La battaglia per la salute
- Chinaglia Ruggero, Giorgio Antonucci, Maretto Andrea, Viero Maria Antonietta
1° marzo 2002 Dibattito dal titolo La battaglia per la salute, con Giorgio Antonucci, Andrea Maretto, assessore alla cultura del Comune di Noventa Padovana, Ruggero Chinaglia, Maria Antonietta Viero a Villa Valmarana, a Noventa Padovana, con il Patrocinio del Comune di Noventa Padovana
La battaglia per la salute
- Giorgio Antonucci, medico, poeta, scrittore
- Andrea Maretto, assessore alla cultura del comune di Noventa
- Ruggero Chinaglia, cifrante
- Maria Antonietta Viero, imprenditrice
Andrea Maretto Ho il piacere questa sera di introdurre la prima delle tre conferenze, organizzate dalla nostra amministrazione in collaborazione con l’associazione Cifrematica di Padova. Fin dall’inizio questi appuntamenti, aperti alla cittadinanza, sono stati principalmente concepiti come occasioni per riflettere su alcune tematiche, apparentemente generali, che però riguardano la sfera personale di ciascuno di noi. L’uomo di oggi non ha più tempo per riflettere, per riappropriarsi di emozioni, di sensazioni, esperienze che derivino anche dal confronto con gli altri. È il tempo della fretta, del mordi, del fuggi, della superficialità, anche nei confronti di noi stessi, soprattutto magari nei confronti di noi stessi, perché quando si tratta della nostra persona cerchiamo di dare per scontato, per meccanizzato qualsiasi nostro gesto.
Chi siamo, dove andiamo, cosa facciamo e, ancora meglio, come facciamo quello che intendiamo fare, spesso e volentieri è un enigma anche per noi stessi, proprio perché ci facciamo coinvolgere da tutta una serie di meccanismi, di gesti automatici, di cose fatte e ripetute. Il fatto di stare qui può essere segno che stiamo impiegando un po’ di tempo solo per noi stessi, per riempire il nostro contenitore mentale di nuove conoscenze ed esperienze. Questo è un fatto culturale. Io, personalmente, non aggiungo mai troppe parole alle semplici idee che mi vengono in mente così su due minuti, quindi adesso lascio subito la parola al relatore, che ci farà partecipi della sua attività. Lascio ai miei compagni di tavola l’onore, anche perché sono le persone più indicate per la presentazione ufficiale della serata, e del relatore che ci intratterrà per tutto il tempo necessario: la signora Maria Antonietta Viero.
Maria Antonietta Viero Buonasera. È una serata bellissima e bella è questa villa, bello è questo salone, e stupendi sono gli affreschi alle pareti, e i quattro salottini che vi si affacciano, pur chiusi, annunciano e alludono già all’infinito della parola che convoca in primis me’, il nostro ospite il professor Giorgio Antonucci, l’assessore alla cultura il signor Andrea Maretto e il dottor Ruggero Chinaglia, psicanalista, membro dell’associazione europea di psicanalisi e dell’associazione internazionale di cifrematica, e convoca anche ciascuno di voi a questo appuntamento, per questo primo avvenimento a cui seguiranno altri due incontri.
Il prossimo sarà l’8 marzo, quindi venerdì prossimo. Ci sarà la presentazione del mio libro, La ballata del Moro Canossa, e poi seguirà un terzo incontro, il 22 marzo, e sarà una conferenza con dibattito tenuto dal dottor Ruggero Chinaglia sul tema “La famiglia” che, come sappiamo, suscita sicuramente molte questioni. Sono appuntamenti non casuali. E lo dico perché si sono instaurati nella generosità intellettuale di un incontro, e direi un doppio incontro, un incontro assolutamente vero. Nato perché sono stata chiamata in biblioteca a Noventa a firmare questo mio libro e ho incontrato una persona, la responsabile Luisa Gallo, che ringrazio, e l’ho trovata di una generosità senza pari. E ho trovato anche che le mie esigenze combaciavano con le sue, e quindi questo è potuto avvenire.
E poi un altro incontro vero l’ho avuto con l’assessore, proprio con Andrea Maretto. E lì ho potuto constatare che ha esigenze culturali assolutamente autentiche, testimoniate da quel che sta facendo qui a Noventa. Per questo lo ringrazio.
A.M. Grazie.
M.A.V. Vorrei aggiungere qualcosa per chiarire quel che apparentemente può sembrare specialistico, come stasera in cui si tratta della battaglia per la salute. Qualcuno mi ha chiesto in questi giorni: “Ma è per specialisti?” No, è per curiosi. Nella mia esperienza ho imparato che non c’è nulla che non possa essere affrontato se non con quest’arma culturale che è la curiosità, e è in questo senso che io procedo in questa esperienza. Si tratta per ciascuno di trovarsi in un itinerario da fare, che riguarda l’attraversamento della vita, di ciò che ciascuno fa giorno per giorno, mettendo in gioco i pregiudizi, i luoghi comuni, le superstizioni. Ed eccoci allora qui a provarci nella parola, a restituire ringraziando quanto ci viene offerto dal testo della vita, avendo deciso di vivere in direzione della qualità.
E io giungo da una bottega di stampo rinascimentale, leonardesco, dove si tratta dell’artista e della sua scuola, l’esperienza della parola originaria che è stata avviata da Armando Verdiglione già da trentanni, fa. E è una parola che non si sa prima di debuttare, è una parola che narrandosi si combina arbitrariamente con altre parole e coglie nel divenire l’incontro con l’inedito, l’occasione di una sorpresa, un effetto di senso, un effetto di sapere che non si avvale di nessuna facoltà, e anche un effetto di verità. La parola, parlando, enuncia l’urgenza di compiere il suo cammino; c’è qualcosa che non c’era prima e che non è mai stato, quindi qualcosa si compie per questa urgenza che la parola ha nel suo enunciarsi.
Convoca, insiste e insiste in ogni modo, oltre l’estrema rappresentazione. Convoca il parlante a udire ciò che resta di un ascolto per proseguire, facendo, e intervenendo in ciò che occorre fare. È questa l’esperienza della psicanalisi che non trova il sintomo nella patologia, ma lo situa nella via dell’insegnamento. E a questo proposito, questa sera, siamo qui a proporre questo tema La battaglia per la salute, che è titolo anche di un libro di Thomas Szasz. Ve lo faccio vedere, che è questo.
Thomasz Szasz è uno psichiatra ungherese, poi trasferitosi in America. È noto nel pianeta per avere scritto Il mito della malattia mentale con un enunciato ormai famosissimo che la malattia mentale non esiste. Poi avremo modo di riprendere questo, e proponiamo questo tema insieme a un uomo eccellente, rarissimo, molto prezioso che si chiama Giorgio Antonucci, che ha fatto della sua vita una vera battaglia. Ha pubblicato con noi, con la nostra casa editrice che è Spirali, due libri: La nave del paradiso, che è questo, e Le lezioni della mia vita, che è la testimonianza di una produzione di tre giorni di corso a Milano, all’Università del secondo rinascimento. E è un amico a cui esprimo la mia stima immensa, la mia ammirazione per quello che ha fatto.
È stata una fortuna incontrarlo. E devo dire che, oltre l’ammirazione, c’è anche tutto il mio amore. La sua è un’esperienza che ha portato a mettere in dubbio quella che è stata da sempre una religione: la religione della malattia. E lo ha fatto lavorando negli ospedali e negli istituti psichiatrici, da Cividale nel Friuli a Imola, a Firenze, intervenendo sempre con puntualità in quello che occorreva fare, senza mai chiedere. Pone in discussione le basi scientifiche della medicina comunemente intesa e i presupposti scientifici su cui si giustifica attualmente l’intervento del medico in materia di disagio.
E ora aggiungo una testimonianza della lettura, una lettura che io avevo già fatto un anno fa del suo libro e che però ho rivisitata. Questo libro Le lezioni della mia vita mi ha trovato coinvolta protagonista tra le sue righe e quello che ho trovato è l’assoluta fede nella parola e l’amore per la vita. L’amore come l’aria tutto avvolge e che ha saputo con semplicità, e nell’estrema difficoltà in cui si è mosso, accostarsi all’Altro emarginato. A Antonucci il ringraziamento particolare di aver volto significanti segregati e segreganti del marchio dell’infamia in poesie. E adesso ve ne leggo una, prima di passargli la parola.
Se mi ascolti
e mi credi
posso raccontarti
posso raccontarti
in che modo
sono finita
qui dentro
posso raccontarti
cos’è accaduto
quando avevo
sedici anni
La mia storia
è molto
semplice
La mia storia
è semplice
è chiara
La ricordo assai bene
e posso parlarne
con serenità
nonostante tutto
Nonostante il ricovero a tradimento
Nonostante gli interrogatori dei primi tempi
Nonostante
gli insulti
Sei agitata!
(io mi ribellavo)
Sei incomprensibile!
(io cercavo di spiegarmi
e di sapere)
Sei pericolosa!
(io mi difendevo)
Nonostante la camerata e il cortile
dove il sole e la luna
concedono poco
per mancanza di spazio
Nonostante i miei anni
senza nulla
La mia storia
è semplice
e chiara
e la ricordo assai bene
e posso parlarne
con serenità
se mi ascolti
se mi ascolti
e se hai il coraggio di credermi
e se hai
il coraggio
di credermi
perché vedi
non mi ha
mai
creduta
nessuno
perché
non mi ha
mai
creduta
nessuno
Ho perduto le gambe sotto il treno
Per loro fu un tentativo di suicidio
Io potrei dirti
forse è successo
per disgrazia
forse volevo uccidermi
Ma che ti importa perché è successo?
Per loro non fu disgrazia
Per loro non fu disperazione
Per loro fu pazzia
loro spiegano
tutto
con la pazzia
e sono venuta qui dentro
e ci resto
e debbo ringraziare l’infermiera
se la mia seggiola a rotelle
viene spinta
dalla cella
al cortile
e dal cortile
alla cella
perché così la mia vita
anche se squallida
non è monotona del tutto
perché così la mia vita
anche se squallida
non è monotona del tutto
Se mi ascolti
e se hai il coraggio di credermi
la mia storia
come vedi
è molto semplice
Passo la parola al professore Antonucci.
