
La questione ebraica, la pittura, la scrittura
- Segato Giorgio, Shenkar Nadine
16 ottobre 2003. Conferenza con dibattito della scrittrice israeliana Nadine Shenkar dal titolo Ebraismo, pittura, scrittura, tenuta nella Sala del Romanino, ai Musei Civici agli Eremitani, a Padova, con il Patrocinio della Regione del Veneto e del Comune di Padova, in presentazione dei due volumi dell’Arca Pittura e scrittura di Nadine Shenkar: Cézanne e Gurwic e Kandinskij e Bielutin, editi da Spirali e in occasione della mostra di pittura I tesori della Russia, al Palazzo del Monte. Intervengono Ruggero Chinaglia, psicanalista e Giorgio Segato, critico d’arte.
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NADINE SHENKAR
La questione ebraica, la pittura, la scrittura
Ruggero Chinaglia Buonasera. È una bella circostanza avere qui con noi Nadine Shenkar, che viene da Gerusalemme e che abbiamo avuto ospite già due anni fa, proprio in questa sala, quando abbiamo presentato il primo suo libro pubblicato da Spirali, L’arte ebraica e la Cabala. A distanza di due anni, altri libri si sono aggiunti, quattro per la precisione: due romanzi, Akiba e L’amante di Granada, e due letture artistiche delle opere di quattro grandi artisti, Cézanne e Gurwic, Kandinskij e Bielutin. Quindi due testi che non definirei saggi sulla pittura, piuttosto letture artistiche di opere di grandi artisti.
È questo, infatti, l’aspetto nuovo e interessante di questa scrittura di Nadine Shenkar e di questa collana L’arca. Pittura e scrittura. Essa attua la proposta che si rivolge a scrittori, filosofi, artisti di dare testimonianza della loro lettura di opere di artisti noti e meno noti, ma molto importanti e valenti. Quindi è una lettura non magistrale, non accademica quella di Nadine Shenkar, ma una lettura che, chiaramente, tiene conto della sua formazione, della sua cultura, della sua arte e su cui avremo modo di insistere, di tornare questa sera.
Abbiamo quindi questa circostanza dell’uscita di questi libri e anche un altro avvenimento a cui l’incontro di questa sera è collegato. Si tratta della mostra che è in corso a Palazzo del Monte in Piazza Duomo: I Tesori della Russia: maestri dell’arte russa del 1800 e del 1900. È infatti in collegamento con questa mostra, che è organizzata dal Comune di Padova, che questo avvenimento si svolge, anche perché Gurwic e Bielutin sono due fra gli artisti, fra gli autori le cui opere sono esposte nella mostra, quindi c’è l’interessante eventualità, dopo aver sentito la testimonianza di Nadine Shenkar, di poter anche, visitando la mostra, cogliere aspetti ulteriori che queste tele propongono.
La mostra è sicuramente un evento per la città di Padova, ma non solo. È un evento di portata internazionale, perché sono esposte oltre 300 opere, parte del 1800, parte del 1900, che appartenevano e appartengono a collezioni private. Sono opere che non sono mai state esposte al pubblico prima d’ora, mai in Europa, pochissimo persino in Russia, perché, appartenendo a collezioni private, non erano esposte al pubblico e, anzi, fino al 1989, l’aver collezionato queste opere, quindi averle anche protette da una possibile perdita, è stato un compito di grande pregio per coloro che le hanno collezionate. Ma chiaramente questo comportava che non potevano essere esibite.
Il collezionista – in particolare il collezionista russo del ‘900 – è sicuramente una figura che occorre considerare con ammirazione, perché l’aver collezionato queste opere è stato a rischio della libertà, a rischio anche della vita. Non era lecito avere proprie opere d’arte per il cittadino russo nel corso del regime sovietico, era fuorilegge, e quindi il collezionista è, in qualche modo, da considerare come un dissidente, qualcuno che ha sfidato il regime, i pericoli che derivavano da questo piacere di poter ammirare e tramandare queste opere, perché ciò non era consentito.
Allora questa mostra ha questo particolare valore di testimonianza, perché espone, oggi, sicuramente in maniera nuova, queste opere ammirate da pochissimi nel corso di due secoli. Anche il criterio con cui sono esposte tiene conto di questa provenienza, cioè non sono opere che vengono da musei, ma opere che vengono dalle case dei collezionisti. Anche il modo con cui sono esposte indica questa provenienza, questo clima, questa ambientazione che si è in qualche modo cercato di riprodurre.
E dunque, assieme agli artisti del 1800 e del 1900, sono esposte opere di Josif Gurwic e di Ely Bielutin, che appunto Nadine Shenkar, nella sua lettura, nella sua ricerca, accosta rispettivamente a Paul Cézanne e a Kandinskij.
Il modo con cui Nadine Shenkar legge queste opere è del tutto interessante: non è certo lo scritto accademico di uno storico dell’arte, non è lo scritto di un critico, è la scrittura di qualcuno che si occupa d’arte, si occupa della Cabala, la cui ricerca è di natura anche filosofica, oltre che intorno all’arte ebraica.
