L’altra lingua e l’ascolto
- Chinaglia Ruggero, De Michiel Margherita, Petrilli Susan, Ponzio Augusto, Viero Maria Antonietta
6 maggio 2009 Conferenza di Augusto Ponzio L’altra lingua e l’ascolto tenutasi nel quadro della serie La scienza e la crisi, con interventi di Ruggero Chinaglia, psicanalista, Margherita De Michiel, docente universitaria, Susan Petrilli, linguista, Maria Antonietta Viero, scrittrice, cifrematica. Nell’occasione c’è stata la presentazione del libro di Augusto Ponzio, La dissidenza cifrematica (Spirali) nella Sala Polivalente di Via Diego Valeri 17, a Padova, con il Patrocinio della Regione del Veneto, della Provincia di Padova e del Comune di Padova.
AUGUSTO PONZIO, RUGGERO CHINAGLIA, MARGHERITA DE MICHIEL, SUSAN PETRILLI, MARIA ANTONIETTA VIERO
L’altra lingua e l’ascolto
Ruggero Chinaglia Buonasera a ciascuno. Incominciamo questo incontro, sicuramente uno dei più attesi della serie La scienza e la crisi, incontri che ruotano intorno alla collana “La cifrematica” e al testo della cifrematica. Per questo, pur non essendo il libro che presentiamo questa sera, un numero della collana, si inscrive a buon diritto nella serie. Il libro è La dissidenza cifrematica di Augusto Ponzio. Un libro recente che costituisce una novità assoluta, nel senso che è il testo sorto dalla lettura che Augusto Ponzio ha compiuto del viaggio intellettuale: delle vicende, dell’esperienze, delle proposte, dei testi, dei libri di Armando Verdiglione e quindi della vicenda del movimento cifrematico, da che è sorto nel 1973 fino a oggi.
È un testo assolutamente particolare, perché restituisce, con la sua scrittura e lettura, non solo da adesso, in quanto è stato testimone già dei primi avvenimenti, questa esperienza, questo viaggio del movimento cifrematico, che lui stesso racconta, con le sue curiosità attorno al testo, all’esperienza, alla teoria che è sorta attorno. Questo libro si affianca alle novità editoriali di questi giorni, che vi segnalo: La Regina di Saba di Marek Halter, scrittore ebreo, francese. Questo è un romanzo che narra la storia e le vicende della mitica regina di Saba, che ebbe un figlio da Re Salomone e da cui prese avvio tutta una dinastia.
Disastro Putin. Libertà e democrazia in Russia è un libro di Boris Nemtsov, esponente del movimento “Democrazia e libertà”, che è stato anche ministro dell’energia con il governo Eltsin, che illustra in questa testimonianza il regime che si è instaurato in Russia con Putin e dopo Putin, di cui abbiamo avuto, peraltro, anche notizie sui giornali recentemente. Mi riferisco sia all’aggressione che Nemtsov ha subito sia all’aggressione che altri esponenti del movimento per la libertà hanno dovuto subire, tra cui Lev Ponomarev.
Allora siamo qui. Ringrazio Margherita De Michiel, che è docente a Bologna e ci illustrerà la sua lettura di questo libro, Susan Petrilli, docente all’Università di Bari da cui proviene anche Augusto Ponzio, entrambi hanno pubblicato con la casa editrice “Spirali” il libro dal titolo I segni e la vita. La semiotica globale di Thomas Sebeok. Thomas Sebeok, famoso semiotico, di cui in precedenza erano stati pubblicati due volumi, sempre da Spirali, Il gioco del fantasticare e La semiotica globale. Quindi l’intervento qui, questa sera di Augusto Ponzio e Susan Petrilli non è casuale. Si inscrive in un loro itinerario che in varie forme si è anche intersecato con l’esperienza del movimento cifrematico. Esperienza quindi della casa editrice, della nostra associazione, di Armando Verdiglione.
Ecco, avremo modo di illustrare i vari aspetti, le qualità, le virtù uniche e rare di questo libro che è la restituzione di vari aspetti, scritturali, logici della cifrematica da parte di un non cifrematico, ma di un testimone dell’esperienza. Non cifrematico dico, perché Augusto Ponzio non ha fatto l’esperienza cifrematica propriamente detta, però è testimone, compagno di viaggio, un attento uditore dell’esperienza, delle acquisizioni e del suo messaggio; e ce lo restituisce a suo modo e in qualità. Invito al suo intervento Margherita De Michiel, che ringrazio di essere qui questa sera, perché occorre dire che ha fatto un gesto nobile, una testimonianza di vitalità intellettuale.
Margherita De Michiel Sono io che ringrazio in realtà, perché ciò mi dà l’occasione di stare di nuovo vicino a persone a cui devo molto, non solo per gli anni del dottorato, a livello culturale, esistenziale, senz’altro. C’è anche un altro pezzo di me in sala, il professor Galassi. Per me è particolarmente importante questa presenza in realtà. Del mio approccio al testo che intendo condividere con voi dirò in maniera molto breve. Ho degli appunti, semplicemente per non perdermi e per non perdere tempo. È tutto molto vicino e molto lontano. In realtà sono suggestioni, che non riguardano tanto ciò di cui il testo tratta, ma il testo in sé e quindi modi e modalità della scrittura. Lo vedremo meglio dopo, probabilmente. Il testo si configura come viaggio. Un viaggio emblematico, un viaggio reale dal 1973 in avanti, un testo di lettura di cui è testo il testo di Verdiglione. Un testo che è scrittura, che parla di scrittura e legge altre scritture.
Cito variamente dalle pagine del libro alcune suggestioni, come dicevo. In apertura Ponzio dice che il libro è una specie di diario di bordo di un viaggio di lettura e quest’idea del viaggio intellettuale, ritorna più volte nelle pagine del libro. Anche con alcune affermazioni molto forti, il soggetto, pieno di sé, che si porta appresso la sua identità e la sua genealogia, non viaggia. Dopo forse, vedremo che cos’è questo viaggio presunto, questa presunzione del viaggio che, a differenza del viaggio intellettuale, è senza follia e senza rigore.
C’è molto rigore in questo libro, e bellezza, e eccedenza, come un “oltre” la scrittura. Nella sua prefazione, “Scrivere la lettura”, l’autore Ponzio dà alcune direttive, subito, proponendo questa sua propria scrittura come riscrittura. Dice: “La scrittura in quanto riscrittura è sempre, anche quando pretende di non esserlo, lettura di un’altra scrittura. La scrittura è sempre seconda. Di ciò va tenuto conto nell’approccio al testo, non solo a questo, ma soprattutto per leggere questo testo che è un testo molto particolare, scritto in maniera molto particolare, molto fascinoso e molto affascinante, una messa in prospettiva. È uno scrivere la lettura nel paradosso che questa affermazione ha in sé.”
Ci sono molte citazioni, anche esplicitate. È un gioco reso noto sin dall’inizio compresa l’intenzione del ridurne gli aspetti di citazione, di mettere in discussione il citare nel “leggendo”. Ci sono molte citazioni dei testi di Verdiglione dal ’73, l’inizio di questa frequentazione, di questo cammino parallelo fino ai giorni nostri. È dichiarata esplicitamente l’intenzione di ridurre l’aspetto consueto del citare, delle citazioni in quanto tali, dell’uso delle virgolette, e qui l’autore dice che preferisce lasciarle nel testo ponendole tra virgolette, non separate dunque, ma accanto a quanto è esposto nella forma indiretta o presentato come discorso proprio.
Una scrittura dunque che deliberatamente procede accanto e in maniera partecipe, e che vuole rendere partecipe del piacere del coinvolgimento, del godimento dell’ascolto, una parola che ritorna più volte nel testo, cioè del testo. Nelle prime pagine dice che peraltro questo è un testo che è stato offerto all’autore, alla scrittura, che ha come termine di riferimento, in occasione di un congresso, non a caso (forse), intitolato “Alla libertà”. È una scrittura che si oppone deliberatamente alla logica del discorso dominante e alla logica di una scrittura dominante. Si tratta di una scrittura che s’insinua in un dire che è fatto esplicitamente di rotture, di buchi, di intervalli, di virgolette.
Ho messo delle virgolette anch’io in questi appunti che mi sono portati, e non so neanche più a cosa si riferiscano. Ma forse apposta non so a che cosa si riferiscono. Vi leggo questi miei appunti: La breccia sulla parola. Ci sono cose molto belle su cui fermarsi, quadri molto precisi, molto espliciti. Ho recuperato un po’ di cose, ho recuperato alcune pagine di Roland Barthes, “Variazioni sulla scrittura”, lì dove parla di scrittura come screpolatura, di divisioni, solchi, di discontinuità della materia piana del testo. La scrittura di Ponzio in qualche modo s’insinua nelle screpolature o si presenta come screpolatura sul testo di Verdiglione. Una scrittura, che a seconda delle pieghe dell’esecuzione, si propone come gesto – anche qui cito – come “piacere del testo”, nel senso del leggere per Barthes, come “godimento”.
Una correlazione dialettica di presenza, assenza, ferite, aperture, divaricazioni che marcano la significazione di una scrittura, per parlare di segni una volta di più. Questo testo di Ponzio come sempre, ma questo forse in maniera particolare (così mi è sembrato) è, rispetto ad altri, uno scritto ancora più estremo, ancora più deliberatamente tirato verso un’esperienza marginale di scrittura. Non c’è differenza, forse, tra ciò di cui il libro parla e la maniera in cui è fatto. È una scrittura estremamente densa della scrittura dell’Altro. Qui mi viene in mente uno scrittore che diceva che nessuna lingua è madrelingua, scrivere versi è riscrivere, e lo diceva della poesia, ma della poesia in quanto forma massima, estrema, della scrittura.
E mi sembra particolarmente vero anche questo: la legge del libro è quella della riflessione, l’uno che diventa due. Anche qui c’è una scrittura carica di biforcazioni, di scissure, che sono il luogo in cui germina il significato profondo della parola, come luogo dell’affermazione del sé, che si è fermato nella sua condizione di sé – e non di soggetto, il soggetto arrogante, padrone di sé – di dubbio, di domanda posta a se stesso e all’Altro. Quello che ho trovato in questo libro, nella scrittura di Ponzio, ma in questo libro in particolare, è un evento di una lettura-scrittura, di una scrittura che si pone esplicitamente come lettura e quindi come scrittura di una scrittura – un gioco di specchi, ma più spesso come l’inizio di una narrazione in senso bachtiniano.
Su Bachtin abbiamo lavorato, diciamo, insieme, in maniera, devo dire, particolarmente intensa e feconda, e qui scusatemi, una volta di più saccheggio il testo di Bachtin e ne abuso, perché esso è particolarmente pertinente alla realtà di questa lettura. Un evento della lettura-scrittura come categoria narrativa, ma anche come coesistenza, come partecipazione e coinvolgimento, come incontro, come evento, direbbe Bachtin.
