L’altra lingua e l’ascolto – a Bari
- Guaragnella Pasquale, Ponzio Augusto, Viero Maria Antonietta
26 marzo 2009 a Bari Dibattito sul tema L’altra lingua e l’ascolto, con Ruggero Chinaglia, Pasquale Guaragnella, Augusto Ponzio, Maria Antonietta Viero, in presentazione del libro di Augusto Ponzio, La dissidenza cifrematica, Spirali. Facoltà di Lingue e letterature straniere dell’Università di Bari.
AUGUSTO PONZIO, RUGGERO CHINAGLIA MARIA ANTONIETTA VIERO
L’altra lingua e l’ascolto
Augusto Ponzio Ringrazio il professore Pasquale Guaragnella, preside della Facoltà di Lingue e letterature straniere dell’Università di Bari, che non solo è venuto, come preside, a dare una saluto a ciascun partecipante a questa presentazione del mio libro La dissidenza cifrematica, ma che anche ha espresso il desiderio di restare con noi per tutta la durata di questo evento.
Il professore Pasquale Guaragnella è qui come Preside, ma, come diceva Auguste Dupin, il personaggio di Edgar Allan Poe nella Lettera rubata, il ministro non è soltanto un bravo matematico, so che è anche un poeta, dirò che il prof Guaragnella non è soltanto preside, e non si trattiene qui soltanto come preside, ma è qui anche, soprattutto come professore di lingua e letteratura italiana, come critico, come lettore, interprete, di letteratura italiana. Ebbene, sotto questo riguardo, ricorderò subito che c’è un particolare attraversamento da parte della cifrematica, e questo attraversamento riguarda alcuni autori della letteratura italiana che in qualche maniera hanno lasciato ciascuno la propria cifra peculiare. Armando Verdiglione, “fondatore” della cifrematica, è autore di due monografie, rispettivamente su Leonardo e Machiavelli: una lettura di Machiavelli e della sua diplomatica, e di Leonardo e della sua la critica ad ogni forma di mimetismo: i cattivi pittori sono quelli, diceva, che per forza, alla fine, a un certo punto, prima o poi, si faranno un autoritratto, perché vanno sempre alla ricerca di sè – è ricorrente l’essere pieno di sè, l’arroganza – , sicché anche quando viene ritratto un altro, quest’altro assomiglia sempre all’autore stesso. Leonardo, Machiavelli, ma anche Vico, Dante, il transumanar.
L’umano. Umano troppo umano.
Umano troppo disumano è il titolo di un volume che abbiamo recentemente pubblicato nella serie “Athanor”. Guerre umanitarie, interventi militari umanitari. Qui, umano viene da homo, un genere, un tutto, un insieme. Ma c’è un’altra etimologia. Un altro autore importante nella letteratura italiana, Gian Battista Vico, propone quest’altra etimologia: umano, humanitas, non da homo, il genere che ci accomuna tutti, ma che stabilisce anche l’opposizione umano/inumano); humanitas da humus, comehumilitas. Le scienze umane, e noi tutti qui pratichiamo le scienze umane, si dovrebbero ricordare di quest’altra etimologia, che non ci rimanda all’uomo come genere, come genere che accomuna tutti e quindi cancella tutte le differenze singolari, tutte le singolarità, la differenza di ciascuno, e realizza una situazione uniforme, generale, ufficiale: tre termini militari, e infatti umano viene utilizzato per realizzare guerre in nome dell’umano, o in nome di esso per curare, per internare, per eliminare l’Altro, perché, in fin dei conti, ci sarà pur sempre qualcuno più umano e qualche altro, a gradi diversi, meno umano fino all’inumano. Si più eliminare l’Altro in nome dell’umano, considerandolo disumano, naturalmente; e dunque portando la libertà e la democrazia agli altri che non ce l’hanno e facendo un lavoro d’import-export di questi valori.
Allora, Dante, il transumanar, Ariosto, Leonardo, Machiavelli, Vico: ecco questi sono gli attraversamenti, gli spostamenti all’interno della cifrematica, che realizzano non una possibilità di ritrovarsi di nuovo insieme, accomunati. No. La proposta di una lettura diversa di Dante, di una lettura diversa di Ariosto e di Galilei, e di Sarpi, di cui Pasquale Guaragnella si è costantemente occupato, secondo questa lettura altra, che consiste nell’intendere la cifra specifica dello scrittore, dell’autore (il quale finisce di essere l’autore autorevole) stabilendo dunque col testo un rapporto di ascolto – quell’ascolto che permette appunto di coglierne la cifra.
Ciascuno è unico, ma ci vuole l’Altro che ti dica unico, un altro che addirittura ti dica “tu sei unico al mondo”, che “ti ordini” unico: da solo non te lo puoi dire e non puoi esserlo. Ciascuno è unico, certamente, ma non lo è a livello ontologico, lo è a livello relazionale, nella parola, nel rapporto con l’Altro – ci vuole un altro che “ti responsabilizzi senza alibi” dicendoti “solo tu, unicamente tu”. Io ringrazio molto il Preside per esser qui con noi in questo incontro.
Ringrazio Ruggero Chinaglia e Maria Antonietta Viero venuti a presentare questo libro. Maria Antonietta Viero, vive e lavora a Padova. Ha pubblicato il romanzo, La ballata del Moro Canossa, Spirali, Milano 2000, e diversi saggi in riviste edite dalla stessa casa editrice. Tra i suoi articoli: Allegoria sessuale e La credenza in La parola originaria. Scienza, procedura, esperienza; Il canile, in L’arte in Russia; La città. I nostri prodotti e la loro vendita, in La medicina e il programma di vita; Sogno, in Monoteismo, etica e finanza. Ha inoltre contribuito agli atti di diversi convegni di studio, tra i quali più recentemente: La libertà, Milano, 3-6 luglio 2008; La politica, Milano 29 novembre-2 dicembre 2007; La scrittura, Milano 24-27 maggio 2007; Modernitas, Milano 22-25 giugno 2006.
Ruggero Chinaglia è presidente dell’Associazione cifrematica di Padova, costituita agli inizi degli anni ’90. Avendo intrapreso sin dalla metà degli anni ’70 l’itinerario e la formazione psicanalitici, ha integrato gli aspetti analitici e clinici dell’esperienza della parola e della ricerca sulla parola, con l’arte, la cultura e la scienza secondo una prospettiva globale. Tra i suoi articoli apparsi in riviste e i suoi contributi agli atti di convegni di studio presso la villa San Carlo Borromeo di Senago (Milano), pubblicati per i tipi delle Edizioni Spiralii di Milano: Anche la cura esige un dispositivo; Edipo e le invenzioni dell’informatica; Il disagio, la difficoltà e la comunicazione efficace; Il gioco e la formazione; L’altra clinica: il giornalista e la scrittura; L’anoressia intellettuale; L’equilibro e lo stress; L’Europa della rivoluzione cinfrematica; L’odio non è reciproco; La forza di Leonardo da Vinci ; La medicina e il mito della madre; La poesia nella psicanalisi; La politica del tempo ; La psicanalisi, l’impresa, la scrittura; La psicosi della parola, La scommessa psicanalitica; La tomba della parola; La verità della clinica; Le condizioni di salute; Ragioni di vita; La teoria del caso clinico.
Questo libro che si presenta, La dissidenza cifrematica, è un libro mio per modo di dire, nel senso che non c’è un’appartenenza, c’è semplicemente una lettura, non è un libro di scrittura, è un libro che legge una scrittura, e quale scrittura? Quella scrittura difficile in contrapposizione a ciò che generalmente viene considerato semplice e viene raccomandato come la cosa migliore; una scrittura difficile è quella della cifrematica.
Ruggero Chinaglia e Maria Antonietta Viero fanno parte di questa scrittura, il rovesciamento consiste nel fatto che io parlo delle cose che loro fanno. Gli autori della cifrematica sono esattamente loro, ma in questa occasione sono loro che dovrebbero presentare me come autore di questo libro. In realtà nel libro sono presentati Ruggero Chinaglia, Maria Antonietta Viero e altre persone che, con Armando Verdiglione, hanno iniziato questo viaggio, questo viaggio non come un itinerario già previsto e neppure con un biglietto di andata e ritorno, un viaggio dunque, avventuroso che parte dalla psicanalisi. La cifrematica è anche il titolo di una collana pubblicata da Spirali, e uno dei volumi della collana, che si intitola La nostra psicanalisi, parla di questo viaggio. La cifrematica nasce attraverso una lettura della psicanalisi, nasce nel ’73. Ecco, qui c’è qualcosa che in qualche maniera è intrigante. Nel ’73 inizia anche il mio percorso, e c’è nel ’73 un incontro importante che riguarda un convegno che si tenne a Milano, e questo convegno è proprio l’inizio del percorso che via via si va caratterizzando sotto il nome di cifrematica. Io recensii, di questo convegno, gli atti pubblicati da Feltrinelli; e al secondo convegno dello stesso anno, nel dicembre del ’73, partecipai direttamente.
Da tempo già sussisteva dunque un motivo di interesse, in seguito rafforzato e maggiormente motivato, per la lettura di quel testo che oggi si configura come cifrematica, e il risultato è questo libro che qui si presenta. Voglio dire soltanto due cose, anche perché tra quelli che sono presenti (e li ringrazio tutti), ci sono i miei, studenti e ci sono anche gli studenti dell’insegnamento che io svolgo in questo semestre, La filosofia del linguaggio, che hanno come testo di lettura questo libro. Dunque che cos’è la cifrematica? Vorrei cominciare a dire con le parole dello stesso Ruggero Chinaglia, riferendomi alla sua relazione intitolata Democrazia o dissidenza, presentata a un convegno recente, nella Villa Borromeo di Senago (Milano), sul concetto di democrazia.
Può la parola originaria seguire la prescrizione contabile di un frazionamento dell’intero? La procedura per integrazione con cui la parola, secondo la sua dissidenza, si rivolge alla cifra, può seguire la modalità democratica?
O forse l’ideale democratico che permea il discorso politico e scientistico è un modo per espellere la parola dal pianeta e farne un sistema? La “crisi” che attraversa il pianeta in differenti strati e settori indicherebbe lo scacco di questo progetto. La “crisi”, ovvero: “Non c’è più sistema”. Non c’è mai stato.
Sistema è il mondo ideale in cui tutti “stanno insieme”; senza più il tempo a dividere ciascuna cosa, a istituire la differenza sessuale, senza più la memoria. Se il tempo divide senza algebra e senza geometria, se il tempo è taglio, come condividere? Impossibile condividere il tempo e/o il viaggio. Sta qui l’unicità. Il suo antidoto è il sistema, come luogo ideale dove la coerenza darebbe la misura della partecipazione, della condivisione. L’idea di condivisione, sorge appunto dall’idea di sistema dove ogni parte dipenderebbe dalle altre, e dunque ogni parte ha da essere coerente con le altre e con il sistema tutto. Il sistema è senza l’intero, senza integrità, senza la procedura per integrazione. È il sistema morfologico dinamico.