Sicuramente si nota, si ascolta, leggendo i brani di questi libri, la questione ebraica, cioè non c’è una lettura ordinale delle cose che compaiono nelle varie opere, c’è un ordine delle cose, ma un ordine non ordinale, che non risente della gerarchia. Ciascuna cosa è colta accanto alle altre, senza quindi che ciò che viene prima sia più importante di ciò che viene dopo, ma ciascuna cosa risulta essenziale alla composizione del quadro e comporta questa lettura, per cui viene colto l’invisibile di ciascun quadro, non ciò che rappresenta, non ciò che, dunque, deve portare al significato dell’opera, ma una lettura libera, una lettura che in ciascun caso risente, più che delle intenzioni o della volontà dell’artista, della lettura del visitatore.
Questo è l’aspetto importante, interessante, il contributo di grande rilievo che questi libri ci danno, perché noi, attraverso la lettura che Nadine Shenkar fa di queste opere, apprezziamo la sua formazione, apprezziamo un valore aggiunto che si affianca all’opera e cogliamo aspetti che vedendo l’opera non avremmo mai colto. E questo ritengo che sia un contributo di grande interesse, di grande qualità.
È con noi questa sera anche Giorgio Segato, che non ha bisogno di presentazioni – non c’è a Padova chi non lo conosca – e che ha avuto modo di leggere la produzione intera di Nadine Shenkar. Anche due anni fa era qui con noi, in occasione della presentazione del libro su L’arte ebraica e la Cabala, e quindi ascolteremo anche il suo contributo. Mentre era annunciato, ma non è potuto essere qui, l’assessore Giuliano Pisani, che vi manda il suo saluto da Siena, in quanto è dovuto essere lì per presiedere al comitato direttivo dell’Associazione delle città d’arte, che proprio oggi ha la sua riunione nazionale a Siena. Ecco, allora io, ringraziando il Comune di Padova che ci ha fornito la sala e ha collaborato per l’organizzazione di questa bellissima mostra, invito Giorgio Segato al suo intervento.
Giorgio Segato Allora, grazie a Nadine Shenkar di essere qua e di darmi ancora una volta l’occasione di parlare della sua scrittura, grazie a Ruggero Chinaglia che ha promosso questa iniziativa veramente molto ricca, perché è la presentazione di libri su quattro artisti, ma collegata anche alla presentazione di una mostra molto particolare che lui ha appena descritto.
Io trovo qualche difficoltà perché, chiaramente, nella volontà di creare un allestimento che risponda a quelle che sono le idee di un collezionista privato, viene a mancare in realtà il contesto, cioè quel quadro sì, si può esporre come all’altezza o con il fondo che aveva nella collezione privata, ma non è possibile di solito metterlo insieme alle altre opere che erano presenti. Qualcuna forse, perché fa parte della stessa collezione.
Ma proprio come in archeologia, quando si trova o si prende un pezzo, è importante il luogo dove si trova e il contesto in cui si trova. E allora di molte di queste collezioni – a parte che possiamo in alcuni casi avere delle descrizioni proprio dai proprietari per cui sappiamo qual era il contesto, la parete, gli altri quadri presenti – è difficile, invece, ricomporre questa straordinaria avventura che è l’avventura del gusto, l’avventura dello sguardo, cioè come un collezionista sceglie, dispone, colloca le sue opere e le vive poi. Perché lo scopo di un collezionista è quello di viverle continuamente.
Questo è interessante, dicevo, perché la collana che ha aperto Spirali è un po’ una memoria di un collezionista o memorie di collezionisti, perché intanto è già molto avanti come numero, ma abbiamo Henri-Lévy che si è occupato di Piero della Francesca e Mondrian, Vladimir Maksimov di Rublev e Malevic, Fernando Arrabal di Goya e Dalì; altri che si sono occupati di Tintoretto e Chagall, Vermeer e Tatlin, Duchamp e Nasso, Matisse e Frasnedi, Chagall e Vangelli, Beato Angelico e Antipov, Canaletto e Montevago; Vittorio Vettori con Masaccio e Panichi, Nadine Shenkar che si è occupata di Cézanne e Gurwic e poi, ancora, di Kandinskij e Bielutin.
Quindi è una collana molto singolare che non propone – come è stato detto – una lettura accademica e scientifica, con tutti gli apparati necessari a una lettura scientifica e accademica, ma una lettura dello sguardo, di quelle che sono le insorgenze che ciascuno può avere, diverse a seconda della sua formazione, della sua cultura, delle sue intenzioni di fronte alle opere.
Si aggiunge anche un fatto nuovo: è una lettura non di confronto, ma binaria, cioè si prende un’opera di uno degli artisti e si guarda e si descrive ciò che si vede e ciò che si sente; si prende un’opera di un altro autore, si descrive ciò che si vede e ciò che si sente. Naturalmente la scelta dell’abbinamento ha già una motivazione di affinità o di sentimento di affinità.