Co-esistenza. In questo caso coesistenza di due diverse coscienze culturali di chi legge e scrive, di chi riscrive una scrittura. Più che mai è un pensiero partecipe, anche questa è una categoria bacthiniana, un pensiero partecipe, a volte quasi un discorso indiretto, libero, un atto ventriloquo, che mette in atto, in mostra una “co-creazione dei comprendenti” (Bachtin), che trasforma l’altrui in proprio, e viceversa. Sono suggestioni un po’ enigmatiche, lo so, ma il libro è fatto molto di questo e per questo, al di là del contenuto, degli argomenti, dei capitoli. Questo libro è fatto molto anche di queste suggestioni, di questa vertigine di scrittura, che forse è una delle sue cose più coraggiose, più estreme.
Mi viene in mente Barthes che una volta ha scritto che “Scrivere significa togliere le virgolette”. In Bacthin si trova questa annotazione: la parola utilizzata tra virgolette, cioè percepita e utilizzata come altrui, è la stessa parola senza virgolette. In questo testo, questa poetica di un doppio anche testuale, di parola citata, di parola usata, di parola consapevolmente, responsabilmente abusata, c’è. Ponzio, più che mai in questo libro, si pone ostinatamente all’ascolto dell’Altro, dove dell’Altro, e qui cito dal libro qui, è più che mai genitivo etico, come atto di responsabilità, di assunzione. Segno superiore della scrittura, che in questo libro ci propone la sua ospitalità, nel senso di Lèvinas, nella capacità di accogliere un altro autore, l’altrui dell’autore. All’interno di sé, nella sua concreta e materiale sostanza della scrittura, in un’etica linguistica dove il proprio e l’estraneo trovano una loro conciliazione.
Qui più che mai, forse, un problema fondamentale diventa quello della propria alterità, del discorso, in qualche modo, del secondo soggetto che legge e riscrive e riproduce in questo altrui. Cito ancora una volta Bacthin: “L’inesauribilità della seconda coscienza, del suo problema con il rapporto dell’eccedenza autoriale. Quest’idea dell’eccedenza inscritta in ciò che va oltre, di ciò che è codificabile, di ciò che di fatto è differente, dissidente rispetto a un tentativo di definizione univoca, è parte costitutiva del testo.” Prosegue Bacthin: “Le cicatrici per il mutamento dei soggetti discorsivi, per generi discorsivi trasformati. Cicatrici semicancellate dell’enunciazioni altrui: problema del dialogismo interno. Le cicatrici ai margini dell’enunciazioni, il problema della parola divora.” Ci avviciniamo qui alla prima linea della filosofia del linguaggio e del pensiero umanistico in generale, a una terra vergine. Non a caso insisto su quest’idea della cicatrice e delle virgolette, dei confini tra proprio e altrui. Perché esibito in partenza, esibito all’esordio, c’è questo voler fare perdere, quasi, il lettore nei labirinti di una parola che deve arrivare in quanto tale nella sua forza allocutoria pura, in qualche modo.
E questo trovarsi alla prima linea della filosofia del linguaggio ci riporta a un tema caro nella scrittura di Ponzio, a una filosofia del linguaggio come filosofia di ascolto, appunto. Ma come filosofia di un ascolto non applicato nel senso di Barthes, ma responsivo nel senso analogico più di Bacthin. Ci verrebbe da dire, un linguaggio musicologico, una filosofia del linguaggio performativo, l’ascolto parla, direbbe Barthes, l’ascolto scrive, in questo caso. Scrive ancora Bacthin: “Poi queste parole altrui si rielaborano biologicamente in parole proprie e altrui e quindi anche in parole proprie, che hanno già carattere creativo. Questo essere un testo costellato di citazioni intervallate, questo dialogo ferratissimo, non toglie anzi, aumenta la creatività di questo testo e ne accresce la forza locutoria, illocutoria di parola immediata, non tanto mediata.”
Per alcuni modi costruttivi si può ricordare qui un altro grande formalista, su un altro piano, su altri linguaggi: Eisenstein. Che nella sua idea di montaggio cercava di interferire il meno possibile nella natura dei fenomeni e si poneva come compito quello di dare una scansione e di fare una scelta compositiva, che poi era estremamente contagiosa, immediata nell’impatto con l’interlocutore. E anche qui un linguaggio che mette in scena non tanto un’analisi quanto un’enunciazione, un testo deliberatamente al confine.
Deleuze e Guattari osservano che la legge del libro è quella della riflessione, del due.
Questa parola, due, risulta nel libro di Ponzio che legge Verdiglione, estremamente seducente, estremamente coinvolgente e convincente. C’è un gioco di sovrapposizioni, di effetti di prospettiva, di messa in rilievo di un testo che libera il dialogismo e che sa che il senso di un testo non è nella sua chiusura, ma è esattamente, lo ripetiamo, lì dove il testo si fessura, dove si percepisce una biforcazione, un dubbio, una dualità possibile, che è anche cancellazione in un certo senso. Cancellatura che conserva anche ambiguità, l’opzione alla scelta che è stata cancellata. È una scrittura che sfugge come quella di cui è oggetto alla significazione del detto per aprirsi al significante del dire.
Qui mi viene in mente un passo, che cito a memoria, di uno scrittore che diceva: “Tutto il mio scrivere è un continuo prestare orecchio, e per continuare a scrivere puntini, riletture. Udire giustamente, ecco il mio compito, non ne ho altri.” In questo senso, questa lettura, questa scrittura mostrata, posta e offerta in termini espliciti di ascolto comporta che nel testo ci siano diverse “occasioni” di “seduzione” già nel modo in cui sono presentati i capitoli, nella scansione, negli oggetti di questa scrittura.
Particolarmente per me coinvolgenti sono certe seduzioni “linguistiche”, peculiarmente linguistiche, che risalgono anche ai primordi, agli albori della linguistica, al saussuriano non esserci nella lingua altro che differenze, dissidenze, in qualche modo. Una linguistica che è contro una mitologia del sapere trasmissibile, controllabile. Una linguistica che forse non a caso precipita, in senso fisico, in una idea di traduzione è forse uno degli aspetti paradigmaticamente avvincenti del libro, in quanto tema strettamente legato a quello della lettura, da cui questo libro parte.
Si legge a pag. 101 – non so di chi sia il passo tra virgolette – “La traduzione è una lettura, e leggere è leggere traducendo.” Tradurre evidentemente non è decodificare, non c’è metalinguaggio, non c’è lingua delle lingue. Il tradurre inevitabilmente, per definizione, si pone all’interno della deriva dei significanti di un scrittura di un discorso. Il linguaggio della traduzione è per definizione un linguaggio dissidente, che si oppone all’idea, al principio, sia della intraducibilità sia della traducibilità. È per definizione un linguaggio che chiama al senso della scrittura, cioè al movimento, una volta di più, al viaggio. L’alingua. Forse l’alingua della traduzione è nella sua essenza l’alingua di cui è questo libro un Leggere traducendo, titolo di un precedente libro di Augusto Ponzio.
In La dissidenza cifrematica, si chiude, ovvero si apre all’infinito il cerchio intorno alla lettura. Riscrittura, traduzione, lettura in quanto scrittura che procede per definizione dal due: il secondo rinascimento, dall’alterità, dall’apertura. Un libro che è fortissimamente ciò di cui è oggetto, qui sta la seduzione principale, forse. Leggendo Verdiglione si parla a un certo punto del rapporto tra specchio, sguardo e voce. Una triangolazione che richiama, discordando, il triangolo semiotico di Peirce. Specchio, sguardo e voce. C’è in questo triangolo anche il silenzio, che può assumere con lo sguardo la funzione classica di interrogazione.
Allora, forse, l’appello una volta di più rispetto a questo libro, come rispetto a ogni libro di scrittura, è quello di porsi all’ascolto e cercare di capire che cosa significhi accostarsi al testo in quanto tale, alla sua materialità, alla sua autonomia, alla sua resistenza, alla sua alterità, che è tale nei riguardi del lettore ma anche rispetto al suo autore, l’autore primario, alla sua unicità, alla sua cifra, appunto. Ascoltare, cioè leggere un libro senza porsi al di qua o al di là, anche delle sue mis-interpretazioni, del possibile malinteso che c’è nella lettura di ogni testo. Si dice a un certo punto nel libro: “La comunicazione che mira alla comprensione come eliminazione del malinteso, diviene misconoscimento, sottovalutazione, omissione dell’Altro.”
Mi ritorna in mente uno dei momenti aurorali, forse, della linguistica del Novecento, anche se non è ancora Novecento, è fine Ottocento: ogni comprensione è un’incomprensione, un’incomprensione costitutiva di ogni lettura. E anche questo appello al leggere pur con questa eccedenza, con questo margine possibile, è una volta di più di una comprensione. Come leggere? Si legge in questo testo: “Leggere senza la contrapposizione del bene e del male. Come leggere? Leggendo. Come scrivere, scrivendo.” Su un testo dedicato alla traduzione letteraria Susan Sontag, scriveva: “Scrivere è leggere, ovvero l’arte di perdere se stessi.”
Sono tutte note al margine, sono mezzi, sono spunti, è un promemoria. È strappato da una pagina del giornale, in un momento qualsiasi, in un momento esistenziale, un momento quotidiano, questo: rimane il fatto che in ogni modo, capire bene la gente non è vivere, vivere è capirla male, capirla male e poi male, male, male; e dopo un riattento esame, ancora male. Ecco come sappiamo di essere, sbagliando. Il gerundio, una volta di più. Forse la cosa migliore sarebbe dimenticarsi di avere ragione o torto e godersi semplicemente la gita. Se ci riuscite, beh, siete fortunati. La gita: una volta di più il viaggio della scrittura, della lettura.
Ultimissima notazione. Verdiglione che dice: “Io dicevo che anche nella città in cui viviamo, bisogna intervenire come turisti”, lo diceva come atteggiamento intellettuale nei confronti, una volta di più, dell’altra lingua e della propria lingua, quindi in un atteggiamento di ascolto; lo dicevo perché la città s’inventa con l’arte e la cultura. Un pensiero con cui mi piace finire, nella città, di cui mio malgrado sono nata e continuo a vivere. Grazie.
R.C. Bene. Ringrazio Margherita De Michiel per questo suo intervento, sicuramente apprezzabile per la generosità che ha dimostrato; sicuramente per lei è materia nuova la cifrematica. Materia nuova anche il testo di Verdiglione. Materia nuova la materia della parola. Nei riferimenti che lei ha colto nel libro e che ha citato, da Deleuze, a Barthes, a Bacthin, per esempio, occorre cogliere come Ponzio sia andato oltre il loro messaggio, oltre la loro permanenza nel discorso occidentale. Cioè il gesto straordinario nella scrittura di Ponzio, sta nel fatto che nell’accoglimento del testo di Verdiglione, quindi della logica della parola che non è più logica del discorso, Ponzio accoglie la questione che sta alla base della parola e che scardina il discorso occidentale.