Il discorso occidentale è la consacrazione dell’abitudine, quale abito del passato che ritorna e volge l’avvenire in promessa o minaccia facendo previsioni messianiche o apocalittiche. È così il discorso basato sulla salvezza promessa partendo dalla minaccia che è la promessa di male. Risulta così il discorso che propugna la morte bianca: la morte della parola, la vita senza la parola. La morte bianca è la parola senza l’adeguamento originario, l’indice della contraddizione. L’adeguamento procede dall’equità, quindi dalla superficie come apertura e come squarcio. Adeguamento al due e al tre.
La contraddizione del tre è l’equivoco che ha la sua struttura nella sintassi. L’adeguamento è sia indice dell’apertura sia indice dell’equivoco. Adeguamento, quindi, come modo della relazione originaria, come modo dell’inconciliabile. Adeguamento senza coerenza, che è un altro nome del conformismo, della conformazione alla relazione sociale propria al sistema. L’adeguamento è ironico, per quanto attiene all’apertura, è equivoco per quanto attiene alla sintassi.
Allora, da una parte ricorre la consacrazione dell’abitudine, l’ovvio, il situarsi dentro al ruolo, dall’altra viene a porsi la cifrematica come recupero della cifra di ciascuno, fuori luogo, fuori dai luoghi comuni del discorso, la singolarità di ciascuno, non ognuno come questo tale così e così, connotato secondo la sua identità. La cifrematica mette in discussione l’identità e il rapporto di contrapposizione, di contraddizione, di conflitto che ogni identità comporta, ogni identità: maschile e femminile, uomo e donna, studente e professore, nord e sud, destra e sinistra, comunitari e extracomunitari, israeliano e palestinese. Non c’è una sola identità che non sia in qualche maniera basata sull’opposizione, sull’opposizione binaria. Anche i linguisti quando costruendo la fonologia, per stabilire i tratti distintivi di quella che Martinet chiamò “seconda articolazione”, procedendo nel sezionamento di quella cellula morta della lingua che è la frase, non sanno fare altro che trovare opposizioni, opposizioni binarie all’interno di una stessa classe, la classe delle labiali (p e b), delle liquide, ecc. L’opposizione è inevitabile se si parte da un insieme, da un assemblaggio, da un genere.
Ecco, la cifrematica mette fuori insieme e fuori genere, fuori dalla consacrazione dell’abitudine, fuori dalla pretesa della padronanza; e qui citerei uno slogan, che potrei dire ben riuscito, di Freud: “Nessuno è padrone a casa sua”, dove “la casa sua” è la propria lingua stessa, è la così detta lingua materna, è il corpo proprio di ciascuno. Nessuno è padrone a casa sua per quanto concerne la “propria” lingua e neppure a livello della gestione del corpo “proprio”. La padronanza è illusoria. La messa in discussione della proprietà, dell’appartenenza, della padronanza è un punto di avvio della cifrematica. Tutte le identità attribuiscono appartenenze, tutte le identità attribuiscono genealogie, tutte le identità consacrano l’abitudine e idealizzano ciò che è generale, ciò che è ufficiale, ciò che è uniforme. Fermiamoci un momento a riflettere su queste tre parole, “generale”, “ufficiale”, “uniforme”, sono tutte parole del linguaggio militare. L’identità è già chiamata alle armi, l’identità è già arruolamento, l’identità è già, in quanto conflittuale, in quanto positiva, nella migliore delle ipotesi, tollerabilità, tollerabilità dell’Altro, nella peggiore delle ipotesi, abrogazione, eliminazione, espunzione dell’Altro. Dunque, fuori identità, fuori ruolo, fuori appartenenza, fuori genealogia, recuperando la singolarità di ciascuno, ciascuno di noi anziché ognuno, ognuno come individuo; l’individuo fa parte di un insieme, l’individuo è elemento di un insieme, di un genere, un genere sessuale, un genere di un ruolo, un genere sociale, caratterizzato contrastativamente: servo e padrone, moglie e marito, padre e figlio, serbo e croato. C’è un rapporto di contrapposizione inevitabile nell’identità. Dunque, il generale, l’ufficiale, l’uniforme dell’identità è già arruolamento, è già contrapposizione, è già trincea.
Caratteristica della cifrematica è quella di essere un discorso impolemico, un discorso che fa saltare le contrapposizioni, un discorso che non è mai diretto e frontale. L’ironia, la parodia, la metafora, l’allegoria, la parabola questi sono gli elementi attraverso cui si può parlare nella maniera indiretta, in cui non c’è nè l’imposizione del silenzio, in cui qualcuno vuole sentire e vuole interrogare, nè la pretesa, l’arroganza; la messa in discussine dell’arroganza. La cifrematica indossa la veste del tacere, da questo punto di vista somiglia molto alla posizione dello scrittore, non lo scrivente, non il giornalista, non il professore universitario, non il saggista, non colui che scrive pamphlet politici e prepara comizi. Nessuno di costoro. Lo scrittore, invece, e lo scrittore parla in maniera indiretta, a nome suo non dice più niente, si mette in una posizione di ascolto. Ecco, questo è il punto centrale della cifrematica, la posizione dell’ascolto, il mettersi in ascolto e il mettersi in ascolto significa semplicemente questo, dare tempo all’Altro e darsi tempo, dare tempo e darsi tempo. Tutti i conflitti e tutte le guerre nascono da un tempo limitato; si chiama ultimatum la notifica di un tempo limitato: ogni guerra che si rispetti è preceduta da un ultimatum. Ascoltare significa, invece, lasciare tempo all’Altro.
Non vorrei adesso, mentre dico questo, togliere tempo agli altri partecipanti a questo incontro, e mi fermo qui. Darei in primo luogo la parola… – “darei la parola”: vedete come ci cadiamo. Come se uno fosse proprietario della parola: “adesso io do la parola e lui se la prende”, si prende la parola, un passaggio di parola. Purtroppo ci cadiamo continuamente in queste trappole della consacrazione dell’abitudine. Maria Antonietta Viero…
Maria Antonietta Viero Allora, qualche elemento di lettura, perché il libro, se qualcuno ha già avuto modo di leggerlo, di attraversarlo è un trentennio di lettura, e poi, dentro questo trentennio abbiamo il millennio e, quindi, qualche elemento di ascolto, anche.
C’è una questione che tengo a dire quasi come preambolo, noi non possiamo fermare il tempo, noi non abbiamo nessuna scelta se accogliere o no ciò che sta accadendo, e magari qualcuno pensa “sta accadendo me”. Allora, di ciò che accade possiamo ascoltare come ciò che sta accadendo ci riguarda, e avere l’umiltà di accogliere.
Dissidenza cifrematica, questo è il titolo del libro di Augusto Ponzio. E è impegnativo perché ci pone già nella logica della nominazione. La logica della nominazione è la logica che comporta un’altra nozione d’inconscio, una nozione d’inconscio come logica, quindi logica particolare a ciascuno. Ci poniamo in questa logica della nominazione per via di quel dispositivo di parola dove si corre il rischio di udire ciò che rilascia l’ascolto della piega delle cose che si dicono e che dicendosi si fanno e facendosi trovano scrittura e esigono udienza e urgenza. E così, in ascolto, ciascuno è come dinnanzi a nuova lettura e ancora a nuova scrittura, perché ciascuna volta quel che si dice si scrive per l’esigenza assoluta di qualifica e di riuscita.
Itinerario di cifra questo di Augusto Ponzio. Un libro in viaggio adiacente e attraversante un altro libro, tanti libri, così che il libro non è più tale, ma una narrazione in lettura che ci restituisce di quei tanti libri, come filo in scrittura per A. P. il testo di A. Verdiglione, testo per via di Altro, A con la A maiuscola, l’Altro che introduce all’ascolto di ciò che mai è scritto una volta per tutte. Viaggiatore del testo, compagno senza compagnia, in solitudine, ma con la politica dell’ospite propria della tolleranza, lascia accostare l’audace e ignaro lettore alla storia che si sta tessendo per la veste della vita. E quel termine, quella frase posti in rilievo, inauguranti ciascun capitolo, quasi come il ‘la’ di uno spartito da inventare, coglie me, in questo caso, in formazione con Armando Verdiglione da quasi trent’anni, a sorprendermi dell’onda anomala che il vento mi scaglia all’orecchio, per dire: “Così, il testo, non l’avevo ancora letto”.
Anche la stessa accezione di tolleranza, l’ho colta nella sua precisazione, proprio dal testo, dal modo dello svolgimento di Ponzio, rispetto a questo termine, tolleranza, e ho inteso, in una accezione di novità, questa questione che riguarda l’accoglimento dell’ospite, che è la tolleranza.
Il rilievo di quel significante nella sua combinatoria arbitraria e inedita con altri significanti, lascia allo specifico, in quell’accadere di ascolto, e a chi non abbandona il campo della ricerca che si fa infinita, l’udirsi dell’evento, l’udirsi di un incontro dove il tempo irrompe e non tregua chi volesse prendersi una pausa o staccare l’occorrenza, sull’idea di padronanza. Il tempo – dice A. V.-, rapina. Non c’è modo di fermarlo. Non dura e non si misura. Impossibile assumerlo neppure nel tentativo che ne fa la nosografia psichiatrica di paralizzarlo dentro una camicia di forza per una marchiatura del cosi detto discorso schizofrenico o paranoico. Tentativo che non smorza e non smette che l’altra lingua, anche se non viene intesa, parli. Per rimozione forzata.
Sant’Agostino nelle Confessioni, a proposito del tempo, scrive: “Se non me lo chiedi so che cos’è, me se me lo domandi, non so rispondere”. Richiamo straordinario all’occorrenza, a ciò che bisogna fare, alla necessità assoluta che si può provare a trasporre nel motto freudiano del “Wo Es war, soll Ich werden“.
Wo, il dove, il dove senza luogo e senza origine, senza punto di partenza nè di arrivo che componga la gnosi nel cerchio, ma dove, ciò che causa l’atto di parola, e è in causa, senza causa finale, è sempre altrove; un dove che induce a chiedersi, da dove e verso dove le cose vadano.
Es, qualcosa, qualcosa per via di un’eco, una sfumatura giunge per l’ascolto distratto in lettura, qualcosa abusa sul terreno dell’Altro e è tratto dal e nel malinteso sulla via della scrittura. Qualcosa: Quale cosa? Quale cosa si appunta verso la qualificazione per l’approdo alla cifra dell’itinerario?
