L’impresa intellettuale e la soddisfazione
- Chinaglia Ruggero, Dalla Val Sergio, Viero Maria Antonietta
31 maggio 2012 Conferenza di Sergio Dalla Val, dal titolo L’impresa intellettuale e la soddisfazione, diretta da Ruggero Chinaglia, con presentazione del libro di Sergio Dalla Val In direzione della cifra edito da Spirali, a Padova, Sala Anziani di Palazzo Moroni, con il Patrocinio del Comune di Padova. Interventi di Fernanda Novaretti, Sabrina Resoli, Daniela Sturaro, Maria Antonietta Viero, Gianfranco Dalle Fratte.
SERGIO DALLA VAL
L’impresa intellettuale e la soddisfazione
interventi di
- Fernanda Novaretti, ricercatrice
- Sabrina Resoli, ricercatrice
- Daniela Sturaro, ricercatrice
- Maria Antonietta Viero, imprenditrice, scrittrice
- Gianfranco Dalle Fratte, ricercatore
Ruggero Chinaglia Signore e signori, buonasera. Amiche, amici vi ringrazio di essere qui, dove questa sera presentiamo il libro In direzione della cifra di Sergio Dalla Val, edito dalla casa editrice Spirali. Proseguiamo, quindi, le attività associative dell’Associazione cifrematica di Padova. Ieri eravamo nella Sala Consigliare del Consiglio di Quartiere Centro, dove esploravamo alcune questioni attorno alla tentazione.
Esploravamo, tra le altre, la tentazione di farsi vittima. È una tentazione di cui abbiamo traccia già nell’Antico e nel Nuovo Testamento: abbiamo la tentazione di Adamo e di Eva e la tentazione di Cristo. Mentre la tentazione nell’Antico Testamento conduce alla cacciata, abbiamo un altro andamento nel Nuovo Testamento, dove non c’è il cedimento alla tentazione. Questo è di assoluta rilevanza per quanto riguarda l’impresa e il suo modo, che non ci sia facoltà, facilità di cedere alla tentazione e di avere, quindi, un alibi al cedimento.
Occorre qui notare che l’analisi di queste tentazioni è essenziale per dissipare quelle idee che conducono all’ipotesi di credersi vittima, di farsi vittima, e quindi farsi soggetto della cacciata. Il soggetto della cacciata è il soggetto che può rivendicare, che ritiene di avere il diritto di protestare, di rivendicare, in quanto avrebbe subito il torto della cacciata. È questo che come messaggio il Genesi ci trasmette con la tentazione di Adamo ed Eva, in particolare quando Dio si rivolge ad Adamo e gli dice: “Chi ti ha fatto sapere che sei nudo? Hai forse mangiato dell’albero di cui ti avevo comandato di non mangiare?” E Adamo gli risponde: “ La donna che tu mi hai posto a fianco mi ha dato dell’albero, e io ne ho mangiato”, come dire: io non c’entro, è stata lei che me l’ha dato. Allora Dio si rivolge a Eva, dicendo: “Che hai fatto, Eva?” E Eva risponde: “Il serpente mi ha ingannata, e io ho mangiato”.
Ognuno gioca allo scarica barile, si giustifica. I soggetti del cedimento si giustificano, ma non indagano sui motivi del cedimento; lo accettano e cedono, e cedendo una volta, allora è aperta la strada dei cedimenti perenni. Qui abbiamo un’indicazione rispetto alla modalità soggettiva di farsi vittima, vittima della seduzione, vittima della tentazione. Oggi vanno di moda le vittime del sabato sera, le vittime della strada, le vittime dell’alcool, le vittime della crisi, le vittime dello spread, le vittime dell’inquinamento. Ogni pretesto è buono per ritenersi vittima di qualcosa e quindi giustificare il cedimento, fosse anche quello di non investire, di non dedicare la forza necessaria a quello che occorre fare, in nome di un agente del negativo, un agente responsabile del cedimento. Ognuno si giustifica, si discolpa, e, se può, scarica le colpe su un altro, su altri. Questo è quanto di più frequente si possa constatare sulla scena politica, economica, civile.
Farsi o credersi vittima è il regolatore dei rapporti sociali. E questa portata del vittimismo va ben oltre quelli che possono identificarsi come casi in cui è riconoscibile l’agente, inteso come carnefice, e l’agente che subisce, inteso come vittima. Basta pensare a chi si ritiene vittima del fatalismo o a chi è vittima dell’abitudine. Ognuno che cede all’abitudine è vittima dell’idea che il tempo si è fermato, vittima dell’idea che c’è una fine del tempo e delle cose. Quindi ognuno, dandosi vittima della tentazione, si dà come debole e questo lo rende bene accetto socialmente; ognuno dandosi come debole, dandosi come ipotetica vittima, è sicuro di essere accettato socialmente, perché verso la vittima occorre che ci sia la più ampia comprensione.
Ecco, la questione che poniamo questa sera con questo dibattito è che invece c’è un’altra tentazione, che non è la tentazione rispetto a cui si tratta di cedere e di prodursi, dunque, come vittima, ma è la tentazione intellettuale, quella tentazione che, dinanzi a ciascun accadimento, a ciascuna cosa che intervenga nel corso della vita, dell’impresa, nel corso delle cose, esige l’indagine, la ricerca, l’analisi per poterla attraversare, articolare, elaborare, valorizzare. La questione è questa in realtà: la questione del valore a cui ciascuna cosa tende, e è un valore che non è in sé, nelle cose, un valore che va acquisito lungo un’elaborazione, lungo una qualificazione senza cedere al pregiudizio, al preconcetto, alla morale vigente, all’ideologia corrente, al luogo comune rispetto a cui quella cosa sarebbe positiva o negativa, in una accezione già data, in un contesto già stabilito, in un’ipotesi di stabilità.
Questo allora comporta la possibilità di cedere rispetto ad ogni accadimento, perché così apre la serie dei fatalismi, positivi o negativi. Se invece interviene il dispositivo di ricerca, d’indagine, di analisi, allora ciascun elemento può divenire elemento di valore e contribuire a ciò che si sta facendo, soprattutto a un’ipotesi di avvenire, senza costituire alibi al cedimento che comporta il fermarsi, l’idea di non essere in grado, di non farcela, di avere bisogno di un aiuto, in quanto rappresentante di un’ideologia, di una genealogia negativa che comporterebbe una necessità di fermarsi.
Ecco quindi che questo libro dal titolo In direzione della cifra. La scienza della parola, l’impresa, la clinica dà proprio un contributo in tale direzione, e per questo noi abbiamo intitolato il dibattito in presentazione del libro “L’impresa intellettuale e la soddisfazione”, perché la soddisfazione procede solamente se è in atto un dispositivo intellettuale in cui il discorso comune, cioè la credenza di essere, la credenza di dover avere per poter fare, di dover sapere per fare, venga elaborata e rilanciata, senza istituire quel soggetto che si pensa, si crede, e magari anche ritiene di sapere di essere qualcosa o qualcuno. Questi sono alcuni elementi, giusto per lanciare il dibattito, per istituire il clima di questa serata, per dar modo a ciascuno di fornire una testimonianza di lettura.
Maria Antonietta Viero È una la testimonianza della prima lettura. Sono prime note, quasi appunti.
Qualcosa irrompe sulla scena della vita. E urge la ricerca. E urge l’indagare. Questione di vita e di morte. È l’accadente. E l’udire ciò che si ascolta in questo accadere volge la chiamata a mettersi in viaggio. Ma dove sta e qual è l’ascolto di ciò che accade? Il tempo non dura, non scorre, non attende. Ritardo o anticipo sono modi di avvertire l’Altro tempo. Il tempo sta dove le cose che si fanno si scrivono ed esigono l’esperienza della parola originaria, l’elaborazione incessante che fornisce formazione e insegnamento.
Questo è il libro di Sergio Dalla Val. Un libro che è testo da leggere e da rileggere, per chi si accosta per la prima volta, e anche per chi ha l’esperienza analitica e cifrematica in corso. Testo di scuola, scuola senza fondamenti, ma scuola di valore e della memoria in atto. Testo inapplicabile. Esige lo sforzo intellettuale, sforzo di astrazione, per fare, leggendo, la propria scrittura. Così chi è curioso e impaziente può trovarsi nella sorpresa di dire: “Questa cosa, questo termine, questo nome, questo significante, per questo verso, in questa accezione, non l’avevo colto, non l’avevo capito…”, abituati come si è a ripetere le cose confezionate e pronte di senso e di sapere come verità. Dove ognuno, anche dicendo “io ascolto”, cerca una conformità di ciò che ascolta con ciò che sa. Ascoltare non è voler ascoltare. Né stare a sentire.
E fischia, senza brusio senza rumore, il treno giunge. Bisogna prenderlo. Al volo. Stravolgendo l’idea di origine: “Da dove vengo?” “Non so più”, “Dove vado?”, “Non so ancora”. La decisione è presa. Per questione di vita, per ragioni di salute, come istanza irrimediabile di qualità. La vita come processo di valorizzazione. E stravolto è il destino di una laurea, che forse un padre vorrebbe per il figlio per garantirlo, perché non interrompa quella linea genealogica e naturale delle cose. Fantasma dell’origine come idea di appartenenza, fantasma di appartenenza, famiglia, ceto, gruppo che, come ceppo al carcerato, blocca il piede; e con l’idea di origine bandito è l’ignoto, il nuovo, e posta è la finalità, il finalismo, i fini che esigono il ritorno, il ritorno all’origine e si traducono in cerchio, dove punto di inizio e punto di fine combaciano. Ma il viaggio della vita è senza ritorno.