Le cose non procedono più dall’uno che si divide in due, procedura che consente di mantenere la padronanza sulla parola e istituisce l’ordine del discorso. Ponzio accoglie la proposta, che è sovversiva, di Verdiglione, che le cose procedono dal due, e il due non deriva dalla divisione dell’uno, è originario. Questa è la questione della parola originaria, che nulla ha da condividere con l’impostazione del discorso occidentale. Questo, credo sia veramente il gesto audace di Augusto Ponzio, che con la sua scrittura incontra questa originarietà della parola non ne ha paura, anzi se ne avvale, la restituisce in qualità, con il suo contributo di attraversamento di altri testi. Bene, grazie intanto. E invito Susan Petrilli al suo intervento. Prego.
Susan Petrilli Grazie e buonasera a tutti. Io cercherò di essere breve, anche data la tarda ora. Dunque, volevo dire subito che sono rimasta incantata ad ascoltare Margherita De Michiel, proprio per la fluidità delle sue parole. Era tanto che non ti sentivo.
Margherita De Michiel T’interrompo un attimo. Davvero quello che ho detto era, al di là di tutto, l’espressione del piacere di un “reincontro” e un invito alla lettura.
Susan Petrilli Come “prendere la parola”? Questo libro mette in difficoltà la “presa della parola”. Sento un disagio perché ciò che si può dire è sempre riduttivo rispetto alla materia, oggetto della nostra attenzione questa sera. Io lavoro con Augusto Ponzio ormai da tanti anni, e quindi ho il privilegio di vederlo spesso all’opera. È un grande lettore, oltre che uno scrittore instancabile. Non so più quanti libri ha scritto Augusto Ponzio e continua a scriverne, ormai è un laboratorio aperto. Dunque, i suoi libri, le sue scritture, prendono forma proprio nel rapporto con l’Altro, c’è un dialogo continuo. Un dialogo, uno studio e una passione inesauribili che lo portano a incontrarsi con eventi, con persone, con scrittori.
Per esempio, in tutte le sue scritture c’è in modo particolare un costante riferimento a Bacthin e Lèvinas, ma insieme a loro Karl Marx, Pietro Ispano, Søeren Kierkegaard, Edmund Husserl, Roland Barthes, Ferruccio Rossi-Landi, Pier Paolo Pasolini, Felix Guattari, Gilles Deleueze e l’elenco potrebbe continuare. A questo elenco, adesso possiamo aggiungere anche Armando Verdiglione, e il dialogo continua, la scrittura continua e tu non finisci lì. Cioè, nel frattempo so da conversazioni private, che Augusto Ponzio sta scrivendo un libro su San Paolo. Perché poi, c’è un dialogo continuo con le Sacre Scritture. Margherita ha a fatto riferimento al suo Leggere traducendo. Ponzio ha trascritto in una versione bellissima il Qoèlet, L’Ecclesiaste della Bibbia. Traduzione nel dialetto del suo paese che è San Pietro Vernotico, e sulla base di questa traduzione bellissima ha offerto anche una traduzione italiana, passando per il dialetto.
La dissidenza cifrematica è il frutto di un laboratorio aperto, un’ascoltare senza fine della parola. Si presenta Ponzio come semiotico, come linguista, come filosofo, in realtà è un maestro di vita. Tutto quello che leggiamo che cosa importa, dal mio punto di vista almeno, e anche dal suo, insomma di molti noi, se non in quanto espressione della vita? Riflettiamo, scriviamo parole, leggiamo parole, testi che hanno il loro interesse proprio perché sono espressione, manifestazione della vita.
Cercare le parole, pensare le parole significa pensare alla relazione, al rapporto con l’Altro, e quindi immergersi, darsi alla vita. Mi verrebbe voglia di leggervi tutto il libro perché è davvero bellissimo. Guardavo questo libro cercando dei brani da privilegiare, da leggervi, ma è quasi impossibile perché leggi un brano e poi ne scopri un altro ancora più bello; e si va avanti in questa maniera, in bellezza. Sì, è una festa, non il discorso della festa come dice Verdiglione, ma la festa, la messa in scena della vita in tutta la sua pluralità, molteplicità, complessità, equivocità.
Il titolo: La dissidenza cifrematica. Intanto questo libro nasce quasi insieme, cioè come sviluppo e l’oltrepassa, al libro precedente, sempre dedicato alla cifrematica; perché Ponzio esagera sempre in tutto, anche nella scrittura. Cioè c’è una passione veramente incontenibile che lo spinge, come ho detto prima, a leggere, quindi scrivere, e quindi donare esperienze di vita. Aveva appena scritto e pubblicato La cifrematica e l’ascolto e ecco, subito dopo, La dissidenza cifrematica. Allora, che cos’è la cifrematica? Non sarò io a parlare della cifrematica davanti agli esperti di cifrematica; dico soltanto che questo termine riprende il termine cifra.
Cifra: che cosa vogliamo dire con cifra? Allora, traducendo nel linguaggio che è a me più familiare – perché, io, gli scritti di Armando Verdiglione li sto conoscendo adesso, seguendo le tracce di Augusto Ponzio e di conseguenza trovandomi davanti a tutto un mondo che si è aperto, entrando in rapporto con la cifrematica – la “cifra”, traducendo nel nostro linguaggio, vuole riferirsi alla singolarità, all’unicità, alla peculiarità di ognuno di noi, del ciascuno. Dice dell’alterità, dell’alterità che noi siamo, che sta alla base o al cuore stesso della nostra identità, quale noi ci presentiamo, nei ruoli, nei generi, nelle posizioni sociali, negli atteggiamenti, nei comportamenti sociali che andiamo assumendo giorno per giorno.
La dissidenza cifrematica, la cifra, la singolarità è già dissidenza, è già disubbidienza rispetto all’ordine del discorso, rispetto all’ordine costituito, rispetto alle strettoie, alle mortificazioni dell’identità, del ruolo fondato sull’identità chiusa; l’identità chiusa che espunge, che sacrifica l’Altro, l’alterità. L’alterità, non soltanto dell’altro da noi, ma l’alterità, l’Altro di ognuno, di ognuno di noi. Leggo da questo libro di Ponzio; è difficilissimo scegliere. Vi leggo qualche cosa, cito dal testo La dissidenza cifrematica. Qui, c’è un capitolo che legge Verdiglione che legge Leonardo da Vinci – il libro è fatto così, e ciò dà luogo a un’articolazione abbastanza complessa, approfondita. Abbiamo un capitolo che si chiama “La mano di Leonardo da Vinci”, poi c’è un altro capitolo che è dedicato a Niccolò Machiavelli, cioè a Verdiglione che legge Machiavelli.
Allora, giusto per leggere un brano: “Si tratta del testo così come si è affrancato dalla padronanza” – stiamo parlando, qui, del testo di Machiavelli, dal soggetto, dalla grammatica della lingua, dall’esposizione alla contraddizione logica, dall’ordine del discorso, dalla collocazione storica, dai parametri valutativi, dai luoghi comuni divenendo il testo, singolare, testo della parola originaria, fuori genere, sui generis, genere come un unico esemplare che da solo si qualifica come tipo, come tipografico. Il rapporto, testo di scrittura–testo di lettura, come rapporto frontale, faccia a faccia, di singolo a singolo, fa sì che la cifra del testo di scrittura si decida anche come cifra della sua lettura. E potrei andare avanti, ma non lo faccio in questo momento. Già in questo brano c’è tutto un progetto che riguarda la parola, un progetto che riguarda la lingua, un progetto che riguarda il rapporto con l’altro, il rapporto interumano, un progetto che riguarda la vita.
L’identità della persona umana, oggi, si costruisce e si vive in un contesto molto preciso, che è il contesto della globalizzazione, un contesto sociale, economico sociale molto preciso. Questo contesto ha delle conseguenze, ha dei contraccolpi sullo sviluppo, sulla messa in scena, dell’identità della persona umana. Il contesto ha i suoi contraccolpi, i suoi riflessi nella costruzione, la creazione dei rapporti che costruiscono con l’altro. E oggi dobbiamo dire che i sintomi, il disagio, ma non nel senso in cui ho parlato del disagio all’inizio ma nel senso di malessere, sono tanti, i sintomi di malessere sociale, di alienazione sociale collegata con la globalizzazione. Un sintomo di malessere, di disagio è proprio la mancanza di ascolto, la mancanza di tempo per l’Altro, l’Altro da sé e l’Altro di sé.
Il sacrificio dell’alterità quindi, là dove manca l’ascolto, là dove manca il tempo, il tempo per l’Altro, l’ospitalità, ci sono seri sintomi di alienazione e di malessere, di perdita della salute della vita. Nell’ordine dominante del discorso c’è infatti tutto un elenco di orientamenti, diciamo così, da cui guardarsi se ciascuno vuol vivere una situazione di salute, di salute della vita. Padronanza, soggetto, grammatica della lingua, presa di parola, autocontrollo sono luoghi comuni, parametri valutativi dell’ordine del discorso, trappole dell’identità, chiamata alle armi. Richiamo al comportamento corretto, che sta dentro ai limiti, al suo posto, che risponde all’ordine costituito, sono comandi che non invitano a un pensiero critico, a un pensiero creativo, a un “pensiero poetico” come quello di Margherita De Michiel, dove poesia, poiesis e critica sono strettamente collegate tra loro.
C’è invece un elogio, attraverso tutti gli scritti di Augusto Ponzio, della singolarità, la parola originaria, fuori genere, sui generis. Quindi l’invito a recuperare questa dimensione del propriamente umano; e soltanto sulla base dell’ascolto, sulla base dell’accoglienza dell’Altro, della parola dell’Altro, anche della parola propria in quanto parola altra, soltanto su questa base, passando attraverso questo tipo di rapporto, possiamo recuperare una situazione di salute, contro la tendenza dominante all’alienazione in tutte le sue varie manifestazioni. Ho scritto un testo per questa occasione, che non vi leggo. Soltanto delle considerazioni sotto il titolo “La trappola del genere” di cui abbiamo parlato. Abbiamo menzionato l’espressione, fuori genere.
C’è la possibilità di stare dentro al genere, quindi identificarsi col genere, con l’assemblaggio: l’essere donna, l’essere maschio, l’essere professore, identificarsi con il proprio ruolo sociale: l’essere madre, psicanalista, politico e prendersi sul serio. Anche questo, per quanto mi riguarda, è un segno di alienazione, il prendersi troppo sul serio, l’incapacità di uscire dal proprio ruolo, per guardarsi a distanza e ridere, ridere di sé. Ridere di sé è un segno di salute. L’individuo con i suoi simboli si configura nell’identità di genere, identità di ruolo, sesso, etnia, religione, nazione, posizione sociale, professione, partito. Identità di genere realizzata attraverso il sacrificio dell’alterità. L’io per stare dentro a un ruolo, a un genere, sacrifica il rapporto con l’altro di sé oltre che con l’altro da sé; per essere ‘individuo’, per eseguire la mia parte di individuo nel ruolo, nel genere, devo sacrificare le mie alterità, l’alterità.