Giorgio Antonucci Grazie. Ringrazio molto Antonietta per quello che ha detto. Cercherò di raccontare qualcosa. Innanzitutto voglio dire che il mio pensiero, le mie riflessioni sono strettamente legate all’esperienza pratica, cioè io sono un medico, ho fatto il medico di medicina interna, di medicina generale. Ho fatto quello che ora si chiama il medico di base e poi, casualmente, mi son trovato a incontrarmi con situazioni di persone che rischiavano di essere strappate dalla loro vita di tutti i giorni, dal loro mondo, dai loro rapporti, dai loro pensieri e essere, come succede ancora, prese con la forza e portate in una clinica psichiatrica o in un manicomio. Prese con la forza e portate, strappando tutto quanto quello che le riguarda, con la pretesa di migliorare il loro modo di pensare e di essere, cioè questo sequestro sarebbe l’inizio di quella che loro chiamano una terapia. Con la pretesa di intervenire non solo con la forza, ma anche con altri mezzi di istruzione, cercando di imporre a queste persone un pensiero diverso da quello che hanno, soltanto perché il pensiero che loro hanno, o il comportamento che loro hanno, sembra un comportamento incompatibile con la vita degli altri. Sottolineo questo sembra.
In questi giorni è uscito un film intitolato The Beautiful mind e è una storia vera. Non è che il film sia eccezionale così com’è fatto, però, siccome cerca di aderire a una storia vera che riguarda una persona che esiste ancora, che vive ancora, è una storia che non ha dentro di sé l’intento critico nei riguardi appunto di quello che succede, però i fatti parlano da soli. Se vedrete il film ve ne renderete conto. Io lo percorro rapidamente. Si tratta della storia di un uomo, un grande matematico, che nel 1994 ha preso il premio Nobel per le sue ricerche matematiche che possono essere applicate anche all’economia, che sono state applicate anzi con molta utilità all’economia. Per cui nel ’97 gli è stato dato il premio Nobel.
Quest’uomo, da giovane, quando era nelle varie università tra gli altri giovani in quel clima di competizione terribile, cioè nelle università c’è veramente una situazione feroce, non è un’esagerazione, cioè sono l’uno contro l’altro, la loro ambizione è l’ambizione di prevalere l’uno sull’altro, proprio una competizione che si trova in tutti gli aspetti della nostra società, ma dentro le università, queste sono università americane, è fortissima, e è un giovane un po’ diverso dagli altri nel senso che non ha la spigliatezza che hanno gli altri. Non è così disinvolto, si trova in imbarazzo ad avvicinare le ragazze. Quando le avvicina, parla loro in termini tali che lo mandano subito al diavolo. Vive molto da solo, pensa molto.
Sogna di fare con il suo cervello matematico qualcosa che lo distingua dagli altri, in competizione con gli altri che vorrebbero fare la stessa cosa. Questo suo vivere appartato, questo suo essere in difficoltà nella vita sociale e questa sua, appunto, ambizione, insieme fanno sì che lui a un certo punto cominci. Intanto lui porta avanti la sua opera fondamentale per cui dopo, in seguito, molti anni dopo, riceverà il premio Nobel, però naturalmente i riconoscimenti non vengono subito. Allora, lui è animato da una ambizione terribile e anche da una solitudine grande, tanto che a un certo punto si immagina che dal Pentagono arrivino alcuni agenti che lo incaricano di leggere dei codici segreti che si troverebbero nei giornali, perché questi codici segreti rivelerebbero, siamo negli anni ancora dell’Unione Sovietica, delle manovre dell’Unione Sovietica per fabbricare una bomba atomica speciale che potrebbe essere gettata negli Stati Uniti.
Tutto questo discorso qua, che si vede nel film, è un suo sogno e lui lo realizza in modo tale che parla con questi personaggi, sogna di essere partecipe attivo come un talento eccezionale perché, leggere i codici segreti attraverso i giornali, non è certo una cosa facile. Cioè lui pensa che la sua mente matematica possa essersi realizzata e essere apprezzata, e essere utile. Tutto questo fa sì, io la faccio breve, che a un certo punto la sua vita di sogno entra in conflitto con la sua vita pratica di ogni giorno. E allora succede appunto che arriva lo psichiatra, lo prendono con la forza e lo mettono dentro. Lui aveva già la moglie e un bambino. Lo mettono dentro e si vede, ci sono delle immagini di quando lui viene ammanettato, viene chiuso in cella, viene portato con la forza su un letto dove subisce elettroshock programmati, 5 elettroshock la settimana per 10 settimane, 50 elettroshock.
Poi gli fanno anche l’insulina coma. L’elettroshock, lo dico brevemente, lo conoscono tutti: è il passaggio di correnti elettriche nella corteccia cerebrale che procura delle crisi convulsive, che simili si trovano quando una persona è epilettica. Simili, non le stesse, comunque procura delle crisi convulsive e perdita della coscienza. Naturalmente il passaggio delle correnti elettriche procura dei sintomi di sofferenza, perché procura dei danni o funzionali o addirittura anatomici nel cervello. L’insulina coma è una puntura di insulina che abbassa appunto la quantità di zucchero nel sangue per cui le cellule non possono più nutrirsi e la persona va in coma. Il coma è uno stato che precede la morte. Tutti questi sono mezzi che vengono usati dappertutto, vengono usati anche su di lui.
Per fare che? Lui, dopo un po’, ritorna in famiglia e questo brillante scienziato quando ritorna in famiglia, dopo aver subito questi trattamenti e sotto l’effetto degli psicofarmaci, è una persona che al massimo sa fare di portare l’immondizia fuori quando arriva il netturbino. Di più non sa fare durante la giornata. Ora, siccome nonostante poi questi trattamenti, lui i suoi sogni ce li ha lo stesso, succede appunto un incidente nel senso che lui fa il bagno al bambino. Poi, siccome s’immagina di avere delle visite, si dimentica momentaneamente il bambino; il bambino, manca poco, affoga. La madre arriva di corsa, si spaventa, telefona all’ospedale psichiatrico per ricoverarlo di nuovo. Ora il ricovero lo fanno gli altri, cioè è un ricovero di forza lo fanno gli altri, allora lo psichiatra chiede alla moglie di firmare il ricovero coatto.
Allora lui supplica la moglie di non rimandarlo in manicomio e le dice che preferisce da solo pensare di fare i conti con la sua immaginazione e con la sua realtà, perché lui dice: “Ho un cervello abbastanza capace per fare questa cosa, limitare la mia immaginazione, e avere un rapporto più pratico con la realtà”. E infatti dopo l’agitazione la moglie, che aveva visto come l’avevano ridotto in manicomio, non firma il ricovero coatto e lui, piano piano, comincia a lavorare con queste sue immagini cercando di metterle da parte. Ritorna all’università, viene riaccettato da un un suo amico, Martin si chiama, che era uno in competizione con lui, che poi col passare del tempo si è accorto che questa competizione era assurda. Per cui lo accetta, nonostante fosse strambo e facesse ridere gli studenti. Per esempio, quando girava in bicicletta faceva l’omega sul percorso, invece che andare dritto, oppure altre cose. Poi scriveva le formule matematiche sui vetri, però lo riaccetta.
Lui rientra, continua gli studi e un giorno arriva un personaggio. Lui esce da lezione, perché aveva ricominciato a far lezione, esce sull’uscio, vede questo personaggio che non aveva mai visto. Siccome non l’aveva mai visto, c’è una ragazza che parla con lui e dice alla ragazza: “Lo vedi anche te?” E la ragazza le dice: “Sì, lo vedo anch’io” Allora lui si tranquillizza e dice: “Se lo vede anche lei, non è uno di quei personaggi che mi ha messo nei guai, è un altro”. Questo personaggio gli si avvicina e gli dice che stanno pensando di conferirgli il premio Nobel. Allora lui dice: “Siccome il premio Nobel non viene conferito senza avvisare prima la persona interessata – almeno così dice lui, io non lo so di preciso, ma in ogni modo lui dice – ma questo è un caso speciale”. Allora dice: “Andiamo nella sala da tè insieme che si parla”. Lui non era mai rientrato nella sala da tè, perché sapeva di essere strano.
Sapeva, a parte la sua applicazione intellettuale quando faceva lezione o faceva le formule matematiche, di essere poco accettato, se ne stava per conto suo a mangiare il panino. Allora, con questo qui, invece, entrano nella sala da tè. Lui si siede, si mettono a parlare e allora lui gli dice: “Ma lei è venuto da me a indagare su di me perché mi devono dare il premio Nobel. C’è quella grande cerimonia. Lei penserà che, siccome io sono pazzo, mi spoglio nudo e mi metto a fare coccodè davanti a tutti e allora come si fa a darmi il premio Nobel”. Allora lui gli dice. “Sì, che sta facendo indagini per vedere che, siccome il premio Nobel è una cosa seria, lui dovrà comportarsi certamente senza stravaganze”.
Mentre parlano così, c’era un’usanza nelle università americane che, quando una persona è eminente, tutti i professori, uno per uno, prendono la loro penna stilografica e gliela mettono sul tavolo. Il che è segno che riconoscono in questo un grande scienziato, un grande. E allora si alzano uno per uno, gli mettono le penne sul tavolo. Poi, la scena finale, si vede l’applauso al premio Nobel e lui che dice: “Ho tanto studiato la matematica, ho creduto nella logica, ma c’è qualcosa che va ben aldilà della logica, per esempio l’amore di mia moglie che mi ha permesso di uscire dal manicomio, altrimenti non sarei qui”. Cosa vuol dire questo film? È una storia vera. Intanto i punti.
Primo. Lui è stravagante, certamente. Se era un tipo banale probabilmente non aveva neanche quelle capacità che l’han portato al premio Nobel. Secondo punto. Siccome lui è stravagante, naturalmente è impacciato nella vita sociale e, quando è impacciato nella vita sociale, viene identificato, preso e portato con la forza dentro. Terzo punto. Cosa significa che uno vien portato dentro e, come dicono loro, curato? Che gli passano le stravaganze? No. Che rincretinisce, rimbecillisce, diventa uno zombi, per intenderci, e perde le sue qualità, ma le sue stravaganze gli restano lo stesso. Quarto punto, è che lui capisce che può uscire soltanto tagliando con la psichiatria e cercando di fare per conto proprio un percorso spirituale e un percorso di autocontrollo per evitare poi di riandarvi a finire dentro e di essere completamente annullato. E ce la fa.
