L’intellettualità e il piacere
- Chinaglia Ruggero, Lavermicocca Domenico, Marin Michele
16 aprile 2009 Conferenza di Domenico Lavermicocca, avvocato e di Michele Marin, medico, L’intellettualità e il piacere, nel secondo dibattito della modernità La scienza e la crisi, diretto da Ruggero Chinaglia, psicanalista, cifrematico, con presentazione del secondo numero della rivista “La cifrematica”, dal titolo L’intellettualità e il piacere, (Spirali). Padova, Sala Polivalente di Via Diego Valeri, 17. Con il Patrocinio della Regione del Veneto, della Provincia di Padova, del Comune di Padova.
DOMENICO LAVERMICOCCA, MICHELE MARIN
L’intellettualità e il piacere
Ruggero Chinaglia Cominciamo comunicando alcune attività in corso e alcune pubblicazioni che costituiscono le novità editoriali di questo periodo. È in libreria il bellissimo romanzo La regina di Saba di Marek Halter, un romanzo che narra la vicenda di questa regina mitica, una regina nera che, in quanto nera, è stata respinta dalla cultura occidentale. Se noi vediamo l’iconografia in proposito del Settecento, dell’Ottocento, la regina di Saba viene per lo più rappresentata bianca, solo alcuni saggi dell’antichità romana la indicano nera; quindi, il razzismo ha radici lontane. Essa è una figura importante anche del mito ebraico, ha un figlio con il re Salomone da cui origina una stirpe ebraica.
Molti riferimenti riportano che “era bella, ma nera”, non bella e nera, “bella, ma nera”, era bella, ma aveva questo “difetto”, era nera. Questo romanzo rende giustizia a questa regina, alla sua intelligenza, un bellissimo romanzo che abbina la cultura, la guerra, l’amore, l’intelligenza, è quindi una lettura molto interessante. Marek Halter è uno scrittore noto, affermato in Francia e in Europa, conosciuto anche in Italia, dove ha pubblicato vari libri con Spirali, tra cui un altro bellissimo romanzo degli anni novanta Abraham, che narra la vicenda del popolo ebraico, le sue peregrinazioni dalla distruzione di Babilonia fino a oggi. Anche questo è un bellissimo libro.
A esso si affianca una novità assoluta di Boris Nemtsov, Disastro Putin, libertà e democrazia in Russia; e è la testimonianza della situazione attuale in Russia narrata da uno dei protagonisti non dell’opposizione, ma uno dei protagonisti delle recenti vicende politiche, perché Nemtsov è stato governatore di uno degli Stati durante il governo di Boris Eltsin, è stato anche ministro dell’energia, quindi un esponente della politica attiva e attuale in Russia, che però appunto ha fondato un partito liberale, e si trova in contrasto oggi con l’andamento attuale.
Accanto a queste che sono le novità assolute segnalo anche la collana “La cifrematica”, di cui questa sera presentiamo il secondo volume L’intellettualità e il piacere. È un titolo che abbiamo mantenuto anche per il dibattito di questa sera, pur con le difficoltà che propone, per indicare i termini dell’esperienza della parola, i termini dell’esperienza originaria. Questo, contrasta con alcune mode, con alcune impostazioni vigenti, che sono per la facilità.
Il dibattito che noi proponiamo con il titolo La scienza e la crisi riguarda appunto un’accezione di scienza che non è quella dell’episteme, non è la scienza delle origini, non è la scienza dei fatti, la scienza che dovrebbe dare origine a una certezza, non è la scienza che ha introdotto il criterio della competenza, quindi non è la scienza disciplinare. È un’altra scienza, è la scienza della parola, la scienza che procede da ciò che si dice, procede dal sacro. Il sacro è appunto ciò che si dice.
E siccome l’atto di parola è originario, il sacro della parola mai può divenire sacralità, mai può divenire competenza, mai può divenire una filosofia, mai può divenire un sapere; e quindi questa è una specificità che comporta anche la difficoltà, per capire, per intendere, perché appunto si tratta non già di fare appello al sapere, ma di rivolgersi all’intendimento, all’ascolto, alla novità, al nuovo che ciascun atto propone, tra le righe, tra le pieghe, esigendo lo sforzo intellettuale.
Quindi, l’intellettualità e il piacere. Di che si tratta nell’intellettualità? È proprio lo statuto dell’intellettualità che impedisce di dire che cos’è, che cosa sia, di restringerla in una formula. Possiamo dire che l’intellettualità, in quanto risente del modo del tempo, è temporale e risente del modo del due e del modo del tre. L’intellettualità è impossibile da riassumere in una formula, da indicare in termini sostanziali cosa sia, riguarda il modo, il modo della ricerca, il modo dell’impresa, il modo della scrittura, il modo della lettura, e è questo modo che è essenziale perché approda al piacere, approda alla felicità, alla gioia.
A torto, intorno al piacere sono sorte varie fantasmagorie, ritenendo si tratti di classificare tra il piacere del corpo, il piacere della carne, il piacere dello spirito. Ma non esistono i piaceri, esiste il piacere come approdo alla cifra di ciascuna cosa, alla cifra della parola e questo non è qualcosa di astratto, è qualcosa che constatiamo nella pratica, riguarda anche il modo della cura, il modo della salute.
La questione della salute è questione intellettuale. Non è una questione naturale o naturalistica, che debba seguire i canoni della prevenzione o di una corretta prescrizione per tutti; la salute è il lascito dell’istanza intellettuale, dell’istanza di qualità. Questo è qualcosa che contrasta molto con l’impostazione dell’epoca, è qualcosa di difficile. Noi cerchiamo di dare un contributo affinché chi si rivolge alla questione – nei vari ambiti e settori – possa cogliere e avvalersi del contributo della cifrematica, che è un contributo intellettuale rivolto quindi alla qualità della vita, alla qualità assoluta.