War, “era”, già equivoco, menzogna, malinteso, nella grammaticalità del verbo essere; “era”, il tempo imperfetto, una fantasmatica del tempo passato cui ancorare il fatto, l’accaduto, il ricordo, ma, “era”, nella funzionalità introduce al continuativo, al modo del racconto della fiaba, era, c’era, c’era una volta, c’era la famiglia come traccia dell’interdizione linguistica che non nega l’infinito attuale nella narrazione di storie di una penna audace per l’”ancora”.
Soll Ich werden: occorre che (l)’io avvenga. Deve, può l’io avvenire, divenire, costituirsi in quanto soggetto? L’io che dice io, dicendosi, trova l’uno, significante, che si divide da sè, ma l’io non funziona, non ha la temporalità, resta un aspetto dell’oggetto, io, tu, lui; l’io straniante è un aspetto della trialità del sembiante, nel suo punto di sottrazione, lo sguardo. E altra risulta allora la qualifica dell’io rispetto alla topica freudiana che lo dice impossibile padrone pure in casa propria. Il retaggio di un’idea di “io” che si fa soggetto nella sovrapposizione con l’uno, e sarebbe allora oggetto della metamorfosi.
Wo Es war non si appunta all’io, ma investe la temporalità, l’occorrenza che trova la memoria quale scrittura dell’esperienza.
Un libro, dicevo all’inizio, adiacente a un altro libro, – questo termine adiacente è molto interessante – adiacente per restituire un testo, che è il testo della memoria. L’adiacenza, Freud ce l’annuncia quanto al sogno: un’acquisizione straordinaria. Dice: “Nell’inconscio le cose stanno una accanto all’altra senza elidersi, nè contraddirsi”, quindi senza trovare l’alternativa, senza logica binaria. Questo è molto interessante perché sovverte la logica binaria, sovverte l’ipostasi dei tre principi aristotelici, e ammette, invece, il principio di contraddizione, il principio di inidentità e del terzo non escluso. Ognuno pensando di andare verso l’identità, si trova spiazzato da questo, nel senso che incomincia l’itinerario, proprio lungo un processo di identificazione, di qualifica dell’inidentico. Quindi non solo sovverte l’idea di soggetto della possibile scelta, per cui, in quanto soggetto, io potrei pensare di essere padrone, di poter scegliere tra questo e quello che mi sta davanti, quindi quasi di potere fermare il tempo. Perché, se io soggetto posso scegliere questo o quello, non c’è più il tempo; ma il tempo non si può fermare, è il tempo, per così dire, a fare da padrone.
E non padroneggiabile è pure la traccia del modo ossimorico da cui la cose procedono, della relazione inconciliabile, apertura originaria, il due.
Allora, si tratta di un testo adiacente a un altro testo; l’adiacenza, una cosa accanto a un’altra cosa, è la corda della memoria, in cui s’inscrive ciascuna piegatura e nessuna corda a fare da laccio per il sacco del ricordo, a salvaguardia della dimenticanza, per dire “Ah, metto questa cosa da parte, poi me la ricordo”, impossibile, questa non è, sicuramente, la memoria. La memoria è ciò che si scrive, il ricordo non porta a nessuna scrittura, il ricordo non scrive, per il nodo della riserva mentale, per mantenere la stessità in assenza di tempo. La memoria scrive ciò che si tesse lì, in un’urgenza di annotazione, testimone infedele di ciò che ancora si sta scrivendo. Dice Freud: “Il ricordo è un ricordo di copertura”; è un ricordo di copertura perché l’accadimento non è ascoltato nel momento in cui sta accadendo, ma viene coperto da un “mi ricordo che”, che lo fa ricordo di copertura; e impedisce in quel momento di rilevare quel che sta accadendo.
Il libro di Augusto Ponzio è fatto di dettagli, mi sono trovata a rilevare questo aspetto temporale che mi sembra importante, e è uno svolgimento straordinario di letture, della cifrematica, di ciò che si qualifica, e lo ringrazio di questo testo; il testo di Verdiglione, così, non l’avevo mai letto.
Augusto Ponzio Io credo che, per il mestiere che fa ciascuno di noi, il piacere più grande nel leggere un testo è ascoltare il viaggio di chi il testo ha scritto, scritto qui non nel senso limitato della parola scrivere, scrittura nel senso che abbiamo sentito, scrittura come viaggio, scrittura come percorso. Allora c’è qualcuno che sta facendo un viaggio, che sta facendo un percorso e sta scrivendo qualcosa e c’è un altro che lo ascolta, e questo capita, capita nei rapporti, e sono quei momenti decisivi e importanti in cui uno dice, “come mi comprendi tu, non mi comprende nessun altro” e l’altro dice, “come io riesco a dire a te le cose, non riesco a dirle a nessun altro”. L’incontro come cifra con un’altra cifra, come singolarità con un’altra singolarità. Vorrei fare ancora riferimento al concetto di arroganza che credo sia un elemento costante da cui dissente la cifrematica.
Vorrei brevemente tornare su alcuni di questi scrittori, alcuni li abbiamo nominati, ma uno ci è sfuggito ed è l’Ariosto, e l’Ariosto come testo è un altra delle letture che attraversano la cifrematica. L’Ariosto è uno degli scrittori della follia, e uno degli scrittori del viaggio – lo spostamento di Angelica, la fuga di Angelica; il sembiante è l’Angelica dell’Orlando furioso. L’Ariosto, Machiavelli, Leonardo a proposito dell’arroganza, a proposito del soggetto che dice “Io voglio, io non voglio”; “Io penso, io non penso”; “Io penso, io sono”; “Io penso dunque sono”; “Io vedo, io non vedo” e su questo si sofferma Armando Verdiglione: “Io vedo, io non vedo”, dove “Io non vedo” non sta fuori dal vedere. “Io non vedo come tu possa pensare questo; “Io non vedo come tu possa volere questo”, questo “Non vedo” è dentro il mio orizzonte della visione, questo non vedere è sempre dentro la pretesa, l’arroganza di tenere sotto padronanza le cose, sotto padronanza l’altro. “Voglio il tuo bene”, una cosa è il “caso indiretto”, “Ti voglio bene, voglio bene a te”, un’altra cosa è il rapporto soggetto–oggetto: “Voglio il tuo bene”, una cosa è “prendersi cura di”, caso indiretto, un altro è “curare qualcuno”, caso diretto, pretendere di curare qualcuno. Una cosa è “pensare a qualcuno”, e un’altra è “pensare qualcuno”: dico spesso ai miei studenti, quando qualcuno dice: “Ti penso”, chiedetegli: “Nel senso che pensi a me o che pensi me? Non ti permettere di pensare me. Se pensi a me, va bene, ma pensare me, farne oggetto del tuo pensiero, questo non va bene, peggio ancora se dici che lo fai per il mio bene, che vuoi il mio bene”.
Allora, Machiavelli, Leonardo e Ariosto dicevano questo, ed è un’altra definizione completamente rovesciata di ciò che noi riteniamo per “pazzo” e, viceversa, per “normale”. Machiavelli, Leonardo e Ariosto: “Pazzo è colui che crede di poter fare quello che vuole”; pazzo è colui che crede di avere l’autocontrollo: pazzo è colui che crede di essere padrone di sè, dei propri pensieri, della propria memoria, del proprio tempo, del proprio corpo; l’esatto contrario di ciò che, invece, viene fatto passare nel paradigma del normale e dell’anormale. “La malattia mentale consiste nella perdita del controllo, consiste nel non essere più padroni di sé.” Ecco qui, in Machiavelli, in Ariosto, in Leonardo troviamo questa indicazione: “Pazzo è colui che pretende di poter decidere di sè, di poter avere l’autocontrollo su di sé”. E, purtroppo, il concetto di “libertà” come ci è stato propinato, come è stato divulgato e come con esso siamo stati formati, impastati, il concetto di “libertà” – e accanto ad esso il concetto di “democrazia” – risente di questa bella pretesa, la pretesa (illusoria) di essere padroni a casa propria. E chi ha smantellato questo, in maniera forte, è Freud. Ecco perché La nostra psicanalisi, il titolo degli atti di un convegno nella Villa San Carlo Borromeo di Senago, ecco perché si torna da parte della cifrematica alla psicanalisi, non la psicanalisi americanizzata, ma a Freud.
Uno dei limiti di Thomas Szasz, l’autore del libro Il mito della malattia mentale, un libro classico ormai, è l’incapacità di fare una distinzione tra Freud e lo psicanalista, vicino suo di casa, negli Stati Uniti, colui che pratica la psicanalisi in un miscuglio con la psichiatria, nel senso ufficiale della psichiatria, e propina non soltanto parole per la guarigione, perché bisogna guarire, rimettere in sesto l’io, rimetterlo in una situazione di padronanza, ma propina soprattutto anche psicofarmaci.
Vorrei inoltre fare un riferimento al libro, già menzionato, della collana La cifrematica, edito da Spirali, La nostra psicanalisi: qui c’è una scrittura di Maria Antonietta Viero, in cui c’è una figura, una metafora, una parabola: così, si potrebbe dire, parlano i cifrematici; “cifrematici” non perché parlano in cifra, un linguaggio cifrato. Si tratta di ritrovare, cosa non semplice la parola libera dai luoghi del discorso, parola fuori luogo, la parola della singolarità di ciascuno, la parola dell’incontro, dell’evento, la qualità della parola, la cifra, appunto. Ecco, allora bisogna ricorrere alla parabola, alla metafora, lo faceva Gesù Cristo. “Bisogna fare così o cosà? Tu che dici?” C’era una volta un tale… In La nostra psicanalisi (pp. 102-103) c’è un testo di Maria Antonietta Viero, molto bello, che si intitola Viaggio di una foglia, dove il viaggio è la vita della foglia. Il viaggio e la vita. Viaggiando. Vivendo. Due gerundi che vanno insieme: vivendo viaggiando. Vivere e viaggiare, due infini separati: non va bene; neppure i sostantivi vita e viaggio. Viaggiando, vivendo. Maria Antonietta Viero si chiede: “Quando comincia la vita della foglia?”. E risponde: quando si stacca, quando si stacca dall’albero, è lì che comincia la vita, “E lunga vita se il vento la trattiene sollevata”.
E ora c’è l’intervento di Ruggero Chinaglia.
Ruggero Chinaglia Ringrazio in modo particolare Augusto Ponzio, e il Preside di questa Facoltà, professore Pasquale Guaragnella, per l’invito e per la circostanza assolutamente straordinaria di poter parlare a un pubblico di giovani in un contesto universitario, cosa non solita, non usuale perché, occorre dire, il dispositivo universitario, molto spesso, si chiude alla novità e in particolare si chiude rispetto alla novità che risiede nella parola, privilegiando, invece, quel sapere ormai noto, trasmesso, trasmissibile senza rischio, che fa parte della cosiddetta conoscenza.