Si tratta dell’espunzione dell’Altro, dell’alterità, della singolarità. L’io si presenta come ente generico, di genere, nella sua individualità, identità, libertà, volontà tutte categorie da mettere in questione. La responsabilità di ruolo, di genere, di appartenenza è responsabilità limitata e autoprotettiva, responsabilità con alibi, la responsabilità della coscienza a posto, che mi fa dormire tranquilla, responsabilità rassegnata, giustificata e intristita rispetto alla responsabilità illimitata, che travalica i limiti di qualsiasi ruolo e di qualsiasi appartenenza e mi mette in comunicazione, in ascolto dell’Altro. Responsabilità che è accoglienza, che è dare tempo all’Altro, mettersi in rapporto con il tempo dell’Altro, l’Altro da sé, l’Altro di sé. E che è qualificazione della vita, salute della vita.
Nel genere evidentemente l’identità è generica. Nel genere è impossibile il trovare la propria unicità, la propria alterità assoluta. Il discorso dell’io è il discorso dell’io nel genere con cui si identifica, il discorso dell’io, del soggetto è di genere. L’io, l’io so, l’io vedo, l’io capisco, si costituisce come difesa dall’Altro. Risponde alla necessità di giustificazione, di difesa dalla responsabilità senza alibi, illimitata per l’Altro, dall’esposizione all’Altro, l’Altro del rapporto con altri, l’altro singolo, l’altro unico, l’altro volto. L’incontro con l’Altro è fuori dai luoghi del discorso, è fuori tema, fuori soggetto, fuori genere. Come categoria, come sistema di relazioni che individua e significa l’identità, il genere non contiene la singolarità, l’Altro, non ne rende conto, non gli risponde. La singolarità, l’unicità, la particolarità di ciascuno è refrattaria alla generalità del genere, all’astrazione della categoria, al generale di tutti i luoghi del discorso, là dove per discorso s’intende l’ordine del discorso, l’ordine costituito.
Vorrei anche dire che io sono una discepola di Augusto Ponzio, indegna, tuttavia sempre in ascolto della sua parola. C’è una certa familiarità d’idioma, ecco di questo mi posso vantare, di una familiarità, insomma, con la sua parola. E devo dire che è una parola che non si discosta tanto dalla parola di Armando Verdiglione, così come vado conoscendo anche lui. Non a caso si arriva, a distanza di molti anni dall’incontro con Verdiglione nel 1973 in occasione del convegno a Milano su Psicanalisi e società segregativa, si arriva adesso a delle monografie sulla cifrematica, si arriva a un libro di studi di passione come questo, e dedicato al pensiero di Verdiglione, dedicato alla cifrematica, un pensiero che procede per integrazione.
Ci sono parole – dico un’ultima cosa e poi chiudo perché si fa tardi – ci sono parole che ho annotato leggendo pensando a voi, pensando a ciascuno di noi, a quello che potevo mai dire stasera, cosa che non sapevo bene perché c’è troppa materia, una materia ricchissima, parole che ricorrono nel testo. E sono tutte parole che esprimono un progetto di vita, parole che caratterizzano la scrittura di Augusto Ponzio, ma altrettanto la scrittura della cifrematica di Armando Verdiglione. Esse mi richiamano il titolo di un libro di Charles Morris del 1948 che ho tradotto in italiano, L’io aperto, una critica del concetto di comunità come assemblaggio, assembramento, appartenenza, una critica della società chiusa. L’io aperto, l’io della logica dell’alterità, dell’ascolto, dell’ospitalità, dell’accoglienza, è un io differente e dissidente rispetto all’io chiuso, l’io anestetizzato che ha perso la possibilità di sentire la paura per l’Altro, e che vive nella paura dell’Altro, paura dell’altro che porta alla comunità, alla chiusura, alla difesa e all’espulsione, al sacrificio dell’altro. Grazie.
R.C. Addentrandoci nel messaggio e nello statuto di Augusto Ponzio, oltre che intellettuale, come tu Susan dicevi, è maestro di vita. Più che maestro di vita, accogliamo l’accezione del termine ch’egli stesso pone, il termine vivenza, che ha tratto dal portoghese, e quindi maestro di vivenza. Il maestro di vita potrebbe essere uno che sa della vita e l’applica. Maestro di vivenza è, invece, un inventore che si avvale in ciascun momento di ciò che incontra, e non del sapere. Tantissimi sono gli spunti che hai evocato nel tuo intervento, e forse nel dibattito avremo modo di riprenderne qualcuno. Invito, adesso, alla sua breve lettura, Maria Antonietta Viero.
Maria Antonietta Viero Dissidenza cifrematica citava già prima Susan Petrilli, e è il titolo del libro di Augusto Ponzio. E è impegnativo, scrivevo già qualche tempo fa, perché ci pone già nella logica della nominazione, per via di quel dispositivo di parola dove si corre il rischio di udire. E di udire ciò che rilascia l’ascolto della piega delle cose che si dicono, e che dicendosi si fanno, e facendosi trovano la scrittura, e esigono l’udienza e l’urgenza, è così. E così l’ascolto pone dinanzi nuova lettura e ancora nuova scrittura, perché ciascuna volta quel che si dice si scrive, per l’esigenza assoluta di qualifica e di riuscita.
Ed è un itinerario di cifra questo di Augusto Ponzio, di chi ha posto nel viaggio la narrazione, quale condizione dell’educazione, dell’insegnamento e della formazione, l’audacia di un dispositivo maestro-allievo, dove non si sa dove stia il maestro, dove stia l’allievo. Perché il guadagno che se ne trae è d’entrambi, e la conduzione assolutamente inedita; per questo, come nota Augusto Ponzio, rilevando una frase di Armando Verdiglione, nel capitolo Il capitale della vita, dice che: “Vivendo non c’è tempo per studiare, ma il tempo è quello di scrivere e di leggere.” E è un libro in viaggio, adiacente, attraversando un altro libro, tanti libri che così il libro non è più tale, ma è una narrazione in lettura, che ci restituisce di quei tanti libri, e come filo conduttore, il testo di Armando Verdiglione.
E ci restituisce un altro testo, per via di Altro, questo Altro, l’Altro che introduce all’ascolto di ciò che non è mai scritto una volta per tutte. Quindi viaggiatore del testo, compagno senza compagnia, in solitudine, ma con la politica dell’ospite, propria della tolleranza, lascia accostare l’audace e ignaro lettore alla storia che si sta tessendo per la veste della vita. Di quel termine, allora, quella frase posta in rilievo, inaugurando ciascun capitolo, quasi come il là di uno spartito da inventare. Mi sorprende come un’onda anomala e che il vento mi scaglia all’orecchio e mi fa dire, così, questa cosa non l’avevo ancora letta. E il rilievo di quel significante nella sua combinatoria arbitraria, inedita con altri significanti, lascia allo specifico in quell’accadere d’ascolto. E a chi non abbandona il campo della ricerca che invece si fa infinita, l’udirsi dell’evento, l’udirsi di un incontro dove il tempo irrompe e non tregua, chi volesse prendersi una pausa e staccare l’occorrenza sull’idea di padronanza.
Il tempo, dice Armando Verdiglione, rapina, non c’è modo di fermarlo, non dura e non si misura, impossibile assumerlo, neppure nel tentativo che ne fa la nosografia psichiatrica, di paralizzarlo dentro una camicia di forza, per una marchiatura del cosiddetto discorso schizofrenico o paranoico, tentativo che non smorza e non smette che l’altra lingua, anche se non viene intesa, parli, per rimozione forzata. A proposito del dispositivo che interviene costantemente nel dirsi, dispositivo è un termine che arriva da Quintiliano, in un contesto, forse più legato alla poesia e al diritto. Però questo disporsi all’ascolto, indica uno sforzo che è dato dall’umiltà, per accogliere ciò che ci viene incontro, come nuovo. Incontro con il nuovo, con l’inedito, per seguire la rivoluzione della parola: il suo destino di qualificazione e di scrittura.
Aristotele nella fisica nota che il tempo è il numero del movimento secondo il prima e il poi, e aggiunge che la sua misura è il cerchio, il solo che produce movimento uniforme e perfetto. Ma prima e poi non pertengono al tempo, semmai a una sua economia. Non c’è un prima e non c’è un poi nella parola, perché il viaggio esige che si inauguri con l’agenda l’infinito, dove le cose, non sapendo l’incominciamento si trovano già a proseguire nel racconto di ciascuno, quando si ascolta nello squarcio ciò che si lascia udire per l’irruzione del tempo nella scena, l’altro tempo, il tempo dell’Altro, il tempo che trae alla differenza e al malinteso.
Ma a questo Altro tempo si può anche reagire, come diceva Susan Petrilli, ammalandosi, facendone una malattia, dando forma e abito al taglio con le sue rappresentazioni di violenza e di rapina, e l’Altro e il tempo passano, allora, attraverso il male dell’Altro, come il peccato, l’incesto, come malattia dell’Altro, ma il tempo è il tempo del fare. Questo tempo del fare lo troviamo già in Sant’Agostino nelle Confessioni. A proposito del tempo, scrive: “Se non me lo chiedi so che cos’è, ma se me lo domandi non so rispondere”.
E questo è un richiamo straordinario all’occorrenza, a ciò che bisogna fare, alla necessità assoluta che si può provare, trasporre nel moto freudiano del Wo Es War, soll Ich werden. Wo, il dove. Dove senza luogo e senza origine, ma, dove, è ciò che causa l’atto di parola, e è in causa, senza causa finale, e sempre altrove. Un dove che induce a chiedersi da dove e verso dove le cose vadano. Es, “qualcosa”. Qualcosa per via di un’eco, la sfumatura giunge all’ascolto di strappi in lettura. E qualcosa usa sul terreno dell’Altro, e è tratto nel malinteso sulla via della scrittura qualcosa. Quale cosa? Quale cosa si appunta verso la qualificazione per l’approdo alla cifra dell’itinerario? E il War, “era”.
Ma è già un equivoco, menzogna, malinteso nella grammaticalità del verbo essere. Era giunge come imperfetto, è una fantasmatica del tempo passato. Sembra ancorare il fatto, l’accaduto, il ricordo, ma “era”, nella funzionalità, introduce il continuativo al modo dell’appunto, della fiaba. Era. C’era. C’era una volta. C’era la famiglia come traccia dell’interdizione linguistica che non nega l’infinito attuale nella narrazione di storie, nella penna audace e ancora. Soll Ich werden, occorre che io avvenga. Deve, può l’io avvenire, divenire, costituirsi in quanto soggetto? L’io che dice io, dicendosi, trova l’uno significante che si divide da sé. Ma l’io non funziona. Non ha la temporalità. È un aspetto dell’oggetto: io, tu, lui. Io, straniante, un aspetto della trialità del sembiante nel suo punto di sottrazione, lo sguardo.