La questione intellettuale verte anche sulla dissipazione di ogni idea di sistema, sulla dissipazione di ogni adesione alla credenza di una genealogia cui appartenere, di ogni idea di fine del tempo o delle cose, dissipazione dell’adesione all’idea di predestinazione.
Così è un’altra vita ovviamente rivolgendosi alla parola e alla sua scienza, che però è impossibile apprendere per studium, è qualcosa di cui fare l’esperienza. Allora, per avere alcuni elementi, testimonianze del modo con cui i termini della parola di questa esperienza si sono intrecciati con altre cose, abbiamo qui questa sera due esponenti del movimento cifrematico, e si tratta di Domenico Lavermicocca, giurista, scrittore, che opera come avvocato a Bologna. Ha scritto già vari libri, intorno alla materia del diritto, ha scritto anche saggi che sono contenuti nella collana, altri li sta scrivendo; e stasera ci dà una testimonianza della combinazione tra diritto, cifrematica, esperienza della parola.
La sua attività combina anche l’organizzazione di avvenimenti culturali, in particolare a Matera. Matera è una città bellissima, ricca di tradizioni culturali, di una civiltà antichissima, dove periodicamente, Domenico Lavermicocca convoca intellettuali, scrittori di vari settori per discutere con loro, quasi come Machiavelli che alla sera, smessi gli abiti curiali, dà convegno agli antichi per discutere con loro.
E accanto abbiamo Michele Marin, medico, che opera a San Donà, anche lui esponente del movimento cifrematico, organizza avvenimenti culturali a San Donà, a Treviso, in varie sedi. È attivo anche a Roma, dove interviene spesso nei dibattiti attorno ai libri dei nostri autori. Prossimamente, mi pare il 6 maggio, c’è la presentazione del Fisimario italiano di Ruggero Guarini, altro bellissimo libro che segue al Fisimario napoletano.
Guarini è un intellettuale, giornalista, scrittore, di antica data, di un’intelligenza lucidissima, che veramente vale il caso di leggere. Ecco, quindi Michele Marin combina la sua attività di medico chirurgo con quella di intellettuale cifrematico, e ci dirà questa sera qualcosa, quindi, di questa combinazione tra l’intellettualità e il piacere. Ora, invito quindi a intervenire Domenico Lavermicocca.
Domenico Lavermicocca Buona sera. Ringrazio per l’invito il dott. Ruggero Chinaglia e l’Associazione di cifrematica di Padova. Sono qui per narrare di un viaggio, a dare testimonianza di una esperienza di vita e professionale, secondo lo specifico che dice di un percorso unico e particolare. “Ciascun elemento è in viaggio. Ciascun elemento dimora in una struttura, sta nella parola, in quanto è in viaggio: per questo è elemento intellettuale” (Armando Verdiglione, Il Capitale della vita, p. 249). Mi trovo in un modo differente a svolgere la professione forense, al cui inizio la relazione rappresentava un ostacolo insormontabile e la scrittura era ancora da porsi come istanza di vita.
Senza il dispositivo intellettuale instaurato con chi con rigore e preparazione assoluta si trova in questo percorso, molte delle cose che oggi mi trovo ad intraprendere non sarebbe stato possibile fare e, tra queste, intendere che il rischio di vita e non pericolo di morte, come spesso viene rappresentata la novità. Eppure l’attività forense è una straordinaria occasione di incontrare l’Altro, nella sembianza del c.d. cliente che all’avvocato si rivolge per un pretesto di parola, per raccontare un caso di vita. Nell’incontro si tratta di ascoltare una storia, fatta di realismo e di ostilità, dove l’Altro è il nemico rappresentato.
Viene qualcuno che racconta una storia, che non va collocata moralmente, tra il bene ed il male, il giusto e lo sbagliato. Avrà detto la verità? Il diritto di cui parla la cifrematica esige una generosità intellettuale, oltre che umiltà e indulgenza. Esige di udire ciò che si situa innanzi, esige una valorizzazione di chi ascolta di ciò che ascolta. L’Altro fa da ostacolo, un ostacolo che molte volte si cerca di abbattere, di togliere, senza tenere conto che proprio l’ostacolo è la chance per introdurre un’opportunità, che proprio con l’altro è possibile fare, è possibile trovare il modo, e che quello che può essere motivo di conflitto, in un’ironia, quindi in una apertura, può trovare un’altra piega, perché le cose non finiscono, ma proseguono per giungere alla conclusione e, quindi, alla soddisfazione ed al piacere.
Non si tratta di istituire un rapporto sociale fantasmatico tra colui che sa e colui che non sa. Occorre ascoltare in una umiltà e in una lucidità, senza l’idea di sé e dell’Altro, e instaurare un dispositivo che non è contro qualcuno, la cosiddetta contro-parte, ma per una battaglia intellettuale che consenta di intendere le ragioni del conflitto, proprio per una ricerca del modo della prosecuzione. Il racconto inaugura il fare. Il racconto è costituito dal sogno e dalla dimenticanza e inaugura il fare secondo l’occorrenza. Ma se il racconto non c’è, non c’è il fare.Questo non esclude che occorra promuovere un giudizio. Il litigio, la baruffa sono costitutivi della relazione che lascia sempre aperta la strada per giungere ad un accordo, per proseguire.