Qui, questa sorta di usanza viene dissipata e si corre il rischio, invece, della novità di un sapere che si produce parlando, nell’atto, senza un riferimento a quel che è già saputo, e questo è un aspetto del rischio della parola, un aspetto della scienza della parola, di una scienza che non fa riferimento a un sapere già dato, a una verità costituita, a una verità da difendere, da mantenere, ma una scienza che si produce nell’atto; quindi, una scienza temporale, una scienza, paradossalmente, senza conoscenza.
Effettivamente, come notava in apertura Augusto Ponzio, la questione della cifrematica è una questione ardita, come lui rileva anche nella sua scrittura, è l’esperienza dell’oltre, ma non nel senso di un oltre eroico, ma dell’oltre la nozione di fine: la fine del tempo, la fine della vita, la fine del viaggio, e via così; oltre il finalismo, anche. E per ciascuno si tratta di trovarsi oltre le categorie dell’umano per rivolgersi alla qualità. Questo rivolgimento verso la qualità sarebbe impossibile per chi mantenesse una sua idea di limite, per esempio rappresentandosi qualcosa che riguarda la fine, o il fine. La stessa idea di un fine che dovrebbe dirigere il proprio operato, anziché costituire il timone, costituisce un limite; il timone, per ciascuno, viene dall’oltre.
Oggi mi è affidata, per esempio, una missione importante: andare oltre ciò che il luogo comune ritiene il limite dell’attenzione. Alcuni studi psicologici che riguardano la categorizzazione dell’umano, dicono che un pubblico, come se il pubblico fosse un tutto organico, un pubblico ha un picco di attenzione che si accentua per i primi venti minuti, poi cala fino a quasi scomparire entro un’ora. Bene, oggi, io dico, siamo qui per andare oltre questo luogo comune, e vedrò di riuscire a mantenere la vostra attenzione oltre questo presunto limite temporale, presunto limite del cervello umano, limite attribuito, limite prescritto, non già un limite effettivo; è un limite attribuito al cervello in quanto tale, come se l’umano fosse una categoria già data con le sue attribuzioni e caratteristiche standard; questo è, appunto, il modo della standardizzazione.
Occorre dare atto a Augusto Ponzio che in un’epoca che prescrive la standardizzazione, la consiglia, la suggerisce, la prescrive nei termini della conoscenza di sé, nei termini dell’identità, nei termini dell’appartenenza, nei termini della padronanza, prescrivendo con gli slogan, con la pubblicità a ognuno di essere quel che è, di sapere chi è, di sapere cosa vuole, di conoscere se stesso, in un’epoca, dunque, che prescrive questa standardizzazione, questa presunta possibilità di conoscersi, di padroneggiare le cose, occorre dare atto a Ponzio di essere in controtendenza; ha accolto la scommessa della qualità della vita, ha accolto la scommessa della cifrematica, che è la scommessa intellettuale.
La scommessa intellettuale è questa: non accettare, supinamente, il luogo comune, non accettare, supinamente, gli standard del discorso. Non è cosa facile, può essere cosa semplice a condizione che intervenga, come notava Ponzio, l’ascolto. Ma l’ascolto è fra la divisione, il tempo, e la piega dell’Altro, non è lo stare a sentire, per cui ognuno, con bontà, cerca di comprendere; quanto più ognuno cerca di comprendere tanto meno ascolta, perché per cercare di comprendere fa riferimento a sé, alle sue categorie, alle categorie standard, e gli sfugge ciò che si sta dicendo. E l’ascolto non è nemmeno quella capacità che qualcuno potrebbe avere nei confronti di un altro, impossibile ripartire l’ascolto; noi parliamo di dispositivo di ascolto, non di ascolto di uno sull’altro. C’è un dispositivo, come il dispositivo maestro-allievo in cui, in effetti è impossibile stabilire da parte di chi sorga una produzione di sapere. Nel dispositivo maestro-allievo, nell’interlocuzione fra maestro e allievo sorge qualcosa che non è previsto né dal maestro né dall’allievo, e quella cosa interviene, si scrive, interviene come produzione di sapere. Allora, quello è il dispositivo, quello è il sapere, sapere nuovo che sorge nel dispositivo non per una trasmissione del sapere ma per una produzione di qualcosa di nuovo che non è dovuto né alla volontà del maestro né alla volontà dell’allievo, ma al funzionamento e al tempo.
Questo è un primo elemento: il tempo non è gestibile da nessuno, e interviene, e ha effetti: di sapere, di senso, di verità. Questo è un primo aspetto della questione intellettuale. Un secondo aspetto deriva da quanto in apertura, Augusto Ponzio diceva del suo libro: “Il libro non è mio”; effettivamente è così, Augusto Ponzio ha scritto questo libro, ma non è l’autore del libro. Già in apertura, ha posto una questione straordinaria, e importantissima, è la “questione omerica”.
Chi è l’autore delle opere di Omero?
Verdiglione, in uno dei suoi primi libri, poneva il quesito: “Chi è l’autore dei drammi di Shakespeare?”; e così, chi è l’autore dei libri di Ponzio? Chi è l’autore dei libri di Verdiglione? Augusto Ponzio ha scritto, è stato scrivente di questa produzione di scrittura, ma non è l’autore. Chi è, dunque, l’autore? La questione della padronanza comincia da lì, dalla negazione dell’autore. Ognuno vorrebbe ergersi a autore, autore delle cose che fa, autore delle cose che dice, autore delle cose che scrive, per potere dire: “Ecco, questo l’ho fatto io; io, autonomamente, nella mia padronanza, nella mia essenza, nella mia ontologia”. No. Occorre tenere conto della logica, del lascito che viene anche dalla cultura precedente, che appunto, con la questione omerica, non è noto, non è chiaro quale sia, cosa sia: il nome.
Chi è Omero? È un nome. E la lezione non viene solo dal mondo greco, viene anche dal discorso ebraico, quando con il Decalogo viene annunciato: “Non pronuncerai il nome di Dio”; e viene interpretato per lo più come un divieto! Sarebbe facile! No. È la constatazione dell’impossibile! Impossibile pronunciare il nome: questa è la questione. Il nome è impronunciabile e anonimo, impossibile pronunciare, impossibile dire il nome; questa è la questione culturale che viene dal discorso ebraico, la questione del nome. Il nome di Dio, impronunciabile, indicibile è sostituito da questo acronimo, YHWH. Yahweh, indica che cosa? Indica che il nome, parlando, non si può dire. Non è che sia vietato, è proprio impossibile. Allora la questione culturale, la questione intellettuale comincia da qui, dall’impossibilità di dire il nome, di sapere il nome. Da qui procede la logica della nominazione, quella che Armando Verdiglione ha chiamato logica della nominazione, integrandovi gli elementi che Freud aveva annunciato con la sua invenzione, la psicanalisi, ma aggiungendo anche gli elementi che vengono soprattutto dal discorso occidentale, elementi che però hanno perso quel carattere originario, perché sono stati inseriti in un discorso di padronanza, funzionale alla presunta possibilità di governare le cose, anziché lasciare che le cose si dicano, si annuncino.
La questione dell’annunciazione è importantissima. In greco, per indicare il parlare, ci sono almeno tre verbi: lego, da cui logos; femi, da cui fama, famoso, qualcuno di cui si parla; eiro, da cui ironia, domanda. Se leggete L’annunciazione a Elisabetta, nel Vangelo di san Luca, trovate anche laleo, quando Ezechiele esce sconvolto dal tempio perché gli è stato detto dall’angelo qualcosa che l’ha travolto, sbalordito, e non “parla”, ma “dice cose sconclusionate”. Luca usa il verbo lalein, dice che blatera, usa questo verbo, lalein, blaterare. Allora, occorre distinguere tra il dire, il parlare, ciò di cui si fa la domanda, e il blaterare.
L’inconscio di Freud, è il parlare, non il blaterare; è il parlare senza pettegolezzo, il parlare senza discorso di padronanza, il parlare lasciando che le cose si dicano, il parlare lasciando che l’ascolto s’instauri, perché, parlando, non si sa già cosa si sta dicendo; occorre, parlando, capire cosa si sta dicendo, e intendere. La facilità sta, invece, nel presumere di sapere cosa si sta dicendo, la padronanza è questa: “so quel che dico”.
La questione intellettuale è capire che cosa si sta dicendo mentre parlo; quindi, c’è una combinazione dell’infinito della parola e il gerundio, un’intersezione, e questo investe ciascun registro della vita, questa è la questione che la cifrematica pone. Cifrematica dove si tratta della scienza temporale e della procedura, della logica della nominazione che non è logica binaria, è la logica singolare triale, e già qui la faccenda si complica un po’; adesso ne accenno soltanto. Ma leggendo il libro di Augusto Ponzio si trovano i termini di questa ricognizione. La logica singolare triale, logica della simultaneità dell’uno e del tre, procede dalla logica diadica. Non c’è più logica binaria, logica dell’alternativa esclusiva: c’è la logica della parola con la sua struttura onirica.
Di questa complessità della parola, chi ce ne parla? Se leggiamo Aristotele, sembra tutto facile: logica binaria, principio d’identità, principio di non contraddizione, principio del terzo escluso: così dev’essere. Così dev’essere, perché senza queste caratteristiche, la padronanza non s’instaura, impossibile stabilire la governanza su qualcosa, senza il principio di non contraddizione, senza il principio di selezione, quindi d’identità, senza il principio del terzo escluso. Ma, questa logica che Aristotele ci propone e che è tuttora accreditata, in vigore nel discorso occidentale, è una reazione, non è la logica originaria della parola, è una reazione alla logica originaria, è una reazione alla parola libera, perché la parola libera è libera, irrefrenabile, non è chiudibile in un sistema. E il messaggio di Leonardo, è questo: non c’è sistema. Leonardo che esplora la natura, ma non è naturalista, ci dice che non c’è sistema. E Galileo, ci dice che non c’è sistema, il principio d’inerzia è l’assenza di sistema. È vanificato il sistema dell’inerzia ontologica, da quel principio che dice che: “Se a un grave è data una spinta, quello prosegue per sempre, per e con questa spinta”. Il principio della spinta è senza ontologia.
Nella scienza della parola non c’è ontologia, perché il tempo interviene come differenza e come variazione. Ma questo messaggio, come e quando ci giunge al di fuori dell’esperienza della parola? Questa è la questione che Augusto Ponzio pone con il suo libro: un’esplorazione della parola, della logica della parola, e infatti il titolo è importantissimo, La dissidenza cifrematico. Dissidenza.
La dissidenza, indica la cifrematica, ha la parola come sede; ciascuna cosa ha sede nella parola, ma questa sede non è una sede statica, una sede immobile, è la sede esposta alla variazione, esposta alla differenza, è dissidenza; è dissidenza senza che questa dissidenza possa volgersi in una ideologia. Dissidenza quindi, assoluta, senza possibilità di conciliazione, senza possibilità di accordo, e infatti la questione è quella della contraddizione, dell’ironia, della domanda che sorge dall’ironia, dalla contraddizione come questione aperta.