E allora un’altra risulta la qualifica dell’io rispetto alla topica freudiana che lo dice impossibile padrone in casa propria. E è un retaggio questo, di un’io che si fa soggetto, nella sovrapposizione con l’uno, oggetto della metamorfosi. Il Wo es War non si appunta all’io, ma investe la temporalità, l’occorrenza che trova la memoria quale scrittura dell’esperienza. Dicevo che è un libro adiacente a un altro libro, per restituire il testo; il testo della memoria, l’adiacenza. Freud a questo proposito ci comunica un’acquisizione straordinaria, quando dice che nel sogno una cosa sta accanto all’altra, senza alternativa. E questo sovverte non solo l’idea di soggetto come possibilità di scegliere questo o quello, ma anche l’ipostasi dei tre principi aristotelici, richiamando la traccia del luogo ossimorico da cui le cose procedono, dalla relazione inconciliabile, da quell’apertura originaria, da quel due, che è stato evocato dal dottor Chinaglia.
Il dispositivo stesso procede dall’apertura originaria, quindi questo o quello non sta davanti al soggetto, ma per così dire, sta dietro alle spalle, come traccia, una traccia costante, un tra, tra le righe, ciò che non è mai detto, ma tra, appunto, come traccia dell’interdizione linguistica. Quindi un testo adiacente a un altro testo, una cosa accanto a un’altra cosa, l’adiacenza, la corda della memoria, e qui si inscrive ciascuna piegatura. E nessuna corda può fare da laccio per il sacco del ricordo, ma sta a salvaguardia della dimenticanza. Impossibile anche per la riserva mentale mantenere la stessità in assenza di tempo. La memoria scrive ciò che si tesse lì, in un’urgenza, testimone infedele di ciò che ancora si sta scrivendo.
Non è un caso che Freud ricorra alla formula ricordo di copertura, perché è, come dire, qualcosa che si sovrappone all’ascolto di ciò che nel contingente, dovrebbe essere accolto come elemento nuovo e inedito. E allora mi pare che questa lettura, il viaggio di Augusto Ponzio sia effettivamente una testimonianza dell’occorrenza, del “vivendo”, che in quarta di copertina è accostato a una parola portoghese, bellissima, che a differenza dell’italiano non contempla il participio passato, “ho vissuto” come esperienza vissuta, ma solo il gerundio, vivencia.
Allora la vita ci chiama incessantemente, c’interpella, ci occasiona, ci invita a fare nel giardino del tempo dove la cosa che accade si lascia udire. E udendo, la partita è già in corso e senza nemico, la battaglia è in atto. La trasformazione è incessante e ricostituisce senza rimedio, e allora bisogna fare ciò che bisogna fare. Questo è l’invito della vivencia: l’occorrenza delle cose nel loro processo di valorizzazione, per l’istanza di qualità fino alla cifra, alla missione, al messaggio. Ed è questo qualcosa che può leggersi nel testo del testo di Augusto Ponzio. E per questo lo ringrazio.
R.C. Adesso ascoltiamo Augusto Ponzio.
Augusto Ponzio Io ringrazio molto per le cose che sono state occasionate, dette, a proposito di questa lettura. Borges, uno che è stato coinvolto all’interno del viaggio di Verdiglione – c’è un bellissimo libro che raccoglie i dialoghi, gli incontri di Borges con Armando Verdiglione – Borges diceva: “Il mio vanto non è per i libri che ho scritto, il mio vanto è per i libri che ho letto.” Questo lo potrei dire a proposito di questo libro che certamente ho scritto, ma che in realtà dice di una lettura. Di una lettura che per me, insomma, è collegata con una testimonianza. Questa espressione che usava prima Ruggero Chinaglia, mi sembra molto adeguata.
Bisogna risalire al 1973. Psicanalisi e politica, Psicanalisi e società segregativa sono i primi convegni organizzati da armando Verdiglione a Milano. E nel 1974, in “La critica sociologica”, io recensivo il primo convegno, i cui atti erano stati pubblicati da Feltrinelli. Dunque siamo nel 1974. Testimonianza. Che cosa accadeva in questi convegni? È un’epoca, un periodo lontano; lontano non soltanto dai primi anni Settanta, ma lontano proprio come atmosfera. E Pieraldo Rovatti ha pubblicato un libro di Deleuze, L’ile dèserte et autres textes, un libro di Deleuze tradotto in italiano (Einaudi, 2007), che è una raccolta di saggi, una raccolta di scritti di Deleuze. Uno di questi scritti di Deleuze era la relazione fatta in questi primi convegni, il primo che io avevo recensito nel ’74. E chi l’ha tradotto in italiano, questo testo di Deleuze? Armando Verdiglione. Rovatti mette dentro alla raccolta di saggi di Deleuze la traduzione di Armando Verdiglione.
Questa disponibilità (oltre che disposizione) al tradurre è parte costitutiva, anche come riflessione sulla traduzione, dell’opera di Verdiglione (in La dissidenza cifrematica, si parla specificamente di questo nelle pp. 97 e sgg.). E dunque questo testo da lui tradotto non è certamente unico, ma non è neppure casuale. Tradurre è l’atteggiamento di maggiore capacità, possibilità, sforzo, tentativo di ascolto dell’Altro. Margherita De Michiel ricordava questo titolo, Leggere traducendo. Leggere, anche nella “stessa lingua”, è in fin dei conti leggere traducendo – da un idioma ad un altro, dall’”altra lingua” alla “lingua altra”. C’è qualcuno che ha parlato di un’avventurarsi su un sentiero non facile, a piedi nudi, nella traduzione. Che dice Rovatti? Rovatti ricorda questo primo convegno di Verdiglione, e scrive: “Schiacciato in mezzo alla folla decisamente sproporzionata al luogo, c’ero anch’io nella libreria “Sapere” di piazza Vetra a ascoltare Gilles Deleuze che parlava in un seminario dedicato a psicanalisi e politica.” Una delle sue poche uscite pubbliche, dunque un evento raro.
Questa parola evento, che Margherita De Michiel ha ricordato, è una parola chiave dentro al discorso di Armando Verdiglione, ma una parola chiave anche nel discorso di Bachtin. Ci sono degli strani percorsi, degli incroci. I “miei autori”, lo dicevano prima coloro che parlavano del libro, sono Lèvinas, Bachtin. Ma Lèvinas è anche collegato con Verdiglione, lo era anche a livello di persona a persona, è stato uno dei più vicini a Verdiglione in momenti non facili, da lontano, telefonando, scrivendo. E Bacthin ha in comune con Verdiglione la messa in discussione del dialogo. Il dialogo nel senso abusato di questa parola (abuso di parola, dovrebbe essere un reato: “Si è aperto un dialogo tra Franceschini e Berlusconi”). Il dialogo non è per rispetto dell’Altro, non è una gentile concessione che si fa all’Altro, non è una cosa graziosa nei confronti dell’Altro, non è un’iniziativa dell’io.
Il dialogo, in Bacthin, è tutt’altra storia. È il trovarsi coinvolto, a proprio dispetto, quindi non nel rispetto dell’Altro, ma a dispetto proprio. L’Altro te lo ritrovi fra i piedi. Questo aspetto è collegato con il concetto di materia, in Verdiglione. Tutta l’analisi di Verdiglione – io ho fatto questo sforzo di analizzare il passaggio, il processo – tutto il discorso di Verdiglione, nasce sul concetto di materia, la materia non semiotizzabile. Il suo riferimento è Hjelmslev, uno dei riferimenti più importanti dentro il discorso di Verdiglione, all’inizio, tra altri testi, proprio Hjelmslev.
Mi rivolgo a Romeo Galassi, studioso di Hielmslev, che è qui con noi, tra il pubblico. Perché in Hielmslev si dice di una materia che nessuna forma può formare in maniera identica e definitiva, nessuna lingua che forma la materia la esaurisce. La materia non semiotizzabile: – espressione di Armando Verdiglione – la messa in discussione della pretesa di poter significare una volta per tutte. Qui materia è proprio alterità. Materia è il non lasciarsi padroneggiare.
Vi leggo un altro pezzo di Rovatti: “Altri tempi, atmosfera tesa e appassionata. Sfilata di figure eterogenee, strano concatenarsi di intelligenze molto dissimili. Amici e nemici giurati della psicanalisi, giovani militanti non addetti ai lavori. Attenzione spasmodica. Clima da kermesse politica, inimmaginabile per chi ha esperienza solo dell’oggi. C’è anche Felix Guattari, molto più avvezzo alle discussione pubbliche.” Quindi un libro di lettura quello che qui si presenta, che è un percorso, un percorso parallelo e incrociato, al tempo stesso, di due vite: l’incontro con Armando Verdiglione nel dicembre del ’73, in occasione di Psicanalisi e società segregativa, il secondo convegno in assoluto da lui organizzato a Milano.
E qui un altro incrocio si chiama Ferruccio Rossi Landi. È con Ferruccio Rossi Landi che io venni a Milano a incontrare Armando Verdiglione, è attraverso di lui che si realizzò quest’incontro. L’altro punto di contatto è determinato Thomas Sebeok, di cui Susan Petrilli ha tradotto la gran parte dei libri e di cui il primo in italiano, che è stato pubblicato proprio da Spirali. Per Spirali Susan ha tradotto A Sign is just a sign e insieme abbiamo pubblicato una monografia su di lui. Thomas Sebeok è stato un altro assiduo frequentatore dei convegni Villa San Carlo Borromeo.
Questa faccenda dell’assemblaggio, questa faccenda dell’identità, questa faccenda del genere, genere non soltanto come genere sessuale (gender), ma ogni genere di genere, compreso quello più grande che è il genere umano, si tratta di trappole. La trappola mortale dell’identità. La differenza sessuale, la differenza di genere, la differenza di etnia, la differenza linguistica, la differenza nazionale sono le cancellazioni della differenza. Lo spiego ai miei studenti, facendo notare che fra studente e professore, fra queste due identità, fra queste due differenze, c’è un rapporto di opposizione e, nello stesso tempo al loro interno, avviene la cancellazione di ogni differenza singolare. Il contrario di professore è studente e il contrario di studente è professore. E li prendo tutti dentro questa espressione, dicendo “studenti!”, cancellando tutte le differenze, per esempio quella di maschio e femmina, l’identità sessuale.