E un titolo non basta, non dosa e non targa un lavoro in un posto sociale dove più facile gli giungerebbe il riconoscimento, ma trova Sergio Dalla Val inquieto e non pago a indugiare su quel significante che lo convoca a Milano, al suo primo congresso, “La Follia”. E si chiede: “Quella psicanalisi compromessa com’era con la psichiatria e la psicologia, quale interesse poteva avere per i giovani, le donne, gli studenti, che con il ’68 avevano aperto una breccia culturale e politica e non volevano rientrare nell’ideologia o nella sua radicalizzazione, il terrorismo?”. E Sergio Dalla Val, senza saperlo già prima, era in cammino per divenire protagonista di un progetto e di un programma di vita, cifrante e cifratore, inventore nella città del fare, attraversata dal tempo dell’occorrenza, a Bologna, partito da Conegliano, e poi a Milano, Caracas, New York, Parigi, Tokio.
Quattro anni fa eravamo insieme in Cina, in una delegazione della nostra Fondazione, a inaugurare una mostra di artisti italiani, a costruire e testimoniare sul terreno dell’Altro, con la sua ragione, con il suo diritto, quanto si stava elaborando e facendo. Cosa che esigeva il confronto, che esige l’apertura; le cose procedono dall’apertura. La parola, dicendosi, evidenzia la sua ambiguità intoglibile, spinge in due direzioni differenti, ma come ossimoro consente di lasciare aperta la questione, anziché tentarne la chiusura nella soluzione per tutti.
E “Città del secondo rinascimento” è il titolo della rivista da lui edita e diretta, dove pubblicati sono le interviste e gli scritti di imprenditori, artisti, insegnanti, ricercatori, dove conta il contributo che ciascuno può dare alla civiltà, con un approccio intellettuale alla vita, all’impresa, alla famiglia, all’educazione, per chi non ha davanti a sé l’alternativa fra il bene o il male dell’albero della conoscenza, ma l’avvenire, dove la crisi è incessante, perché il giudizio è del tempo e la crisi che interviene facendo, inevitabile e costruttiva, perché esige l’invenzione senza abitudine.
Non per caso, ma per il suo caso specifico il significante follia irrompe sulla scena del pensiero. Qualcosa spicca e osa, folle il volo. E nel dirsi, funzionando, il significante si divide da sé e lascia che variazione e differenza disegnino il loro tracciato. E nomi e significanti e Altro, combinandosi arbitrariamente, consentono altra lettura. E è così che Dalla Val s’imbatte partecipando all’équipe di traduzione del Malleus Maleficarum, il più grande manuale dell’inquisizione della caccia alle streghe, e coglie come il lapsus non abbia niente a che fare con la materia penale, come invece avevano fatto gli inquisitori, ma è materia linguistica. Si accorge, con l’elaborazione di Freud, che il lapsus evidenzia l’equivoco rilasciato dall’atto di parola parlando.
Un atto complesso, perché, parlando, c’è metafora, metonimia, condensazione, spostamento, c’è sogno e c’è dimenticanza. Parlando, scrive Dalla Val, qualcosa cade, precipita e il lapsus con un equivoco effettua un controsenso, mai stato prima, introduce un riconoscimento inatteso. La caduta non è morale, non diviene fatto, per questo nessuna ricaduta. Dipanare un equivoco comporta un altro equivoco senza penale, perché la comunicazione resta nel malinteso. A scompaginarsi restano semmai volontà e coscienza.
E che ne è del significante follia? È ancora Sergio Dalla Val a darci una traccia dell’elaborazione. Il Malleus mostra che l’esorcismo della follia procede dalla credenza nella possessione. Follia, da follis: pieno d’aria. Ma pieno richiama anche l’altra sua faccia, il vuoto; pieno o vuoto d’aria. Quest’aria che scompiglia carte, foglie, idee, pensieri, trova gli antichi a attribuirla al folletto, al bizzarro, al diverso, al così detto “matto”. E salivano le risa dalle case, dalle corti, dalle vie e divertiva la piazza. E mai nessuno avrebbe pensato d’internarli o imbottirli di farmaci.
Ma un brutto giorno si è deciso che la follia doveva essere messa al bando, lontana da occhi e orecchi disturbati da tanto ardore, fatta indossare dalla camicia di forza e, per cibo, la sostanza dello psicofarmaco, perché sulla città era calata la cappa del luogo comune, perché ognuno avesse la via facile come risposta alla sua domanda, dove ognuno provvedeva alla propria superstizione e tabù, dove ognuno era vittima della sua stessa idea. Dove vigeva l’idea nella credenza del soggetto debole, quindi malato. Una follia attribuita al soggetto, anziché ammettere che ciò che disturba è l’oggetto insituabile e imprendibile e invisibile della parola, parlando.
E importa allora riportare quanto a questo proposito ha scritto Luigi Pirandello “Trovarsi davanti a un pazzo sapete che cosa significa? Trovarsi davanti a uno che vi scrolla dalle fondamenta quanto avete costruito, in voi e attorno a voi la logica, la logica di tutte le vostre costruzioni”. Sano-pazzo, la logica binaria, logica dell’alternativa. Ma pazzo è chi crede di espungerla dalla parola. Modi dell’esorcismo della follia che procede dalla credenza nella possessione. La follia posta a salvaguardia della normalità per rassicurarci. Bisogna allora separarsi dalla follia dell’oggetto rappresentandola in qualcuno, perché possa divenire un aspetto della stessa razionalità sociale.
Un congresso, quello, che è l’annuncio stesso di un’altra psicanalisi che introduceva nella propria elaborazione le istanze più nuove della cultura europea: teatro, linguistica, logica, e altro ancora, ma soprattutto la psicanalisi a partire da Freud. Mettere in gioco le credenze, attraversare le fantasmatiche, articolare i tabù e le superstizioni, franare i luoghi comuni, le convenzioni, i dogmatismi, le vie facili in nome di, è questa l’ironia come questione aperta. L’occasione sono i dispositivi vari, di parola, di scrittura, di lettura, di analisi, l’organizzazione di eventi, i congressi, i convegni, le conferenze. Occorre rischiare.
Il rischio attiene al tempo e all’occorrenza del programma e dissipa la fantasia di padronanza sul tempo ideale. Il rischio è rischio d’impresa, di riuscita. L’inconscio non conosce il fallimento, perché è nell’assoluto senza alternativa. Ricorrente nel libro è come un motto o un aforisma: “la nostra psicanalisi”. Non tanto per sancire una corporazione, ma per dare testimonianza del “nostro” caso di cifra. Cifra vuol dire qualità, dove ciascuno debutti e si trovi a fare cose straordinarie, con gioco, invenzione, ironia, anziché sostenere l’ognuno come caso patologico.
La scommessa è trovare il modo dell’apertura intellettuale, anche, come scrive Sergio Dalla Val, quando la via sembra sbarrata, anche quando sembra che tutto sia stato fatto, detto. Nella casa, nella scuola, nel lavoro, con gli amici, occorre trovare il modo, l’ironia del proseguimento. Quante volte? Ancora una volta, mille e una volta, perché le cose non procedono da quel che è successo, dal passato, ma dal futuro, dall’apertura. Questione di vita e di valore.
Daniela Sturaro Solo dopo più di un anno di analisi inizio a calcolare e a rendermi conto dell’importanza della parola in atto. La parola non imbrigliata nel discorso occidentale che è chiuso nel principio di non contraddizione. Non si tratta semplicemente della parola che cura, della buona parola che giunge a confortare. E’ la parola originaria che non comprende la separazione del bene dal male, che non vuole fare il bene, perché non c’è il male. Ma c’è l’Altro non rappresentabile in quello che conosciamo già. Entro le parentesi chiuse di una gnoseologia a buon mercato, tutti pretendono di sapere ogni cosa di ciò che nella vita accadrà, praticando una padronanza sulle cose che non ammette l’Altro inteso come tempo. Altro come indice del tempo. Il tempo è comunemente pensato come tempo cronologico o come tempo che finisce, con il quale si misurano tutte le cose e se ne decreta la fine o la scadenza in direzione dell’ultimo temibile traguardo della vita.
Per la cifrematica il tempo interviene come taglio, divisione delle cose con l’irrompere della variazione e l’integrazione delle acquisizioni che si producono con l’esperienza. Senza il tempo non c’è variazione e integrazione, ma la spiegazione o l’appiattimento. L’Altro, che si staglia nell’apertura, procede secondo la logica dell’inconscio. Tutt’altro che logica aristotelica chiusa nel cerchio dell’episteme, cioè conoscenza solida e stabile. Il tempo non è stabile e la vita è nel dinamismo. Come pretendere di sapere fermando il tempo e arrestando il gerundio della vita nel suo incessante movimento?
Ma non si tratta di rinunciare al controllo razionale della conoscenza per lasciare spazio al caos. “Il controllo è tipico del sistema chiuso che in nessun modo possiamo riscontrare nella vita. Si tratta invece di abolire il sistema per istituire il dispositivo di parola, dispositivo di vendita, commerciale, artistico, d’impresa, finanziario, di produzione, di scrittura, politico, di direzione, di solidarietà. In ciascun caso, dispositivo di conclusione al piacere intellettuale, mai ordinale, mai alternativo, senza abito da cambiare o divisa da servire”, come scrive Sergio Dalla Val a pagina 246 del suo libro In direzione della cifra.