Ultimo punto importante, che non è che lui si modifica e perde il suo mondo immaginario; ce l’ha lo stesso, ma lo tiene a bada. E questo è molto importante perché non si può. È un’assurdità, è una violenza, è una cosa terribile pensare di modificare con la forza il pensiero di una persona: o la si distrugge o la si uccide, cosa che spesso si fa nelle cliniche psichiatriche, oppure la persona, nonostante tutti questi trattamenti violenti, continua a essere sé stessa. Ed è giusto che sia così, perché non siamo tutti uguali, perché abbiamo un’individualità che dev’essere rispettata. Ecco, quello che io ho raccontato di questo film è quello che ho cercato di fare in tutta la mia vita. Cioè il discorso è: avvicinare una persona significa avvicinare una persona, non un oggetto. Avvicinare una persona, questo vale sia per quanto riguarda i problemi di rapporto, non i problemi psicologici. I problemi di rapporto. Ci sono persone che ce l’hanno più facile, altre più difficili. Per esempio, non so, ci sono persone che riescono a fare innamorare tante donne, uomini o donne che riescono a fare innamorare tanti uomini, altri che restano soli, perché appunto non ci riescono.
Se non sbaglio, lui dice che la matematica è come la musica, è come un’arte, bisogna averci immaginazione. Ma se uno l’immaginazione ce l’ha da una parte, poi la ritrova anche dall’altra, e l’immaginazione non è solo inquadrata, cioè come si dice logica, è anche creativa, nel senso che tira fuori cose che combaciano con le cose di tutti i giorni. Quello che volevo dire è che un medico che si occupa della salute fisica, come lo psichiatra che vorrebbe, ma che non si occupa bene della salute psicologica, Cioè chiunque si occupi della salute deve prima partire dal fatto che ci si incontra con una persona che è un’essenza creativa, che è una persona unica, che costruisce sempre cose nuove. In questo caso si può essere utili, sia per quanto riguarda la salute fisica sia per quanto riguarda quegli equilibri che bisogna costruire continuamente per vivere insieme agli altri.
Bisogna farlo, però sono tanti equilibri, non un equilibrio solo. E tanti equilibri a seconda delle personalità e a seconda dei talenti. È chiaro che appunto, gli psichiatri han detto che Mozart era un pazzo. Certo, Mozart non era uguale agli altri. Basta sentir la musica, se no tutti potrebbero scrivere la musica che ha scritto Mozart. Ma a parte l’arte, hanno detto che Mozart negli ultimi tempi aveva paura di morire, poi è morto, tra l’altro. Loro avevano detto che era depresso. Lui sentiva che c’era qualcosa che non andava. Tutto si trasforma. Qualsiasi comportamento, qualsiasi pensiero, qualsiasi creatività viene trasformata in qualcosa che dev’essere soffocata. E infatti, con quei metodi lì, succede.
Per quanto riguarda la salute fisica, voglio dire, io ho trovato in manicomio, ne accennava Antonietta, persone che stavano da vent’anni in camicia di forza. Immaginatevi quale salute fisica può avere un corpo che sta per vent’anni immobilizzato in un letto, quando la nostra salute è collegata col movimento, quanto più ci si muove. Ci si deve muovere. Se ci si immobilizza, una persona muore. Gli animali muoiono se sono immobilizzati. Noi abbiamo molta più resistenza. E io ho trovato persone che avevano i muscoli che non si reggevano il piedi. Io ho dovuto accompagnarle per riabituarle, lo facevo con le mie mani, a camminare per i muscoli. Poi è chiaro che uno che è chiuso da tanti anni!?! C’erano persone che dopo venti, trent’anni che erano chiuse lì si meravigliavano; appena uscite fuori non riconoscevano più il mondo. In trent’anni il mondo cambia molto. Ora, noi abbiamo una struttura medica fondata sul controllo e sulla repressione.
Passo all’ospedale civile. Tante volte sono usciti libri, non lo dico soltanto io. Mi ricordo un bel libro di Bepword, inglese, sulle cavie umane, con la prefazione di Giulio Macacao. È un libro che è stato pubblicato diversi anni fa. Ce ne sono diversi. Il discorso delle cavie umane è un discorso che riguarda tutti gli ospedali dove si sperimentano dei farmaci che non si sa ancora se fanno bene o male, per interessi ben precisi. Allora lo scopo non è né la persona né la salute fisica; lo scopo è un altro. Poi, pensate un po’ come fa una persona a migliorare, faccio per dire, di un infarto, e a volte ce la fanno che guariscono, quando viene presa, anche in questo caso qui, portata in una sala dove ci sono tante altre persone che stanno male, di mali diversi. Vengono lasciati a sé stessi.
I parenti non possono entrare se non in certe ore. La solitudine assoluta. Io sono qui che sto parlando, mi viene l’infarto, mi ritrovo in una sala bianca con dei cannucci da una parte e dall’altra, senza nessun rapporto con nessuno, e debbo guarire dalla malattia. Questo è un’assurdità. Gli ospedali, anche ora, non sono difettosi per il fatto che sono organizzati male o non finanziati bene, perché è il principio stesso che è sbagliato. È inutile che lo rigirano. Il principio stesso. L’ospedale è nato nel 400 come ospizio. E l’ospizio, più che altro, serviva per liberare i cittadini dai malati, non per curare i malati, anche se poi c’eran delle persone generose che lo facevano. L’ospizio che è stato, poi il manicomio è un ospizio. Si mettono le persone che disturbano, lì dentro. E l’ospedale lo stesso. Togliamo la persona che soffre o che è malata o che ha dei problemi di sopravvivenza immediatamente, perché la vita fuori continui.
Naturalmente molti medici cominciano a capire che se io ho qualcosa che mi prende, io sento l’angoscia della morte, c’ho il dolore dell’infarto, oppure anche la colica allo stomaco, non so, per una gastrite. Io mi sento venir meno, ho bisogno di un accrescimento di rapporto, non di una limitazione o annullamento del rapporto. Allora il discorso è che la medicina deve tenere conto della creatività e singolarità dell’individuo; deve tenere conto della sua spiritualità, se si vuole usare questi termini, e della sua libertà nel senso che non si può aiutare una persona a vivere meglio, e poi non si deve neanche provarci, contro la sua volontà, perché una persona ha diritto di scegliere da sé qual è la sua salute. Questo anche concretamente.
Io mi ricordo il libro di uno scrittore, di un magistrato svizzero, un bel libro, in cui lui racconta la sua storia perché si è trovato in grandi guai con i medici che a lui, a un certo punto, gli fanno la diagnosi di tumore alla prostata, e ha il tumore alla prostata. Però gli dicono, lui si deve operare naturalmente. Però se lui si opera, è ancora una persona giovane, sui 45-50 anni, così, se lui si opera, dopo lui ha finito con la sua vita sessuale. Allora lui dice: “Preferisco vivere – io prendo un aspetto, ce ne sono altri – preferisco vivere sei mesi avendo le mia qualità, la mia integrità”. Che non è solo un problema sessuale, è un problema di integrità, perché uno può anche non aver voglia di fare all’amore, cioè io non posso anche non aver voglia di nuotare, ma se mi mancano le braccia è un’altra cosa.
Allora lui passa un sacco di guai, e meno male è un magistrato. Invece, se è una persona che non ha nessun potere!?!? A me m’è capitato personalmente, ho dovuto difendere mio padre in ospedale, perché gli dovevano fare dei trattamenti che avevan programmato loro, ché mio padre non voleva. Allora il problema della salute è il problema del rispetto dell’integrità della persona, del rispetto dell’integrità della persona e delle sue scelte. Infatti questo qui ha scelto di non operarsi; è morto prima, ma ha vissuto come voleva lui. E mi sembra questo che sia giusto, perché se si deve parlare di rinascimento, il mio concittadino Leonardo da Vinci diceva che una vita ben vissuta lunga è. Vi ringrazio.
M.A.V. Ringraziamo il professor Antonucci e passo la parola al dottor Ruggero Chinaglia.
Ruggero Chinaglia È difficile parlare dopo l’intensità dell’intervento di Giorgio Antonucci, che risente dell’autenticità particolare che viene dalla sua esperienza. Ci parla di cose non sentite dire, non lette sui libri, ma di cose che ha affrontato personalmente, anzi impersonalmente, perché se avesse pensato personalmente a certe cose, forse non avrebbe trovato l’audacia e anche il modo per affrontarle, perché avrebbe anteposto una sua eventuale paura, un suo eventuale interesse alla questione che gli si poneva. Quel che risalta leggendo i suoi libri e ascoltando le sue testimonianze, io ho avuto varie occasioni fortunatamente di farlo in convegni, congressi e dibattiti, quello che risalta è la semplicità e l’autenticità del suo pensiero e un’impostazione che insomma non guarda al compromesso sociale.
Quando si tratta della questione della libertà, della questione della salute, per Antonucci non c’è nessun compromesso che tenga e si tratta invece di affrontare la questione intellettualmente. E questo è raro, se non unico. Per quanto attiene alla questione della salute, Antonucci ci dà la testimonianza che riguarda in particolare l’ambito dell’ospedale psichiatrico, dei vecchi manicomi. E si potrebbe pensare quindi che è qualcosa che è un ambito particolare, tanto più che oggi i manicomi non esistono più. C’è una normativa, ormai in atto da tanti anni, che ha decretato la chiusura dei manicomi, quindi il problema non si pone più. Ma la questione che resta, intellettualmente, è innanzitutto quanto l’introduzione di una normativa, quanto la chiusura di alcuni vecchi reclusori che ospitavano persone in condizioni anche più che disagevoli, quanto questo abbia contribuito all’effettiva elaborazione dei pregiudizi, per cui questi reclusori erano sorti, si sono mantenuti per secoli e poi sono stati chiusi per un’apparente questione di civiltà.
Quando noi parliamo di salute o di salute “mentale”, certamente interviene un’accezione di salute che risente di un pregiudizio, di una superstizione. Novantanove volte su cento la salute viene intesa come l’assenza del male. Si tratterebbe della salute dove non c’è la malattia, dove non c’è il male, dove quindi risulta allontanato il pericolo di morte. Questa è una salute ideale, è una salute per chi? Per nessuno. Chi può vivere in una condizione ideale di assenza di sintomi, di assenza di disagio, di assenza di questioni? Nessuno. E infatti non è questa la questione della salute, non è l’espulsione totale di ogni idea di negativo, di male.
È certamente l’articolazione dell’idea della morte come qualcosa che possa incombere in ogni momento come pericolo. È questa idea che poi presiede a quelle che sono le cosiddette cure che vengono applicate a chi riferisce di avere qualche guaio, qualche sintomo, qualche acciacco. Quindi c’è questa idea di salute come salvezza, come salvezza dalla morte che è fuorviante rispetto a quella che poi può essere il dispositivo da attuare per la cura, perché, paradossalmente, la nozione di cura, di salute, di medicina che interviene nel contesto sociale, istituzionale è una nozione che, anziché avere a che fare con la vita, ha sempre a che fare con la morte.