Se distinguendo all’interno degli studenti dico, “maschi e femmine”, dicendo “femmine” cancello ciascuna differenza femminile e dicendo maschi ciascuna differenza maschile, cancello la differenza sessuale, direbbe Armando Verdiglione, la differenza della singolarità, quella differenza che conta quando mi fa differenza se una persona c’è o non c’è. Io dico ai miei studenti “Io vi devo trattare da professore cancellando ogni differenza singolare”. Non sia mai che il professore si dispiaccia del fatto che ieri c’era la tale e oggi non c’è. “Se tu non ci sei domani, non mi deve fare nessuna differenza”, per il semplice fatto che io non devo guardare in faccia a nessuno, per il semplice fatto che nel rapporto di ruolo a ruolo, di professore a studente mi deve essere completamente indifferente ciascuno.
Questo la dice lunga sul fatto che invece nei nostri rapporti privati (sapete perché si chiamano privati? Perché sono privati di tutto), in quei rapporti privati invece, quello che conta, quello che è importante è la differenza non indifferente, non la differenza di genere, non mi importa niente del fatto che quella è una donna. In Morte a Venezia, il protagonista, una persona molto per bene, si va a innamorare, (pedofilia, pedofilia!!), si va a innamorare di un ragazzino; quindi c’è l’età che è completamente sballata nel rapporto, e per giunta lo stesso sesso. Non puoi consolare l’amico dicendo: “Dai, non fare così che ce ne sono tante altre”, perché a lui interessa quella singolarità lì, tant’è vero che si dice: “Tu per me sei l’unica, o l’unico, al mondo”. Ecco, questa è la differenza non indifferente che è la singolarità.
Armando Verdiglione si è occupato di Leonardo da Vinci. La mano di Leonardo, questa è la cifra, questa è la differenza che fa differenza, la mano di Leonardo. Ci sono due riflessioni sulla mano che vale la pena raffrontare tra loro. Una è di Heidegger, la mano dell’uomo. Heidegger dice che la cosa più importante nello sviluppo, nella storia, nella cultura, nell’evoluzione, è la mano. Di chi? Dell’uomo. Verdiglione, invece, si occupa della mano di Leonardo, di una singolarità e la cosa fa differenza. Fa differenza perché tutt’altra cosa è considerare quest’altro genere ampio: il genere umano. Maschio, femmina, comunitario, extracomunitario, meridionale, settentrionale, abitanti del sud e del nord del mondo, palestinesi, israeliani li inseriamo tutti dentro al recipiente “genere umano”.
Heidegger, la mano dell’uomo. Non c’è trappola più mortale del genere più ampio: l’appellarsi all’uomo, i diritti umani. Ma quanti genocidi, ma quante negazioni dell’Altro in nome dei diritti umani. Anche qui scatta l’opposizione: umano/disumano. Sicché in nome dell’umano ci sono gli interventi umanitari, le guerra umanitarie. Verdiglione su questo si sofferma parecchio, humanitas. C’è stato un grande convegno su questo tema presso la Villa Borromeo. Da dove deriva humanitas? Da homo, il genere più grande che c’è, direte voi, ma appellandosi a queste genere, il più grande che c’è, c’è l’intervento umanitario, c’è la guerra umanitaria. Pensate alle parole come sono state guastate. C’è l’espressione “guerra civile”. “Comportati in maniera civile”. E poi dici “guerra civile”. Allora, humanitas da humus, dice Verdiglione. E qui c’è Giambattista Vico, da humus, da dove viene humilitas. Nell’atrio di Villa san Carlo Borromeo c’è questa parola, scritta sulle pareti: Humilitas.
Fuori soggetto, fuori tema, diceva Susan Petrilli prima. Fuori arroganza, fuori dalla pretesa di credere che libero è colui che può fare quello che vuole, dice Armando Verdiglione. Fa osservare che per Leonardo, Machiavelli sarebbe quello che avrebbe detto: il fine giustifica i mezzi. “Ma io non l’ho detto, mai!” ‘L’hai detto, e basta!’, l’Ariosto, pazzo è colui che crede di poter fare quello che vuole. Quello che oggi invece si considera pazzo, folle è colui che fa delle cose che non vuole, che non sa quello che vuole. Pazzo è colui che crede di poter fare quello che vuole dicono, invece costoro, a cui molto deve il Rinascimento, e che Armando Verdiglione rilegge in rapporto al Secondo rinascimento. Il soggetto pieno di sé, il soggetto arrogante, il soggetto borioso. “La libertà non si negozia”. Come, non si negozia?
Il soggetto ha la libertà di parola, prende la parola, concede la parola, dà la sua parola. È il padrone della parola. Verdiglione parla della libertà della parola; restituire alla parola la sua libertà. “Pazzo è colui che crede di poter dire quello che vuole. Pazzo è colui che crede di poter fare quello che vuole.” “Nessuno è padrone a casa sua”, diceva Freud. È la messa in discussione della padronanza, soprattutto di quanto si crede più proprio. E qual è la casa di ciascuno? Nessuno è padrone del proprio corpo.
Nessuno è padrone della propria parola, nessuno è padrone della propria lingua, “materna”, nessuno è padrone della propria coscienza. “Non volevo arrossire e arrossisco”. “Non volevo tremare e tremo”. “Non volevo balbettare e balbetto”. “Non volevo ammalarmi e mi ammalo”. “Volevo sembrare attraente e non sono attraente”; nessuno è padrone a casa sua: il corpo, ma anche la parola che col corpo è strettamente collegata.
Dunque, che cosa succede fondamentalmente in quest’altra prospettiva in cui il soggetto è disarcionato, in cui c’è una materia non semiotizzabile, cioè una materia di cui so, a meno che non sia pazzo, che non posso fare quello che voglio? Viene meno la parte centrale di tutta la logica, di tutto ciò che ci hanno insegnato a scuola, il rapporto soggetto e oggetto. Viene messa in discussione il concetto di opposizione: maschile/femminile; nord/sud; destra/sinistra. I linguisti, le opposizioni, se le sono andate a cercare persino dove non c’è più il significato. L’opposizione non è soltanto fra bello e brutto, bianco e nero, cioè a livello semantico; se le sono andate a cercare perfino a livello fonologico.
Le opposizioni binarie tra p e b, tra d e t. È una fissazione che per stabilire una differenza bisogna metterla in opposizione a un’altra differenza. È una fissazione, come quella dell’identità, dell’appartenenza, della genealogia, del principio di non contraddizione e del terzo escluso. È questa logica che deve saltare. Vi faceva riferimento, con le bellissime cose che ha detto, Margherita De Michiel, non per merito del mio libro a cui le riferiva, ma per come lei le sa dire, come le sa intrecciare, ricamare, organizzare.
Sentire la paura dell’Altro. A scuola, due sono le cose, o dell’Altro è soggetto, o dell’Altro è oggetto; o sono io che ho paura dell’Altro o è l’Altro che ha paura. “La paura dei nemici era grande”, questa frase può essere sviluppata come: la paura dei nemici era grande e se la dettero a gambe: genitivo soggettivo si chiama a scuola, oppure la paura dei nemici era grande e i nostri fuggirono: genitivo oggettivo. O genitivo oggettivo o genitivo soggettivo.
Ecco, sentire la paura dell’Altro può essere invece un’altra cosa: essere preoccupato per lui, sentirsi addosso la sua paura, essere coinvolto nella paura sua, temere per lui, essere in pensiero per lui. Come lo chiamiamo quest’altro genitivo? Sentire la paura dell’Altro, ma nel senso di avere paura dell’Altro, ma per l’Altro. Come lo chiamiamo questo? L’analisi logica ufficiale non lo prevede, perché è attenta unicamente ai due casi. Potremmo chiamarlo genitivo etico, come esiste il “dativo etico”: stammi bene, salutami Antonio. Dunque, un genitivo etico questo, sentire la paura dell’Altro nel senso di essere preoccupato. Salta il rapporto tra soggetto e oggetto.
Sembra una cosa di poca entità, ma voi pensate a frasi che noi andiamo abitualmente dicendo, per esempio: “Ti voglio bene.” Uno dovrebbe chiedere: “in che senso?” Perché può essere in due sensi: voglio il tuo bene. E dunque c’è un rapporto autoritario, l’arroganza di chi pretende di sapere: “Io conosco il tuo bene, e lo voglio. Comportati così per il tuo bene. Voglio il tuo bene, io.” Sembra anche che se ne voglia appropriare. Una cosa è volere il bene di qualcuno, un’altra cosa è volere bene a qualcuno.
Bisogna riflettere in questo senso sull’indiretto, sui casi indiretti rispetto al diretto, cioè rispetto al rapporto soggetto-oggetto. Ti penso! Io ti penso sempre. Uno dovrebbe dire: “In che senso?”. “Perché se pensi me, se fai dei pensieri su di me, non mi pensare più, guarda!”.
Una cosa è pensare a qualcuno, e una cosa è pensare qualcuno. Ci sono lingue in cui, ma ciò avviene anche nei dialetti nostri, in cui al posto del complemento oggetto c’è il dativo, come in, amo a te, anziché amo te. Non sei l’oggetto del mio amore; amo a te, è diverso, è un dono, è un’offerta. Curare. Una cosa è curare qualcuno, complemento oggetto, e c’è qualcuno che pretende di curare qualche altro, la cura dell’Altro, l’Altro è strano, è malato, è anomalo, lo curiamo; un’altra cosa è aver cura dell’Altro, prendersi cura dell’Altro; non c’è più il complemento oggetto, abbiamo un caso indiretto; ecco, su questa cosa dobbiamo riflettere, è una faccenda di linguaggio.
Quando gli studenti mi chiedono: “Che cos’è la filosofia del linguaggio?” – ed è una domanda vera, perché uno può incontrare questa disciplina nei suoi studi universitari anche se non ha fatto filosofia a scuola, e non una pseudo domanda come quella dell’interrogazione durante l’esame –, io rispondo: “Hai sentito mai questa espressione: ‘prenditela con filosofia’?” Che cosa significa prendere le cose con filosofia? “Non t’immedesimare, non ti identificare, prendi le distanze, assumi una capacità di distanziamento”. Ecco, questo significa filosofia del linguaggio: non più stare dentro alla lingua, non più stare dentro ai luoghi comuni, non più parlare come si parla, non più scrivere come si scrive, ma prendere le distanze. La dissidenza fondamentalmente è questa. La dissidenza cifrematica.
Allora, ritornare al rapporto di singolo a singolo fuori dai recipienti, fuori dai generi, fuori dagli scafandri, fuori dalle tute, fuori dalle casacche, per usare un’espressione sportiva, in un rapporto faccia a faccia, di singolo a singolo. Dunque, filosofia del linguaggio come avere un senso di umiltà nei confronti delle parole. L’Humilitas. Restituire alla parola la sua libertà. Anche il rapporto con la parola dev’essere un rapporto dove non posso dire: “Io dico così per il bene della parola.” Lasciare vivere le parole e lasciarle vivere significa rivedere tutto il rapporto con l’Altro, perché il rapporto con l’Altro passa attraverso le parole. Si faceva riferimento all’espressione: espunzione dell’Altro. Espunzione è un termine che viene dalla filologia. C’è un testo, è stato manomesso, sono state aggiunte delle cose che non c’erano nel testo originale; bisogna espungere. Espunzione dell’Altro.