Come accettare di passare la vita nel continuo tentativo di allontanare il male, nel timore di incontrare il male che nostro malgrado ci può colpire? In ossequio alla logica dell’aut-aut, l’alternativa irriducibile per cui il male esclude il bene o viceversa? Perfino nel luogo comune troviamo modi di dire che contravvengono a questa forzatura. Si dice infatti: “non tutto il male viene per nuocere”. Ma detto così suona come speranza che un giorno, da quello che si considera in prima battuta il male, possa derivare un bene inaspettato. Gli umani sono sempre stati così ossessionati dal pensiero del bene e del male antitetici da ardire di attribuire, oltre che il loro aspetto, anche i loro pensieri a Dio, designandolo quale giudice supremo che assegnerà la giusta punizione ai malvagi e il tanto sospirato premio ai giusti. “Solo che tu guardi con i tuoi occhi, vedrai il castigo degli empi” recita il salmo 91 al versetto 8.
Ma è questa la giustizia cui allude Gesù Cristo quando dice: “Beati coloro che hanno fame e sete di giustizia perché saranno saziati”? in Matteo 5,6. O non si tratta invece di brama di vendetta da vedere applicata dall’ente supremo? Se Dio è nella nostra vita, allora opera affinché ciò che si fa non rimanga lettera morta, ma, per via della parola originaria, il fare approdi alla cifra, attraversando il ragionamento, l’indagine, l’analisi. Perché, se analizzo il mio supposto male o quello che attribuisco all’Altro, infinite sono le sfaccettature, le pieghe, le sfumature e solo leggendo e scrivendo si giunge al registro intellettuale, che toglie peso alle cose con l’immunità.
L’intellettualità, che non riconosce il segno positivo o negativo a ciò che si fa affermandolo o negandolo, ma andando oltre e puntando al valore. Ricercando il valore delle cose si giunge all’impresa intellettuale e alla soddisfazione. Sono giunta alla formulazione di queste notazioni avvalendomi della lettura dell’interessantissimo libro di Sergio Dalla Val, In direzione della cifra. La scienza della parola,l’impresa, la clinica, che fornisce chiarimenti su come la vita di ciascuno entra nella parola e molto altro ancora.
Fernanda Novaretti La lettura del libro di Sergio Dalla Val mi ha suscitato curiosità e interesse, per il rigore della sua elaborazione e il linguaggio semplice dell’esposizione, e perché emerge una scrittura che è frutto della sua esperienza e ricerca di oltre trent’anni. Nel libro ci sono vari aspetti clinici che mi hanno evocato alcune riflessioni.
Intraprendere l’itinerario analitico consente una differente lettura di ciò che si costituisce o appare come ostacolo; lungo il racconto e con l’intervento di lapsus e equivoci si dissolve l’idea di padronanza, di poter padroneggiare le cose, di poter aggirare l’ostacolo. “Io non riesco a fare questo” o “Più di così non riesco a fare, è sempre stato così!”. Questi enunciati sottolineano una supposta conoscenza e l’idea di se stessi come soggetti limitati, con il peso dei ricordi che costituiscono il fondamento e impediscono le cose che sono da farsi. Scrive Dalla Val: “Il fantasma di padronanza poggia sulla ricerca della propria origine e sulla genealogia” e ancora: “Cercare l’origine impedisce idealmente l’attuale, il contingente, il divenire” (pag. 65) e sempre nel testo a pag. 113: “Il ricordo vuole fondare la memoria sul detto, il fatto, il saputo”.
Ma esiste il già detto, il già fatto, il già saputo nel racconto? Come lasciare il bagaglio dei ricordi che non consente il divenire? Come superare la paura? “Ho già raccontato questa cosa, questa cosa l’ho già detta!”. Tra quel che si vorrebbe dire e ciò che si dice interviene il taglio, la differenza, per l’intervento del tempo, e quindi l’intendimento. Nell’analisi, parlando, il materiale del racconto si precisa e consente l’articolazione delle diverse fantasmatiche che se non dissipate costituiscono il soggetto. Scrive l’autore a pag. 58: “Di cosa si tratta nell’analisi, se non di dissipare ogni assunzione d’identità e ogni rappresentazione di sé o dell’Altro, di cessare di mimetizzarsi e di rispecchiarsi in ogni cosa?”.
L’analisi non avviene senza lo sforzo intellettuale, esige l’attraversamento dei luoghi comuni che sono il fondamento del soggetto che presuma di sapere, esige la ricerca in direzione della qualità, della valorizzazione, della soddisfazione. Il fare, come l’organizzazione di questa serata e di tanti appuntamenti organizzati dall’Associazione cifrematica, si avvale dell’analisi; sono occasioni di elaborazione e di attraversamento delle difficoltà. La difficoltà non è più un alibi per l’immobilismo.
Il fare comporta il “come” e introduce alla questione intellettuale, la questione del valore: cioè come giungere alla qualità delle cose che si fanno.
Sabrina Resoli Esperienza cifrematica, esperienza intellettuale, ossia del cervello in atto, del ragionamento in atto, che si avvale di dispositivi per il ragionamento, dispositivi di conversazione, associativi, redazionali, organizzativi che tolgono dal solipsismo, dal girare in tondo, dal rimuginio tra sé e sé; soprattutto tolgono dall’idea di sé, e – nel varco che si produce da questo toglimento – qualcosa accade, con effetti di senso, sapere, verità. Esperienza dello scarto e dell’abbandono. Trovandomi a collaborare alla diffusione dei manifesti che segnalano il dibattito con Dalla Val, mi accorgo del mio nome scritto tra quello di altri che interverranno e, accanto al nome, il significante “ricercatrice”.
Lì per lì penso si tratti di dare testimonianza della ricerca in corso, in qualche modo di indicare per quale via ci sia titolo a che quel significante sia accostato a quel nome. Così, in prima battuta, sembrerebbe trattarsi di giustificare quel significante, spiegandolo, e dimostrando che, sì, è appropriato, oppure di giustificare il nome, significandolo, in un impeto Schreberiano. Ma qui lo scarto: il nome non è mio, il nome non mi rappresenta, né io ho da rappresentare il nome, “io” non è il soggetto genealogico. Quel nome che non mi appartiene è in una combinazione e entra in una combinatoria che ha implicazioni inedite, da trovare. In questo scarto si introduce la libertà, che nell’esperienza cifrematica si precisa come libertà della parola. Non la libertà soggettiva, libertà di fare o non fare, ma la libertà di ciascuna cosa che entra nel viaggio di rivolgersi alla qualificazione.
Per via di libertà si instaura l’occorrenza e il fare non è ostaggio della volontà. E, facendo secondo l’occorrenza, è constatabile l’abbandono. Il fare esige l’abbandono della rappresentazione di sé, delle cose, dell’Altro e soprattutto l’abbandono all’abitudine e all’affezione a queste rappresentazioni. Ma, come scrive Dalla Val a pagina 121, è abbandono intransitivo, a cui allude il Vangelo di Marco: “Chiunque avrà lasciato case o fratelli, o sorelle, o padre o madre o figli o campi per il mio nome riceverà cento volte tanto.”. Qui, le case, i fratelli, i figli sono da intendere come la rappresentazione dell’idea di legame, dell’idea di origine, dell’idea di genealogia.
Ho particolarmente apprezzato questa citazione, perché questo passo del Vangelo mi è tornato spesso alla mente nel corso dell’esperienza cifrematica, ciascuna volta in cui ne ho avvertito la portata. L’esperienza cifrematica infatti, espone all’estremismo delle cose, alla loro radicalità, all’impossibile mediazione o compromesso col discorso comune. Estremismo delle cose, come dire estremismo dell’esigenza di qualità e specificità, dell’esigenza irriducibile di reperire lungo il viaggio quel cibo che – citando Machiavelli – “solum è mio”, estremismo dell’istanza di vita e di salute.
Ruggero Chinaglia Allora a questo punto ascoltiamo cosa ci racconta Sergio Dalla Val in questo libro; libro in cui intervengono elementi del suo itinerario, elementi della sua formazione, istruzione, dei suoi studi scolastici, universitari, ma che trovano un rilancio, un’integrazione attraverso le acquisizioni che si sono prodotte attraverso l’esperienza analitica e clinica e, sopra tutto occorre dire, con la sua esperienza d’imprenditore. Si avverte che ciò che scrive è frutto dell’esperienza, è scrittura dell’esperienza. Io trovo che alcune delle pagine più belle di questo libro sono quelle in cui racconta elementi della sua impresa. Ricordo che, come già notava Maria Antonietta Viero, Sergio Dalla Val dirige a Bologna una “Libreria-Galleria del Secondo Rinascimento” da vari anni, dirige una rivista “La città del Secondo Rinascimento”, che in tutti questi anni ha contribuito alla Casa editrice Spirali, dirigendone anche una collana. E quindi l’intersezione tra l’imprenditoria e intellettualità è qualcosa di assolutamente nuovo e specifico di questa sua esperienza, quindi gli passo la parola.
Sergio Dalla Val Ringrazio l’equipe di Padova, Ruggero Chinaglia, Maria Antonietta Viero. È sempre una bella cosa per me recarmi qui a Padova, per incontrare così tante persone attente e interessate, curiose. È una cosa rara, oggi. Ringrazio anche voi che siete qui, numerosi, per sentire questa testimonianza. Il significante direzione, come è stato notato nel titolo del libro, In direzione della cifra, allude al viaggio, e in effetti intervengono in questo libro alcuni termini del mio viaggio, del mio itinerario. Trentacinque anni di psicanalisi, di cifrematica, di ricerca e di impresa, di teoria e di scrittura, di scommessa e di rischio col Movimento Freudiano Internazionale, con la Casa editrice Spirali e la rivista “La città del secondo rinascimento”, viaggio nel labirinto della ricerca, nei giardini dell’impresa e nelle galassie della scrittura. Viaggio nell’infinito della parola di cui mi occupo ciascun giorno da trentacinque anni, quindici ore al giorno, con dispositivi differenti e vari: le conversazioni, l’impresa, le riunioni, l’equipe, la banca i vari aspetti che toccano una vita che si qualifica, non per un essere e per un avere, come notava qualcuno prima, ma per il fare, per il fare nella parola e con la parola.