Si tratta allora, ciascuna volta, di avviare un dispositivo intellettuale e di ascolto tenendo conto dello specifico, parlando nell’altra lingua, nella lingua diplomatica. La decisione non può essere delegata, come al medico non può essere delegata la decisione sulla salute. Nessuno può ritenersi destituito dal decidere di ciò che lo concerne, e ciascun professionista, che non sia professionista della morte, consente di instaurare un ragionamento su ciascuna circostanza, di giungere ad una decisione verso il proseguimento. Non si tratta di prospettare la fine, la morte, per proporre la via della salvezza. Non c’è il soggetto incapace. La scommessa è nella riuscita.
Per questa strada, lungo l’esperienza, la scrittura quale insopprimibile esigenza a che la ricerca trovi un compimento, una conclusione non significabile nella fine. Scrive Armando Verdiglione: “La base della scrittura, e quindi della lettura, non è il riferimento all’essere, a Dio o al libro, ma è l’esperienza. ” Il libro è dedicato a chi assume, nel suo progetto e nel suo programma, l’esperienza, dove ciascun elemento è di valore. Il libro, ciò che della memoria si scrive, giunge a scriversi come la tela, il tessuto, la tessitura della rete, dove ciascun dettaglio, ciascun significante entra a far parte della trama, di un dipinto di tanti colori.
Poi la redazione, la cura editoriale, quindi il debutto, la pubblicazione, il pubblico, che non giudica, ma è indice del transfinito. L’errore di calcolo, che è costitutivo del fare e non deve essere inteso in senso morale, non può essere il pretesto perché la paura possa essere rappresentata come limite soggettivo.
Così, con la traversata del difficile che, sola, consente di giungere al semplice, il piacere della conclusione, differente dal principio di piacere, e quindi da ciò che è a portata di mano, di orecchio, dei sensi. Scrivere per raccontare del diritto e della tecnica. Il diritto è il diritto dell’Altro, con le sue virtù: la generosità, l’umiltà, l’indulgenza. La ragione è dell’Altro non rappresentato.
Nel discorso cartesiano, il discorso proprio all’ideologia francese, c’è la ragione sull’Altro. Come diceva Bachelard: “Il problema non è quello di avere ragioni o di avere torto, ma di avere ragione sull’Altro”. Invece Armando Verdiglione insegna che la battaglia non è contro qualcuno, ma in direzione della qualità. Giovan Battista Vico tra le varie cose ci dice che “il terreno del diritto è lo stesso della poesia”. Scrive il prof. Verdiglione: “Può la ragione prescindere dal diritto? Nel discorso occidentale sembra di si, mentre invece sia il diritto sia la ragione esigono l’Altro, irrappresentabile e impersonificabile”. E allora quale il contributo della cifrematica, della scienza della parola, al progetto ed al programma di vita per ciascuno?
In un’epoca che in ogni modo rappresenta ogni forma di disperazione, di crisi, di morte, dove sembra che tutto debba finire da un giorno all’altro e che le cose andranno sempre peggio, la cifrematica pone in modo radicale una questione di verità, la questione di come ciascuno intende vivere e qualificare la propria vita. È questo il momento di introdurre un’altra lettura delle cose che punti alla qualità e che consenta di dissipare queste fantasmatiche traendo forza proprio dal disagio che concerne ciascuno. Occorre avviare nuove iniziative, ricerche, innovazioni, imprese, perché la crisi è del sistema imperniato sul luogo comune del guadagno facile, senza sforzo, lavorando il meno possibile per ottenere il massimo, in una dicotomia che dice dell’economia dell’impegno, del dispendio.
Occorre cogliere questa opportunità per percorrere nuove strade, modificare le proprie abitudini per non dare più nulla per scontato. Un avvocato che si attiene a questo principio di vita non può prospettare la fine per assumere poi la salvezza. E così, proprio per motivi di salute, di salute intellettuale, lungo il viaggio mi trovo a promuovere eventi culturali nella città di Matera, città inspaziale, la cui luce è la luce dell’intendimento, nell’oralità, come testimonia la secolare scrittura di civiltà dei Sassi di Matera. Grazie alla collaborazione con la Casa editrice, in una intersettorialità, sono avvenuti incontri con artisti, scrittori, scienziati, imprenditori, come pretesto per integrare la famiglia come traccia. Ciascuno ha dato testimonianza della propria ricerca della propria esperienza, del proprio rischio assoluto.
Occorre chiedersi: è gioco o è lavoro? Integrare ciascun aspetto della vita è valorizzare il patrimonio di esperienza. La memoria procede dalla traccia. La memoria si scrive, è questa l’ipotesi pragmatica. Ciascuna volta l’accoglienza, l’ospitalità che dice di uno specifico, lungo un turismo intellettuale per accogliere e per trasmettere un messaggio. Del resto: “Una città senza ospitalità è una necropoli” (Armando Verdiglione ne “Il libro: ciò che della memoria si scrive, p. 27). La cifrematica è uno strumento di vita, che consente di scalzare l’idea della professionalità come qualcosa di acquisito, come un habitus, una uni-forme. Molteplici sono le forme dell’esperienza che con la scrittura della memoria viene restituita.
È un percorso culturale e un cammino artistico per qualificare ciascun aspetto e ciascun istante della nostra vita. La cifrematica integra l’arte, la cultura, la filosofia, la linguistica, la logica matematica, e altro ancora. Non è un sapere da costituirsi perché su di esso possa essere esercitata la padronanza, la padronanza della materia, ma una pratica di vita secondo l’altra logica, la logica dell’inconscio, diversa dalla logica dello psicofarmaco, della sostanza. La cifrematica indaga ciascun aspetto della vita introducendo una differente lettura delle cose, una pratica di vita, non una teoria filosofica, che dall’esperienza di vita trae gli elementi stessi della teoria. Ecco quindi che lo statuto di avvocato perde i connotati del c.d. professionismo. Artista o è poeta, è imprenditore o è brainworker?
