facile, in cui noi troviamo una soluzione e diventa quasi un capitolo chiuso; non ne parliamo più, c’è un problema di intestino, c’è la cura”.
Non è normale, non è naturale. Questo blocca ciascuna istanza di disagio e di ragionamento, chiude qualsiasi cosa e poi non è la malattia, è ciascun elemento che è all’interno della parola e allora c’è l’istanza di salute. Poi la questione della divisione: è una divisione del tempo, il taglio, che non dobbiamo immaginare come un taglio sulla materia, un taglio dove ci rappresentiamo. Il taglio interviene nella struttura del fare, un taglio che interviene facendo e che esclude la compatibilità, esclude l’incastro, esclude la chiusura.
Ruggero Chinaglia Non è necessario introdurre il risvolto morale che dovrebbe mettere al riparo dall’invidia degli dei, per cui mai si può ammettere che qualcosa vada, per così dire, in modo favorevole, ma sempre faticosamente favorevole. Cioè lo sforzo intellettuale, la spinta della pulsione non è faticosa, anzi è opporsi a questa spinta che è faticoso, perché l’entusiasmo da cui la pulsione procede, che non è qualcosa di personale ma è una proprietà della provocazione, quindi della causa, l’entusiasmo non è faticoso; la spinta, la forza non sono faticose, l’allegria non è faticosa, il dolore non è faticoso. Il dolore è estremo, così come il lutto, ma non comporta la fatica, comportano qualcosa di assoluto, di estremo per cui non c’è rimedio.
La questione, che sottolineavano sia Rosso sia Silvestrini, è che a contrastare la questione dell’assoluto, a contrastare il modo della pulsione (perché si tratta del modo, modo che è sempre da trovare, non è un modo standard che può ripetersi; non c’è lo standard del modo, come non c’è lo standard della vita, e qui, leggendo questo testo si può ben capire il perché), a opporsi all’accoglimento di questo, è la mitologia del rimedio, cioè quell’idea che il ragionamento sia per equazione. Che ci sia un problema e che questo problema abbia la soluzione, e questo è l’antitesi al ragionamento. C’è un’equazione. Cosa vuole dire che c’è un’equazione? Ci sono due membri dell’equazione e tra i due membri dell’equazione ci deve essere uguaglianza.
Questa idea dell’uguaglianza è ciò che comporta la possibilità di una soluzione ed è quello che impedisce il ragionamento. Perché il ragionamento è, invece, per via di differenza, esige la rimozione innanzi tutto, esige il varco tra un equivoco e un altro equivoco, tra una differenza da sé e un’altra, tra un malinteso e l’altro, esige instaurare questo varco, che è un varco della sostituzione metaforica e metonimica. Ciò che interviene nella sostituzione non sostituisce mai in maniera totale ciò che viene sostituito, è una sostituzione per eccesso, per debordamento, mai uguale.
La rimozione instaura proprio il fatto che interviene la lingua della parola, questa adiacenza tra le parole e le cose, e la cosa non si sovrappone alla parola, e la parola non si sovrappone alla cosa. Questo nel processo di qualificazione è costitutivo. Se questo non basta per promuovere l’ascolto e per avviare quello che Rosso diceva il processo, che è processo intellettuale perché procede dalla contraddizione, allora qui abbiamo il caso della sordità, abbiamo il caso dell’autismo, che si oppone a questo varco tra la parola e la cosa, tra la parola e un’altra parola, tra un significante e l’altro, tra un nome e un significante, perché questa è la struttura di cui occorre prendere atto.
Se ognuno è convinto di essere, di avere, come diceva prima Antonella, allora nessun ascolto e s’instaura la soggettività e la padronanza sul difetto che ognuno difende a spada tratta. Ma è proprio qui che occorre intervenga la generosità intellettuale, cioè la dissipazione dell’idea di essere e di avere in termini sostanziali, che questa sì è un’idea agghiacciante, anti intellettuale, perché promuove la malattia mentale. Bisogna che sia chiaro almeno questo!
Chi si crede di essere o chi si crede di avere qualcosa in termini sostanziali, quindi per via di origine o per via di non si sa quale attribuzione, è candidato a difendere e a sostenere l’esistenza della malattia mentale, si dà come malato mentale. Questo è il punto. Allora, rivendica che cosa? Di essere vittima e che gli altri non sono altrettanto vittime come lui è, e questo lo fa incazzare, perché secondo questa rivendicazione tutti devono essere vittime e anche più di lui o di lei. E invece no! Non c’è nessuna vittima, questo è il punto, e l’analisi ha da dissipare innanzi tutto proprio questo: l’idea di sostanza e l’idea conseguente di essere vittima di questa sostanza, di subirla.
Una nota conclusiva?
Antonella Silvestrini Io ringrazio il dottor Ruggero Chinaglia, ringrazio ciascuno di voi di essere stati così attenti e accoglienti e suggerisco la lettura della rivista dove ci sono veramente degli interventi diversissimi uno dall’altro e anche molto semplici e molto utili per indagare attorno alla cifrematica e per intendere qualcosa dell’intelligenza della nostra vita. Grazie ancora.