Questo libro ha richiesto dieci anni di ricerca, dieci mesi per la stesura, e tre anni di editing con i colleghi della casa editrice Spirali, con Armando Verdiglione editore e cifrante. È stata un’esperienza straordinaria perché solitamente gli editori impongono il criterio della facilità e chiedono che si scriva di cose concrete e legate al presente e, invece, grazie anche all’apporto di Verdiglione, si è trattato di entrare nella difficoltà, di non abbandonare l’astrazione e di tenere conto dell’avvenire. Questo libro si divide in due parti: la prima “La nostra psicanalisi”, la seconda “La cifrematica, scienza della vita”. Nella prima parte sono indicati alcuni elementi, come è sorta la nostra esperienza, la nostra pratica clinica, la nostra pratica editoriale, si discutono i termini che facevano parte del bagaglio dell’epoca, da trentacinque anni fa in poi, i termini psicanalitici della storia del movimento psicanalitico che vengono ripresi, come qualcuno notava, in altro modo.
Nella seconda parte dal titolo La cifrematica, scienza della vita, si testimonia come questa esperienza, come appunto quest’altra psicanalisi (allora si trattava già di un’altra psicanalisi che aveva come base non il discorso ma la parola) è giunta a stabilirsi come cifrematica, come scienza della parola che diviene qualità, e come questa scienza della parola trova in vari ambiti, tra cui l’impresa, la scrittura, la vendita, la finanza, l’economia, l’opportunità di indicare termini, modi e misure nuove, non tanto per una applicazione, perché la cifrematica non è una scienza applicativa come lo sono le altre scienze. Qui non si tratta di applicare niente, si tratta di vivere. La psicanalisi è un’esperienza di vita, non un’applicazione.
Questo è assolutamente importante, perché è la condizione per cui non divenga un ultimo sapere, un sapere magari più forte, più preparato, più dotto, ma appunto più segregativo, più paralizzante, più ostile all’invenzione. Qualcuno ha detto che questo libro giunge alla semplicità. È una cosa che mi fa molto piacere, perché altri, invece, hanno sottolineato in altre presentazioni che si tratta di un libro difficile. Però io penso che questa difficoltà e questa semplicità non siano alternative, nel senso che c’è un aspetto della parola che è la questione della difficoltà. Questo aspetto rende conto del fatto che, parlando, niente nella parola è facile; le cose sono facili o sembrano facili solo se crediamo di conoscerle, se le banalizziamo, se le sottoponiamo idealmente, perché sfuggono alla nostra facoltà (facoltà, facilità hanno lo stesso etimo) se restano nel già saputo e nel già vissuto.
Allora tutto ci sembra facile e comprensibile, però è proprio il momento in cui tutto diventa più difficile, perché così tutto si appiattisce, poco si fa e niente s’intende, soprattutto dell’invenzione e della novità che sta attraversando il pianeta e che ciascun giorno, volenti o nolenti, attraversa la nostra vita; in effetti, la difficoltà contrassegna quel che incomincia, quel che non abbiamo e quel che non siamo. Facile è sopravvivere, vivere in modo scontato o ordinario; incominciare a vivere non avviene senza difficoltà. La difficoltà è nell’incominciamento, nell’aumento, nella crescita e è facile, invece, non cominciare, non aumentare, non crescere, non aggiungere. È difficile una cosa nuova.
Quando voi trovate qualche cosa di difficile, non lasciatela perdere, perché è lì che qualcosa può incominciare, può trovare un’altra via, affrontate la difficoltà, non rifuggiamola, non evitiamola. Quando c’è la difficoltà, sicuramente c’è qualcosa che per noi non è già saputo, che per noi non è già comune, e allora proprio per questo può rivelarsi qualcosa che è prossimo a una risorsa, qualche cosa che avvia un cammino differente e vario. In questo senso, vivere non va senza difficoltà, e la vita, diversamente dalla sopravvivenza, non è una cosa comune. Scriveva Oscar Wilde:“Vivere è la cosa più rara del mondo, i più esistono e basta”. Dicevamo che vivere non è sopravvivere, e in effetti sopravvivere vuol dire scampare a un rischio di morte.
Oggi questa parola sembra ritornare molto di moda, si parla di sopravvivere alla crisi, di sopravvivere al terremoto, scampare, cavarsela. Ma sopravvivere è anche vivere sopra, cioè aver bisogno di qualcosa su cui poggiare la vita, che valga a sostenerla, a motivarla, come la sostanza, che, guarda caso, è proprio ciò che è immaginato (si chiama così, sub-stare, cioè stare sotto) stare sotto alle cose per aiutarci, per sostenerci. La questione è che in questo modo tutto può divenire sostanza, se deve servire a sopravvivere, anziché a vivere, se deve servire a giustificare, supportare, delimitare, padroneggiare, per cui la famiglia può diventare una sostanza perché è ciò che ci dà degli alibi. Anche lo sport può diventare una sostanza nella misura in cui ci dà il modo di non pensare, la scuola, così ciascuna cosa può diventare una sostanza.
La scommessa di questo libro è che, invece, non ci sia cosa che sia una sostanza, cioè che ciascuna cosa, anche la più ovvia, la più conosciuta, possa trovare un altro statuto, un altro modo per dare un apporto alla nostra vita, senza partecipare alla logica della giustificazione, alla logica della normalizzazione, alla logica del conforto che sono quelle con cui ciascuno tira a campare, sopravvive. Anche le cose presunte negative, come notava in qualche modo Ruggero Chinaglia, vengono prese come sostanza. Ad esempio la crisi, il terremoto sono tutte cose che vengono considerate sfavorevoli e vengono prese come giustificazioni: giustificazioni per non pensare, per non fare, per non scrivere.
Allora ci sono delle sostanze che servono a pensare, a fare, a scrivere, e ci sono le sostanze che servono a non pensare, a non fare, a non scrivere, a non intraprendere; ci sono le sostanze euforizzanti e le sostanze deprimenti, possono chiamarsi farmaci, possono chiamarsi droghe, ma la questione è sempre la stessa: devono giustificare, devono stare sotto, devono supportare, sostenere, aiutare. Allora, la questione è che invece ciascuna cosa, ciascuna circostanza, anche la più sfavorevole, non deve giustificare o portare alibi, ma è una opportunità perché si avvii una procedura in direzione della riuscita, in direzione della qualità. Come avviene questo? Avviene quando qualcosa entra in una procedura di integrazione che nulla esclude o unifica. Noi quando parliamo d’integrazione pensiamo a qualcosa che unifichi, integrare viene inteso come unificare. No. Integrare vuol dire non escludere, vuol dire lasciare la questione aperta. L’integrazione non è una questione semplice.
Negli anni settanta, al liceo, avevo fondato con alcuni amici un cineforum, organizzato per incontri culturali, gite per mostre. All’università, nella seconda parte degli anni settanta, suonavo in una band di musica contemporanea, seguivo concerti jazz, partecipavo alle battaglie studentesche del ’77, leggevo e volevo applicare Marx e Marcuse, Deleuze e Nietzsche per trovare qualcosa che cambiasse il mondo. Ero un militante ma non un operaista, pensavo che la rivoluzione sarebbe stata culturale e non proletaria, insomma credevo che non con le bombe o con la canna del fucile, come diceva Mao Zedong, ma con le idee avrei potuto cambiare il mondo. Venivo definito un intellettuale, che era una colpa a quei tempi, in cui potevi parlare solo se avevi lavorato almeno d’estate in fabbrica, perché era il luogo della verità. Criticato in piazza perché ero un intellettuale, non andava meglio in famiglia, dove i genitori, anche se orgogliosi di quello che facevo, dicevano: “Fai pure, quando avrai finito di studiare dovrai guadagnare, accettare il sistema che combatti. Come professionista dovrai vivere al soldo delle imprese che ora vorresti distruggere”.
In entrambi i casi, nella piazza e nella casa, cosa veniva escluso? Cosa non veniva inteso di quello che facevo? Veniva esclusa l’integrazione, e in particolare l’integrazione tra intellettualità e guadagno. Cultura e guadagno erano considerati alternativi. Nell’ideologia economica, nel senso dell’economia famigliare, la cultura era rifiutata, come perdita di tempo, come modo per non guadagnare; nel mondo politico, la cultura doveva essere sottoposta all’ideologia: o serve alla finalità del partito oppure non serve. L’intellettuale doveva essere impegnato nel sociale, quindi organico al partito, esserne al servizio, anzi, se non eri impegnato o organico, non eri intellettuale. La definizione, qui veniamo al titolo della serata, la definizione di intellettuale a quell’epoca dipendeva dalla politica, e quella politica e quella cultura, come venivano considerate allora la politica e la cultura, erano alternative all’impresa.
Ma parlare d’impresa intellettuale può sembrare anche oggi un ossimoro, perché, appunto, sembra che quello che fanno gli imprenditori sia meramente alla ricerca del profitto, sia lontanissimo dall’intellettualità, e ciò che fanno gli intellettuali, almeno come quelli che ci si immaginava una volta, sembra aborrire la logica del profitto, per cui sembra un ossimoro. Allora, come combinare questi termini tra impresa e intellettualità? Questa è stata la mia scommessa, e devo ringraziare Armando Verdiglione, la cifrematica perché ho colto che si trattava proprio di questo in questa esperienza, in questo senso “esperienza secondo rinascimentale”.