Tutto ciò, io mi rendo conto, è complesso, non difficile ma complesso, si tratta, solamente, di decidere di affrontare questa complessità, perché la facilità è l’adesione allo standard, al luogo comune. Ma ciascuno di noi se si interroga sulle sue esigenze, sui suoi progetti, sul suo programma certamente non si imbatte mai nella facilità delle cose, piuttosto nella loro complessità. Ciascuno di noi esige di capire, intendere quale sia la caratteristica, la direzione; direzione che non è, poi, rettilinea, data una volta per tutte, e quindi esige la ricerca, con umiltà, per riprendere le parole di Augusto Ponzio, che richiede l’intervento dell’Altro, dell’Altro che non è un altro.
Questo Altro di cui parla Augusto Ponzio, di cui parla Verdiglione, di cui si tratta nella parola originaria, non è un altro, non è l’altro da me, non è qualcun altro, non è un altro che può pluralizzarsi e divenire “gli altri”, è l’Altro imprendibile, non significabile, è l’Altro che non è sostanziale, è l’Altro strutturale, è l’Altro per cui parlando c’è la differenza assoluta. Questa differenza assoluta, che noi non possiamo vedere, non possiamo toccare, non possiamo nemmeno rappresentare, ecco questa differenza assoluta è l’Altro, quella che Freud accennava come la struttura del sogno. Freud aveva capito qualcosa di straordinario, la struttura onirica della parola, purtroppo questa sua invenzione, questo frutto della sua ricerca, è stato, poi, ridicolizzato nel ricondurlo ai sogni, come se si trattasse di decodificare i sogni; Freud parla del sogno, ossia della struttura onirica della parola.
Se leggete L’interpretazione dei sogni, che poi, in realtà, si tratterebbe dell’interpretazione del sogno, della struttura del sogno, trovate che la questione è: “Qual è la struttura del sogno?”. Metafora, metonimia e catacresi, questa è la struttura del sogno, e è la struttura del racconto; raccontando, il racconto costituisce questa struttura: metafora, metonimia, catacresi. Dove, nella metafora si tratta del nome, del nome in quanto autore, che non sappiamo quale sia. Leggendo, ascoltando la metafora possiamo cogliere l’intervento del nome, dell’autore; dove nella metonimia si tratta del significante, quindi del narratore; nella narrazione chi è il narratore? Non qualcuno, narratore è il significante che differisce da sèè, quindi anche lì, impedisce la padronanza, esige di aguzzare l’ingegno, di aguzzare l’ascolto; e poi, la catacresi, l’abuso linguistico, dove la sfumatura indica qualcosa di assolutamente specifico che non è sostituibile da qualcos’altro; ecco la struttura onirica, ecco la struttura del racconto.
È per questa struttura, allora che, parlando, cogliendo questa complessità della parola, la scommessa è di costituirsi come candidato all’intellettualità, candidato alla qualità, candidato alla scrittura.
Con questo libro, accanto agli altri della sua produzione, ovviamente, a mio parere Augusto Ponzio riafferma e si propone in questo statuto di candidato, dove la candidatura, contrariamente a quanto accade in ogni ambito disciplinare e professionale, non trova nè promozione nè bocciatura nè conferma, nè avallo, nè possibilità di essere, in qualche modo, a un certo punto, conclusa: la candidatura è infinita. La candidatura è candidatura a che il viaggio proceda in direzione della qualità, senza l’idea di morte, senza l’idea di fine che dovrebbe ergersi come una cappa sul viaggio stesso, a finalizzarlo a fin di bene, al fine di quel bene che tutti presumono di conoscere, ma che è impossibile da conoscere.
Che cosa è bene? La parola bene indica il due, la diade; come conoscere il due? Impossibile. Il due è ciò da cui le cose procedono, e infatti le cose procedono dal due e si rivolgono, in questa rivoluzione, in questo viaggio, alla qualità, procedendo dal due, non dall’uno; se procedessero dall’uno, allora potrebbero finire, anzi dovrebbero finire a un certo punto, oppure ritornare al punto di partenza, ma procedendo dal due non c’è ritorno. Il viaggio prosegue per ciascuno, la candidatura prosegue, questa è la scommessa intellettuale, questa è la scommessa della cifrematica, questa è la scommessa che, con Armando Verdiglione, da oltre trentasei anni, giorno per giorno, faccio, perché la scommessa non è fatta una volta per tutte. Questa è la scommessa anche della casa editrice che ha pubblicato con gioia questo libro di Augusto Ponzio, che risulta quindi, straordinario perché attraversa i vari registri: quello della logica, quello della scienza e quello dell’esperienza della parola: la cifrematica. Infatti, lui prende a pretesto non solo gli scritti di Armando Verdiglione ma anche i congressi, le attività del movimento, cogliendo di volta in volta, spunti per rielaborare, per procedere in quella che la sua elaborazione, poi gli ha posto come scrittura, come lettura senza che mai possa sorgere il dubbio che si tratti di una metalettura, di una metascrittura: è lettura, è scrittura. Originarie. È la restituzione da parte di Augusto Ponzio, del testo di un’esperienza che anche lo riguarda, perché, ovviamente, fin dagli anni “70, lui ne è stato testimone, e quindi è un libro che, a ciascuno, consiglio vivamente, perché è un libro straordinario. Grazie.
Augusto Ponzio Alcune considerazioni a margine, per dire delle cose che non sono semplici. Purtroppo ci hanno tutti viziati, proprio nel senso in cui si dice: “È un ragazzo viziato”. Il ragazzo viziato è quello che vuole trovare tutto pronto e tutto semplice. E ci hanno anche detto che si parte dal semplice e poi si arriva al complesso. Invece il semplice è un punto d’arrivo; bisogna arrivare al semplice. Vivendo, procediamo verso il semplice. La vita è semplice, vivendo. Io, nel mio corso di di lezioni di Filosofia del linguaggio ho cominciato a leggere di questo libro soltanto le epigrafi che stanno all’inizio di ciascun capitolo, come, per esempio, quella che dice: “Vivendo, non c’è tempo per studiare, ma c’è tempo per leggere e per scrivere; vivendo vuol dire leggere e scrivere”. E poi quest’altra epigrafe, che leggo per dire che cos’è, poi, “facile”. Purtroppo, si sceglie la facoltà perché è facile, si sceglie un corso di laurea perché è facile. C’è una facilitazione, rendere sempre più facile, ridurre in quanto più è possibile la quantità delle discipline in un corso di laurea. Nella scelta degli insegnamenti, qual è il più facile? “Facile appare – chi scrive è Cristina Frua De Angelis, una donna extraordinaria, non potrei tratteggiarla diversamente – un libro, appare un testo, in cui ognuno si riconosce”.
Ecco, questo mimetismo, questo ritrovarsi, questo riconoscersi, questa pretesa di trovare sempre se stesso. Certe volte uno sceglie il proprio partner volgendo lo sguardo verso ciò che gli somiglia. Facile appare un testo in cui ognuno si riconosce, ecco che cos’è il facile. Ritrovare se stesso, ritrovarsi nei propri limiti, nei propri limiti significa nella propria fisionomia. Si conferma. Ecco, facile è ciò che si conferma, che rilascia tranquillo, che ti lascia riposato. Si conferma in che cosa? Dice Cristina Frua De Angelis: “Nella propria ignoranza”.
Io sono molto legato alle cose che vado facendo dentro questo bastimento, carico carico, che si chiama università. L’università sta sempre più diventando il luogo della comunicazione globale, dell’ignoranza. L’università, la scuola, dunque l’istituzione del sapere in cui ciascuno vuole, tranquillamente, ritrovarsi, trovare il facile. La pubblicità delle università private, generalmente funziona così: dieci esami in quattro mesi. La cosa che soprattutto chiedono gli studenti: fare presto gli esami. Il primo giorno del corso, prima che iniziassi la lezione, una persona mi chiese:
– “Professore, io potrei già dare l’esame su questo corso?”.
– “Perché?”.
– “Per liberarmene”.
Facile appare un testo in cui ognuno si riconosce nei propri limiti, si conferma nella propria ignoranza, si nasconde dietro le proprie paure, la paura dell’Altro, non di questo o quest’altro, ma di tutto ciò che non rientra nell’ordine costituito, dentro l’ordine del discorso, dentro i luoghi comuni. Vorrei riprendere alcune cose che si dicevano, in omaggio al Preside, che è un italianista, e di coloro che si occupano di queste cose. Ritornando su Galilei, prima menzionato, forse dovremmo dire così: Galilei non ce l’ha fatta a sconfiggere l’aristotelismo.
Roland Barthes, in quel libro bellissimo, in quel saggio bellissimo, che si chiama La camera chiara, dove deve scrivere un saggio sulla fotografia, si chiede questo: se sia possibile un sapere, non dell’universale, non del generale – generale è sempre “per gradi” – non dell’ufficiale, non dell’uniforme (sono tutte parole militari) ma del singolare. Che cosa si propone in questo saggio di Roland Barthes? La ricerca di una fotografia singolare. La fotografia della madre? Ma quale fotografia? Quella per cui avrebbe potuto dire: ecco questa è mia madre, proprio questa qui; ecco, qui la ritrovo. Ebbene, questa è la cifra: il singolare. Dunque, tutto un libro scritto non più per la ricerca dell’universale, ma per la ricerca del singolare, della cifra, dell’unicum. La cosa è veramente eccezionale, perché questa fotografia della madre, che è morta, questa fotografia della madre, Barthes la trova. Ma è una fotografia che non sta nella sua esperienza di soggetto, che non sta nell’esperienza della sua vita, che fuoriesce da qualsiasi possibilità di ricerca in cui c’è la padronanza, in cui c’è il soggetto che cerca. Qual è questa fotografia? La fotografia della madre bambina. Di fronte alla fotografia della madre, bambina, fotografata in un giardino, in inverno, Barthes può dire: “Ecco, questa è mia madre”, cioè lui la riconosce. Anche noi facciamo qualcosa di analogo. Ci è capitato nei rapporti di coppia, nei rapporti d’amore, di dire: “Dammi una tua fotografia, ci tengo!” Lui o lei te la dà, tu la guardi e dici: “No, tu non sei questo/questa! No, fammene vedere un’altra”. E poi forse scegli e tieni ad avere la fotografia in cui ancora non conoscevi lui o lei, in cui addirittura era bambino/a, cioè una foto completamente fuori dalla tua possibilità di esperienza.
– “Come, questa? Ma se com’ero qui non mi hai mai visto/a!”.
– “Sì, proprio questa. Qui ti riconosco”.
Questa cosa succede a Barthes, ritrova la fotografia della madre lì dove non l’aveva mai potuta incontrare come soggetto, al di là della possibilità di farne esperienza; e tutto questo è fuori dall’aristotelismo, è fuori dalla logica della non contraddizione, è fuori dall’universale, è fuori dal razionale, è fuori dal genere homo.