Consideriamo un caso di neoplasia. Qualcuno avverte dei sintomi, constata che c’è un tumore. Si reca dal medico e il medico gli dice che gli resta un tot da vivere. Per il medico non si pone la questione del perché si sia a un certo punto prodotta questa situazione tumorale; quello è dato per acquisito che questo caso rientra in una casistica, è dato per acquisito che la casistica è inevitabile, è la verità su quel caso e quindi gli viene anticipata la sua morte. Potrà esserci cura in quel caso quando è già stabilita la data della morte? Quel caso può venir curato come caso particolare o verrà considerato il rappresentante di una serie di casi a cui si approssima, per cui viene applicato un protocollo? E il protocollo dice che riesce nella tale percentuale dei casi, avrà efficacia in quella tale tipologia, cioè viene applicato tutta una serie di metodologie generali e il caso in questione non c’è.
Come avviene la cura? La cura avviene mettendo radicalmente in questione le ragioni di vita, non subendo una dichiarazione anticipata di morte. Eppure è questo che avviene. La medicina privilegia la malattia; la nosografia medica è una classificazione di mali. E la vita? Chi si occupa della vita? Chi va dal medico, va per ragioni di vita, si sente proporre le ragioni della malattia. E quindi rimedi contro la malattia, sostanze contro la malattia, ma ancora questa non è la cura. È il rimedio. Quando poi qualcuno si reca dal medico e non ha proprio una malattia ben definita, avverte qualche disturbo, un disagio, si pone delle questioni rispetto a cui ci sono dei dubbi. Da chi si reca? Dal medico. Chi è l’interlocutore principale del cittadino che avverte delle domande, delle interrogazioni, un disagio che si traduce anche in qualche sintomo, magari non dorme, inappetenza, respira con difficoltà, ha qualche doloretto in giro per il corpo, niente di preciso?
Va dal medico. E il medico gli risponde con una prescrizione di sostanza, gli dà la ricetta, oppure gli dice che non ha tempo per lui, non è abbastanza competente, deve andare da un altro, e nessuno ha tempo di ascoltare di cosa si tratti, di ascoltare come quel sintomo, quel malessere, quella questione trascorre nella parola. E si tratta di questioni che chiedono ascolto, non una sostanza da assumere. Eppure in una gran parte dei casi alla domanda di parlare, alla richiesta di ascolto, la risposta è farmacologica, è sostanzialistica. Perché, laddove magari non interviene una sostanza, come notava Antonucci, interviene l’ospedale, interviene cioè un apparato che comunque non tiene conto della particolarità, dell’esigenza particolare che con quel sintomo si enuncia, ma questo viene subito inscritto in una tipologia, in una nosografia, quindi in una generalità, in una genericità, senza l’ascolto di quello che è particolare e specifico a quel caso.
Ora questa è la questione della salute, effettivamente. Non è quella dei presidi sempre più perfezionati o di una tecnologia medica che possa applicare ad ogni caso il rimedio farmacologico o tecnologico. La questione della salute è innanzitutto l’esigenza di ciascuno di cogliere l’istanza che lo attraversa e di trovare le riposte, di trovare i modi, di attuare quei dispositivi per cui giungere alle risposte. È chiaro, in alcuni casi occorre che ci siano interventi specifici di carattere sanitario, ma la salute, l’istanza della salute è un’istanza di vita, è un’istanza di qualità della vita. Non è la classificazione delle malattie, non è il sapere da quale malattia si è affetti.
La salute non è la salvezza dal male. E questa è una questione culturale, è una questione intellettuale, è una questione intellettuale e culturale che la medicina oggi non è giunta a porsi, per la quale i medici non hanno una formazione specifica, perché il medico non è formato all’ascolto della parola. È formato a tradurre l’elenco di alcuni sintomi in una nosografia. C’è questa riconduzione, quindi, a una tavola, a un elenco, a una classificazione. Eh, ma questo non pone la questione della salute né pone la questione di un’effettiva cura che riguardi un percorso, un itinerario che ciascuno, quindi, occorre faccia dinanzi a qualcosa che si pone come disagio, come questione, come sintomo, perché c’è un sistema di riferimento che viene usato ancora ai giorni nostri e è quello di considerare il corpo come una macchina termodinamica, per cui la salute viene intesa come il miglior funzionamento della macchina in senso termodinamico. Ma l’uomo non è una macchina termodinamica.
Le istanze intellettuali, le esigenze culturali, artistiche, scientifiche, le esigenze di vita non sono riconducibili a un funzionamento termodinamico. Però c’è tutta una serie di credenze che vanno in questa direzione, con tutta una serie di prescrizioni, di divieti, che vanno dalle ore di sonno che bisogna fare al tipo di cibo, alla quantità di cibo, a tantissime cose, sempre intese nei termini di un funzionamento ideale, che non si pone per nessuno, perché nessuno riassume in sé una macchina che deve funzionare secondo uno schema ideale. Il modo con cui ciascuno funziona, quindi ragiona, produce, lavora è sempre in relazione a quale sia il suo progetto di vita; progetto e programma di vita. È in relazione a questo che poi si pongono incagliamenti che hanno a che vedere con l’insorgere di acciacchi, inconvenienti, malattie.
È ormai fuori discussione che il maggior numero di decessi, d’inconvenienti, di alcune malattie, intervengono in prossimità dell’età della pensione, quando per molte persone l’idea della fine si avvicina e quindi il proprio programma di vita, il proprio progetto di vita sembra avere un contraccolpo. E lì interviene effettivamente qualcosa che marca questa idea e accelera la fine. È fuor di dubbio. Noi abbiamo visto negli anni passati, anche con una certa euforia giudiziaria, quante persone colpite da disavventure di carattere giudiziario, al momento in cui la loro immagine sociale veniva colpita -c’era quindi un contraccolpo vittimistico- insorgeva un tumore, insorgeva una malattia, oppure avveniva in qualche modo insomma un decesso. Mica per caso. Perché c’è una connessione assoluta tra il progetto che ciascuno ha rispetto alla propria vita, il suo programma e il dispositivo che rispetto a questo progetto, quindi, sorge, viene mantenuto, si instaura e prosegue. È questa la questione della salute, quindi, l’istanza, un’istanza di vita, non solo un’istanza di benessere.
Oggi la salute viene convertita nel benessere. C’è un grande business attorno al benessere contrabbandato come salute, ma la salute non è il benessere, non è né il benessere sociale né il benessere l’agio o il confort. La salute è qualcosa che viene da una spinta, da una spinta in direzione della vita e dal modo con cui questa vita avviene. Abbiamo avuto occasione in vari congressi di ascoltare per esempio ricercatori americani, inglesi, tedeschi, del sud Africa, intorno alle ricerche in merito all’AIDS per esempio, o al cancro, ai tumori, alla BSE, la famosa malattia detta della mucca pazza. Ebbene, questi ricercatori, cito per esempio Peter Duesberg, della Università di Berkeley in California, oppure David Rasnik, oppure Samuel Longo di Città del Capo in sud Africa, hanno constatato che l’AIDS è assolutamente indipendente dal virus HIV, non c’entra niente.
Il virus HIV è un virus innocuo, ha larghissima diffusione, per cui chiaramente molta gente risulta sieropositiva, ma l’insorgere dell’AIDS è indipendente dalla sieropositività. E questo oramai è un fatto acquisito. Gli stessi autori della teoria contraria, Montagner e Gallò, lo sanno, perché si sono trovati più volte con questi ricercatori in convegni, congressi internazionali in America e in altri paesi. Però questo non è discusso pubblicamente, non passa, lasciando credere che l’AIDS sia una questione legata alla sessualità, all’omosessualità, a una serie di pratiche sconvenienti e legate poi al virus. Pochi pongono invece l’attenzione sul fatto che la questione dell’AIDS è legata allo stile di vita.
La questione è per chi li vive, quindi per un disagio che non viene articolato e altre cose, mentre viene lasciata credere che la cura dell’AIDS sia una sola, quella a base di AZT. Adesso forse c’è stata qualche novità, ma fino a poco fa era la AZT, dove c’erano riscontri accertati, documentati che la AZT accelerava la morte di chi ne faceva uso. Però tutto questo è mantenuto segretato e c’è della salute un inquadramento, diciamo così, ideologico, legato quindi anche ad interessi.
Ecco perché noi abbiamo ritenuto importante aprire questa serie di incontri con la città di Noventa Padovana, con questo tema della salute, per favorire un dibattito, perché si tratta soprattutto di questo: per ciascuno di interrogarsi attorno ai luoghi comuni, attorno alle mitologie che vengono proposte. Si tratta di mettere quindi in discussione, in questione, tutto ciò che sembra scontato, normale, che vada da sé. E per questo abbiamo anche invitato Giorgio Antonucci a farlo, perché la sua testimonianza di vita e la sua esperienza di lavoro è stata sempre in questa direzione: di messa in discussione di ciò che sembrava l’unico modo, l’unico modo di fare, il modo più facile.
Ecco, quando qualcosa sembra improntata all’unico modo, quando le indicazioni sono orientate verso il modo più facile, ecco, lì, è il momento di porsi la questione. Ma questa facilità va in direzione della vita o va in direzione di una superstizione, di un’idea comune ma che è il retaggio di una superstizione? E, siccome la vita è l’unica che abbiamo, è troppa preziosa per lasciarla in balia di retaggi, superstizioni, luoghi comuni.
E occorre assolutamente accogliere l’invito dell’assessore Maretto di dedicare a sé il tempo della vita, cioè non di fare del tempo dedicato a sé l’eccezione nella vita, ma fare che ciascun istante sia un istante dedicato a sé, quindi alla vita, dove ciascun istante è prezioso. E ciascun istante, quindi, occorre risenta dell’istanza di vita, che è un’istanza intellettuale, è un’istanza culturale, un’istanza artistica, un’istanza di ricerca. Solo così allora anche il tempo del lavoro, il tempo delle cose di ciascun giorno non entrano più nella routine, non costituiscono più il tempo del fastidio, ma anche il lavoro diventa qualcosa di interessante, qualcosa che non pesa più. Qualcosa quindi che sta in un dispositivo immunitario, che è ciò che effettivamente sta nelle ragioni di salute, l’immunità, cioè l’assenza di peso, l’assenza di gravità, l’assenza dell’idea del male. Perché ciò che fa pesare le cose, ciò che le rende gravi è questa idea che costituiscano il male, che siano quindi il segno della morte.
In realtà noi della morte non sappiamo nulla. Nessuno sa della morte, però ognuno se la rappresenta nei piccoli segni o nei grandi segni e, in base a queste rappresentazioni, vive la sua morte giorno per giorno. E no, non è più vivere! Non è più vivere. Questa è la questione: che occorre quindi che sia la salute con la sua ragione, con le sue ragioni a orientare la vita e non l’idea della morte. Ecco, io mi fermerei qui per il momento e passerei di nuovo la parola a Giorgio Antonucci o al dibattito.