Il rinascimento è proprio la combinazione tra le culture, tra impresa e industria, tra scienza e finanza, cioè non c’è più questa dicotomia, questa logica dell’esclusiva, questa logica alternativa che impedisce l’integrazione delle cose, e ciascuno si trova a vivere nella divisione, si trova a vivere senza la divisione del lavoro o la divisione sociale, che giustamente Marx critica, ma rispetto a cui non riesce a trovare il bandolo, perché non è con un rovesciamento, passando da una classe all’altra che si vanifica questa rappresentazione della divisione, che poi cercheremo di capire di cosa si tratta, questa divisione che viene intesa come alternativa esclusiva. Allora che cosa qualifica l’intellettuale rispetto all’ideologia che non tiene più? Tant’è che c’è chi dice che gli intellettuali sono finiti, perché a che cosa servono?
Oggi comanda la finanza, comanda l’impresa, comandano i grossi gruppi editoriali; oggi che lo sdegno è affidato a Internet, ma diventa facile protesta, spesso diventa solo anti: anti-politica, anti-cultura, anti-industria, allora l’intellettuale non c’è più. Certo non c’è più questo tipo d’intellettuale, l’intellettuale organico, l’intellettuale impegnato. Ma l’intellettuale, l’intellettualità, come intenderla? Allora io credo che in qualche modo l’abbiamo già detto. Per esempio, l’intellettuale è tutto ciò che non ha bisogno di sostanza. Certamente il riferimento alla sostanza non è intellettuale; chi si appella al realismo della sostanza, al realismo di tutto ciò che crede sostanziale, per fare o per non fare, per giustificare il proprio fare e il non fare, non è intellettuale.
L’intellettualità comporta una vita in assenza di giustificazione, in assenza di possibilità di scelta e di alternativa tra il fare e il non fare, tra il pensare e il non pensare, tra il vivere e il non vivere. E ancora, abbiamo detto, assenza di sostanza, ma anche assenza di alternativa. L’alternativa oggi si presenta in molti modi, buono o cattivo, giusto o sbagliato, male o bene, e tutti gli intellettuali cosiddetti ci dicono che cosa è male, dove sta il male nel mondo, e insistono su questo male e si propongono come salvatori, come coloro che ci indicano il bene. C’è questo bene costantemente posto come economia del male, il male impera ma alla fine il bene trionferà, ce lo dicono tutti, dal presidente della repubblica ai rappresentanti della politica.
Ma tutto questo, giustamente Maria Antonietta Viero ha ricordato la mia lettura di una parte del testo Il martello delle streghe, è lo stesso progetto degli inquisitori. Da sempre gli inquisitori, se voi leggete Il martello delle streghe, un testo orripilante scritto da due domenicani che hanno bruciato diecimila donne, vedevano il male dappertutto: ci sono i terremoti, i problemi, non si fanno figli, le donne non si riescono più a tenere a bada, crollano le imprese, e allora c’è il male dappertutto. E cosa, allora, occorre? Occorre trovare i responsabili e riportare il bene, a qualunque costo, anche se questo comporta un processo, una condanna, comporta un’inquisizione della mente, come del resto sta succedendo in Italia, e sempre nel nome della salvezza.
Oggi, poi, abbiamo i salvatori della patria per eccellenza, che sono la guardia di finanza, Equitalia che in nome della salvezza dell’Italia la stanno letteralmente devastando, come ciascuno di voi può accorgersi se si occupa d’impresa, soprattutto se si occupa della propria vita, se fa della propria vita un’impresa, cioè se non si accontenta, se osa, se rischia. Troverà le pastoie della burocrazia, troverà le accuse del luogo comune, troverà un intero apparato costituito sul fatto che è impossibile fare se non ci si attiene a determinati parametri, se non ci si attiene a determinati criteri. Voi sapete che le ultime disposizioni fiscale stabiliscono che è considerato evasione fiscale anche il tentativo di pagare meno soldi al fisco di quelli che sono comunemente considerati da pagare. Se si era già andati vicini col concetto di elusione (ma non è evasione, noi diciamo con intelligenza, senza evadere le norme, diciamo che ha dato meno tasse allo stato. Si chiama elusione, non evasione e è punibile), adesso addirittura c’è questa cosa qui.
Ma la questione è che, non dico che non si deve pagare le tasse, la questione è che in questo modo il rischio d’impresa non è più il rischio della riuscita, ma il rischio di dover affrontare processi, condanne, controlli e soprattutto il tribunale più tipico della nostra epoca che è il tribunale mediatico, il quale condanna a piè sospinto. Allora, ecco questa esigenza di libertà di parola che porta alla cifrematica, di libertà di ricerca, di libertà d’impresa. E chiaramente nella ricerca e nell’impresa le cose non sono mai stabilite prima, si trovano in una invenzione incessante e non è possibile che ciascuna cosa che non corrisponda a quello che è stato stabilito prima, venga considerata da esorcizzare.
Un altro aspetto da considerare è che è stata stabilita una normativa che dice che gli avvocati, i quali oggi fanno delle cause che vanno in direzione differente da quello che finora è l’orientamento giurisprudenziale, sono passabili di provvedimenti disciplinari. Cosa vuol dire questo? Che se voi tentate un’interpretazione nuova, un qualcosa che va al di là degli schemi usuali, siete passibili di condanna, di provvedimenti disciplinari, perché, si dice, volete fare perdere tempo. In nome di che cosa? In nome del principio del risparmio, in nome del principio del bene, perché, dicono fate perdere tempo, fate perdere soldi, senza mai indagare se per caso chi si trova ad inventare un nuovo motivo dell’impresa, un nuovo modo di organizzarsi fiscalmente, organizzativamente, giuridicamente non sta proponendo qualcosa d’interessante.
Dicevo, l’intellettualità. L’intellettuale è anche quel che si trova nella ricerca, quel che si trova nell’invenzione, è quel che non resta nel luogo comune, nel senso comune. Perché questo è importante? È importante perché il problema del luogo comune, del senso comune e del sapere comune, è che non è inventivo, perché non si attiene all’istanza del tempo, è sempre riferito al tempo passato, manca l’invenzione. L’invenzione va in direzione dell’avvenire, la conservazione si attiene al presunto passato. Allora la questione essenziale, invece, che aveva già posto la psicanalisi, ma essenzialmente la cifrematica, è la questione del tempo, è la questione del divenire, dell’avvenire e nulla accade se ci si attiene al già saputo, al già vissuto, al già conosciuto, al già fatto. Invece, appunto, ci sono vari apparati tra cui la scuola che vivono del già vissuto, del già saputo, del già fatto, del già detto, insomma non vivono. Loro si occupano del vissuto e non del vivere.
Maria Antonietta Viero diceva che il tempo non passa e non scorre. Sembra un’affermazione strana, invece è una affermazione intellettuale. Poniamo che il tempo passi. Se il tempo passasse esisterebbe il frutto di ciò che passa, cioè il passato, ma se esiste il passato, se ognuno si attiene al passato, è evidente che il passato sarebbe un pregiudizio nei confronti dell’avvenire: chi giudica a partire dal passato, chi fa a partire dal passato manca l’opportunità d’intendere l’avvenire. Perché ognuno non intende l’avvenire? Perché lo esplora con il ricordo del passato. Allora, il tempo esige il vivere, non il vissuto, esige il passo, non il passato. Poi Viero diceva: il tempo non scorre. Appunto, se esistesse il tempo che scorre, potremmo dire: la scorsa giornata, lo scorsa settimana, lo scorso mese. Ora, se noi ci fondiamo su ciò che è scorso, come facciamo a intendere ciò che ancora non è né passato né scorso perché è avvenire? Come possiamo progettare, rinnovare, introdurre altri termini, altri modi essenziali in questo tempo, in questo tempo in cui, giustamente, ognuno non ne può più di come vanno le cose?
Allora ciascuno è interessato a un altro tempo, il tempo dell’invenzione, il tempo della scrittura, il tempo della variazione, allora intellettuale è chi non si attiene al presente o al passato o al vissuto, ma, appunto, all’avvenire. Quindi, in questo senso, il titolo di questo libro In direzione della cifra si può intendere anche come in direzione dell’avvenire, cioè in direzione di quello che ciascuno ignora, in direzione di quello che non può trovare la sua ragione, il suo giudizio, la sua valutazione nel ricordo, semmai nella memoria. La memoria non è il ricordo. La memoria è, semmai, il modo d’intendere quello che noi credevamo ricordo, ma in direzione dell’avvenire, e questo è quello che avviene nella conversazione analitica. Non è che con la cifrematica prima si stava male, prima c’erano le cose cattive, poi si fanno le cose buone, prima si stava male e poi si sta bene.
La questione è che, parlando, indagando, intendendo la lezione, cioè la lettura, ciascuna cosa, ciascuna circostanza può divenire una chance per l’avvenire, può trovare i termini della riuscita, anche ciò che ci fa paura. Noi non dobbiamo fuggire dalla paura, noi dobbiamo affrontare la paura, perché la paura è una spia, è una sentinella non di ciò che non dobbiamo fare, ma di ciò che occorre indagare, attraversare. Tutto ciò che ci fa paura forse porta degli elementi di novità, assolutamente da indagare. Poi qualcuno mi chiedeva, Dalle Fratte, sulla malattia. Anche la malattia rientrerebbe come figura del male “Tu prima stavi bene e adesso stai male a causa della malattia”, però se noi andiamo a indagare questa malattia, questo male aptus, malato vuol dire non adattato bene, che non si adatta. Se noi consideriamo la malattia non nei termini dello stare bene o dello stare male, ma come il fatto che a un certo punto qualche cosa di un adattarsi, di un adattamento, di una armonia viene meno, forse possiamo indagare le ragioni che sono in ballo in questo caso e allora, le ragioni della malattia, se indagate, diventano ragioni di salute.