È colui che coltiva l’arte del dubbio, intesa come apertura, per integrare differenti aspetti della esperienza, senza l’io come soggetto, con le proprie idee, partendo invece dall’ascolto per trovare in un dispositivo il compimento di un percorso di qualità. Solo in questo modo lo studio diviene bottega, la bottega dell’arte, dove imparare il mestiere non è per creare una dipendenza, dove si impara a ragionare sulle cose in un dispositivo intellettuale, che è un dispositivo di forza straordinario. Non bisogna partire dall’idea della fine delle cose. La ricerca prosegue incessante perché nulla è scontato o acquisito una volta per tutte in un presunto sapere. Nulla concede al semplicismo perché non c’è parola facile, non c’è vita facile, nonostante l’epoca faccia di tutto per far credere che tutto debba essere a portata di mano o di occhio, tutto sullo stesso piano, tutto visibile, senza ascolto. Occorre l’umiltà di chi si trova nel viaggio, dove la solitudine è la condizione dell’intelligenza.
R.C. Ringrazio Domenico Lavermicocca, anche per la concisione del suo intervento, che potrà avere delle riprese nel dibattito, che è indicativo di una traversata in corso, una traversata che consente quindi di articolare differentemente la questione professionale. Notava, nel suo intervento, che qualcosa riguardava la sua vita professionale; poi, di questa professionalità, nell’accezione canonica, abbiamo inteso che non resta quasi nulla. C’è invece un altro statuto che, forse con un termine più interessante, si può chiamare quello della consulenza, dell’interlocuzione per giungere a capire, a cogliere quali sono i termini di una domanda e rilanciarla, e consentire che dunque si svolga, non secondo il canone della competenza, ma secondo la logica, secondo il suo modo, e quindi questo esige l’ascolto, un’educazione, una formazione non meramente accademica.
Diciamo che nulla è da togliere, nulla è da togliere, non è da togliere l’università, non è da togliere la professionalità, non è da togliere la scuola; si tratta di aggiungere a ciò che viene dalla scuola, a ciò che viene dall’università, a ciò che viene dalla professionalità, l’istanza, la questione intellettuale che viene dalla parola, la formazione che procede dalla parola. E quando dico dalla parola dico dalla cifrematica, cifrematica come scienza, esperienza, procedura della parola originaria. Sono cose che non giungono mai alla competenza, per questo hanno la chance di risultare cose intellettuali.
E mi pareva molto interessante, tra le molte annotazioni di Domenico Lavermicocca, che il professionista mai può dirsi compiutamente esperto, perché l’esperto è l’esperto dell’episteme, è l’esperto di ciò che è stato, è l’esperto delle cose finite. Ma se nulla finisce, se ciascuna cosa è in viaggio – come notava – non si tratta di essere esperti, ma si tratta dell’esperienza in corso: come ciascuna cosa entra nell’esperienza, come si aggiunge. Ma perché questo avvenga, occorre che ci sia l’accoglimento di ciascuna cosa, soprattutto quando è una cosa nuova.
E questa è forse veramente la questione difficile, la questione essenziale, una cosa nuova, inedita, mai nota, comporta una posizione che non procede dalla certezza, ma – come diceva Giuseppe Semerari nel suo libro Insecuritas – procede dall’insecuritas, che quindi esige costantemente che le cose si rivolgano in direzione della cifra. Nessuna cosa è tale, e per questo appunto l’umiltà, la generosità sono essenziali. Ma tutto ciò non va da sé. Allora, adesso invito al suo intervento Michele Marin.
Michele Marin Ringrazio il dott. Ruggero Chinaglia e l’Associazione cifrematica di Padova. Il tema che dibattiamo oggi, l’intellettualità, riguarda la messa in atto di quei dispositivi di valore che portano ciascuno, non solo nel suo ambito ma in ciascun ambito in cui si trovi, a sfruttare ogni elemento, circostanza e opportunità per aggiungere una acquisizione, un mattone costruttivo al proprio progetto e programma di vita. Per far questo occorrono generosità, umiltà, indulgenza; quelle virtù, quelle proprietà dell’Altro, dell’ospite ignoto, che nessuno possiede come caratteristica personale, dotazione naturale, o istruzione familiare. Nessuno, tranne il soggetto, tranne chi creda di essere qualcuno, chi è affezionato ad avere o a essere.
L’oscillazione fra queste due idee crea l’abitudine. “Un’abitudine, se non contrastata”, scrive S. Agostino, “presto diventa una necessità”. Si parla dunque di una disposizione a sospendere quella procedura canonica critica, interpretativa e deduttiva che liquida la difficoltà delle cose – e in alcuni illuminanti casi anche i presunti responsabili della difficoltà stessa – determinandone la soluzione. La traversata della difficoltà non si compie liquidando le cose nella loro complessità, che serba anche la loro ricchezza.
Non è tanto sotto accusa il significante ‘soluzione’, in quanto tale. Un significante, che è nel luogocomune, può essere ingenuamente usato per designare qualcosa che si fa senza luogo e senza nulla di comune.