M.A.V. Io ringrazio il dottor Ruggero Chinaglia, ma vorrei, ho appena chiesto al dottor Antonucci se possiamo approfittare ancora un momento e che ci racconti un aneddoto. Lui ha tantissime storie che si possono trovare in questo libro, però se ce le racconta è meglio.
G.A. Ora non mi viene in mente nessuna.
M.A.V. Immaginavo.
G.A. Volevo riprendere un momento, poi vediamo, il discorso sul problema dei manicomi, nel senso che si sente dire dappertutto, come un po’ hai detto tu, che i manicomi non ci sono più. E questo non è vero. Innanzitutto sono stati messi in discussione soltanto in Italia e quel film, appunto, fa vedere cosa succede negli Stati Uniti, ma cosa succede dappertutto. Poi, non è che non ci sono più i manicomi. Hanno detto che nei vecchi manicomi non andava più ricoverato nessuno, cosa che poi invece è accaduta lo stesso. E hanno cominciato a prendere le persone con la forza e portarle da altre parti, però cambia il posto, non cambia il metodo e il criterio, per cui non è cambiato nulla dal punto di vista pratico. Cioè, non solo non è cambiato nulla, ma, con la società in cui viviamo ora, le cose stanno diventando sempre più micidiali.
Per esempio sono usciti fuori dei farmaci che vengono dati ai bambini, sono dei farmaci anfetaminici che vengono dati ai bambini vivaci con il pretesto che, se son troppo vivaci, possono non stare buoni a scuola, non stare buoni con la madre, disturbare i vicini. Tra l’altro, proprio sul giornale di oggi, c’è scritto che tutti i farmaci che vengono dati per i bambini non sono stati sperimentati. Tolto alcuni, ci sono apposta degli antibiotici per i bambini, ma tutti gli altri, come gli psicofarmaci o appunto gli anfetaminici, sono farmaci che li mettono così sui bambini, lì direttamente. Cioè senza neanche quelle apparenti precauzioni che vengono prese nel senso di sperimentare le sostanze su animali prima di buttare le sostanze addosso alla persona. I bambini sono più delicati. Il dare sostanze ai bambini significa ucciderli, per dire una parola sola, metterli in difficoltà prima e poi impedirli.
Il movimento del bambino, la vivacità, l’indisciplina sono la sua salute, nel senso che il bambino cresce proprio perché è in continuo movimento, che non sopporta di star fermo su un banco, non sopporta di essere inquadrato, giustamente. Purtroppo quando si diventa più grandi, si finisce per sopportare di essere inquadrati, sarebbe meglio di no, secondo me; però per i bambini è possibile. Ora, dargli dei farmaci tossici per la muscolatura, tossici per il sistema nervoso, tossici per il fegato, tossici per tutto, è un delitto. Qui invece è una cosa normale. Il ministero della sanità ha approvato l’uso di questi farmaci per i bambini, che vengono dagli Stati Uniti, e naturalmente poi si interviene nella persona in piena salute, in piena crescita, in pieno sviluppo per ridurgliela la salute, perché il fatto che il bambino sia vivace è l’essenza. C’è da preoccuparsi se non lo è.
D’altra parte io, siccome si doveva arrivare all’aneddoto, vorrei dire che consiglierei a tutti gli americani, se non l’hanno già fatto, di leggere Pinocchio per capire che cos’è un bambino, nel senso che Pinocchio rappresenta la vivacità e l’indisciplina, la fantasia. Quando poi diventa un bambino sul serio, giustamente Carlo Lorenzini detto Collodi, che era intelligente, chiude il discorso. D’altra parte c’è anche una cosa interessante su Pinocchio, che Carlo Lorenzini lo scrisse perché era uno scrittore senza successo e povero, un giornalista di scarso successo e aveva bisogno di soldi. Allora una rivista di Roma, lui è un fiorentino, una rivista di Roma gli chiese di scrivere una storia a puntate, per un giornale insomma, e lui comincio.
E mentre lui scriveva, questo giornale veniva venduto sempre di più, perché questa storia interessava a grandi e piccini, non la storia di Pino. Poi a un certo punto lui, siccome era anche pigro, si stancò. Infatti c’è un punto del libro di Pinocchio, dove Pinocchio rimane impiccato a un albero, dopo che è con la storia degli zecchini del gatto e la volpe. Lì, lui aveva chiuso. Pinocchio muore e è chiuso. E invece da Roma protestano: bisogna continuare perché la storia è bella, è interessante. Allora lui, di malavoglia, comincia e fa il resto della storia. Volevo dire è un capolavoro, perché c’è tutta la creatività dell’infanzia fin tanto che, poi, il fondo è che, quando lui diventa un bambino per bene, l’infanzia è finita. Ma è finita anche la fantasia, allora vien fuori quello che andrà benino a suola, che sarà un buon cittadino, magari un buon impiegato, forse anche un buon soldato, ma niente di tutto questo è interessante dal punto di vista della creatività dell’uomo.
E volevo dire, per quanto riguarda appunto la fantasia, qui, per esempio, si presenta un libro di Thomas Szasz: parla di Ezra Pound. Ezra Pound forse è ritenuto insomma il più grande poeta del ventesimo secolo. È americano, però io non sono neanche d’accordo con lui. Però lui, ai tempi di Mussolini, era per Mussolini e faceva propaganda per Mussolini. Allora che succede? Quando arrivano gli americani, lui è un americano e faceva propaganda per i fascisti che erano contro l’America, lo arrestano, lo portano in America e dovevano processarlo come traditore. Però Ezra Pound, processare Ezra Pound era uno scandalo perché è come dire processo a Dante Alighieri, cosa che hanno fatto del resto però anche qui. Dunque, cosa fanno gli americani?
Ai tempi di Dante, per fortuna sua, non c’erano gli psichiatri, lui rischiava soltanto il rogo. Dunque cosa fanno? Ezra Pound sotto processo come traditore degli Stati Uniti. Allora chiama gli psichiatri e gli psichiatri dicono: “Ma come è possibile un grande poeta americano si mette con Mussolini. Questo è un pazzo” e lo considerano un pazzo e lo sbattono in manicomio. Così, per non riconoscere che un americano può essere dissidente dagli Stati Uniti, lo trasformano in un pazzo come facevano in Unione Sovietica. L’Unione Sovietica è famosa per questo, ma non l’ha neanche inventato l’Unione Sovietica.
Per esempio, questo fatto dei dissidenti che sono dei pazzi è stato inventato in Italia da Cesare Lombroso, per cui, appunto, per Cesare Lombroso gli anarchici eran tutti pazzi, per il fatto che uno che pensa che lo stato è da abolirsi è uno che è andato fuori con la testa, secondo Lombroso. Per cui molti anarchici italiani son finiti in manicomio, come i dissidenti in Unione Sovietica, come Ezra Pound negli Stati Uniti, come invece Reich lo hanno arrestato, ma hanno però insinuato anche di lui. I dissidenti son tutti pazzi. Però anche quelli che non conosce nessuno, anche quelli che non sono come il matematico del film o come Esdra Paund, sono dei dissidenti meno importanti; stanno esprimendo un loro pensiero e questo pensiero non vien riconosciuto. Prendiamo il discorso per esempio di Giovanna D’Arco.
Giovanna D’Arco sentiva le voci. Per uno psichiatra uno che sente le voci è bello sistemato, schizofrenico. Ora, Giovanna D’Arco sentiva le voci. Cosa è successo? Per i francesi che l’hanno presa, di cui è diventata appunto la promotrice della lotta contro gli inglesi che occupavano le regioni del nord della Francia, per Giovanna D’Arco e per i francesi che la seguivano queste voci erano le voci di Dio, cioè il Dio parlava con Giovanna D’Arco. Per gli inglesi, che poi l’hanno catturata e messa sul rogo, erano le voci del diavolo, per cui l’hanno bruciata, perché siccome lei era parte dei francesi, i francesi dicevano che appunto era Dio, gli altri dicevano che è il diavolo e l’hanno bruciata. Per lo psichiatra, le voci sono il disturbo del cervello. Lo psichiatra è quello che ha meno fantasia di tutti, cioè ha più fantasia l’inquisitore di quanto ce l’abbia lo psichiatra.
Noi si sente tante cose, cioè io posso sentire la voce di chi mi pare, ora la voce di un mio amico che è negli Stati Uniti, posso sentire la voce di Thomas Szasz, posso sentire la voce di mia moglie che mi aspetta a casa. Io posso sentire quello che non c’è, posso vedere quello che non c’è, posso vedere il treno che passa aldilà di queste pareti. Il fatto di sviluppare queste capacità, in certi momenti perché ci sono utili, è una cosa che fa parte della ricchezza del nostro cervello. Questa ricchezza del nostro cervello viene scambiata per difetto del cervello, e poi, siccome questa ricchezza non è domabile, perché se io ho delle mie idee non mi passano con l’elettroshock. Appunto, io mi ricordo. Io, quando lavoravo con Basaglia nel primo manicomio che è stato messo in discussione, a Gorizia, una sera portarono una suora di 28 anni da un convento lì vicino e questa suora delirava.
Avevano chiamato l’ambulanza per portarla in manicomio perché lei un bel giorno, 28 anni, diceva: “Io sono stufa di avere come sposo Gesù che non mi dà nessuna soddisfazione. Voglio uno sposo vero in carne ed ossa”. L’hanno presa e, siccome era una suora, la suora dice che vuole l’amante, la sbattono in manicomio. Allora lì c’era Jervis, si parlava di Jervis. Io era arrivato da poco. Jervis faceva l’elettroshock. Io poi l’ho tolto, perché ho preso il posto di Jervis nel reparto donne, perché tra l’altro lì facevan l’elettroshock alle donne e avevano smesso di farlo agli uomini. Lascio la riflessione a chi si interessa di questi problemi. Dunque io ero appena arrivato, non potevo impedirlo.
Jervis mi telefona, io ero di guardia, e dice: “Fai l’elettroshock a questa suora”. “Io – gli dico – l’elettroshock non lo faccio”. Allora dice “Vengo io a farlo” e andai anche a vedere. Tra l’altro, questo apparecchio non funzionava, ci vuole parecchio tempo prima di funzionare. Poi arrivò, fasciò e scaricò le correnti, la persona cadde, perse coscienza e stette senza coscienza per lungo tempo. Appena si risvegliò, la prima cosa che disse è “Io non voglio più Gesù, voglio un uomo in carne ed ossa”. E aveva ragione, aveva ragione lei.