Se invece la malattia viene considerata male, viene negata, viene respinta, chiaramente noi viviamo di farmaci contro la malattia. Questo è assolutamente importante, tant’è che nel Vangelo c’è una formulazione, poi ripresa da Kierkegaard, che dice “Questa è una malattia non per la morte” e Kierkegaard si chiede: “Esiste una malattia non per la morte?” perché qui, invece, la malattia sembra sempre l’anticamera della morte, soprattutto quelle che vengono chiamate malattie incurabili. Se c’è una malattia incurabile si blocca tutto, è già morto. No. Non è morto, per nulla. Malattia incurabile? Bene, cominciamo una battaglia, perché la cura non vuol dire torniamo a star bene, la cura non è la vittoria del bene sul male, la cura è avviare le procedure, i dispositivi perché venga mantenuta l’istanza della salute. La salute non è lo stare bene ma è un’istanza, cioè si tratta di un qualcosa che riguarda una tensione.
Come scrivo nel libro la salute è un’istanza. Intendo dire che non è qualche cosa che si detiene o che si può perdere, è un qualche cosa che in ciascun istante occorre assicurare e mettere in gioco, altrimenti c’è l’alternativa bene-male. Allora il tempo è essenziale, viene avvertito anch’esso, molto spesso, come male. Pensiamo per esempio alla malattia che avvia un altro tempo, pensiamo allo stesso terremoto. Quando siamo stati al congresso a Tokio, la terra tremava spesso, non c’era nessun problema, c’erano le costruzioni antisismiche. Un giovane giapponese ci diceva: “Se non viene il terremoto, io mi suicido”. È interessantissima come formulazione. Che cosa ci dice il terremoto? Ci dice che le cose non sono ferme, che le cose non sono stabili, nemmeno la terra che per definizione è terraferma, è piatta, piana, senza squarcio, senza piega, senza divisione; il terremoto ci ricorda che non è piana, che non è senza divisione, non è senza piega, non è senza taglio, non è senza setta.
Mi diceva un geologo che la setta di questa faglia, ed è curioso che la chiamino setta, si sta muovendo in qualche modo nella pianura padana. Si chiama setta, ma setta vuol dire sezione, vuol dire taglio, per cui, il tempo, il taglio, in greco temno. Allora questo giovane diceva “Se non viene il terremoto mi suicido”, ovvero possiamo intenderlo nel senso che se non interviene il tempo con il suo taglio, con il suo ritmo, con la sua scansione “Non posso che suicidarmi”. Cosa vuol dire “mi suicido?” Io mi sto occupando anche con Confartigianato di un centro di ascolto per i problemi degli imprenditori che a Bologna come altrove rischiano in questo periodo il suicidio.
Lo stesso suicidio ci porta nell’etimo qualcosa, questo taglio, questa cesura che viene attribuita al sé, il taglio attribuito al sé. Chiaramente, il taglio attribuito al sé non è interessante, perché il sé non può essere diviso, il sé è l’oggetto. Già nell’Introduzione al narcisismo, Freud parla dell’io che è un oggetto indivisibile, e allora il sé è proprio l’indivisibilità dell’individuo. Quando noi parliamo di individuo non diciamo altro che non divisibile, individuo vuol dire non divisibile, e ciascuno in quanto individuo, in quanto non massa, in quanto non soggetto, in quanto non insieme, in quanto non sistema, è individuo, cioè non è divisibile, non è l’io diviso, non è l’io scisso, non è l’io spaccato.
Il termine latino individuum traduce il termine greco atomo, non divisibile; allora ciascuno è atomo, ciascuno è individuo. Il problema del suicidio è che questo tempo negato, non avvertito, non ammesso, viene assunto dall’individuo, e ecco, qualcosa che si spacca, qualcosa che si divide, qualcosa che si taglia, e allora il suicidio: darsi il taglio, la possibilità che il taglio colpisca il sé. Ma io intendo, anche nella testimonianza di questi imprenditori, questa questione che oggi noi non possiamo giustificare. L’analista non giustifica mai nulla, dicevamo prima, è il compito dello psicofarmaco giustificare le cose, però noi possiamo intenderla. Possiamo intendere proprio quando sembra che non ci sia più il tempo, non ci sia più il ritmo, non ci sia più l’Altro, non ci siano più dei dispositivi di parola.
Oggi la politica, la burocrazia, la magistratura, il giornalismo sembrano togliere il tempo, sembrano togliere l’Altro, sembrano togliere l’avvenire, sembrano togliere i dispositivi; allora è facile credere che il suicidio sia una soluzione, ma non lo è, o meglio, nemmeno il suicidio riesce a essere una soluzione. Lacan diceva che il suicidio è l’unico atto riuscito, ebbene nemmeno il suicidio è un atto riuscito, nemmeno il suicidio può realizzare l’idea che finalmente non ci sia più tempo, che finalmente non ci sia più resto, che finalmente possiamo essere padroni della nostra vita, delle nostre cose: la parola non è padroneggiabile, questa è l’intellettualità. L’intellettualità esige l’umiltà non la padronanza delle cose. Ma allora qual è l’impresa intellettuale?
L’impresa intellettuale è l’impresa che si attiene a questi criteri, è certamente l’impresa che si occupa dell’editoria, che si occupa di produzione, di arte, di scienza, di film cosa che è la Casa editrice Spirali Edizioni, ma è soprattutto impresa che non si attiene all’ipotesi che le cose possano finire, che il tempo possa finire, che l’Altro possa finire, che la storia possa finire. Per questo l’impresa intellettuale è un’impresa che non aspetta che la crisi finisca. Perché anche la crisi, come ciascuna cosa, non finisce, soprattutto se la crisi, come diceva giustamente Maria Antonietta Viero, è il giudizio, crino, in greco, giudizio, per cui ciascuna cosa è sottoposta a giudizio. C’è chi dice: “Andavo così bene, poi l’azienda è entrata in crisi”, bene, così cominciamo a discuterne, a parlarne, vediamo se magari non c’era una rappresentazione, una facilità, una facoltà, se non ti eri seduto, tranquillizzato, se non ti eri accontentato, se per caso avevi negato la base dell’apparato psichico, che è la pulsione, che è quest’istanza, questa forza incessante di cui parla Freud, e che giustamente Machiavelli chiamava virtù.
Certo, la crisi presente, quella non è interessante. La crisi presente, in fondo, si sta dissipando; il problema non è la crisi, il problema è che ci sono dei gruppi di potere ben precisi che vogliono che vincano determinate situazioni e non altre, che vogliono ancora una volta che il nord trionfi sul sud, che la burocrazia trionfi sulla scienza, sull’arte e sull’invenzione, che il concetto, come diceva qualcuno prima, trionfi sulla parola. Che cos’è il concetto? Il concetto è ciò che può essere preso con la mano: cum capio, “afferra il concetto, ho afferrato, ho capito, ho il concetto ben chiaro”. Non hai capito niente, sei in piena allucinazione, sei in un lapsus incredibile, anzi hai la chance di trovare il lapsus, perché nulla è concepibile, nulla è concettuale, allora qui è il problema.
Il numero, si dice “lo scontro tra i numeri e la parola”. No. Il numero sta nella parola, il numero non è indiscutibile, il numero non è l’algebra indiscutibile, non è il conto che torna, non è il calcolo già fatto, ma è sempre da ascoltare, da intendere, da leggere, non è uno più uno. Il numero è la logica stessa dell’inconscio, noi non conosciamo il numero, il numero non possiamo manipolarlo, non possiamo sapere cos’è o cosa non è. Quelli che noi chiamiamo numeri sono delle rappresentazioni di questo numero, e dunque possono essere elaborate, intese. “Ho tanti soldi, ho pochi soldi”, chi lo dice se sono tanti, se sono pochi? Nel libro c’è tutto un capitolo dedicato all’economia, alla finanza, al debito, al credito, i soldi, il denaro che io cerco di elaborare, grazie anche all’elaborazione del movimento cifrematico in tutti questi anni di ricerca, con l’apporto di Armando Verdiglione e di tanti altri amici.
Cerco di elaborare in un altro modo, in modo che non sia concepibile, che non sia afferrabile, perché le cose sfuggono agli umani, e questo è ciò che prova l’inconscio. Allora questa impresa intellettuale non è un’impresa campata per aria, non è un’impresa degli idealisti, non è l’impresa dei realisti. Questa libreria che io dirigo, è sempre lì che non riesce a raggiungere quello che chiamano il breaking-point, se non raggiungi quello non esisti. Noi sono vent’anni che andiamo avanti e non abbiamo mai raggiunto nessun breaking-point, però, forse abbiamo un point, abbiamo un punto, un punto vuoto che inseguiamo, che ci provoca, che ci istiga, un demone come lo chiamava Platone. E allora andiamo avanti, non perché dobbiamo raggiungere quel punto lì, il breaking-point, ma perché questo demone non cessa d’istigare, di provocare, di ciarlare, e questo è l’oggetto dell’identificazione, come lo chiamava Freud, che non è identificarsi con qualcuno.