I tempi sono diversi. Cézanne e Gurwic sono molto distanti tra loro, ma è evidente che in Gurwic c’è un profondo omaggio, un profondo bisogno di rendere omaggio a Cézanne, e allora occorre capire qual è la ragione per cui Gurwic costantemente si rifà, pur in una sua scrittura pittorica diversa, a Cézanne. È importante capirlo. Nadine Shenkar lo dichiara in apertura, subito. Mi pare innamorata di Cézanne, mi pare che riconosca in Cézanne uno dei geni della pittura del secolo scorso, uno che ha capito profondamente la rivoluzione che in qualche modo era cominciata con l’impressionismo, ma che gli impressionisti non hanno portato a termine. Anzi, sono rimasti a livello di superficie, di piacevolezza delle impressioni, delle sensazioni, senza sentire in fondo quello che poteva accadere ricompattando in qualche modo la struttura pittorica, cosa che Cézanne fa. E apre, a mio avviso, tutto quello che avviene dopo, il postimpressionismo e anche le avanguardie.
C’è un concetto diverso della pittura, dello spazio, del volume, del colore, delle atmosfere che risulta molto evidente anche nelle scelte delle immagini che sono prodotte. Ma quello che diventa interessante, credo io, è proprio la tipologia della lettura. Questa lettura non nasce da una preparazione specifica, cioè Nadine Shenkar non ha voluto fare un saggio su Cézanne, ma nasce sulla base di quello che sapeva e di un aggiornamento evidente, legato alla scelta delle opere, di quello che sentiva, l’emozione, e quindi la sollecitazione, da parte della visione dello sguardo del quadro, di una memoria profonda, personale che comporta eventi poi letterari, poetici, religiosi della storia, di tutta la storia della persona.
Per cui l’emozione di Nadine viene scaricata di volta in volta nella lettura di queste opere con la massima libertà e soprattutto con uno stile estremamente libero, non direi disinvolto, perché la scrittura di Nadine è molto sorvegliata, molto attenta, molto sintetica anche. Cerca di dire molto con poche parole, cosa che non è abituale agli italiani, invece, che girano intorno. Io devo dire che ogni volta che vedo una traduzione di un testo mio in inglese è 3/4 dell’originale, in tedesco è quasi metà, e ho sempre paura che manchi qualcosa; poi, invece, quando mi traducono, trovo che è perfetto. Però lei ha questo stile, questa forma molto sorvegliata, molto attenta, e quindi mira a raccontare, a dire, a esprimere la propria visione del quadro.
Nel primo libro si tratta di due coppie, Kandinskij e Bielutin, a distanza notevole. Che cosa risulta dalla mia lettura? Naturalmente io sono influenzato anche molto dalle opere, però ho cercato di lasciare da parte la storia di Kandinskij, la storia di Bielutin e di capire come vengono visti da Nadine Shenkar. E mi è sembrato proprio di cogliere una cosa veramente interessante, ossia che la vicinanza tra i due, che sono stati collegati in questa lettura binaria, finisce per essere una lontananza notevolissima.
Infatti, da una parte si scopre che in Kandinskij c’è tutta una introiezione, cioè l’emozione della realtà, e per Nadine, Kandinskij è una forza emotiva straordinaria, l’emozione della realtà, questo rapporto con il mondo diventa tutta visione interna, interiore, mentre in Bielutin si trasforma in qualche cosa che sta assumendo forma, cioè l’emozione interiore viene proiettata. Allora, da una parte c’è una sorta di implosione e esplosione interna dello spazio, che è uno spazio interno che diventa spazio stellato, infinito, che diventa metafora di energia che si trasforma nello spazio, invece in Bielutin l’emozione esce e cerca di ricomporre nel segno e nel colore la forma.
Bielutin non riesce a staccarsi, per esempio, dalla allusione alla figura umana. Ogni segno per lui è una figura umana e lo traspone in figura: i suoi ritratti, i ritratti anche di Verdiglione, oppure La conversazione. È difficile qui, cioè, voglio dire, è facilissimo oggi parlare di questi libri, nel senso che è facile leggerli e capirli; ma è difficile parlarne, perché avrebbero dovuto esserci delle diapositive, in modo da poter parlare di questi due abbinamenti. Credo che, se ci sarà un’altra occasione di presentazione di questa tipologia di libri, poter proiettare contemporaneamente due diapositive di due opere dei due autori diventerebbe interessante e tutti sarebbero più partecipi, perché è difficile per me descrivere senza far vedere qual è la posizione anche di Nadine Shenkar che, chiaramente, è puntuale sull’opera, non fa della letteratura attorno all’opera, ma parla dell’opera.