Dunque, è un’uscita dal razionale. La ragione. Purtroppo abbiamo ancora questa dea, l’illuminismo non si è dileguato. Tutte le critiche di Giacomo Leopardi alla ragione illuministica sono sembrate relative a un disgraziato, a un poveraccio, a un povero pessimista “a ragion veduta”. Ma sta di fatto che la ragione uccide, la ragione uccide il singolare, a colpi di universale. “Tutti gli uomini sono mortali: Socrate, Antonio, Pasquale, Giovanni sono uomini, dunque sono mortali.” Ma sta di fatto che quando muore uno, quando ti muore uno, non c’è la possibilità di dire “ma è un uomo, tutti gli uomini sono mortali, dunque è morto. Di che cosa ti scandalizzi?” La morte resta uno scandalo, perché la morte nel rapporto di singolo a singolo non sa che farsene del principio “tutti gli uomini sono mortali”. Non sa che farsene e dunque la morte fa scandalo ogni volta, indipendentemente dalla vicinanza, indipendentemente dalla parentela, indipendentemente dall’affinità, indipendentemente dall’età. Non puoi consolare chi ha perso la mamma dicendo che aveva novant’anni! Non è consolabile. E non puoi consolare una madre che ha dieci figli, e glien’è morto uno, dicendole “Ne hai tanti altri, ne hai altri nove”. Ogni figlio è figlio unico. Ecco, questa unicità, questa singolarità, questa cifra, ciascuno la vive, la sa, ma non si tratta del sapere nel senso aristotelico del termine. La ragione fa veramente male.
“L’uomo è un animale razionale”, e questo già ce lo insegnavano a scuola; “sii razionale”. Io lo dico ai miei studenti, e questa cosa qualcuno qui l’ha già sentita: capite che cosa significa la parola ragione nell’espressione, “Avere ragione dell’Altro”, avere ragione di lui, avere ragione sull’Altro; e poi c’è quell’altra frase eloquentissima, “Gliene diede di santa ragione”, dove capite bene cos’è la ragione – che può essere pure santa, mentre “gliele dai”. E poi c’è l’altra espressione, che è ratio. La guerra come extrema ratio, come quando si dice: “Quando ci vuole ci vuole; quando ci vogliono le mazzate, ci vogliono”. Extrema ratio, come l’estremo ricorso della ragione per avere ragione dell’Altro con tutti i mezzi necessari, dunque la guerra come extrema ratio. Beh, l’Uomo (potrei dire che comincio ad avere una certa homofobia, dove omo ha l’acca avanti) di fatto non ci interessa molto, l’uomo in generale, se non come alibi (i diritti umani, le guerre umanitarie ); non ognuno, ma ciascuno; questo dovremmo cominciare a avere a cuore: ciascuno.
Ma ciascuno lo sa: nei rapporti privati, quelli privati di tutto, i rapporti privati che più privati di tutto non si può, sono rapporti di ciascuno a ciascuno. I rapporti pubblici, ben confortati, quelli assicurati, quelli sono i rapporti di ognuno con ognuno; ma nei rapporti di ciascuno a ciascuno noi abbiamo a cuore la singolarità e abbiamo non paura dell’Altro, ma paura per l’Altro, e non pensiamo l’Altro, ma pensiamo all’Altro. Dunque, facciamoci caso: avere paura dell’Altro. Consideriamo la frase “La paura dell’Altro era grande”: “dell’Altro” può essere o genitivo soggettivo o genitivo oggettivo. “La paura dell’Altro era grande” o è l’Altro che aveva paura, o c’era qualche altro che aveva paura di lui. “La paura dell’Altro era grande” o genitivo soggettivo o genitivo oggettivo. Attenzione. Di nuovo, da capo c’è un soggetto e un oggetto. Però ci sono espressioni in cui dici “Stammi bene; salutami Giovanni”: questo “mi”, “a me”, si chiama “dativo etico”. Beh, sentire la paura dell’Altro, ma non come genitivo soggettivo e non come genitivo oggettivo, ma nel senso di avere paura per lui, sentire paura per l’Altro, stare in pensiero per lui: ecco questo genitivo come lo devo chiamare? È una sorta di genitivo etico, come quando uno dice “Stammi bene”, “Salutami Pasquale”, “Salutami il tuo amico”, (dativo etico). Ecco, un genitivo etico in cui la paura dell’Altro fuoriesce dai luoghi comuni secondo i quali ci hanno detto a scuola che la paura dell’Altro può essere soltanto genitivo soggettivo o genitivo oggettivo.
Dunque, ciascuno, da animale razionale, dovrebbe velocissimamente, ripararsi perché c’è un pericolo di catastrofe generale. Che non è soltanto l’apocalisse finale, la fine del mondo, ma è anche, per fare un esempio che ci tocca da vicino, la catastrofe, in corso, dell’università. Parlo dell’università, perché mi sta a cuore. Non è una crisi quella dell’università, è qualcosa di peggio, non è una crisi del sapere; la crisi, lo sappiamo, è un fatto positivo.
È stato fatto un convegno nella Villa San Carlo Borromeo sullo stress, considerato, secondo il luogo comune come qualcosa di negativo. “Ti vedo un po’ stressato”. Stress significa tensione. Tensione: non parte nessuna freccia, non c’è nessun dardo che vola se non c’è una tensione nella corda dell’arco. Tensione, dunque, anche da questo punto di vista, fuoriuscita dall’ordine del discorso secondo cui dobbiamo essere sempre tranquilli, riposati. Il bambino a scuola troppo vivace viene sottoposto immediatamente a cure, ma non nel senso di prendersi cura di lui, ma cure nel senso dello psicofarmaco, e questo è terribile. Dunque, da animale anfibologico, da animale razionale, divenire animale ragionevole. La ragionevolezza. La ragionevolezza che non è adeguazione, non è comodità, non è consolazione, non è arrendevolezza, ma è invece possibilità di rimettersi in una posizione di ascolto, dove l’ascolto è l’ascolto dell’Altro, l’ascolto dell’Altro di sè, l’ascolto dell’Altro da sè. Possibilità dell’incontro.
Sull’incontro c’è una riflessione di Armando Verdiglione, dove l’incontro non è semplicemente con lo sconosciuto, l’incontro con qualcuno che non conoscevo, ma è anche l’incontro con colui che avevo, già prima, a portata di mano, sotto gli occhi, nel quotidiano, però, ecco adesso scatta una specie di corto circuito; di corto circuito, perché c’è la possibilità di una lettura che non è più la lettura data, semplice, di un testo già fatto, è la possibilità, dunque, di trovare la singolarità in un viaggio, che se è insieme, non è un viaggio di comunanza. Un’altra espressione molto diffusa, oltre a quella di “sostenibile” (c’è un corso di laurea che si chiama, Le lingue per un turismo sostenibile), oggi è “condiviso”.
Condiviso, condividere, più c’è condivisione e meglio è. Nessuna condivisione, nessuna comunanza. Nessuna comunanza, nessuna comunità. Un libro che s’intitolava, detto in italiano, Società e comunità del sociologo tedesco Ferdinand Tönnies, ebbe molto successo nel periodo della Germania nazista, in cui il termine “società” fu soppiantato da “comunità”, comunità di lavoro. Anche le forme di socialismo, il più spinto e capace di innovazione, non è riuscito a pensare altra forma di comunità che la comunità di lavoro. Il socialismo come luogo in cui tutti lavorano, tutti hanno un posto di lavoro, sono tutti lavoratori. C’è una critica spietata di Marx nei manoscritti del 1844, contro l’idea che il socialismo, che il comunismo, consistano nel livellamento dentro a una comunità di lavoro, sottovalutando e azzerando il “talento”. Potremmo parlare invece di singolarità, di cifra, della qualità e unicità di ciascuno. Nietzsche in Così parlò Zaratustra dice qualcosa del genere usando la parola “scintilla”.
Ruggero Chinaglia L’idea della scintilla conduce, in realtà, al fatalismo, alla superstizione. L’idea della scintilla, che a un certo punto dovrebbe scoccare, è già un’idea di sostanza, un’idea di sè ispirata alla sostanza; è già un’idea di come sono, della mia dotazione, “La mia dotazione è tale per cui posso oppure non posso”. Quindi, è già un’idea soggettiva questa, è già un’idea anfibologica, posso, non posso. L’anfibologia è questa: che, dinanzi all’esigenza, chi è nella soggettività, chi è nella superstizione, quindi chi è nel fatalismo pensa di avere due possibilità, una positiva e una negativa, una favorevole e una sfavorevole. La fregatura è questa, semplicemente, perché, anziché aguzzare l’ingegno, quindi anziché fare ricorso al talento che non si sa di avere, ma che c’è, ci sarà, aguzziamo l’ingegno, ci sarà, magari non la prima volta, non al primo colpo, non al primo tentativo, al secondo, ma aguzziamo l’ingegno! Ma, ecco che, anziché aguzzare l’ingegno, il soggetto aspetta la scintilla, aspetta e dice: “Ce la faccio, non ce la faccio.” Se ce la faccio, va bene; ce la farò nonostante tutto”; quindi non c’è bisogno nemmeno di prepararsi, di svolgere quello che c’è da fare, di disporre i dispositivi opportuni. Allora, questa è la fregatura! La vera fregatura è questa: accogliere, accettare l’idea sostanziale di sè come predestinato, predestinato al bene o predestinato al male, predestinato al successo o all’insuccesso, questa è la vera fregatura. Allora questa fregatura è in qualche modo pianificata, suggerita, subdolamente proposta da quello che oggi a livello sociale e politico passa comepolitically correct, cioè la forma edulcorata, standardizzata delle cose, senza estremismo, perché questo estremismo deve essere bandito; ma l’estremismo, se è l’estremismo della parola, perché è la parola che è estrema, esige di qualificarsi, esige di rivolgersi alla qualità: è questo l’estremismo. Allora l’augurio è che la gioventù sia l’età dell’estremismo e che non giunga mai all’età adulta, che dovrebbe invece accettare la standardizzazione in nome della razionalità, come diceva prima Ponzio, in nome della maturità. È questo estremismo della parola, è questo estremismo della gioventù che con la questione intellettuale, senza scintilla, ciascuno può trovarsi ad affrontare, ed è questo l’augurio che rivolgo a ciascuno questa sera.