Poi abbiamo questa rivista, dove gli imprenditori capiscono benissimo che non è che investendo in pubblicità su questa rivista vendono chissà quanto in più, però capiscono quant’è importante la testimonianza; capiscono come, parlando della loro impresa, trovano il bandolo perché la loro impresa prosegua, perché c’è uno smarrimento totale. Gli imprenditori non se ne fanno nulla dei proclami, perché vivono sull’orlo della vita preferisco dire, non sull’orlo della morte. Vivendo sull’orlo della vita, proprio perché, come dicevamo il disagio è l’introduzione delle cose nella parola, cioè finalmente termina il mutismo quando s’incontra il disagio, in questo senso il disagio è l’introduzione delle cose nella parola. Poi, per quanto riguarda gli obiettivi, non è che si tratta del raggiungimento degli obiettivi, non è il “sono soddisfatto”, non è la soddisfazione del cliente.
La qualità è stabilita da come l’itinerario dell’impresa giunge alla novità, come ciascuna cosa dell’impresa, proprio perché non va esclusa, proprio perché ciascuna cosa, ciascuna circostanza, anche la più negativa, anche la malattia, anche la crisi, anche il terremoto può divenire una chance per l’itinerario e può portare questo itinerario a valore. Non ha senso mettere da una parte le cose buone e dall’altra le cose cattive. Il bilancio si fa di ciascun elemento dell’esperienza, e è un bilancio che non può partire dall’idea della fine dell’esperienza. Quando ti fanno fare i bilanci ti dicono “Immaginiamo che l’impresa fallisca. Al prezzo di realizzo quanto vale? Bene, dobbiamo mettere a bilancio i libri al loro prezzo di realizzo”, ma dico state scherzando? Intanto bisogna vedere ciascun libro.
Ci sono libri che dopo qualche mese non esistono più, ci sono libri che nei primi anni hanno venduto poche copie, novantamila-centomila, come ad esempio L’Interpretazione dei sogni di Freud, oggi invece si continua a venderne copie; allora, un bilancio in cui queste cose vengono scritte, così è un altro bilancio. Oppure un’impresa che ha cento dipendenti, ma a loro ne bastano tre, però l’impresa raggiunge risultati straordinari. Questo occorre che venga scritto a bilancio, e questo occorre che dia la misura del valore: è qui che si gioca la soddisfazione, la soddisfazione prima di tutto dell’imprenditore, ma anche la soddisfazione per la banca che aveva investito, la soddisfazione per i soci che avevano acquistato delle azioni, la soddisfazione dell’equipe che lavora per questo progetto.
La soddisfazione, che non è il satis nel senso di essere colmo, ma è il satis nel senso che il fare esige la pienezza, non che sono arrivato al colmo e allora mi fermo, sono soddisfatto. La soddisfazione vuol dire che il fare giunge al satis, al pieno, al satus. All’inizio era chiamata satura, da saturo, da cui poi viene satollo, che vuol dire pieno, la pienezza, l’integrità, non il fare a pezzi, non lo spezzatino aziendale, non il perdere i pezzi, ma la pienezza della parola, la pienezza della vita, la parola piena, la parola integra. Questa è la scommessa e l’augurio che faccio a ciascuno.
Ruggero Chinaglia Bene Ringrazio Sergio Dalla Val per questo suo intervento molto ricco, tanto più apprezzabile quanto più il libro venga letto, non con una sola lettura ma con letture ripetute, perché non è un manuale che spiega come bisogna fare, come stanno le cose, perché, appunto come si diceva, le cose non stanno affatto: le cose si presentano, poi avvengono, accadono, divengono. Già se qualcosa entra in un racconto, non è più come è accaduto, non è più come era creduta, è un’altra cosa.
Così come quando qualcuno si reca dal medico e gli racconta i sintomi, le questioni che l’hanno condotto lì. Se il medico si attiene alla casistica, si attiene alla letteratura, a ciò che la letteratura dice di quel sintomo, ebbene, quel tizio è spacciato, entra nella letteratura, cioè entra nella lettera morta, entra nel caso comune, perché non verrà colta la specificità, la domanda che ha condotto, tramite quel sintomo, quella persona dal medico, cercando nel medico non l’impositore delle mani che lo trae nella terra promessa, che lo tira fuori dalle grane, ma un interlocutore che gli dia delle indicazioni, che tenga conto di tutte le implicazioni di quel sintomo, che il più delle volte emerge non da uno stato di malattia, ma da un grido di allarme che esige di venir ascoltato, perché c’è l’esigenza di una variazione, qualcosa di quella vita ha da variare, perché c’è un’abitudine che opprime la vita e tende all’equilibrio, a un sistema termodinamico. Ebbene, questa abitudine fa sì che quella vita tenda all’equilibrio, all’entropia negativa, quindi alla morte.
Questa è la questione che, oggi, occorre che la medicina intenda, perché questa tecnologia medico logica, che esclude la medicina a favore della tecnologia del discorso sanitario, non fa che poter contare i decessi, ma, quanto a fornire indicazioni di vita, è sempre più raro. Allora la parte sacrilega di questo libro sta proprio nella parte in cui Dalla Val affronta la questione della salute. Quale comitato scientifico, quale confraternita scientifica può accogliere il verbo di un non medico in materia in salute? Già il caso di Freud è emblematico, uno che faceva parte della comunità scientifica ma diceva cose che non potevano essere accettate, che per loro non stavano né in cielo né in terra, non potevano venire accettate. “La psiche? Ma quale psiche, qui abbiamo l’autopsia, il reperto autoptico, questo deve valere, il corpo morto”.
Qui noi abbiamo Sergio Dalla Val, un esperto di cifrematica, un esperto di diritto, un esperto di psicanalisi, un esperto d’impresa che affronta nel suo libro questioni di salute: altro che rogo, altro che sacrilegio! Ma è proprio qui che può trovarsi qualcosa di utile anche per i medici, non solo per i cosiddetti pazienti che vanno dal medico perché sono impazienti, perché non ne possono più di quel sintomo, trattato già da loro come malattia. Aspettano un’indicazione, si attendono un suggerimento, ma il medico rifugge dall’indicazione che riguarda la vita, una trasformazione della vita. Il medico la rifugge perché non è formato a questo, perché partecipa lui stesso dei luoghi comuni, delle paure, delle fobie, dei tabù che il cosiddetto paziente gli riferisce.
Allora qui c’è una questione di formazione e questo libro lancia un grido verso la formazione, l’esigenza di formazione per il medico, per l’imprenditore, per il cittadino, per il politico, per l’economista, per il commerciante, perché se interviene un altro criterio, un altro modo di leggere la realtà, ascoltando il racconto delle cose, allora l’avvenire non può più essere fosco, perché si apre all’invenzione, alla novità, all’arte, alla clinica. Accennava Dalla Val alla questione del tempo e alla mitologia che il tempo possa finire: non è una questione filosofica, è una questione pratica. Pensiamo per esempio alla mitologia della stanchezza. Quale salotto non si costituisce sulla stanchezza? Quanto sono stanche le persone che si trovano, che s’incontrano? Ognuno racconta la sua stanchezza, quindi ognuno partecipa della sua sofferenza. Ma di questa stanchezza c’è chi indaghi su cosa la produca, da dove venga?
Eppure basterebbe ascoltare il modo con cui avviene il racconto di questa stanchezza. Per esempio, non più tardi di qualche ora fa, una persona mi raccontava che alla fine della giornata ha una stanchezza estrema, una stanchezza tale per cui non riesce nemmeno a dormire. Allora le chiedo: “Cosa succede a fine giornata?” Mi risponde che a fine giornata ripercorre la sua giornata. “Ma come – dico – non si prepara alla giornata successiva? Non prepara il programma del giorno che verrà? No, – dice – perché prima ripercorro la giornata per vedere se ho fatto tutto quello che c’era da fare.” Quindi questa giornata è senza conclusione, non c’è la conclusione delle cose della giornata. È un peso enorme; così come contare partendo dalla fine delle cose, e ogni cosa che si fa, invece di essere una cosa che si aggiunge al dispositivo, è una cosa in meno da fare. Questo implica che è posta una fine del tempo da cui viene tolto progressivamente qualcosa, che anche quello è un peso.
Allora tutto ciò esige un altro criterio che non è automatico, non è imponibile, non è come chi fa la formazione aziendale dicendo che bisogna pensare positivo, escludere il male, accogliere solo il bene, rivolgersi alle cose positive: “Io penso positivo”. Che cosa pensa? Non pensa, ha sacrificato il cervello, si è privato del pensiero, escludendo ciò che ritiene essere il negativo, e quindi creando il vuoto attorno a sé, anziché la pienezza che si fa dell’abbondanza delle cose, dei loro risvolti che sono differenti e vari. Allora, occorre che entri nel dispositivo di ciascuno, la scienza della parola, con un altro modo dell’accadimento, dell’avvenire, del divenire, un altro modo di affrontare le cose, senza l’idea di poter cedere all’eventuale difficoltà, a un eventuale imprevisto, divenendo protagonista, imprenditore, attore e non il mercenario della propria vita.
Machiavelli, che è citato in un capitolo di questo libro, non guardava di buon occhio i mercenari. Diceva che “i mercenari sono la parte debole dell’esercito perché esigono di essere pagati” per qualcosa che riguarda invece la scommessa di vita. Allora Machiavelli dice: “L’esercito che si avvalga dei mercenari è un esercito debole”, mentre “i veneziani erano invincibili nelle battaglie marinare”. Perché? Perché se la nave affonda non c’è mica scampo, e quindi occorreva vincere. L’esercito vale in quanto è posto dinanzi all’assenza di alternativa, all’esigenza di vittoria come esigenza di vita. Ma questo, come diceva quel tale, nessuno ci può dare il coraggio, così la forza nessuno ce la può dare. La forza viene da ciò che è causa della spinta, della pulsione, quindi dal progetto e dal programma di vita, giusto per capire che tutto ciò non è filosofico, ma riguarda proprio il modo di vivere.