Ecco, queste due situazioni molto diverse, secondo me, emergono dalla lettura, dalla sua lettura, per cui c’è un Kandinskij straordinariamente legato ai movimenti intimi, interiori, psicologici dello spazio interiore; c’è invece un Bielutin molto più preoccupato di occupare lo spazio esterno e di ridefinire lo spazio umano, di ridefinire lo spazio della figura, della forma come figura umana. Nell’altra opera diventa più semplice, in sostanza: Cézanne e Gurwic. Gurwic che resta molto vicino a Cézanne, specialmente nei paesaggi, nelle nature morte, un po’ meno nei disegni, che piano piano riacquistano una certa scolasticità in quei nudi; mentre molto interessanti sono sia i ritmi cromatici sia i ritmi compositivi delle nature morte, nelle quali si sente come l’afflato, la tensione pittorica di Gurwic si richiami continuamente a Cézanne. A quale Cézanne?
Abbiamo detto, ce ne sono diversi. C’è il Cézanne iniziale dell’impressionismo, che può essere facilmente confuso con gli impressionisti, ma è il primo Cèzanne, perché poi se ne stacca completamente. Le opere successive di Cézanne non hanno più niente a che fare con l’impressionismo, diventano una ricerca personale, una trasformazione straordinaria. Basterebbe vedere, accostare le sue opere a quello che è un po’ il punto di partenza, l’impressionismo di Pissarro.
In Cézanne muta tutto: muta la tavolozza, muta il modo di battere il colore col pennello, la pennellata. La pennellata si dilata e si ricompone in volumi straordinari, la volontà anche, che è stata sottolineata molte volte, di geometrizzare. La geometria, per Cézanne, non è un ritorno alla geometria matematica, è un modo per inventare lo spazio, per dare spazio ancora maggiore alla realtà, alle cose.
Ci sono delle osservazioni che Nadine fa che sono veramente particolari, molto belle. Ecco, parlando di Cézanne e de La montagna di Sainte – Victoire, dice che si tratta di “una sensazione di spazio inondato”, una definizione che nessun critico avrebbe mai trovato. È una definizione poetica, ma estremamente puntuale rispetto all’opera, uno spazio inondato di colore.
E poi fa questa osservazione, ci sono molte frasi che sono dei piccoli gioielli all’interno: “Non basta una vita per toccare il cuore delle cose”. È un’altra frase molto importante. Se non basta una vita a toccare il cuore delle cose, pensiamo allora quanto tempo ci vuole per toccare il cuore dell’uomo, l’emozione.
Ma è chiaro che, attraverso il cuore delle cose o attraverso la ricerca del cuore delle cose, Cézanne voleva parlare all’uomo, voleva toccare l’uomo. Ecco, io vorrei leggervi qualcuna di queste frasi, ma soprattutto ne ho scelto qualcuna per ogni autore perché ce n’è di straordinarie. Di Cézanne, leggo Il tavolo di cucina, perché era presente – molti di voi forse lo hanno visto – alla mostra a Treviso, dove c’era una bella infilata di Cézanne, i ritratti della moglie e c’era anche questa opera.
Un altro motivo per cui devo ringraziare Nadine è che ha toccato uno dei problemi che la mostra dello scorso anno a Treviso proponeva, cioè il rapporto tra opere finite e non finite. Opere finite o terminate e opere invece non finite, nel senso di lasciate cantare così come sono. È un problema molto grosso che toccava alcuni fra gli artisti della fine dell”800 – Lautrec e Cézanne, per esempio, lo sentivano molto -, ma che viene interpretato a volte in maniera strana dagli allestitori delle mostre, che scelgono molti quadri non finiti perché i musei glieli danno e li mettono in mostra, ma veramente l’autore non avrebbe mai esposto quell’opera. Altre volte, invece, il “non finito” è proprio come l’artista sentiva l’opera, la voleva, cioè con questa possibilità di sviluppo poetico, di emozione poetica.
Qua dice Nadine: È particolarmente sorprendente nell’opera di Cézanne questa natura morta in cui si potevano già scorgere, come è stato detto, i principi del cubismo – È un’intuizione giustissima, però è difficile arrivarci. Se voi guardate questo tipo di natura morta, tutta una serie di frutti, di cestelli, di contenitori in tutti gli angoli, compresa la sedia poi in fondo -. Effettivamente, qui non abbiamo una prospettiva, ma una molteplicità di prospettive: il tavolo di cucina, la credenza, il cestino e la sedia. Niente è sullo stesso piano o nella stessa dimensione. L’essenziale è creare una pienezza di volumi, una ricchezza sensuale, un equilibrio che queste deformazioni volute riescono a realizzare. La disposizione del panno bianco con i profili di azzurro, una disposizione artificiale perché non aderisce ai contorni del tavolo ma scivola verso un suo orizzonte, la prossimità delle caffettiere e dei frutti nel contrasto violento dei colori, il vecchio tavolo che urta contro il fianco della credenza, il cestino che spunta da non si sa dove, tutti questi elementi suggeriscono fino a che punto Cézanne si ponga in una meta-natura e nel segreto della propria immaginazione e di quella soltanto, cioè ha introiettato tutto – Non è farci vedere una serie, una sequenza di nature morte, ma è per lui un ritmo degli spazi, delle prospettive, e quindi ha portato tutto dentro di sé -. Questa scena così ricreata non è una natura morta, ma uno spaccato di vita, un febbrile, umanissimo moto di desiderio, di attesa in cui tutti i sensi acuiti accarezzano queste forme polpose.