Nico Perrone Ho una considerazione un po’ estremista che mi viene da quello che ho sentito. Non vorrei turbare il professore che mi sembrava tendenzialmente normalizzatore. Si è parlato dell’universalità di certi valori, di certe reazioni umane. Il professore Ponzio ha fatto l’esempio della donna centenaria che muore; non può essere motivo di consolazione il fatto che aveva cento anni. Il professore Ponzio potrebbe anche avere ragione in quello che dice, perché propone uno schema che non è uno schema di tutti, non è uno schema di tutte le società, non è lo schema di tutti i momenti storici, è lo schema delle società che si chiamano evolute, delle società occidentali che si riconoscono intorno a alcuni concetti che elevano a valori e quindi perpetuano poi questi lussi, ma io devo ricordare che tanti e tanti anni fa, ho sentito raccontare di classi popolari, di classi disagiate che non riuscivano a sbarcare il lunario, che avevano difficoltà enormi che noi non riusciamo neanche a immaginare, e erano società nelle quali le famiglie avevano tanti figli, perché non c’erano i mezzi di oggi, gli svaghi della società di oggi, non c’era il cinema, non c’era nulla e quindi, si facevano i figli, era l’unica cosa che si potesse fare, ma ai figli bisognava dare da mangiare e questo era duro e doloroso, e allora, in questa società quando un bambino molto piccolo moriva si usava questa espressione, sì, c’era il dolore, il pianto, ma la conclusione era questa: una frase in dialetto barese che tradotta in italiano vuol dire: “Cristo ci ha aiutato, Cristo ci ha aiutato”, ci ha risolto il problema, perché non sapevamo cosa dargli da mangiare. Questo mi fa riflettere sulla comunità, forse si tratta di non assumere valori di conoscenza oggettivi e generali, le logiche delle società più abbienti, ma avere un occhio anche a situazioni diverse che non sono soltanto del passato; è una situazione anche in una larga parte del mondo che forse non è vicinissima a noi, ma che pure esiste e ha i suoi problemi, le sue logiche, i suoi valori che sono completamente diversi da quelli della borghesia agiata dell’Occidente.
Dal pubblico Però questo discorso varrebbe anche per il testamento biologico, perché, come nel caso del bambino della famiglia numerosa, è la stessa logica di quando si ha una grave malattia e oggi si discute tanto del fatto che si può aiutare a morire. Io non sarei tanto d’accordo.
Giuseppe Mininni Ciò che Augusto Ponzio diceva a proposito del concetto di “parola” come parola singolare, come altra parola rispetto al discorso alla lingua, riprendendo il punto di vista della cifrematica, mi sembra in contrasto con il concetto di “parlare comune”, poi riproposto in termini di “lavoro linguistico”, di Ferruccio Rossi-Landi, a cui pure Augusto Ponzio nella sua ricerca e nei suoi libri spesso si richiama. Inoltre nella dissidenza non c’è sempre una certa presunzione di possesso della verità? Un’altra questione: la logica della nominazione di cui parla la cifrematica non è un sorta di ritorno al nominalismo?
Augusto Ponzio Una digressione. In aggiunta alle considerazioni che si facevamo prima a proposito dell’avvio negli anni Settanta di quell’orientamento della psicanalisi che conduce alla cifrematica, desidero ricordare la descrizione del convegno tenutosi a Milano per iniziativa di Armando Verdiglione, nei giorni 8 e 9 maggio del 1973, fatta recentemente da Pier Aldo Rovatti nella sua introduzione all’edizione italiana (Einaudi) del libro di Deleuze L’ Ile deserte et autres textes. È la descrizione del primo dei convegni promosso da Armando Verdiglione e intitolato Psicanalisi e politica. Quello a cui presi parte io è il secondo, nel dicembre del ’73, Psicanalisi e società segregativa. Nel primo convegno ci fu anche una relazione di Deleuze tradotta in italiano da Armando Verdiglione ripubblicata nell’edizione italiana del libro di Deleuze (p. xii). Pier Aldo Rovatti ricorda l’atmosfera di questo convegno: “Milano, 1973. Schiacciato, in mezzo alla folla decisamente sproporzionata al luogo, c’ero anch’io nella libreria Sapere a ascoltare Gilles Deleuze che parlava in un seminario dedicato a Psicanalisi e politica, una delle sue poche uscite pubbliche. Altri tempi, atmosfera tesa e appassionata, sfilata di figure eterogenee, strano concatenarsi di intelligenze dissimili, amici e nemici giurati della psicanalisi, giovani militanti non certo addetti ai lavori, attenzione spasmodica, clima da kermesse politica, inimmaginabile per chi ha solo esperienza dell’oggi”.
Riguardo alle osservazioni del prof. Mininni a proposito di Rossi-Landi dirò che la sua nozione di “parlare comune” nasce in un rapporto di dissidenza nei confronti del parlare ordinario, del concetto di “linguaggio ordinario” degli analisti di Oxford, di Cambridge. Dunque, anziché l’analisi del linguaggio ordinario che è il linguaggio dell’uso comune, un recupero del parlare comune come ciò che è originario; e c’è una ricerca, da parte di Rossi-Landi, la ricerca della parola originaria rispetto al mercato linguistico, un recupero del lavoro, del lavorio linguistico, della parola nel suo farsi: tornare alla parola libera, tornare non alla libertà di parola, ma alla libertà della parola. Io vedo dei collegamenti fra la ricerca di Rossi-Landi su ciò che egli nel ’61 (in Significato, comunicazione e parlare comune, da me riedito nel 1998 per Marsilio) chiama parlare comune e che successivamente nel ’68, nel libro Il linguaggio come lavoro e come mercato (riedito recentemente a mia cura da Bompiani), chiama lavoro linguistico e il percorso della cifrematica. Da una parte la lingua, il discorso ordinario, i luoghi comuni del discorso, il mercato linguistico, lo standard, e dall’altra c’è l’originario parlare comune, di cui le lingue, viste come sistemi, come codici, sono l’ossificazione, la lava indurita, il capitale costante, come lavoro depositato, che il capitale variabile, il lavoro vivo rinnova e valorizza. Anche Ferruccio Rossi-landi era un dissidente, e questa sua dissidenza l’ha pagata molto cara nel corso della sua vita.
Non sono d’accordo sul rapporto che veniva stabilito tra dissidenza e possesso della verità. Il dissidente non è quello che ha la verità. È proprio il contrario. Colui che ha la verità è quello pieno di sè, è il soggetto ripieno, ci sono i peperoni ripieni, le melanzane ripiene, e c’è il soggetto ripieno. Il soggetto ripieno: quello che presume, pretende, con una forma di arroganza più o meno mascherata, più o meno rivelata o ostentata, di avere la verità. Io vedo, io non vedo, io penso, io so, io credo, io non credo. Io voglio, Pazzo è colui, (dicevano Machiavelli, Leonardo e Ariosto), che crede di potere fare quello che vuole. La dissidenza ironicamente prende le distanza nei confronti di quelli che Leonardo da Vinci, come ricorda Verdiglione, chiamava i “trombetti”.
A proposito dell’intervento del Prof. Nico Perrone, che ci siano condizioni umane così disumane non deve farci pensare che l’umano può essere questo; io non farei mai un riferimento a una situazione disumana per dire che cos’è il rapporto col cibo. L’uomo ha un rapporto col cibo, mai come cibo, ma sempre come piatto, anche nelle condizioni più umili, più disagiate: è il piatto, il piatto non il cibo, cioè il cucinare, il riorganizzare, lo stare insieme, le maniere dello stare a tavola. Non è casuale che siano le cucine povere, la cucina vietnamita, tailandese, ad attrarre con i loro piatti nei paesi ricchi. Dunque, il piatto come capacità di elaborazione nell’estrema povertà. Non si è mai vista una comunità che non abbia il senso dell’eccedente; non si è visto mai un vaso di creta, il più antico, il più preistorico che non avesse un dettaglio inutile, un arzigogolo, un manico particolare, un fregio, un in-più, che poi è quello che resta nelle teche. Nelle teche il vaso sfondato non serve più, non ha più nessuna utilità, è infunzionale, ma proprio per la infunzionalità, per quel fregio, per quel manico particolare lo conserviamo. Se ci sono situazioni per le quali c’è solo il cibo e non il piatto, per le quali si possa dire “Speriamo che muoia presto”, sono situazioni estreme che non possono essere prese in considerazione in maniera esemplificativa. Lévinas fa una critica molto forte dell’idealismo e però dice che l’idealismo ha l’idea della trascendenza, l’idea dell’uscire fuori, l’idea di spingersi oltre realtà storicamente data. Qualsiasi forma di sociale, qualsiasi comunità che rimane attestata al reale, dice Lévinas, è barbara, barbara è qualsiasi comunità, qualsiasi forma sociale che resta con i piedi per terra, che resta ancorata alla realtà, barbara è qualsiasi politica realista.
Quello che tu ci racconti, caro Nico, è terribile.
Ruggero Chinaglia Giusto per precisare, accogliendo l’esigenza di chiarimento: occorre distinguere fra logica della nominazione e nominalismo. La logica della nominazione non è la logica per assegnare il nome appropriato alle cose in modo da creare un nuovo codice per sostituire quello precedente. La logica della nominazione è la logica che procede dal funzionamento del nome, del significante e di ciò che simultaneamente al nome e al significante è Altro, quindi è una logica singolare e triale, in cui accanto alla singolarità per esempio del funzionamento, c’è tuttavia una trialita di funzioni, la funzione di nome, la funzione di significante e la funzione di Altro. Questo particolare funzionamento impedisce propriamente la lingua comune, perché si tratta di cogliere che in quel che si dice nella lingua in cui ciascuno parla, essendoci questa simultaneità di nome, significante e Altro, il senso, il sapere, il significato, la verità non sono univoci, sono elementi non univoci , quindi c’è una particolarità che non è già saputa, è da capire.
Proprio perché c’è questa combinazione e combinatoria, tutto ciò è asistematico, asistemico, è imprevedibile, incalcolabile, inconoscibile, cioè è qualcosa che esce da quello che è stato o da quello che a un certo punto è suggerito come metodo scientifico che avrebbe come caratteristica la riproducibilità del fatto – alle medesime condizioni di temperatura e quant’altro, l’esperimento è ripetibile. Ecco, qui siamo in un altro orizzonte, in un altro contesto dove questa possibilità della riproducibilità non c’è, nemmeno quello della ripetibilità. Ciascun atto è originario in questo senso, è originario in quanto è senza origine; è impossibile stabilire quale sia l’origine, da dove venga; questo è qualcosa che propriamente richiede lo sforzo di intendimento, esige l’ascolto, esige anche la clinica, quella che noi chiamiamo clinica come compimento, in direzione della qualità, quindi in un’altra accezione da quella comune: clinica ospedaliera, oggi si dice clinica e si intende psicopatologia, ecco, no, noi diciamo clinica in assenza di psicopatologia, quindi in assenza di un codice di riferimento già dato che stabilisca dove sta il positivo, dove sta il negativo, dove sta il bene, dove sta il male; è clinica proprio perché riguarda la piega della parola, ilclinamen, la piega, quindi esige uno sforzo intellettuale per qualificare, è clinica in quanto esige la qualificazione; non è già qualificata la cosa, la parola non è già qualificata, quel che si dice esige di qualificarsi, in questo senso parola originaria non perché ha un’origine stabilita migliore di un’altra, ma proprio perché è senza origine e proprio perché si situa nell’infinito e quindi senza possibilità di sistema, il codice non è già dato, è da trovare. In questo senso, non comune, perché questa trifunzionalità simultanea comporta l’equivoco, la differenza e il malinteso.