M.A.V. Certo. Bene. C’è qualcuno dal pubblico che vuole approfittare e fare una domanda?
A.M. Io ne ho una.
M.A.V. Bene.
A.M. Allora mi rivolgo sia al dottor Antonucci sia al dottor Chinaglia. Si parla di originalità, di fantasia vista come malattia, come un qualche cosa che non va a pari passo per la salute e quindi è (seguita o si adotta) la terapia. A che punto la fantasia e l’originalità, quelle che danno fastidio in realtà, divengono veramente un qualche cosa da curare, a quando subentra l’invasività di una terapia piuttosto che dire l’ascolto e la parola? Il limite è molto sottile, molto particolare e quindi io dico: lo psichiatra, abbiamo detto qui in questa sede, è la persona che ha meno fantasia, ma allora io dico: qual è il medico che lascia perdere tutta la sua deontologia e si pone soltanto verso l’ascolto, rischiando magari di non aiutare quella persona, allora qual è quel limite?
G.A. Posso?
R.C. Certo.
G.A. Se io a un certo punto dico che sono Carlo Magno e insisto su questo fatto, mi prendono e mi portano in clinica. Mi rinchiudono dentro e mi cominciano a fare i trattamenti di vario tipo che possono essere medicine, psicofarmaci, possono essere elettroshock, può essere l’insulina coma, addirittura la lobotomia, nel senso che si entra e si tagliano dei fasci nervosi. Perché? Io dico che sono Carlo Magno e non lo sono, allora questo è un fatto che disturba nel senso che si spaventano. Come fa a dire lui Carlo Magno se non lo è? E poi come ragiona uno che dice io sono Carlo Magno? D’accordo. Il punto è: cosa significa la comunicazione, la parola? Se io dico “sono Carlo Magno” mando un messaggio, che non significa esattamente che io sono Carlo Magno, significa che io sto comunicando un mio pensiero per comunicare un mio stato d’animo.
Per esempio, io può darsi che nel mio lavoro e nella mia vita mi senta completamente fallito. Allora comincio a sognare di essere un grand’uomo. Perché tanti sognavano di essere Napoleone? Perché Napoleone era un mito e lo è ancora, lo stesso Carlo Magno, poi c’è chi dice di essere Gesù. Però, io mi ricordo, avevo conosciuto uno dopo l’alluvione del 1966 a Firenze. Fui chiamato perché sapevano già che io ero un medico che era contrario agli internamenti psichiatrici, prima di conoscere Szasz, Basaglia, perché ritenevo che prendere una persona con la forza e portarla via perché ha dei pensieri discutibili è un’aggressione di cui non capivo il significato.
Allora ci fu l’alluvione a Firenze che fu nel ’66. Le persone giovani non se lo ricordano, una cosa molto tragica perché appunto la città fu invasa dalle acque, ci furono molti morti, opere d’arte distrutte e la città che è rimasta paralizzata per almeno 10-15 anni. Fu una cosa grossa. E ne parlarono in tutto il mondo, infatti, anche per l’importanza di Firenze come centro dell’arte del rinascimento, tutte queste cose qui. Questo era un artigiano che gli fu invasa dalle acque la bottega artigiana, perse tutto, si rinchiuse in casa e cominciò a dire “io sono l’anticristo”. La madre e la sorella s’impaurirono perché lui disse, siccome sono l’anticristo, vi potrei anche ammazzare tutte e due. Per cui era una situazione di notevole disagio. Però la madre non aveva nessuna intenzione, per intuito, di prendere il figlio e mandarlo in manicomio, perché sapeva che lo perdeva, per intuizione così.
Seppe che c’ero io e mi chiamò, e io arrivai e trovai la disperazione. Appunto, intanto con la mia presenza garantii a loro che lui non avrebbe fatto niente, lui stava parlando per conto proprio. Ma lui poi, ora la faccio breve, mi spiegò che, quando è venuta l’alluvione, lui ha ripensato alla bibbia. Nella bibbia c’è Sodoma e Gomorra che vengono distrutte dal fuoco. Il Dio è molto malvagio, insomma è vendicativo nella bibbia; quello della bibbia è tremendo. Sodoma e Gomorra perché? Perché c’erano i peccatori. Da Sodoma viene la sodomia e tutte queste cose qui. I peccatori, allora Dio li puniva. Allora lui pensò che fosse una cosa del genere a Firenze: siccome era stata una cosa grossa, che fosse stata una punizione di Dio sulla città, come Sodoma e Gomorra, tutte cose che fanno parte della nostra cultura se le tira fuori dalla testa.
E siccome lui si vide distrutto tutto, ripensò alla sua vita personale e comincio a pensare. Siccome era cattolico, cominciò a pensare che forse alcuni suoi comportamenti sessuali non corrispondevano alla morale, erano peccato, per esempio. E allora disse: “Perbacco, io non ho agito secondo il cristianesimo, dunque sono l’anticristo”. C’era tutto un ragionamento. Allora il dialogo permette di capire il ragionamento. Se lo prendevano, lo mettevano in una cella, gli facevano l’elettroschock, non capivo niente e lo distruggevano. Ecco cosa significa da un parte il dialogo. Ma poi il dialogo non è il chiacchierare, il dialogo è l’essenza della nostra vita. Noi, senza la comunicazione, non siamo niente. Noi siamo la specie che comunica. Perfino la religione il Dio lo chiama il verbo. Cioè senza parlare…
Allora il comunicare non è che dice, invece della medicina si fanno delle chiacchiere, come dicono. No, si tratta di capire cosa significa se uno dice qualcosa. Se uno dice “Io mi sento perseguitato dal KGB”, intanto i casi son due: prima cosa, potrebbe essere vero, perché che ne so io chi è che è perseguito dal KGB, per cui io devo fare anche questa ipotesi qui. Uno mi dice “Sono perseguitato dal KGB” e è effettivamente uno che è ricercato, ché ci sono quelli che son ricercati. Oppure non è vero. Però, sia che sia vero, allora ha ragione lui, punto e basta. Se non è vero, se lui lo dice, lo dice perché si sente minacciato, forse non dal KGB, ma da altre cose. Ma che me ne importa se sono altre cose. Discutiamo, vediamo quali sono le cose. Forse se si identificano le cose che lo minacciano non parla più del KGB.
Il KGB è una comunicazione simbolica. Quando Leopardi dice “Che fai tu luna in ciel?” parla con la luna. E, appunto, noi siamo non soltanto quando siamo poeti, si parla anche con l’immaginazione. E l’immaginazione, il mondo dell’altra persona, come lo si capisce meglio che con il dialogo? Non certo facendo a fette il cervello, che non ci si trova niente. Loro vanno a cercare nel cervello. Se io faccio a fette il cervello, non trovo mica. Se io prendo il cervello di Beethoven e gli faccio l’autopsia, la musica non la vedo mica. Allora, per sapere chi è Beethoven è un’altra comunicazione, sento che s’infuria; per sapere che è un uomo, ci parlo. E ci sono altre comunicazioni.
Comunque la comunicazione è l’essenziale. Questa distrugge il concetto di pazzia, perché pazzia significa che uno parla a vanvera. Nessuno parla a vanvera. Si parla in molti modi, molte lingue diverse, molti linguaggi, molti modi di immaginare, molti modi di essere, e questi vanno capiti. È un argomento simile a quello degli immigrati, ché se viene uno che è musulmano e viene dall’Afghanistan, che ha tutti altri costumi, naturalmente io, quando viene, non lo capisco perché io sono di tutta un’altra storia. Ma le due storie sono due storie umane tutte e due. O no? Appunto. Credo. E questa è anche una cosa importante. Però è successo quello che è successo che molti immigrati vengono internati in manicomio, ché non si capisce che vogliono, perché? Per nostra ignoranza. Infatti, ha pubblicato un bel libro Tiziano Terzani, Lettere contro la guerra, in cui proprio denuncia questo fatto: che siamo abituati a non capirsi. Quando non si capisce l’altro che è lì vicino, lo si bombarda con gli psicofarmaci. Se non si capisce l’altro che è un po’ più lontano, lo si bombarda con le bombe, magari intelligenti. Grazie.
R.C. La domanda dell’assessore è una domanda importante, perché pone la questione della tolleranza. A quale punto, a quale punto noi dobbiamo considerare che qualcosa che sta avvenendo deve incontrare una sanzione? A quale punto qualcosa che si produce come disturbo, nel contesto sociale esige quindi un intervento che miri a ristabilire l’ordine? Qui è la questione della civiltà. Ma in quale civiltà, di quale civiltà? In quale civiltà noi vogliamo situarsi? Nella civiltà dove tutto fila liscio, dove ogni disturbo è abolito, cioè nella civiltà purificata da ogni possibile disturbo, da ogni anomalia e quindi nella civiltà della calma, nella civiltà dell’ordine o nella civiltà della tolleranza dove ciascuna cosa che accade trova un dispositivo per la sua articolazione, per ritrovare quella direzione che forse è andata perduta o quella direzione che è talmente particolare che lì per lì non viene intesa?
Perché si tratta anche di questo. Ci può essere qualcosa di talmente particolare che, per intenderlo, esige veramente uno sforzo rilevante. Questa è una decisione che certamente non è facile, ma questa sì, segna uno spartiacque su quale città, in quale città viviamo, in quale città noi proponiamo di vivere a ciascuno, a noi stessi e all’Altro. Nella città della tolleranza, nella città dove ciascuna istanza di vita trova accoglimento o nella città in cui c’è posto per le cose che vanno da qui a qui, il resto fuori dalla città, perché ci disturba la città, cioè siamo nella polis greca o siamo nella città planetaria? Siamo nella città della purezza o siamo nella città dell’ospite?
E quindi è una questione di cultura, di cultura della tolleranza. Ma la cultura della tolleranza è difficilissima, è quasi impossibile nel discorso occidentale, cioè in quel discorso che poggia sui principi aristotelici, primo fra tutti il principio del terzo escluso. Lì dove noi accettiamo che o a o non a, terzium non datur, noi abbiamo abolito la tolleranza, abbiamo accettato il principio della normalità come normatività e quindi anche della segregazione. Il principio del terzo escluso è il principio della selezione, è il principio della segregazione, ben rappresentato dal manicomio, ben rappresentato dagli ospizi, dagli asilum che erano le prime forme di segregazione dell’anomalia.