E tuttavia la sedia, anzi, quel poco che se ne vede nell’angolo superiore sinistro, dice dell’assenza dell’uomo da questa stanza che esulta di felicità. Come riesce Cézanne a creare questo tempo che non è più lineare, ma è tempo della psiche umana, tempo del battito del cuore?
E qua lascia la domanda a noi, che possiamo leggere in maniera diversa. Ecco, ho letto questo brano come testimonianza di come porta tutta l’interpretazione dentro. Qua ci sono parecchi dipinti storici di Cézanne, è veramente un bel libro; qualche problema con le riproduzioni, ecco, ma nell’insieme è veramente interessante.
Prendiamo una natura morta del nostro Gurwic. Natura morta con tavolo rosso:
Una delle più belle nature morte di Gurwic e anche molto cézanniana. Il soggetto, il motivo autentico è la composizione. L’estrema complessità della scena è lontanissima dal minimalismo degli acquarelli e degli altri schizzi , quindi diventa ricca, ma ricca proprio in modo cézanniano.
Le linee dei quadri scuri e duri, e le linee del tavolo vivo e presente, si contrappongono sia al vellutato dei tendaggi viola e azzurri sia alla sinuosità della tovaglia che ne riprende il motivo.
L’ocra della parete frastagliata di verde scuro, specie intorno al tavolo, lascia spazio all’esplosione del tavolo rosso e degli oggetti lì raccolti. La teiera, nella sua collocazione quasi anomala nello spazio, diviene il centro involontario di opposte energie. Per la quasi assenza di gravità consente al tavolo di cadere maggiormente verso noi, pur trattenendoli insieme in una sorprendente unità.
Lo spazio ne risulta arretrato, come ingrandito. I gruppi di quattro, di tre e di due frutti, vaso e bicchiere, orchestrati dentro e attorno al panno, alla teiera e alla fruttiera, entrano in un movimento circolare come quello delle danze sufi, in cui i ballerini girano attorno al centro e su se stessi, metafora visiva del moto degli astri sul proprio asse o intorno al sole. D’altronde, anche il motivo dipinto sul lato del tavolo rivolto verso noi è un vortice, una voluta attorno a un punto nero.
Sinfonia di Mahler in cui l’audacia, la ricchezza, la presenza afferrano l’immaginazione e i sensi.
Ecco, questa lettura è quasi sinestetica, cioè il quadro riporta alla sensibilità, alla musica, riporta eventi letterari, eventi di sensibilità diretta, di percezione diretta, corporea, tattile. La stessa cosa avviene, come dicevo, tra Kandinskij e Bielutin. Kandinskij, personaggio notissimo naturalmente, ma sempre difficile da interpretare, da cogliere, da definire. Ecco, l’opera di cui parlo è quella della copertina, Segmenti rossi:
In un mare verde, cupo e profondo, una nave lunare battente bandiera gialla, nera e rossa, illuminata da tre candele surrealiste con un fumaiolo nero, beccheggia in acque nelle quali si acciambella il Leviatano, il grande serpente marino che da tempi immemoriali abita l’inconscio dell’uomo – Io ho dubbi che Kandinskij volesse parlare del Leviatano. Questa è proprio la lettura di Nadine Shenkar che mette insieme, ricrea una storia del quadro – . Tensione e ondeggiamento, rigidità e mobilità, colate di rosso liquide, diluite contrassegnano questa opera di carattere fantastico. I verdi differenti sposano le varie profondità del mare; quadrati e rettangoli animano l’austera nave, il cui scafo rosso spezza la massa nera e dura del fumaiolo.
E subito, che cosa rammenta? Le bateau ivre (Il battello ebbro) di Arthur Rimbaud.
Ora, io, barca persa sotto le chiome delle anse,
spinta dall’uragano nell’etere senza uccelli,
né i monitori, né le vele anseatiche
che mi avrebbero ripescato, carcassa ebbra d’acqua;
libera, fumigante, io, salita da brume viola,
io che bucavo il cielo rosso come una parete,
che porti – squisitezza per buoni poeti –
licheni di sole e mucose d’azzurro;
io che correvo, macchiato di lunule elettriche,
legno folle, scortato da neri ippocastani,
quando luglio faceva crollare a colpi di martello
i cieli ultramarini con i loro crateri ardenti….
Questa è una delle sue letture.
Un altro pregio del libro è che queste letture sono state tradotte in inglese e in francese in modo da dare un valore internazionale all’edizione. Questo, gli italiani se lo scordano spesso. Noi potremmo avere un’editoria estremamente diffusa nel mondo, ma abbiamo poco coraggio proprio nelle traduzioni, anche perché a volte le fanno persone di non madrelingua, e forse è bene che non siano divulgate.