Ma sappiamo, purtroppo, che in moltissimi casi quando si parla di soluzione, non è la trovata, non è l’inedito, non è l’invenzione, non è l’abilità ad entrare in merito. Bensì le proteiformi manovre della mentalità algebrica, che tendono a semplificare, a uniformare, a riportare all’unità convenzionale prestabilita. Il criterio di unità, di unificazione – quotidianamente praticato a qualsiasi livello – è un criterio umano, semplificatorio, delegante. Che non punta a intendere il valore delle cose, nella loro complessità, ma a suddividerle in tante piccole unità più o meno uguali, e a ricomporle in un modello prestabilito, dove la questione, l’ipotesi, il progetto si possono vedere, riconoscere, definire complicati o no. Su un problema, una trattativa, una vendita, un ragionamento, una decisione, un’occorrenza, un compito viene insomma applicato un principio di ragione sufficiente, un principio democratico, basato su un valore preesistente.
Spinoza: Mens certus et determinatus modus cogitandi. La mente cioè, vuole negarsi per la necessità governata dal principio di ragione. Nessuna cosa che giunga a giusta conclusione è stata seguita e portata a quella conclusione secondo modalità ideali, cioè seguendo il principio di inerzia, il principio del minimo sforzo, seguendo il modello previsionale/antropologico basato sui mezzi giustificati dal fine. Salvo barare – talora addirittura a nostro danno – e chiamare quella conclusione ‘ideale’, laddove abbiamo inventato e usato, strada facendo, strumenti non convenzionali, pure anomali, ma – è bene ribadirlo – non prescritti e non proibiti, e pertanto mai illegali.
Pure la legalità esige una formalizzazione per dare un valore aggiunto, diciamo, al legale – che di per sé non è certo un valore assoluto – e consentire al tempo stesso al progetto, all’impresa di vita, all’impresa della parola, cioè alla direzione del viaggio – culturale, artistico e finanziario – di giungere alla novità, alla cifra, al valore nuovo. Necessariamente inedito. Ognuno vive bene o vive male se si scava la fossa, cioè la sua legalità, speculare di una legalità generale. Può giustificarsi in ogni momento, presso di sé, presso gli altri, presso la società. E, rispettando questi limiti, nella vita non combina niente. Può essere modesto o codardo, accontentarsi della sua prigione perché è abbastanza larga. Oppure un furbo. Il delinquente, il ladro, il furbacchione dà per scontato che il legale è il nemico.
Si realizza – chi per vocazione, chi per professione, chi dicendosi vittima delle circostanze – in modo contro o extra-legale, perché deve raggiungere una meta, il traguardo di benessere (vita come benessere). Perché non avendo letto Machiavelli ha imparato bene il machiavellismo: che il fine giustifica i mezzi. Deve assoggettare l’impresa alla visione dell’impresa, alla sua prospettiva di vita. E quindi deve liberarsi, evadere. Evadere dalla parola, evadere dalla legge della parola. E evadere pure, quand’è il caso, dalle leggi ordinarie.
Il coraggio può essere dell’eroe o del furbo. Per il quale la vita è un bene che consiste nell’evasione da ciò che la legalità prescrive, proibisce o permette. Mentre il primo caso – il codardo o il modesto – si dà la pena perché crede che ogni iniziativa, ogni incominciamento entrino automaticamente nel prescritto o nel proibito. Ma la scienza della parola, come scienza del due, della contraddizione originaria, si attiene a quelle norme, regole e motivi che a un tempo sono la guida per un percorso culturale e un cammino artistico. Non è in tutta la gamma dei dispositivi di cui si occupa – editoriale, artistico, scientifico, finanziario – né legale né illegale. In quanto prescinde per sua stessa natura da ciò che è prescritto e da ciò che è proibito. Perciò è legittima.
Un esempio scientifico ci è offerto proprio da Galileo, il quale ha adoperato strumenti legittimi: calcoli, matita, cannocchiale, non per scoprire, ma per constatare conclusioni e verità che non erano quelle rivelate dalla legge contemporanea. E si trova a dire, in una più volte citata lettera a Cristina di Lorena che: “Essi – i giudici, i preti, i filosofi, l’Inquisizione – si turbano, si eccitano per i particolari che ha scorto in cielo come se li avesse messi lui per disturbare il cielo che essi si sono fabbricati”. La libertà della scienza, la libertà della parola non è la libertà del soggetto. Non è una liberazione. E non è nemmeno una facoltà. E il furbo non è intelligente.
Il furbo ha paura; ma pensa di prenderla per la coda, di addomesticarla, di assumerla facendo vedere ad altri che è in grado di esorcizzarla. Punta non a dissolverla, con la tranquillità e la sicurezza del proprio operato, ma a metterla in primo piano, a contabilizzarla, a farla rientrare nei famosi “rischi calcolabili”. Non costruisce. Edifica. Magari palazzi di sabbia, che crollano al primo scossone. La furbizia, in quest’epoca del visibile, consente a ognuno di partecipare ai valori che la coscienza comune, l’opinione comune, la paura comune garantiscono come contemporanei. Di un valore a venire, che sia frutto di un processo di valorizzazione, di criteri rivoluzionari e nuovi per la città, per una riforma culturale e – perché no?- costituzionale, non se ne parla proprio.
Il valore contemporaneo è una visione dell’avvenire, in cui la posta in gioco è la sopravvivenza. Non la vita, non l’intelligenza. Che, essendo arte nel fare, è intelligenza artificiale, non naturale. La natura delle cose non è naturale, non è zoologica. Non è data. Leonardo: “La natura è piena di infinite ragioni che non furon mai in isperienza.” La natura dà qualche indizio attraverso la contronatura. Che, ovviamente, non ci si aspetta, e che è spesso contraddittoria. E questa contraddittorietà (contraddizione) è precisamente l’originario cui occorre attingere perché l’indizio, la notizia non si disperdano, non vengano gestiti dall’agenzia dei ricordi, delle reviviscenze, delle esperienze retrospettive che fondano il sistema prospettivo dei rimedi.