Abbiamo come esempio la famosa Narrenschfit, La nave dei folli, quel vascello che percorreva il Reno di cui ci parla Sebastian Brant nel ‘400 e nel ‘500 portando di fiera in fiera, come fenomeno da baraccone, le varie manifestazioni della follia. Era un modo quasi giocoso quello, però sempre segregativo, cioè c’erano le tipologie dell’alienazione da esibire nelle sagre, nelle fiere. Bisognava che stesse fuori dalla città. Fuori dalla città, perché la città non doveva essere disturbata, perché la città è per lavorare, la città è per produrre, la città è per l’economia, la finanza, senza l’anomalia. Oppure c’è una città dove anche l’anomalia può trovare sede? E questa anomalia, anzi, può contribuire alla città? Perché l’arte da dove viene se non dall’anomalia!?
La poesia. La poesia da dove viene se non dall’anomalia!? Non certo dalla normatività di parlare: soggetto, predicato, verbo; soggetto, predicato, verbo. No. Viene da un’altra costruzione della frase, da un altro modo di intendere le parole, da un’altra proposta e abbiamo la poesia, abbiamo la pittura, abbiamo la scultura, l’arte che può avvenire in tanti modi anche vivendo in altro modo, anche dicendo cose lì per lì strampalate. Ma se tutti dicessimo la stessa cosa nello stesso modo, non ci sarebbe nemmeno più parola, non ci sarebbe nemmeno l’istanza di dirsi qualcosa; sarebbe già tutto scontato. Quindi la questione è quella dell’accoglimento di qualcosa che giunge differente, anche lì per lì fastidioso.
Ma il fastidio, perché qualcosa che è differente provoca fastidio? Questa è una questione che interroga chi prova fastidio, non chi lo dà. Questa è già una questione. Chi prova fastidio per qualcosa, e quindi se questa cosa dà fastidio togliamola. Ma si è interrogato sul perché prova quel fastidio? Allora la scommessa intellettuale è anche questo: mettere in questione i fastidi. Perché qualcosa dà fastidio? In base a quale convenzione, a quale idea, a quale pregiudizio, perché la città dovrebbe essere privata dal fastidio? Fastidio di chi? Occorre che il fastidio si volga in altra cosa. Quindi occorrono dispositivi per dibattere, per incontrarsi, per articolare le questioni, non per togliere sempre più, altrimenti la città si spoglia.
Di che cosa verrà fatta la città se ogni anomalia viene tolta? È un impoverimento per la scienza, per l’arte, per la cultura, quindi anche per la produzione di ciò che avviene nella città. Ed è curioso che quelli che sono preposti a intervenire proprio nell’ambito di questi fastidi, o comunque di queste anomalie, usino una terminologia militare. Questi luoghi dove avverrebbe la cura o l’intervento sono presidi terapeutici. È curioso questo ossimoro, perché il presidio è qualcosa di militare, è qualcosa quindi a salvaguardia, a tutela, ma di quale pericolo? Del pericolo dell’anomalia? Perché l’anomalia giunge come pericolo, viene intesa come pericolo? Questa è una questione culturale, è una questione intellettuale.
È una questione di ricerca che chiama in causa ciascuno, perché chi prova fastidio vuol dire che ha un problema di articolazione di quella cosa; la significa immediatamente come qualcosa di negativo, di male, di malato, di peccato. Ma questo è un limite proprio, non dell’altro, perché di per sé la parola non significa nulla. Un gesto non significa nulla. Perché un gesto viene fatto significare in modo invece negativo o problematico? Vuol dire che io ho una rappresentazione di quella cosa in termini negativi, ma questo è qualcosa che io allora dovrei mettere in gioco, attraversare; è una questione di generosità intellettuale, di tolleranza, di umiltà, di umiltà che è la condizione poi della generosità intellettuale e della tolleranza.
Ma, dico, la tolleranza è una cosa veramente qualcosa di impensabile, veramente difficile da intendere, perché la tolleranza esige l’infinito, la nozione di infinito. E se noi pensiamo all’infinito, non riusciamo a pensare all’infinito. L’infinito è qualcosa di impensabile. In fin dei conti la nozione di infinito è recente. I romani ignoravano l’infinito, numeravano dall’uno, partivano da uno, da uno in avanti. Non c’era lo zero, che è la condizione dell’infinito. Lo zero viene introdotto dagli arabi. Lo zero è un’acquisizione indù che poi viene trasmessa all’occidente dagli arabi, e è lo zero che introduce l’infinito della parola, l’infinito del pensiero. Senza questo infinito, la tolleranza ha un limite, cioè non è più tolleranza, è tollerabilità.
Dice: “Sì, questo va bene, questo va, ma c’è un limite a tutto”. C’è un limite a tutto. “Certo – dice – ma c’è anche una questione di ordine sociale“. Benissimo. Però deve trovare il suo modo, fornendo anche a chi avverte istanze differenti di poter trovare dispositivi che non lo reprimano, che non lo puniscano per questa istanza differente, perché non si tratta di punire la differenza, si tratta di intendere in che direzione vada. E questo è veramente difficile. Però questa è la scommessa. La scommessa intellettuale è questa. Allora io vorrei, per concludere il mio intervento, leggere una poesia di Giorgio Antonucci.
La testa fra i ceppi
Li hanno modellati
per i pazzi
a forma
concava
sul modello del cranio
Certamente non possono
essere precisi
Ce ne vorrebbero
troppi
Ce ne vorrebbero
troppi
Ce ne vorrebbero
a molte dimensioni
Bisognerebbe tagliarli
con curvature
diverse
Non so se mi intendi
il nostro
lavoro
è un po’ complicato
Però io non c’ero
sono
un semplice
sorvegliante
io faccio il mio mestiere
faccio il mio mestiere
e basta!
Ma anch’io
ho un’esperienza
Sono qui da vent’anni
e so
molte cose
Bisognerebbe tagliarli
con curvature
diverse
non so se mi intendi
il nostro
lavoro
è un po’ complicato
Si tratta
di matti!
La testa
capisci?
La povera
testa
malata!
Mi parlava
con aria competente
con atteggiamento di lunga esperienza
con qualche
sguardo
malizioso
con occhiate
d’intesa
La testa
capisci?
La povera
testa
malata!
Se vieni
ti porto
a vedere
ti porto
a vedere
Vincenza
‘la nostra
bimbetta’
La chiamiamo così
in tono affettuoso
perché ci fa pena
perché l’abbiamo
accolta
qui
da bambina
aveva quattro anni
Ebbene è malata
è molto malata
ti porto a vedere
vedrai la sua cella
vedrai che è legata
La testa fra i ceppi
a capo del letto
E poi se la sleghi
(ci abbiamo provato!
ci abbiamo provato!)
ti guarda impaurita
(lo sai non capisce)
e cade per terra
e batte la fronte
e grida
e non parla
Mi ha detto il dottore
(un grande scienziato
un grande scienziato
che sa quasi tutto)
tenetela ferma!
perché la slegate?
Ha male qui dentro
Ha male alla mente
Ha male al cervello
tenetela ferma
tenetela fissa!
Guardate il suo sguardo
Lo sguardo è smarrito
Ha male qui dentro
Ha male alla mente
Ha male al cervello
tenetela ferma
tenetela fissa!
La testa fra i ceppi
A.M. Qualcuno in sala ha qualche altra domanda da fare al professore?
P. Volevo dire una cosa, posso? Per capire meglio. Tutti gli interventi che avete fatto sono ragionevolissimi, sono condivisibili, perché, per carità, io penso che ciascuno di noi pensi esattamente quel che avete detto, sottolineato. Cioè è chiaro che ognuno di noi analizza che lo stato psichico influenza quello fisico e quei metodi adottati così a volte, è terribile. Ma è terribile nella sua spietatezza. Io, adesso, non ho mai avuto a che fare con gli psichiatri, però faccio fatica a vedere nei nostri medici degli aguzzini, delle persone ragionevoli, delle persone che la pensano diversamente da come la vedete voi e quindi non mi spiego la differenza tra, cioè è possibile che un medico non la pensi come voi, uno psichiatra non la pensi come voi? Possibile che se io vado all’ospedale mi capiti quel che magari è capitato a quella povera bambina? Ecco questa differenza che mi lascia sbalordito. Era tanto per capire meglio, perché il professore Antonucci ha una grande esperienza di età. È terribile se, in effetti, uno va all’ospedale, va in clinica e, per il fatto di essere veramente diverso, gli capita di passare attraverso l’elettroshock!?!? Ecco, volevo che mi si spiegasse un attimo questa differenza che mi sembra nitida, abissale.
P. Scusi, posso aggiungere una cosa che probabilmente si collega con questa? Io vorrei sapere questo. In queste terapie che vengono adottate, queste terapie così terribili che lei ha tratteggiato e fatto capire, qual è l’obiettivo di queste terapie e qual è il fondamento scientifico? Questo voglio sapere.
G.A. Appunto. Giustamente le due domande sono collegate tra loro. Prima di tutto c’è un problema di realtà a cui devo riferirmi. Cioè chiunque di noi vada in una clinica psichiatrica, dovunque si prenda questa clinica, troverà persone rinchiuse che, se si ribellano, vengono trattate con provvedimenti di costrizione e che vengono trattate in modo da fargli cambiare il pensiero. Ho detto prima, se io sono Socrate o Carlo Magno o Carlo Martello o Beethoven, mi devono far cambiare questa idea, perché loro ritengono che questa, un’idea che deriva da un cattivo funzionamento del cervello. Per questo, siccome io non ho nessuna voglia d’andare a cambiare idea, mi prendono con la forza. Ora siccome c’è per legge, sia nella vecchia legge che in quella del ’78, dopo il periodo Basaglia, il trattamento sanitario obbligatorio. Il che significa che se una persona ne vede un’altra che fa questi discorsi e dice “ma questa non ragiona più”, chiama. Appunto, il medico constata che ci siano questi discorsi, fa un certificato che gli vien confermato da un altro, viene firmato dal sindaco.
E quella persona che non vuole andare, perché lei parla del suo pensiero, non capisce perché deve essere portata da qualche parte a cambiarlo, viene presa con la forza. Ora, se si prende una persona con la forza lì c’è violenza perché, se vengono per prendermi e portarmi via, io mi ribello. Se gli posso fare del male per evitare che mi portino via, lo faccio; appunto mi metto a gridare, dico che non voglio andarci, urlo. Tutto questo aggrava la mia posizione e dicono: “Vedi, guarda come è agitato”. Mi prendono con la forza e mi portano. Io, tutte queste cose, le ho viste con i miei occhi, perché a me, quando facevo la guardia in manicomio, mi portavano le persone con la forza. Salvo che io gli ordinavo di liberarle e poi le rimandavo indietro. Ma questo, va bene, è un’aggiunta, è un’aggiunta particolare.