C’è in questa espunzione dell’Altro il rapporto fra chi legge e il testo, ma il testo non è soltanto un libro, ma anche la persona che ho di fronte, con la sua lingua, con la sua altra lingua, in rapporto alla mia lingua altra, e in entrambi i casi l’arroganza di poter eliminare il malinteso nuoce alla possibilità di ascolto, di comprensione. “Finalmente ti ho capito.” E come ti permetti? “Mettiti nei miei panni; io mi metto nei tuoi panni.” Erano due e sono diventati uno. È questa la faccenda della relazione, non è relazione tra due, ma la relazione è il due.
C’era un tale che si chiamava Max Stirner, scrisse L’unico e la sua proprietà (1844). Marx e Engels per smontare Max Stirner impiegano quasi tre quarti dell’opera L’ideologia tedesca, che lasciarono impubblicata alla “critica roditrice dei topi”. Perché? Perché nell’Unico di Max Stirner c’è la messa in discussione di tutto ciò che è identità, classe, genere, la messa in discussione del genere umano; la messa in discussione del genere sessuale. L’unico, la singolarità. Qual è il limite di Max Stirner per cui Marx e Engels hanno la meglio su di lui? A parte il fatto che confonde il singolo con l’individuo egoista della nostra forma sociale (cosa su cui si concentrarono nella loro critica Marx ed Engels), il suo limite principale consiste nel fatto che considera l’unicità come una proprietà del singolo, come una sua prerogativa, come una sua dote in quanto uno, fuori dalla relazione con l’Altro, fuori dal due. Ciascuno è unico in relazione all’Altro, solo così può essere “unico al mondo”. Anche perché è l’Altro che ti riconosce, di più, ti ordina unico: tu sei per me l’unico al mondo.
Il rapporto di unico a unico è un rapporto di alterità, non può essere diversamente. Sono unico nel momento in cui so che nessun altro può prendere il mio posto. Non sono più intercambiabile. Come professore sono intercambiabile, non vado io in aula, va un altro; come marito sono intercambiabile, come padre sono intercambiabile, come figlio sono intercambiabile. In tutti i ruoli sono intercambiabile, come comunitario sono intercambiabile, come italiano sono intercambiabile. Ma nel rapporto di singolo a singolo è l’Altro che ti fa unico. La proprietà di unico non è una proprietà privata, come credeva Stirner nel L’Unico e le sue proprietà. E nel rapporto di alterità, nel rapporto di coinvolgimento con l’Altro, nel rapporto di dialogo in cui non sono io che ti do la parola e che mi dispongo al dialogo, ma è l’Altro che mi coinvolge e mi mette in una situazione di non poter rispondere all’Altro, è lì che mi trovo unico.
Il mio rapporto con Armando Verdiglione, in questo libro e in quello che avevo scritto precedentemente, è il rapporto con uno che non riesci a toglierti dalla testa. Non mi sono messo in dialogo con Armando Verdiglione, non ho fatto questa gentilezza. “Adesso leggiamo Armando Verdiglione, adesso scriviamo un libro su Armando Verdiglione”. Dopo aver scritto il libro che si chiama La cifrematica e l’ascolto, non ho potuto fare a meno di continuare a scrivere, e è venuto fuori quest’altro libro, perché c’è una situazione d’intrigo da cui non riesci a tirarti fuori. Ma questo l’ho provato con Lèvinas, con Bacthin. Insieme a Margherita De Michiel, non solo abbiamo interpretato i testi di Bachtin già circolanti in italiano; grazie a lei che conosce il russo, ne abbiamo tradotti degli altri. Dunque, si tratta di questo trovarsi impigliato, intrigato dentro un rapporto, sicché la lettura è qualcosa che ti viene addosso, non è qualcosa che decidi.
Io dico ai miei studenti: “Ci sono quattro tipi di lettura” – e con questo termino –: la lettura del bambino alla scuola elementare che è una semplice sonorizzazione, compitazione (come legge bene, vedi come legge bene, si ferma anche ai punti e alle virgole). Poi c’è la lettura con gli occhi, c’è la lettura di passaggio, intermedia, del semi-alfabeta o del semi-analfabeta: avrete visto qualcuno che legge, anche in treno, in autobus, nella sala d’aspetto, che legge il giornale, legge con gli occhi, però continua a muovere le labbra, perché il passaggio alla “lettura silenziosa” non è ancora completo.
Verdiglione dice che non si legge solo con la vista, ma è necessario l’ascolto, e allora il terzo tipo di lettura è quello proibito a scuola, proibitissimo a scuola. “Ti ho visto, hai sollevato gli occhi, continua a leggere tu adesso, ti sei distratto.” Ecco questo è il terzo tipo di lettura, sollevando gli occhi, pensando ai fatti propri. “Come, pensando ai fatti propri?”. Sì. Perché se chi legge non pensa ai fatti propri, quale corto circuito si può realizzare fra il testo e la persona che legge? Se tu leggi e pensi ai fatti propri, vuol dire che qualcosa il testo te l’ha detto. E questo è il terzo tipo di lettura.
Poi c’è quello raccomandato da Søren Kierkegaard. Kierkegaard, sapete, usava l’espediente dello pseudonimo, la polinomia: ogni suo libro attribuito a uno pseudonimo diverso. Diceva: “Io non ho mai detto nulla di quello che voi trovate scritto, l’hanno detto loro, non io.” Lui però era anche un pastore, un pastore danese, un prete. Dunque, teneva le prediche in chiesa e quando decide di pubblicare I discorsi edificanti li pubblica a nome suo, e però dice al lettore all’inizio: “Quando leggi, leggi ad alta voce perché in questa maniera non ci sono più io, ci sei tu e la tua voce, quindi è un dialogo fra te e con te stesso, sicché quello che stai leggendo diventa elemento, materia, strumento di discussione con te stesso. Dunque non devi più attribuirmi qualcosa o imparare o riportare qualcosa.”
Ci sono degli studenti che quando sono prossimi al giorno dell’esame, dell’interrogazione, si chiudono in una stanza e leggono ad alta voce. Leggono ad alta voce perché si preparano a riversare quanto hanno appreso per la verifica dell’interrogazione, che consiste nel vedere se tutto è stato assimilato oppure no: prima ingestione, poi vomito. Si dice assimilare che è una espressione di digestione; si tratta di verificare se hai digerito quello che hai letto. Leggere a alta voce, non nel senso di poter riversare quanto si è studiato addosso al professore, che quando la risposta corrisponde esattamente a ciò che ci si aspettava di stimolare con la domanda, è molto contento del vomitino che gli ha fatto lo studente. No. Leggi ad alta voce, dice Kierkegaard, perché è come se stessi discutendo con te, ma non dentro di te, fra te e te, non con te stesso, ma con l’Altro di te; io non c’entro più.
Ecco allora Kierkegaard, non soltanto quando usa gli pseudonimi, ma anche quando firma in prima persona riesce a dire al lettore: “Questi sono fatti tuoi, veditela con te stesso, leggi ad alta voce, così senti la tua voce, mentre stai leggendo trovi il tuo Altro.“ L’Altro non è soltanto l’Altro da me, ma è anche l’Altro di me, l’Altro di ciascuno; lo puoi trovare nel momento in cui esci fuori ruolo, fuori genere, fuori identità, fuori dalle trappole mortali delle opposizioni e del conflitto. Così si esprime Armando Verdiglione (rispettivamente in La materia freudiana (1975) e in La dissidenza freudiana (1978): […] Impossibilità di distogliere lo sguardo dall’ascolto, la scrittura dalla lettura; una lettura qua e là distratta. Passante per l’ascolto più che per la vista. Io vi ringrazio tantissimo per la pazienza.
R.C. Ringrazio Augusto Ponzio per questa sua lezione, per questa sua comunicazione, per questo suo messaggio ricchissimo di annotazioni, di spunti che ci porterebbero a tenere un’altra ora di dibattito, adesso. Purtroppo l’ora è tarda, però se c’è qualcuno che ha una domanda da fare a Augusto Ponzio la può rivolgere. Oppure leggiamo qualcosa del libro. Noi abbiamo intitolato questi dibattiti, Dibattiti della modernità. E nel libro Augusto Ponzio si sofferma su questa nozione di modernità. Leggiamo cosa ne dice: “La modernità è dissidenza nei confronti dei luoghi del discorso, che, a servizio dell’ontologia, rappresenta l’essere così: la realtà del realismo con i piedi per terra, con i piedi di piombo, che, per il mantenimento e la riproduzione del Medesimo e dell’Identico ha, per sua costituzione, dichiarato la sua disponibilità al sacrificio…” ( p. 238).
Quindi è un’accezione di modernità al di fuori degli schemi, al di fuori della cronologia tra moderno e antico, tra attuale e remoto. Poi dice: “La modernità va considerata in termini di viaggio, nel senso di uscita dal discorso occidentale, e al tempo stesso dal soggetto, dalla sua pretesa ‘padronanza’ dall’identità.” (p. 239). “La modernità non è un punto d’arrivo o di partenza, di un tempo lineare, e neppure un ricominciare ripetitivo in un tempo circolare né è una tappa della storia. L’uscita dal discorso, dal soggetto, dall’identità, il viaggio, è intrapresa, sfida in cui ciascuno procede nella sua singolarità, irripetibilità e in un tempo che non finisce, senza escatologia, procede con la parola, fuori luogo, dissidente.” (ibidem).
Tutto ciò non solo è bello ma è raro, è raro da trovare, è unico. Perché tutto ciò va oltre la coscienza, oltre la conoscenza, va oltre l’arroganza di chi si crede di essere, di chi crede di essere tale, di chi crede che la parola sia tale. E che quindi crede di poter conoscersi, di poter essere, di poter essere se stesso, di potere obbedire alla prescrizione Sii te stesso. È il colmo del paradosso dell’identità, sii te stesso, perché l’identità è un’identità impossibile. Già Aristotele se ne accorge quando enuncia questo apparente principio d’identità, che in realtà è un paradosso dell’identità.
Eppure c’è chi giunge a prescrivere questo paradosso, questo essere qualcosa o qualcuno, questa ontologia che vuol dire sbarazzarsi della parola, sbarazzarsi degli effetti della parola, quindi sbarazzarsi del tempo. Allora si la paura, la paura della fine regna sovrana. Allora ogni rappresentazione della fine può intervenire e l’Altro, allora, diventa il rappresentante della minaccia. Ecco allora la paura dell’Altro, perché l’Altro diventa rappresentazione di un altro e non già, invece, assenza di rappresentazione, assenza di significazione.