Questa non è più l’epoca ideologica. È l’epoca che sorge – dire che sorge è quasi una ridondanza – dalle imponenti rovine dell’epoca ideologica. L’epoca ideologica – sia detto senza rimpianti – è stata quella che ha portato sino alle sue estreme conseguenze (politiche, economiche, sociali) 2500 anni di aristotelismo. Ma, occorre dire, era l’epoca in cui l’idealismo muoveva le folle, gli eserciti, i movimenti culturali, gli stessi flussi finanziari. In quantità tali che – per equivoco – qualcosa di inventivo, di imprenditoriale, nell’arte, nell’editoria, nell’ambito scientifico producesse, rilasciasse importanti testimonianze e prodotti di valore.
L’intellettualità era tollerata, il profitto intellettuale era tollerato, perché c’era sempre un ambito, un partito, una chiesa, un movimento d’opinione che – ripeto, per equivoco – lasciava che l’arte, la scienza, la cultura portassero acqua al mulino dell’ideologia. Giacché il valore e l’ideale – parliamo dei canoni dell’epoca – venivano considerati alla stessa stregua. Per certi aspetti era un’epoca senza risparmio. Non c’era paura della novità, in quanto c’era una copertura ideologica come garante.
L’intellettuale era definito e riconosciuto organico, organico al mondo politico, alla cultura politica, alla cultura economica, sociale ecc. Ma c’era un errore, un tragico errore di fondo, tra i molti, che con quell’ultimo epocale colpo di coda, si è tentato di dare un abito istituzionale alla cultura, alla scienza, all’arte, alla finanza e – non ultima – alla medicina, quasi a volerle legare al carro morente dell’ideologia.
Un abito che prima c’era, ma non era obbligatorio. L’equivoco, l’inevitabile, essenziale, innocente equivoco – le cose incominciano sempre per equivoco – veniva trascinato nella fase successiva. Quella dell’epoca post-ideologica: un’epoca in cui lo iato fra l’ideale e il valore risulta ora evidente in tutta la sua ampiezza. Il riferimento, l’aggrapparsi ai frammenti dell’ideologia, ai ricordi, alle impossibili rievocazioni e ricostruzioni ideologiche espone a rovinose cadute, a oscillazioni. La cifrematica si attiene, come scienza, alle virtù del principio della parola, ciò per cui la scienza è presa nella parola. E ha dato in trent’anni tutte le testimonianze e i criteri in virtù dei quali il principio della parola non sta né al di qua né al di là del principio di piacere. Ma ne prescinde proprio.
E questo non mancando di notare, in altrettante occasioni, come il principio di autorità e il principio di responsabilità, altro non siano che varianti del principio di piacere, nella forma del fantasma di padronanza. Prevalenza del fantasma di autorità nell’epoca ideologica. Prevalenza del fantasma di responsabilità nell’epoca contemporanea. A mio giudizio il più pericoloso, il più insidioso è il secondo.
Dico questo forse perché, considerando la mia esperienza di medico, a cavallo delle due epoche, assisto, oggi, a un surreale spettacolo, a una caricatura dell’efficienza sanitaria. L’auctoritas – che non è l’autoritarismo, il potere o la padronanza –sino a ieri, per secoli, poteva entrare nel dispositivo medico-paziente, in modo tale che l’interlocutore aveva per così dire l’ultima parola, e il consilium (che è la decisione) maturava da un ragionamento che non era esente da rischio. Parlo di rischio di impresa, non di pericolo di morte.
In molti casi c’era la chance perché effettivamente il medium fosse la parola. Non perché si guarisca a parole, ma perché la parola è strumento per dissipare il concetto di malattia come conseguenza, come ereditarietà. Quindi strumento di tranquillità, anche rispetto alla procedura che si intende seguire, caso per caso; e mai sbandierata come standard. Oggi questo rischio viene sistematicamente delegato alla macchina, alla statistica o al farmaco. La responsabilità, che la cifrematica precisa essere della legge della parola, viene stravolta, intesa come ‘senso’ di responsabilità. Frammentata e condivisa risulta paradossalmente essa a certificare l’auctoritas. E al medico, che viene male-educato a dover sapere in teoria tutto, e in pratica sempre più su sempre meno, spetta una funzione non più di interlocutore, ma notarile.
Occorre dire che il tecnologico e il giudiziario, sotto questo aspetto, hanno stretto un patto scellerato, che comporta perdite economiche e di tempo inimmaginabili. È l’epoca dell’esibizione del visibile e del dimostrabile. E tutto ciò è conforme e sincronico a quanto succede in altri ambiti: visibile, dimostrabile, dissimulabile. Un’etica emula non dell’estetica, ma della cosmetica. Infatti il ‘corpo’ del potere politico, del potere mediatico si mostra tecnologicamente vitale! Comunque sia, epoca ideologica o post-ideologica, si tratta di due forme diverse dell’idea di padronanza. Ma non è la crisi! È la coscienza della crisi, la conoscenza della crisi, la propaganda della crisi; una propaganda – scrive Verdiglione – per allucinazione visiva.