Uomo che corre è invece di Bielutin. Come vedete, questa è una figura molto semplificata, sono dei segni che occupano lo spazio. Mentre in Kandinskij c’è tutta questa spinta interiore, questo guardare nel pozzo, nell’abisso, la mise en abyme proprio dello sguardo, in Bielutin invece, lo sguardo, l’emozione cerca di proiettare fuori e di ricomporre un segno che sia figura.
Quest’opera è uno dei primi esempi della serie di tele cominciata da Bielutin negli anni ‘80, che sono variazioni su temi vicini fra loro, trattati con verve e umorismo non comuni.
Su uno sfondo scuro iridato di bagliori rossi un uomo corre. Il colore è tutto: movimento, soggetto, costruzione. Quattro colori soltanto creano nel loro incontro il gioco del corpo scomposto nella corsa. Si vede la tensione del busto, la rotondità delle braccia che avvolgono lo spazio, la fissità e il rigore del bianco che invece segna il tempo della respirazione, dell’immobilità, dell’attesa prima dello sforzo.
La straordinaria semplicità della composizione, il groviglio dei quattro elementi, i tagli, gli angoli che certamente ricordano Mirò, creano con la presa di posizione dei tratti nello spazio nero una mobilità, una dinamica, film al rallentatore di tutti i movimenti nei più intimi dettagli.
L’azzurro e il bianco sono presi in un immenso serpente, in un punto interrogativo rosso e giallo che è scelta dell’albero della conoscenza, scelta dello sforzo, della lotta, prigione e apertura dell’uomo libero di fronte alle proprie scelte.
Bielutin lascia qui esplodere la voglia di vivere e l’ottimismo che non l’hanno mai abbandonato, nemmeno nei momenti più tragici della persecuzione nei suoi confronti, in quella gelida Unione Sovietica che per decenni decise di mettere le sue opere al bando della società e del mondo dell’arte.
Bielutin, se non sbaglio, è un personaggio di origine veneta, che ha avuto una lunga storia di migrazione.
Quindi i complimenti vanno senz’altro al tipo di collana, ma poi questa capacità di lettura non scientifica, direi di percezione molto allenata da parte di Nadine Shenkar, che veramente dà delle emozioni forti nel momento in cui trascrive questa sua lettura.
R.C. Giorgio? Scusi. Se magari concludiamo il primo intervento in modo da poter dare anche…
G.S. Chiudo subito. Volevo solo dire che, essendo poi di Israele, è sorprendente una lettura così approfondita di cultura ebraica dell’immagine. C’è proprio un legame con l’immagine e una profondità di rapporto con l’immagine che stupisce. D’altra parte Nadine stessa scrive, parlando di Cézanne: “Il mondo immagine è idolatria”. Quindi anche affrontare questo problema, a me pare molto interessante. Chiudo qua e…
Nadine Shenkar Grazie tante.
R.C. Bene. Ringrazio Segato per questa prima sua esposizione, che ha colto vari aspetti e in particolare, proprio nella conclusione, ha rilevato qualcosa della specificità dell’intervento e della scrittura di Nadine Shenkar, che è ciò che appunto noi chiamiamo “la questione ebraica”, cioè in che modo interviene nella parola, e quindi anche nell’immagine, la questione del nome, la questione dello zero, la questione per cui ciascuna cosa si trova nell’infinito e non ha da essere ricondotta a un insieme finito, non ha da essere significata. Una delle questioni che ricorre in questi libri è proprio quella del finito/non finito delle varie opere.
Mi pare un elemento essenziale sia nella produzione di questi artisti, ma anche proprio è qualcosa che viene accentuata dalla lettura di Nadine Shenkar perché, proprio per via della questione del nome, ciascuna cosa si trova mai finita, mai risolta, mai detta una volta per tutte, mai dipinta una volta per tutte, mai letta in maniera definitiva. E allora, è proprio attorno a questo che io invito Nadine Shenkar alla sua testimonianza, che verte certamente intorno a questa sua lettura di questi artisti, Cézanne, Gurwic, Kandinskij e Bielutin, ma proprio come contributo a quello che è il tema della sua conferenza, La questione ebraica, l’ebraismo, la pittura, la scrittura. Prego.
Nadine Shenkar Grazie tante. Grazie tante a tutti e due per la presentazione. Buonasera a tutti. Bisogna dire che un libro su Cèzanne e Gurwic non fu una idea mia. Pur insegnando filosofia e estetica all’Accademia delle Belle Arti di Gerusalemme, Cézanne non era, non è una mia specialità. Io non sono critica d’arte, in nessun modo, ma Cézanne l’ho incontrato con Claude Ferrato, il curatore del Louvre, durante questi corsi magnifici che lui dava a Parigi quand’ero studente a quell’epoca. E dunque, un giorno io ho scoperto che a Senago, che è un villaggio bellissimo accanto a Milano, nella Villa Borromeo, c’è un museo.
Oggi è possibile vedere a Padova una collezione straordinaria di pittura russa proveniente da quel museo, come per esempio i quadri di due artisti, Bielutin e Gurwic e altri molto importanti. Dunque, un giorno io ho scoperto questa collana L’arca, il cui editore Armando Verdiglione aveva domandato al filosofo Bernard Henri Lévy di scrivere un saggio su Piero della Francesca e Mondrian. Incredibile, perché anche lui, Bernard Henri Lévy, non è in nessun modo uno specialista d’arte.