Volevo dire, se si prende una persona con la forza e si porta in un posto, e si sa che le persone in manicomio o in clinica psichiatrica vengono portate con il trattamento sanitario obbligatorio, con la forza, dopo non è questione di essere buoni o cattivi, perché se io decido che è giusto sequestrare una persona, la faccio prendere con la forza e la metto in una stanza, poi, se non ricorro a provvedimenti repressivi, che faccio? Per cui, una volta accettato il principio, non è questione di essere cattivi, è una conseguenza logica. Infatti quello che dico sempre io agli psichiatri: “Come fate a venirmi a dire che cercate di fare delle cose che giovano a uno che avete preso e trattenete con la forza!! Quello lì si ribella e voi infierite, e è una guerra terribile che porta alle conseguenze di cui parlava anche la… Io, i bambini legati…
P. Perché gli altri non la pensano come lei? Qual è il meccanismo?
G.A. Questo dipende dagli altri. Però, scusi, questa è una battuta. Volevo dire, questo è il punto. Glielo spiego, mi scusi per la battuta. Mi scusi per la battuta. Glielo spiego. Volevo dire: come è nata la faccenda? Questo è importante. È nata perché. Intanto le prime strutture di tipo manicomiale si trovano quando nascono le metropoli. Focault nella sua storia della follia parla di Parigi. Il re di Francia, siamo nel 600, dice: “Dobbiamo trovare un posto dove mettere i poveri che disturbano”. Il che significa che in una grande città che diventa sempre più grande, ora ne sappiamo qualcosa, sta succedendo dappertutto, ci sono persone che in qualche modo trovan lavoro, fanno qualche cosa e delle persone che sono sbandate.
Allora il re di Francia dice: “Gli sbandati vanno messi da parte”. Questa è l’origine. Ora, questa è una cosa molto precisa. Quelli che non hanno una collocazione sociale vanno via. Poi la cosa si raffina. Cioè, per esempio, ora la cosa si può tradurre in questo, che uno lavora in una fabbrica, uno lavora in un ufficio al computer. Magari il suo contratto di lavoro dice che deve stare otto ore al giorno al computer. A un certo punto non ce la fa più: gli fanno male gli occhi, gli fa male la testa, non ce la fa più a leggere, gli viene il tremito. Non dicono per un uomo lavorare in questa maniera è un massacro. Dicono che lui si è ammalato, il che risulta anche vero perché lui sta effettivamente male, ha dei disturbi, perché sta facendo, aldilà della sua resistenza, un lavoro micidiale.
Entra lo psichiatra, gli fa delle cure per rimetterlo a posto. Poi ritorna al lavoro, ma se quel lavoro è un lavoro che uccide è inutile. I trattamenti che gli fa sono per calmarlo, non per renderlo più adatto a quel lavoro tra l’altro. Per cui se si pensa che chi non regge a certi ritmi sociali o a certi costumi sociali dev’essere tolto, perché la via dev’essere liscia. Se si pensa anche che quello che disturba la vita sociale dev’essere tolto, si arriva a queste conseguenze, perché uno che è tolto si ribella. Uno che si ribella viene sottoposto a costrizioni e chiunque vada in una clinica psichiatrica trova queste cose. La domanda è: perché c’è, non queste persone, questa cultura, la cultura del mettere da parte quelli che non ce la fanno o quelli che non rientran nelle regole.
Perché c’è questa cultura è un problema profondo, che ognuno può affrontare con la sua filosofia e le sue idee politiche. Non voglio dare delle risposte io, però c’è. Infatti ci sono i manicomi e le persone che vanno lì son persone, sono in qualche modo, sono in contraddizione con la vita che fanno e non ce la fanno più. Oppure, io mi ricordo la storia di un impiegato di Londra, un impiegato di Londra di cinquant’anni che lavorava in una ditta di esportazioni. A un certo punto la ditta si ristruttura; si ristruttura, lo licenziano, c’ha cinquant’anni, moglie e tre figli. Lo licenziano, non c’ha neanche la pensione completa. Comunque non è neanche soltanto la questione economica, anche quella, perché a Londra con moglie e tre figli diventa disoccupato. Non è uno scherzo.
Cosa succede? Lui si mettere a sedere su una sedia e si immobilizza. È una risposta logica o no? Cioè, volevo dire, lui è avvilito, per dirlo in termini di comunicazione diretta. È avvilito, perché, tra l’altro, si aspettava una promozione e invece gli arriva il licenziamento. Lui c’ha i tre figli e la moglie non sa che dirgli, non ha una collocazione, deve andare a cercare lavoro a cinquant’anni. Si avvilisce e si siede su una sedia. Che fanno? Lo prendono e lo portano in clinica psichiatrica, elettroshock. Ecco, questi sono i criteri. Lascio al vostro giudizio se questi sono criteri giusti, però queste sono cose che avvengono.
Allora, per quanto riguarda i bambini, io non è che mi sono inventato queste cose. A Reggio Emilia, per essere precisi, nel manicomio di Reggio Emilia negli anni ’70, io sono andato coi cittadini, perché i cittadini vedessero che cosa succedeva dentro e c’erano i bambini di quattro anni legati al tavolino, cioè alle seggioline e al tavolino, perché facevano colazione. Ma li tenevano legati sulle seggioline i bambini di quattro anni, tanto che ci fu un cittadino che si arrabbiò e voleva picchiare il medico, perché gli disse, tra l’altro: “Voi mi potete dare da bere che una persona adulta grossa, se c’ha un po’ il nervoso, è pericolosa, ma un bambino di quattro anni!?” Allora io sono contento di avere posto il problema. Lei si fa una domanda importante: perché tanti accettano di fare questo lavoro?
Questa è una domanda molto importante e ce ne sono molte altre importanti. Bisogna stare attenti. Per esempio la questione, spostando il problema, però andando sempre sul p…, la questione di Adolf Eichmann. Adolf Eichman è un cittadino modello che esegue gli ordini del governo. Il governo gli ha ordinato di programmare il viaggio dei treni che portano gli ebrei nei campi di concentramento. Lui non fa altro che programmare i viaggi dei treni; li viene ordinato questo dal governo legittimo, perché Hitler è il governo legittimo. Cioè lui è un cittadino che esegue gli ordini del governo, come fanno tutti i cittadini. In generale, ogni volta, se anche in Italia danno ordine agli aviatori di andare a bombardare in Iugoslavia, ci vanno. Eichmann è come loro. E qui è venuto fuori il problema a Gerusalemme quando l’hanno processato, perché lui diceva: “Io ho eseguito gli ordini. Allora o si mette in discussione il fatto di eseguire gli ordini dello stato oppure io sono innocente. E infatti c’era questo problema.
Poi hanno chiamato gli psichiatri e gli psichiatri hanno detto: “Perfettamente sano di mente”, perché eseguiva gli ordini dello stato. Non era uno che trasgrediva, per cui andava bene. Mentre il pilota americano Eatherly, che guidava l’apparecchio di ricognizione su Hiroshima, che nessuno dei piloti sapevano quello che stavano facendo, perché non sapevano di avere quest’arma nuova, lui, quando si è girato indietro ha detto: “Mio Dio, mio Dio che cosa abbiamo fatto!” Tornato in America, lui che era un pilota militare che sapeva che andava a bombardare, ha detto: “Però, questa è un’altra cosa, e mi dovevano dire che io non andavo a fare un normale bombardamento, ma andavo a vedere sparire una città in una nube”, appunto, come è successo.
E ha cominciato a protestare in tanti modi e lo hanno messo in manicomio. Lui faceva la protesta in diversi modi, sabotaggi e proteste, perché diceva: “Io avevo il diritto di essere avvisato e di dire sì o no, perché non si fa fare a un cittadino di una democrazia, libero, con la sua responsabilità, una cosa del genere senza avvisarlo. Forse io potevo dire anche che lo facevo”. Lui, siccome protestava contro gli ordini dello stato, è andato in manicomio. Mentre quell’altro, che ha programmato i trasporti per la morte di 6.000.000 di persone, l’hanno giudicato sano di mente. Allora essere malati di mente significa non essere d’accordo con le autorità. Questo è un altro problema ancora, e così via. Io sono contento di avervi messo dei punti interrogativi, perché sono importanti. Poi ognuno, ragionando, prende le sue decisioni, sviluppa i suoi pensieri, ma i punti interrogativi bisogna averli. Diceva Friedrich Nietzsche: “Bisognerebbe andare sempre con un punto interrogativo disegnato sul groppone, cioè sulla schiena”. Lo dice anche il libro.
P. Buonasera. Mi riferisco soprattutto al professor Ruggero Chinaglia. Ha introdotto il concetto di fastidio. Se può approfondire ancora un minuto, per cortesia, il concetto di fastidio. Cioè mi è sembrato di intendere che colui che è provocatore di fastidio sia colui che apparentemente riesca a difendersi meglio di colui che subisce il fastidio. Se ipotizziamo che in certi casi impliciti della vita tutti noi ci troviamo a sentirci almeno parzialmente degli incompresi e se proviamo a esprimere in quantità numerica, quando ci sentiamo un 25% della società, cioè ci sentiamo 25 persone su 100 che siamo d’accordo, su che cosa? Siamo d’accordo di avere agito abbastanza bene, ma non completamente bene. Come facciamo a difenderci? Ecco, questo è il concetto. Sapendo che quell’altro 75% della società ha subito fastidio pur rispettandoci. La domanda in breve, in sintesi vorrei provarla a tradurre così: un 75% della società può non comprenderci quando noi ci comportiamo, però un 25% ci comprende, ma allora essere dei provocatori vuol dire essere 25%? Provocatori di che cosa? Di fastidi.
R.C. Il problema sta già nella percentuale. Dove si può ipotizzare una percentuale è chiaro che c’è una certa rappresentazione delle cose, pro o contro, e già questo è problematico. Che qualcosa debba avvenire pro o contro è veramente una questione. Qualcosa può avvenire per la riuscita, può avvenire per la qualità, ma non contro o a favore. Dove ci sia questa idea del pro o del contro già siamo in un terreno problematico, diciamo così, in un terreno dove tertium non datur. E che ci sia questo terzo è la questione effettiva della scienza. Oggi giorno, si parla spesso di scienza, ma si intende il discorso della maggioranza, ciò che va bene a una maggioranza. Quello diventa il discorso scientifico. La scienza è un’altra cosa. Ma soprattutto ci potremmo chiedere: un caso di vita perché dovrebbe valere meno di cento casi di vita o di due? Cioè, il valore di una vita vale meno di due, di tre, di dieci? C’è un valore con cui si può quantificare una vita? Poiché il valore di ciascuna vita è assoluto e infinito la questione riguarda ciascun caso.