Mentre la crisi è occasione per allucinazione acustica. La crisi è improbabile, non situazionale. Esigendo la prova, è la base della riuscita. È’ sottrarre l’avvenire all’idea di salvezza, all’idea di un ‘sistema fiduciario’ che prospetta nuove oligarchie, nuovi ‘assetti fiduciari’. La ‘crisi di valori’ è la definizione secondo il vocabolario ideologico, che risulta oggi nostalgico, secondo cui spogliato dell’ideale,il valore risulta relativo. E è una superstizione secolare, ieri basata sull’idea di dio, cui si è sovrapposta l’idea della dea ragione, cui si è sovrapposta l’idea tecnologica.
Sono concetti religiosi, logie gnostiche, applicati antropomorficamente a dio, alla ragione, alla tèchne, cioè all’arte e invenzione. E non è nemmeno ‘crisi dei tempi’. È il tempo come crisi, come giudizio. Come lo è sempre stato. La politica del tempo non ha nulla a che spartire con gli attributi spaziali, cronologici, fatalistici, economicisti che sono stati attribuiti al tempo, all’arte e alla cultura. Esempio di attributi: cultura politica, cultura economica, sociale, medica.
Ma sono attributi che risentono dell’impostazione teocratica, illuministico-romantica, tecnologica che sono varianti epocali del discorso occidentale (discorso politico, discorso economico, discorso filosofico, discorso giudiziario, discorso medico). La politica, la finanza, l’economia, l’arte, secondo la procedura dell’esperienza, secondo la logica della parola non sono mondanamente a favore o contro il mondo della politica, il mondo della finanza, dell’arte. Ne prescindono.
L’era della cultura come arte del fare, arte dell’impresa, come politica del fare, come politica dell’ospite non è epocale. Crisi finanziaria? Sì, ma non nel senso di deficienza. Se è convertita in deficienza, allora è attribuita al soggetto. Un soggetto della colpa e della pena, pubblico o privato. Un soggetto robot, nostalgico di un sistema di ideali, che non hanno mai avuto nulla da spartire con il valore assoluto, con la politica dell’ospite. Il cui terreno, l’humus, è l’humanitas, non la hominitas. L’era del secondo rinascimento, l’era intellettuale si trova oltre il principio della fine, della finalizzazione, oltre il principio della morte e della crisi.
Una politica che non rivendica previsioni o giudizi sulle crisi epocali. L’esperienza, maturata dai primi anni settanta, aveva già constatato- indagando solo su elementi artistici e culturali, e interpellando tutti gli intellettuali del pianeta – l’imminente caduta dell’impero sovietico e le conseguenze per l’Europa, ben prima che ciò fosse considerato possibile da chicchessia. E il patrimonio culturale e artistico che essa offre comprende anche la restituzione in valore non solamente dell’originario della psicanalisi, ma del primo Rinascimento. L’era del secondo rinascimento non viene dopo o fa rinascere il primo rinascimento. Lo compie. Porta a frutto cioè, la nozione (ktema), ciò che si acquisisce alla luce di quelle premesse scientifiche e artistiche del primo rinascimento.
Leggere la novità, nell’attuale, del testo di Leonardo, di Machiavelli, di Galileo, di Vico non è cosa facile oggi come non lo era allora, perché la contemporaneità cambia forma. Ma poggia sugli stessi vizi di origine, gli stessi vizi di lettura, che si prestano a tutte le interpretazioni e le misletture ora tributarie dell’ideologia religiosa, poi controriformistica, poi illuministico-romantica. Le quali sono state e sono la sovrastruttura di ogni ambito accademico, politico, giudiziario, medico, scolastico. La sovrastruttura, cioè l’abito. L’ostinazione politica, l’ostinazione educazionale, politica, medica – avendo solamente i ricordi delle basi e delle procedure ideologiche – situa l’intellettualità in un setting.
La accetta, la vede, la interpreta come un sapere SU, un bagaglio culturale, una fucina di opinioni. Massimo inganni delli homini – scrive Leonardo – è nella loro oppenione. E ciò rassicura i soggetti. Diviene funzionale all’indifferenza. Ma se pragmaticamente porta a dire, intraprendere, ad aprire una strada, necessariamente anomala in quanto nuova, allora induce sospetto, e il sospetto genera paura. Il sospetto, come dubbio gnostico, risente ancora della teoria delle idee.
A nessuno piace lo standard; ma ognuno accetta il compromesso, accetta lo standard per paura di trovarsi al di qua o al di là dello standard. E ognuno identifica la sua diversità (il suo particulare, direbbe Guicciardini) come misura della distanza fra sé e la linea standard. Scherza con la linea delle Parche. Ma scherza, non gioca. E non si mette in gioco perché non prescinde dallo standard. Però, talora, è altruista. E è disposto, accettando naturalmente uno standard aggiornato, a ammettere che lo standard di ieri era sbagliato. E allora riabilita (400 anni dopo) Galileo perché, effettivamente, si è visto, si è dimostrato ecc.
Voi pensate che, mutatis mutandis, se Galileo cambiasse nome o veste scientifica e dicesse oggi cose deliranti rispetto al lirum, alla linea scientifica, finanziaria, ufficiale contemporanea verrebbe accolto a braccia aperte? Basterebbe leggersi il celebre passo dei Fratelli Karamazov, quello sul Grande Inquisitore. Vengono riabilitati anche i dichiarati malati mentali di un tempo. In una bellissima mostra, in questi giorni, che c’è a Siena, “Scena, Arte e follia” ho raccolto alcune didascalie in margine delle opere firmate da artisti già ‘ospiti’ dei regi manicomi. Tipo: “I folli aprono vie che poi percorreranno i sani”; oppure “Parità della validità delle opere prodotte sia dai sani che dagli insani”.