Ma allora uno dice, come facciamo a capirci? Esatto, non ci si capisce, non ci si capisce, ma occorre capire cosa si sta dicendo. Il capire non è il legame sociale, perché la questione ideologica è questa: che la parola dovrebbe servire da legame sociale, infatti il discorso, il discorso politico è questo, un discorso comune che faccia da legame sociale. Invece la parola non ha questa funzione di legame sociale, ha la funzione di dirsi e di tendere alla qualità. È una funzione intellettuale, non di per sè di aggregazione o di comunità, di aggregazione sociale, di aggregazione familiare, di aggregazione genealogica, di qualunque genere; non ha questo compito la parola, non ha una funzione, tra virgolette, sociale, ha invece un requisito, una missione, un’istigazione intellettuale, questo sì. E c’è il pulsionale, la forza che la parola produce in direzione della qualificazione, in direzione della qualità.
La cucina è appunto l’arte della combinatoria e in questo senso, in qualche modo esige questo panorama infinito senza dover stabilire un tetto che stabilisca qual è buona cucina e quale non lo è. La cucina è, diciamo così, un abito in cui si tratta dell’invenzione, il modo della cucina può stare a ciascuno nonostante che ci siano molte ricette, però se io cerco di copiare una ricetta e quindi di giungere a fare una pietanza, il mio modo o l’Altro modo interviene, è impossibile riprodurre la ricetta con un’identità del piatto che poi si produce rispetto a quello preso a modello.
C’è l’altro modo, questo altro modo che è il modo del tempo e impedisce la chiusura: si tratta di qualcosa che non si chiude. In questo senso parola originaria, e in questo senso anche dissidenza: dissidenza come particolarità, non come qualcosa da difendere e da contrapporre, anzi, qualcosa che procede particolarmente nella sua particolarità e ciascuna particolarità è senza graduatoria, non c’è una genealogia, una graduatoria delle particolarità, per questo nella parola non c’è psicopatologia e per questo la psicopatologia è sorta come reazione alla parola, proprio per riuscire a catalogare qualcosa che nella parola non è catalogabile. Oggi può risultare strana questa proposta, questa esperienza nell’epoca che invece propone la catalogazione precisa, il catalogo dei cataloghi, la prescrizione a essere in un certo modo, la prescrizione allo standard.
Dal pubblico una richiesta di chiarimento a proposito di “comunità di lavoro”.
Augusto Ponzio Mi pare che la domanda è: Come è possibile una comunità che non sia di lavoro?
Pubblico …un consorzio…
Augusto Ponzio Un consorzio, “L’Università deve diventare un consorzio”! Una comunità che non è una comunità di lavoro sarebbe una comunità extracomunitaria. Nelle espressioni “comunitario” e “extracomunitario”, bisognerebbe intendere extra come super, come eccedente, come nell’espressione extralusso: c’è il comunitario e c’è l’extracomunitario. Ecco, bisogna costruirsi ciascuno come un extracomunitario, extracomunitario a se stesso, extracomunitario alla comunità di lavoro, ai consorzi del sapere, alla Nowledge Society. Questa extracomunarietà, questa extracomunanza, dovrebbe essere la possibilità di un atteggiamento dissidente, dove la dissidenza non è assolutamente chiudersi, non è torre d’avorio, non è esaltarsi, non è possedere la verità. La dissidenza è impolemica, non oppositiva, non conflittuale, non è di partito, non è di movimento, non è di gruppo, non è di associazione. Anche il movimento del Social Forum, che ultimamente ha riunito tutti insieme a Nairobi, tutti insieme lì… Io credo che l’incontro, l’appuntamento ecco, non è tutti insieme, insieme in un luogo, ma è tra, con, ciascuno fuori luogo; l’incontro è lì dove stiamo, è la possibilità dell’incontro è la possibilità in cui ciascuno incontra ciascuno nella sua singolarità irripetibile, insostituibile, fuori ruolo e fuori identità, e dice a ciascuno qualcosa in cui la parola è fuori dal discorso, dai suoi luoghi comuni. Ciò prefigura la possibilità di una extracomunanza.
C’è un altro riferimento che vorrei fare. Causa efficiente, causa materiale, causa formale, causa finale. Questo è Aristotele, ma questo permane nella nostra testa; per fare qualcosa, inventare qualcosa, per produrre qualcosa ci deve essere una causa efficiente, una causa materiale, una causa formale e poi c’è la causa finale. Ecco, il viaggio della cifrematica non è un viaggiare sapendo già dove devi andare come se il tempo avesse una conclusione e una fine. Al povero Machiavelli che era completamente fuori da questa logica, che era nell’ambito della diplomatica e cioè della parola che deve incontrare l’Altro e che diceva, Pazzo è colui che crede di potere fare quello che vuole, è stata attribuita la frase “Il fine giustifica i mezzi”, che è una frase tipicamente aristotelica. Machiavelli non l’ha mai detta, eppure è uno slogan secondo cui viene etichettato e reso noto.
Maria Antonietta Viero Stavo riflettendo sull’ultima considerazione. La paura grandissima dell’umano di trovarsi di fronte all’ignoto; e allora ecco che si pone la questione della causa finale per potere calcolare il passo che si deve fare. Siccome deve fare i conti con il tempo, diciamo che è audace chi osa inseguire la novità che gli arriva ascoltando l’irruzione del tempo sulla scena del parlare. Parlando occorre effettivamente seguire, seguire l’indicazione che viene da questo ignoto o da questo nuovo, nuovo e ignoto, perché è quella l’esperienza originaria; in questo senso auguro agli studenti di trovarsi effettivamente, in questo libro che stiamo presentando, a fare una traversata, non a studiare il libro e ripetere, ma per avere una nuova esperienza. Esperienza è attraversare il libro e condursi a un’altra scrittura. Ricordo che scrivendo un mio libro che ho pubblicato, c’è un capitolo che venne scritto leggendo Così parlò Zaratustra: mi ero addirittura agitata, leggevo Zaratustra e mi venivano delle evocazioni, chissà da dove; ma ho dovuto chiudere il libro e scrivere questo pezzo, che poi, se qualcuno confronta con Così parlò Zaratustra, non trova nulla di simile. Quindi ciascuno, leggendo, trova l’esperienza della parola.
Augusto Ponzio Io vorrei concludere, con questa richiesta, invocazione, esortazione che fa parte delle pagine scritte dalla dottoressa Viero sotto il titolo Viaggio di una foglia, che ho già ricordato
Maestro disegnami una foglia. Fammi seguire il tratto del debutto sino all’inseguire di quell’altro tratto interno alla foglia che quasi la divide e rifà il canto del calco, e poi, su quel tratto, ritrovare i rami e riprendere il disegno che dice dell’albero di cui il ramo vive …
Ruggero Chinaglia Possiamo leggere anche cinque righe dal tuo libro? Pag.: 241 della Dissidenza cifrematica:
Come leggere? In rapporto al vissuto, vivendo: In portoghese c’è una parola bellissima, che significa anche esperienza, e che evita il participio passato di “il vissuto”, e tende invece al gerundio: vivência. Rispetto al viaggio della vita, il come è un gerundio. Come leggere? Leggendo. Come scrivere? Scrivendo. Leggere non per interpretare, per capire, ma ascoltare, intendere, quindi leggere. Non si legge ciò che si vede, ma ciò che si ode e s’intende. ‘Il libro non diviene testo se non con la restituzione. Come avviene la restituzione? Con la lettura. Restituire leggendo. Ma ciò che si restituisce è il testo, non già il soggetto, è il testo senza sacralità, senza il riferimento al libro come tale.
Michele Ventura Penso che dovremmo veramente ringraziare il professor Ponzio che porta avanti questa buona battaglia per cercare di scardinare la mentalità che ci vuole tutti omologati. Quando ascolto il professor Ponzio ascolto delle parole che nella mia vita non ho mai ascoltato. È questo che mi ha colpito, il suo costante riferimento alla singolarità. Quando il professor Ponzio parla di singolarità fa riferimento all’irripetibilità, all’unicità di ciascuno di noi. Non riesco proprio a comprendere come si faccia a dire, anche in situazioni di povertà estrema, perdendo un figlio “Cristo ci ha sollevati”. Il mondo è più povero. Per chi suona la campana? Non è indifferente per chi suona la campana. Il mondo è più povero se ciascuno di noi muore. Il testamento biologico… Nel momento in cui ciascuno di noi va via da questa terra e non è più qui con noi, ha passato il suo tempo, il tempo che gli è stato concesso, perché ciascuno di noi ha un tempo che gli è stato concesso…
Ruggero Chinaglia Il tempo non è concesso, nessuno concede il tempo. L’idea che il tempo sia concesso comporta sempre un ente supremo rispetto a cui siamo o in debito o in credito. Credendoci, saremmo ancora nel fatalismo, nella mentalità…
Michele Ventura …è questo che ammiro in questa scuola di pensiero, è il modo di condurre questa battaglia, non attraverso i movimenti, le associazioni, i sindacati, abbiamo visto che tutti hanno fallito. Il ricorso alla singolarità di ciascuno è la rivendicazione del principio dell’infunzionalità di ciascuno. Ecco che cosa è per me la dissidenza, dire non ci sto, dire che non ci sto con questa mentalità, che posso anche non starci, il rivendicare appunto la mia non appartenenza, il mio non essere catalogabile; ecco perché questi discorsi sono importanti, perché non si può più assistere a quello che vediamo ogni giorno, l’appiattimento cognitivo, collettivo che c’è con i mezzi di comunicazione di massa. Non è cambiato nulla …
Ruggero Chinaglia Sta a ciascuno non aspettare, non attendere i rinforzi, ma intraprendere. Ciascuno, per quanto i talenti gli consentono, per quanto la sua domanda gli comporta, per quanto la sua esigenza lo forza a non ritrarsi da questa battaglia intellettuale, che non può accettare l’omologazione, dunque non può accettare la morte bianca, non può accettare l’idea della vita come servizio a termine, come servizio a qualcuno; ma come servizio intellettuale. Allora in questo rivolgimento, in questa direzione verso la vita, accogliamo quello che ha interessato di questo libro e che sta in conclusione del libro di Augusto Ponzio e che … Come leggere?Non si legge ciò che si vede, ma ciò che si ode e si intende. Ringrazio Augusto Ponzio per aver scritto questo libro, e per l’amicizia che ha nei nostri confronti. Grazie.