Dunque Armando Verdiglione mi ha chiesto questo, Cézanne e Gurwic e anche Kandinskij e Bielutin, e era veramente strana per me questa proposta, perché generalmente scrivo su altri soggetti, per esempio L’arte ebraica e la Cabala, o questi romanzi che sono veramente molto legati al pensiero ebraico, come Akiba e L’amante di Granada, cioè il poeta Giuda Levita, il poeta del Medioevo spagnolo che era anche medico, filosofo e poeta, uno dei più grandi poeti ebraici.
Dunque, per fortuna ho capito subito che l’editore Verdiglione non voleva da me un libro di più sull’estetica di Cézanne o di Gurwic; lui voleva invece uno sguardo di una scrittrice, che si occupa di filosofia e di cabala, sul maestro francese: era una cosa totalmente differente, e questo l’ho capito. Cézanne era uno dei miei pittori favoriti, e dunque ho accettato subito. Ma invece Gurwic, per esempio, non lo conoscevo bene, ho visto quante opere c’erano nel Museo della Villa Borromeo e così l’avventura, l’incontro, il viaggio cominciò. Fu un piacere veramente unico, perché scrivere a Gerusalemme, di fronte al deserto, sul pittore Cézanne è stato qualche cosa di indimenticabile.
Ciò che mi affascinò, sempre a Parigi, in Cézanne fu soprattutto la lontananza dai sistemi e da tutte le scuole, la solitudine immensa. L’aspetto rivoluzionario di Cézanne mi ha veramente colpito. Perché? Perché, come Giorgio ha detto benissimo, è un incontro, non è una lettura di specialista. Dunque la dimensione, per esempio, del deserto, che in ebraico si dice migba, e migba in ebraico non è “deserto” come in italiano o in francese, ossia qualche cosa di vuoto, no. Il deserto in ebraico è la stessa radice di medabè, “parola”, il deserto parla. Deserto e parola in ebraico sono la stessa parola, totalmente la stessa cosa. Dunque è veramente interessante vedere che il deserto parla, e questa parola primordiale sorge dal deserto. È il segreto della lettera aleph, questa lettera aleph che si vede apposta sulla copertina delle edizioni Spirali. Dunque la vita di Cézanne fu una vita molto molto solida, ma con molte esitazioni sul valore della sua pittura.
Lui, nella visione interna, ha cercato l’aldilà, per me l’aldilà della natura; è come vivere non “a livello del sette”, ma “a livello dell’otto”. Vivere al livello del sette, nel pensiero ebraico, è vivere per esempio “do, re, mi, fa, sol, la, si”, è vivere nel pensiero greco. Invece questo desiderio di vivere a livello dell’otto è, se si può dire, controllare la mente, si deve controllare la natura, l’istintivo. Dunque questa cosa è proprio ebraica.
Per esempio, le differenze tra il candelabro che era nel tempio di Davide, questo candelabro che era prima nel deserto, nel Tabernacolo, nel mishkan del deserto, che si chiama “la tenda del tempo”, che aveva – tutti lo sanno – sette braccia, e la halokhia, quello piccolo che si trova nelle case ebraiche per la Festa della luce, poco prima di Natale o insieme con il Natale, dipende dall’anno, che ha invece otto braccia. La differenza per un ebreo è che il candelabro è veramente la perfezione della natura, l’albero di vita, la spina dorsale, e invece la halokhia è il controllo dell’uomo sulla natura. “Controllo” non è veramente la parola esatta qui, è piuttosto una volontà di cambiare le cose.
Per esempio, tutti sanno che la circoncisione si fa nell’ottavo giorno, vale a dire che con questa operazione noi vogliamo cambiare la natura, che il corpo non è perfetto. È veramente uno scandalo, perché l’ebreo vuol cambiare la cosa più naturale del mondo, cioè il corpo umano di questo bimbo, che è nato una settimana fa. Dunque innovazione dell’uomo sulla natura. Sempre, nel cibo come nella vita sessuale, la Bibbia vuole insegnare all’uomo a vivere sempre al livello dell’otto, e non al livello del sette. Dunque io, con Cézanne, ho visto la stessa cosa, questa volontà di costruzione permanente della vita.
Comunque lui ha cercato le sue regole o, come si dice, una Torah personale e, cercando queste regole senza fine, lui per me è risalito all’origine. Lui ha ricusato totalmente il mio sguardo, lui ha ricusato il mondo immagine, il mondo dell’idolatria, come l’ebreo, e l’ha modificato per mezzo della costruzione e della modulazione. E su quello cammina solitario. È molto difficile, ma mi pare che lui ha incontrato l’infinito. Comunque molte opere di Cézanne non sono terminate. Lui scriveva: “Io devo lavorare costantemente, ma non già per giungere al finito che attira l’attenzione dell’imbecille, degli imbecilli”. E Baudelaire, nel 1845, scriveva anche: “La differenza tra un pezzo fatto e un pezzo finito è totalmente differente”.