C’è sempre, come vedete, un’impostazione gnostica che non ammette la vita come contraddizione originaria, come un gerundio, bensì come uno stato, in cui si possa contrapporre, separare la salute e la malattia, il bene dal male, il fisico e il mentale, il sano che riconosce l’insano. La verità non è un effetto, anomalo, improbabile ma un elemento separatore. Una verità come causa è ogniqualvolta questo sapere come verità causale, converte la differenza in diversità. Ciò avviene sotto il principio dell’intolleranza. Verdiglione nota esattamente questo: gli umani si dividono in due categorie: coloro che fanno e coloro che cercano di fare. E coloro che cercano di fare non tollerano coloro che fanno. Coloro che si riferiscono al bene come sostanza, alla proprietà come sostanza, non tollerano la proprietà intellettuale. E sono lontani, aggiungo io, dall’essere in salute.
Concludendo vorrei citarvi le risposte che oggi, al telegiornale, Rita Levi Montalcini ha dato a una giornalista che la intervistava in occasione del suo 100° compleanno. Alla domanda: “Può dirci qual è il bilancio, il frutto della sua vita; e qual è il segreto di una lunga vita?” Risponde lo scienziato: “Io sono atea. Ciò che resta non siamo noi; sono le opere che lasciamo. Il segreto? Mi sono sempre totalmente disinteressata della mia persona”. Leggiamo: Non ci si può ispirare a dio, o fare qualcosa in nome di dio. Dio interviene, come fantasma, come operatore quando facciamo. E il resto non è necessariamente legato a un dopo; quello che altri riconosceranno. Il resto come valore è quanto e come della memoria si propone nell’attuale. È l’attualità dell’avvenire, come avvenire in atto. Non è in un futuro possibile. Quanto alla persona: la persona è sacra, la vita, come intervallo, è sacra. È il soggetto che non è sacro. Di questo dobbiamo disinteressarci.
R.C. Anche qui ci sono moltissimi spunti, uno di questi suggerisce qualche nota: cioè, quanto deve all’abitudine il successo della scienza dell’episteme rispetto alla scienza della parola? Scienza dell’episteme che è sorta come reazione alla scienza della parola, e tuttavia è considerata la base della cosiddetta società contemporanea. L’abitudine, ossia ciò che in modo più comune viene chiamata la pigrizia mentale, la mentalità; ecco, quanto deve a questa pigrizia, a questa abitudine, a questo habitus la scienza dell’episteme? E quanto deve all’abitudine ogni complicità con il sintomo, ogni complicità con se stessi, ogni complicità con la mentalità? La condizione attuale della medicina interroga quanto a questo, perché un conto è chiamare medicina una presunta competenza sul corpo, sul funzionamento, sull’organismo, un conto è se noi chiamiamo medicina i mezzi e gli strumenti della parola.
Medicina. In che modo la cosiddetta scienza medica tiene conto che il termine medicina allude al tempo? Questa radice med che si trova in medico, medeor, curare, modo, mezzo; la cura è temporale e intellettuale. Eppure la medicina si avvale della statistica, occorre dire negando questa sua natura temporale, negando i mezzi e gli strumenti della parola, che intervengono a indicare che ciascun caso è inaccostabile, inavvicinabile, irripetibile, imparagonabile ad ogni altro, e quindi chiede udienza, chiede la specificità dell’intervento, chiede l’altro modo, perché mai la questione sta tra il medico e il paziente. Nessuno è paziente.
Se la questione stesse tra il medico e il paziente saremmo nella necessità della competenza. La questione è in ciò che sorge nell’interlocuzione eventualmente fra il medico e il cliente, fra il medico e chi lo interpella, chi formula una domanda. Ma se costui è già dato per malato, per paziente, per spacciato, per colpevole, per innocente, allora il dispositivo non sorge più, sorge una riproduzione economica di una genealogia del fatto. Quanto vale un intervento che segue la logica della parola, l’istanza della parola, rispetto a un intervento canonico? Parlava di valorizzazione Marin, anche rispetto all’atto che possiamo chiamare atto medico, valorizzazione senza ossessione.
Di cosa si tratta nella valorizzazione? Quanto vale una conversazione senza il canone della morte? Quanto può valere un incontro dove la questione resta aperta, anziché chiudersi, rispetto alla mentalità, alla consuetudine, all’idea che ognuno ha di sé, all’idea che le cose devono finire, che devono andare male, quanto vale? Quanto vale un atto originario? Può esserci il tariffario degli atti originari? Quanto vale la vita? Quanto vale la felicità? Ma non la felicità di chi dice “sono o non sono felice”, perché questa è l’idea della felicità che può avere un cretino, cioè la felicità come qualcosa di un continuo.
La felicità è istantanea, è il frutto di una combinatoria istantanea. Quanto vale l’istante, su cui non può esserci nessuna competenza, nessuna possibilità di replicazione, di duplicazione, di ripetizione? Può essere condiviso l’istante della felicità? Questo relativismo attorno al valore è qualcosa che interroga ciascuno, è qualcosa che riguarda la questione di questa sera, l’intellettualità e il piacere, è qualcosa che invita certamente a leggere questo libro.
E chi legge questo libro legge sì L’intellettualità e il piacere, ma legge trasversalmente, di rimando, per via di eco, anche Il capitale della vita di Armando Verdiglione, cui alcuni saggi qui contenuti rimandano come traversata, come echi di lettura. Quindi, chi compra questo libro fa un affare: è come se ne comprasse due. Questo giusto per invitare a tenere presente che è importante leggere. Ringrazio ancora ciascuno di voi, Domenico Lavermicocca e Michele Marin, per essere stati qui con noi questa sera. Arrivederci.