L’Altro, cioè la differenza. Come ci si può rappresentare la differenza? O è differenza, oppure è rappresentazione, cioè è qualcosa. Ma l’Altro, l’Altro che interviene, parlando, è differenza, differenza che non può essere inscritta in un catalogo delle differenze. Allora, quali sono le differenze ammesse, consentite, quali le differenze invece da bandire? E già con questo siamo nel discorso occidentale. Nella parola l’Altro, l’Altro assoluto, è senza rappresentazione. E come notava Ponzio, un’altra cosa molto importante, la questione del bene, il fine di bene. Quest’idea del bene è la fregatura totale di chi s’inscrive in questo discorso finalizzato. Finalizzato a che cosa? Al bene.
Allora di questo bene c’è la rappresentazione, ma ciò che la cifrematica propone è che questo bene è irrappresentabile. La parola bene, è, in realtà, qualcosa che indica il due: bonum, bonus, duonum, è lo stesso termine. Il bene è il due, non c’è rappresentazione possibile del due, altrimenti diventa due cose. Il due, la relazione è irrappresentabile e insecabile, per cui mai la relazione può diventare fra due cose o la coppia oppositiva.
Questo è lo scarto tra la parola e il discorso, tra la parola originaria in cui la relazione è l’apertura, perché il due mai può chiudersi, che mai può essere diviso in due, e dunque per questa via s’instaura l’humanitas di cui si diceva prima. E è questo il motivo per cui nessuno parla la stessa lingua, né tra sé e sé, né con altri, perché, parlando, c’è questo movimento tra la lingua altra e l’altra lingua. Per questo s’instaura l’ascolto, perché c’è un varco in cui s’insinua l’Altro, la differenza.
E dunque ci si chiede: “Che cosa sto dicendo? Che cosa stiamo dicendo? Che cosa mi sta dicendo?” Eh, non è così immediato! Occorre instaurare l’ascolto. Cosa rara, e infatti Augusto Ponzio dice: “Leggere non per interpretare, ma per capire.” Ascoltare, intendere, quindi leggere. Non si legge ciò che si vede, ma ciò che si ode e s’intende. Il libro non diviene testo se non con la restituzione. Come avviene la restituzione?
Con la lettura: restituire leggendo. Ma ciò che si restituisce è il testo, cioè un altro testo, non già il soggetto, è il testo senza sacralità, senza riferimento al libro come tale, al libro mnemonico, al libro per ricordare, al libro per interpretare tra il bene al male. Ecco, direi che questo messaggio è per ciascuno.
Augusto Ponzio Dare il tempo all’Altro è il massimo dell’ascolto, e quindi: “Ti ringrazio moltissimo per questo altro tempo che mi dai.”
Romeo Galassi Io sono abituato a vivere nascosto. Chiedo perdono, ma per una volta tanto mi mostrerò. Cercherò di fare come il cavaliere. Allora, in ogni caso non sono identificabile, per via del problema dell’identità. Ma la di là di queste battutine, c’è una cosa che io, come tu sai, non posso condividere con te, e è una cosa su cui da almeno una decina d’anni, io ho un contenzioso amichevole con un amico in comune, che è Cosimo Caputo, e è il problema della materia. Perché si fa un gran parlare, però spesso e volentieri a sproposito. Allora, non è il caso tuo evidentemente, se no te lo direi chiaramente. Tu parli e sento sempre parlare di materia non semiotizzabile.
La materia non può che essere semiotizzabile, non esiste la materia non semiotizzabile. Perché quando si semiotizza, si semiotizza qualcosa che prima di essere semiotizzata, era semiotizzabile, cioè suscettibile di semiotizzazione. Quindi la materia non semiotizzabile è il nome inesistente. La materia, per definizione, è semiotizzabile. Quando subisce qualche forma di semiotizzazione, verbale, figurativa o quant’altro, allora non è più materia ma è sostanza. E quando noi pensiamo di parlare delle cose, in realtà parliamo delle sostanze, che non sono le cose, sono qualcosa di diverso. Allora questa è la prima osservazione. E quindi bisognerebbe che ci rassegnassimo, prima o poi, a metterci d’accordo su questa cosa qui, altrimenti si continuano a fare dei discorsi che finiscono per creare una situazione conversazionale, che è monologica.
Allora, sono d’accordo con te sulla questione del dialogo che può essere interpretato come una concessione, eccetera, però resta il fatto che quando si parla, che io parli con me stesso o con un altro, dialogo. Non c’è niente da fare. Poi tu usi il concetto di genere in un’accezione molto particolare. Mi domando, forse hai ragione tu, non sono così sicuro, se non fosse forse preferibile parlare, invece che di genere, di classi. Poi sul problema dell’identità e della trappola dell’identità va bene. L’identità è una storia lunghissima. Siamo tutti perfettamente d’accordo, se ne è parlato, straparlato, eccetera, eccetera, che è un paradosso, e siamo tutti perfettamente d’accordo.
Però, l’identità se è una trappola in quanto, secondo me, cancellazione delle differenze è una trappola, comunque sia. Quando si dice che A è identico ad A si sta già parlando di due A diverse, una che sta di qua e una che sta di là. Questo non implica però la cancellazione di eventuali differenze. È una questione di costrutto logico, perché che ci piaccia o meno noi, però, li facciamo i costrutti logici quando parliamo. Poi hai detto, poi mi taccio perché sennò non andiamo più a casa questa sera. Tu hai detto che i linguisti, e qui io mi sento friggere un pochino …
Augusto Ponzio L’ho fatto apposta …
Romeo Galassi… e lo so, perché mi vuoi bene, no? Mi vuoi bene anche tu, ci vogliamo tanto bene. Allora le opposizioni i linguisti se le sono andate a cercare, ma non è vero niente. I linguisti non sono andati affatto a cercare le opposizioni. I linguisti hanno avuto solo il torto di vederle, perché le opposizioni ci sono. E i linguisti le hanno solo messe in evidenza e le hanno descritte, e è proprio attraverso questo, queste opposizioni, che si notano le differenze. Tant’è vero che poi possiamo anche dire che esistono diversi tipi di opposizioni. Un conto è la questione del binarismo di Jakobson e dei tratti distintivi, e quindi la fonetica, la fonologia, tutte quelle cose lì.
Però poi, tu sai benissimo che esistono delle opposizioni che sono le opposizioni partecipative, che dunque non sono come le altre, hanno una natura un pochino diversa e che spiegano perfino le opposizioni dei logici della logica formale. Anzi ti dirò di più, che sono proprio le opposizioni che impongono le differenze, perché dove c’è differenza c’è opposizione, inevitabilmente. Perché dove si crea una diversità, il diverso, cioè l’uno diverso dall’Altro, in qualche maniera, realizza una funzione oppositiva. Si tratta di vedere che tipo di relazione oppositiva, ma un’opposizione c’è.
Un’ultima cosa. La prima forma di lettura, il bambino che impara a leggere, tu dici, è una lettura che il bambino tutto sommato si dice come legge bene, perché produce suoni, eccetera. No, legge bene perché oltre a produrre suoni, fa capire che ha capito quello che sta leggendo. Convoglia semantica a piene mani. Non è un fatto solamente di pronuncia, perché se io leggo e non capisco niente, mi dai da leggere un testo in danese, io posso pronunciartelo perfettamente, ma sicuramente un danese che mi ascolta capisce che non ho capito. Quindi, se si dice che il bambino ha letto bene, ha letto bene perché ha saputo pronunciare bene, ma ha, come si dice qui a Padova, ha saputo dare sesto a quello che ha letto, e quindi mostra di avere capito. Scusatemi, ho finito.
R.C. Ringrazio anche Romeo Galassi per il suo intervento. A questo punto la conclusione a te, Augusto, e prima che tu concluda, ricordo che in fondo alla sala ci sono copie del libro che abbiamo presentato questa sera, La dissidenza cifrematica, che sono in vendita. Augusto Ponzio sarà lieto di firmare la copia per chi l’acquisti. Prego.
Augusto Ponzio Io capisco le preoccupazioni, ma sono le preoccupazioni di chi si sente togliere delle cose a cui è rimasto aggrappato…
Romeo Galassi Ti sbagli, no. Ti sbagli.
Augusto Ponzio… il terreno sotto i piedi, l’entourage normale in cui ci si aggira, in cui ci si rintana. Verdiglione e Lèvinas usano lo stesso tipo di scrittura per quanto riguarda l’Altro, lo scrivono con la lettera maiuscola. Questo scrivere con la lettera maiuscola in Lèvinas ha dato problemi serissimi d’interpretazione, anche perché i riferimenti al Talmud, i riferimenti alla Bibbia hanno fatto pensare che quando diceva Altro pensasse a Dio.
Il paradosso è questo: che proprio scrivendo l’Altro stai dicendo l’Altro che non è rappresentabile, che non è giudicabile, che non è classificabile, cioè stai dicendo l’altro minuscolo; l’Altro scritto con la maiuscola è l’altro minuscolo, l’altro di ciascuno di noi, l’altro che non è messo dentro un recipiente genere. Quando dico genere lo uso proprio in senso aristotelico, la specie e il genere. Il genere è un tipo, una modalità, un insieme, un agglomerato. Questo intendo per genere e lo uso nel senso logico della parola.
Classe, sostituiamolo con classe, ma sono due cose un po’ diversificate, perché genere e specie e classe sono cose che possono essere usate in maniera diversa, visto che la lingua ci dà questa possibilità di usi diversi. L’Altro con la lettera maiuscola è l’assente, la caratteristica dell’Altro è il fatto di non starci, ecco. Di non starci, di non starci in tutti i sensi. L’Altro è colui che ti dice: non ci sto, non ci sto nei tuoi piani, nel tuo progettino, non ci sto nella tua interpretazione, non ci sto nella tua denominazione. L’Altro è l’assente, sicché il massimo che puoi dire a una persona che t’intriga, diciamo di una persona di cui sei innamorato, il massimo che puoi dire a una persona che ti coinvolge, io credo che sia questo: sei qui e già mi manchi. Credo che non si possa dire più di questo.
R.C. Bene. Ringrazio Augusto Ponzio per essere stato qui con noi questa sera, per la sua generosità del suo intervento, così come ringrazio Margherita De Michiel, Susan Petrilli e Maria Antonietta Viero. Ringrazio anche ciascuno di voi e invito ciascuno di voi a leggere questo libro. Una cosa che non abbiamo detto emerge tra le righe: è che ciò che distingue la parola rispetto alla logica del discorso è che la logica del discorso è una logica binaria, la logica della parola è singolare triale. Senza il riferimento a questo, diventa difficile capire qual è la particolarità, perché ci fa sembrar bella una particolarità binaria. Qui si tratta della logica singolare triale e leggendo il libro questo si può capire e apprezzare. Grazie ancora e arrivederci.