A proposito di questi mercenari di cui parla Machiavelli, a questo punto non ci sorprende affatto che i manager più pagati d’Europa siano quelli italiani e che le aziende dirette da questi manager siano quelle che vanno peggio, perché sono i mercenari di cui parlava Machiavelli: operano in assenza di pulsione. Perché, che l’azienda vada bene o vada male, non gli importa niente, perché l’azienda non è loro, non c’è un investimento nell’impresa. Cosa che, invece, ha testimoniato con calore, con forza, con convinzione Dalla Val, perché ciò di cui si tratta nel suo itinerario è qualcosa che fa parte della sua vita e, se andasse male, è la vita che ne risente, non è solamente qualcosa che può a un certo punto lasciar lì, abbandonare, “tanto io vado da un’altra parte”.
E quindi è quest’altro ambiente, quest’altra logica che si tratta di introdurre nel dispositivo di vita per ciascuno, quale che sia l’attività che ciascuno svolga, perché ciò investe ciascun settore. Intersettoriale e internazionale la cifrematica, dicevamo ancora al suo albore, perché investe ciascun ambito, ciascun settore, ciascun elemento della nostra vita. Ora non so se ci sia qualche domanda, partendo dall’intervento di Dalla Val, anche qualche annotazione, precisazione per consentirli di fare l’intervento conclusivo. C’è in sala chi voglia dare un’eco di quanto ha udito?
Angelo Varese Sono molto contento di essere qui perché ho sentito cose molto interessanti, e soprattutto perché devo ringraziare Sergio Dalla Val che, oltre a essere un compagno di avventure, di quelle “avventure strane”, ci porta l’occuparci della parola, quindi delle persone, e che ci rende molto vicini e lontani allo stesso tempo. Dicevo che lo devo ringraziare perché questo è un libro eccezionale, è un libro che consiglio veramente in maniera caldissima, perché è un libro nuovo. Ci sono tanti libri, mi dispiace dirlo davanti a un editore, ci sono troppi nuovi libri, ma libri nuovi non ce ne sono. Il libro di Dalla Val è uno di questi, e io sono particolarmente interessato perché è un libro che va oltre il pensiero e l’approccio critico.
L’approccio che implica partire dall’Altro, dal discorso dell’Altro soprattutto, più precisamente dalla posizione del discorso come discorso dell’Altro, come solida base da cui partire, sulla base del quale condurre l’osservazione, dallo stabilire che c’è un primato del detto e della sua attribuibilità, Dalla Val ha detto questo, partiamo da qui. Questo è quello che fino ad ora è stato il movente, che non ha mosso nulla, della intellighenzia che noi ci siamo trovati di fronte e con la quale ci siamo confrontati per tanto tempo. Naturalmente questo è il modo giusto per poter procedere alla rettifica, alla ricognizione sulla retta via, per dare la versione corretta delle cose, un modo per pensare che la parola non abbia nessun esito, non abbia nessun effetto.
Un libro nuovo, questo di Sergio Dalla Val, proprio perché inaugura l’ambito infinito della parola, della sua efficacia, quella parola è efficace. Questo lo sentite dire soltanto leggendo questo libro, nessuno dice che la parola è efficace. Molti vi diranno che la parola è da mettere a posto, da correggere, da rettificare, da rivedere, da rimettere in prospettiva, ma nessuno ti dice che è efficace. Nessuno che vi dice, per esempio, quando sbagliate che non state sbagliando; quando sbagliate parola, siete perfettamente nel giusto, basta che ascoltiate quello che vi dice questo vostro errore, che non è imparare dall’errore, ma è farsi attraversare da questo errore. Allora, questo libro è un libro post-ideologico proprio per questo. Dopo l’’89 tantissime persone hanno detto che le ideologie sono finite; ma l’ideologia non finisce perché ha fatto il suo tempo, perché era sbagliata, l’ideologia termina perché si affaccia, si presenta un’altra scena: il passaggio dal tempo della visione al tempo della pratica di parola.
Io credo che questo sia veramente il discrimine che il libro sottolinea, evidentissimamente, e questo passo implica un modo differente d’intendere la parola. Il dominio dell’idea sulla parola, la subordinazione della parola all’idea,questo è proprio dell’ideologia. Muove sempre da un’economia specifica che pone l’identità della parola, il discorso come causa, possiamo dire, anche come causa dei mali, dall’identità della parola che sostituisce la logia alla logica, cioè all’atto in cui la parola, invece, si trova inscindibile, inseparabile.
Questo passo dell’osservazione significa un ritorno alla parola, perché c’è molto mutismo e c’è stato molto mutismo e continua ad esserci molto mutismo, ma si tratta, più che un ritorno alla parola, di un ritorno d’epoca, che è il movimento, tra l’altro, dell’analisi, in cui il rimosso ritorni incessantemente altrimenti. Questo mi pare il ritornismo in ambito della pratica psicanalitica, come effetto terapeutico, come esito del transfert. Allora se trovate in questo libro frasi nodali come “atto di parola”, “pratica di parola”, “materialità della parola” sono tutte questioni di nodo. Permettetemi di chiudere soltanto con una questione, perché è giusto che mi esponga anche a una domanda, perché questo libro me ne ha poste tante. Il tempo analitico è forse il tempo di dissoluzione di un riferimento, di un riferirsi alla parola supposta di un altro? Ringrazio Sergio Dalla Val per questo bellissimo libro.
Ruggero Chinaglia Ringrazio Angelo Varese per questo suo intervento molto generoso e, prima di dare la parola a Sergio Dalla Val per la conclusione della serata, vi leggo un brano dal libro, qualche breve riga, che è indicativa anche del modo narrativo di questo libro.
“Si spalanca l’abisso? Ci sembra di trovarci in un diluvio? Tutto è vorticoso? Oppure niente si muove, è tutto fermo, o gira in tondo? Le cose entrano nell’arca, le cose entrano nella parola, il disagio è l’introduzione delle cose nella parola, non ciò che avvia un cammino di purificazione. La cifrematica infatti comporta una rivoluzione con cui le cose non devono volgersi da negative in positive, ma esistono nella parola, dove trovano un’articolazione e uno svolgimento, entrano nella ricerca e nel fare, si rivolgono al valore, alla cifra. Non devono guarire, ma si quantificano in modo non ordinale e si qualificano in direzione della cifra. Non importa il loro senso o il loro significato, ma come si scrivono fino a divenire qualità. In questo senso la cifrematica poggia sull’esperienza di cifra, in particolare sulla lettura”.
Sergio Dalla Val Ringrazio Ruggero Chinaglia per questa breve lettura di un brano del libro. Il tempo incalza, dobbiamo fare ancora tante cose, parlare, leggere, scrivere. Ciascuno che va a casa, come dicevano una volta, non torna a casa, perché non si torna mai da nessuna parte, ciascuna volta si va e si viene, non si ritorna. Giustamente si diceva del ritorno del rimosso, ma ciascuno non ritorna, e noi, invece, andiamo, veniamo, facciamo, scriviamo. E per riprendere quello che diceva Angelo Varese, non c’è la parola dell’altro, ma l’Altro è nella parola, proprio come l’intervallo, come quel che non è situatile, come il tempo come divisione. L’Altro segue la divisione e la piega. Allora noi non possiamo dividere l’Altro né piegare l’Altro, possiamo semplicemente attenerci alla parola in cui l’Altro come altro tempo, esiste.
Ruggero Chinaglia accennava al cedere, questo termine in questo periodo si sente molto, c’è il cedimento. Il terremoto porta al cedimento, ma questo è la rappresentazione del terremoto, è come il tempo rappresentato. Il tempo rappresentato è il tempo cronologico, il tempo che porta alla morte, così come il terremoto rappresentato, spazializzato porta al cedimento, il cedimento strutturale. Giustamente Chinaglia diceva che non si tratta di cedere; effettivamente chi si trova nella giornata, nella battaglia non si arrende, non si butta, non si vende. Lacan diceva che l’unica cosa di cui possiamo essere colpevoli è di avere ceduto sul proprio desiderio, ma non basta non cedere sul proprio desiderio, occorre non cedere su nulla: non cedere sull’istinto, sul desiderio, sul bisogno, sull’Altro, sulla questione intellettuale.
Chi cede assume la morte, assume lo psicofarmaco, assume la sostanza. Questo libro che ho scritto spero che entri in una serie, in un servizio. Questo libro non è come diceva Nietzsche, un libro per tutti e per nessuno. Auspico che sia un libro per ciascuno, per ciascuno che intende, che ha l’esigenza dell’intendimento, non del capire, non del concepire, non dell’afferrare, ma dell’intendere. Questo libro può intendersi solo vivendo, non restando nel vissuto, e, vivendo, la scrittura di questo libro non finisce, come scriveva Borges, non a caso, in una raccolta di poesie che si intitolava “La cifra”: “Tutto accade per la prima volta, ma in modo eterno. Chi legge le mie parole sta inventandole.” Grazie.
Ruggero Chinaglia Ringrazio il Comune di Padova che ci ha consentito di svolgere questo avvenimento col patrocinio. Ringrazio anche un suo rappresentante che ci è venuto a trovare, Stefano Grigoletto. Ringrazio ciascuno di voi che ha avuto l’audacia e l’orgoglio, la pazienza di stare qui con noi fino alla conclusione. Ringrazio Sergio Dalla Val, Maria Antonietta Viero e ciascuno che ha contribuito alla riuscita di questa manifestazione. Questo è un libro essenziale per ciascuno. Come concludere la giornata senza aver letto almeno un brano di questo libro? Grazie e arrivederci.