E in questa tensione compiuto-incompiuto, Cézanne rimane per me sempre in movimento, come questa fuga permanente nel testo famoso della Bibbia, Il cantico dei cantici, che è un cantico molto erotico, ma anche molto strano, perché questa ragazza è sempre fuggente e così anche il ragazzo. Il ragazzo e la ragazza che si amano tanto, non si incontrano, e nel momento in cui lui viene, lei non apre la porta; nel momento in cui lui fugge, lei comincia a correre in Gerusalemme come una pazza. E quando lui scende nel suo giardino, lei gli dice: “Fuggi, fuggi amato come una gazzella dei campi”.
È proprio incredibile. E Rabbi Akiba, questo saggio grandissimo del primo secolo, su cui è uno dei due romanzi, diceva che Il cantico dei cantici non è soltanto un canto con molta sensualità, è anche una metafora di questa ricerca dell’uomo verso se stesso o verso l’infinito o verso Dio. Non c’è nessuna differenza. Dunque l’infinito è o davanti, per l’ebreo, o dietro di noi, nella parola originaria, in quello che si chiama Bereshit, Genesi, l’inizio, l’anteriore piuttosto.
Mi pare che Cézanne è veramente per me il pittore di Bereshit, perché con lui tutto comincia, tutto da nuovo, fondamentalmente nuovo, nessuna imitazione, nessuna ricreazione, ma un incontro tra l’intelligenza, la tecnica e la visione interiore. Posso dire che io trovo in lui una meditazione sull’aldilà del tempo, come il pensiero ebraico. Io non dico in nessun modo che Cézanne abbia pensato questo. No, dico soltanto che ho trovato, ho letto la stessa tensione, la stessa meditazione sull’aldilà del tempo, sul tempo dell’origine. È veramente una lettura molto, molto personale. Per esempio, nelle sue nature morte, secondo me Cézanne nominava, come Adamo nel giardino, le cose per la prima volta.
Adesso veramente parleremo proprio della questione ebraica. La vita, per l’ebreo, è una ragione fondamentale, perché l’ebreo non ama l’immagine, come ha detto Kafka. È bellissimo ciò che Kafka ha detto, cioè che noi, gli ebrei, non siamo pittori, siamo scrittori, siamo gente della parola. Non c’è un Tiziano tra gli ebrei e mi pare che non ci sarà mai. La vita è linguaggio e l’artista è linguaggio delle corrispondenze. Per esempio nei paesaggi, nel dipinto La montagna di Sainte-Victoire, per me, la montagna è divenuta l’uomo stesso, l’uomo stesso nella sua infinita domanda, laggiù, nella sua ricerca, nel suo viaggio. Il paesaggio si è fatto passaggio, si è fatto transito, come nei ritratti.
In questa molteplicità di prospettive, in questa aspettativa permanente, in un tempo che finalmente, e questo mi ha colpita, non è il tempo occidentale, non è questo tempo lineare, questo tempo greco in cui tutto è circolare, tutto è un circolo chiuso – come ha detto Platone nel Timeo – lui ha spiegato che non fu mai creazione per i greci, fu una creazione da artista, ma non una creazione ex nihilo, perché l’atomo era già qua. E il demiurgo ha arrangiato, raffazzonato con questa materia che era già qua. Invece nella Bibbia è totalmente differente. Prima di Bereshit non c’era assolutamente nulla, è una creazione ex nihilo, la storia è completamente differente. Per i greci tutto è circolare, tutto è finito. Dunque, c’è questo aspetto tragico del destino umano, per esempio Edipo, che deve sposare la madre e uccidere il padre, perché il destino l’ha fissato così.
Nella Bibbia è tutto il contrario: è un spirale infinita con cadute, con il contrario, ma che sempre si rivolge verso un punto totalmente differente e lontano. Non c’è un principio e un inizio e non ci sarà una fine; non è una cosa circolare. Bergson, per esempio, l’ha detto benissimo. Bergson era un filosofo francese ebraico, con nessun legame autentico con lo spirito ebraico, eppure, cosa molto, molto paradossale per me, lui pensava veramente in ebraico. Anche Proust, che era di madre ebrea, ma che non aveva veramente una cultura ebraica. Lui ha scritto soltanto sul tempo, assolutamente soltanto sul tempo, il tempo ritrovato, il tempo perduto. Proust è veramente il tempo. Dunque attraverso le rupi, attraverso la gariga, attraverso i sentieri, i tetti Cézanne aveva per me sempre voluto dipingere il suo paesaggio interiore. Posso dire che il suo paesaggio è metafisico.
Gurwic, che è un pittore ebraico e russo insieme, si confronta col maestro francese, è un omaggio permanente al maestro francese. Lui si riferisce sempre a Cézanne, dappertutto. Si può dire che si può vedere la stessa complessità dei piani, un’assenza di prospettiva centrale. C’è per esempio un’orchestrazione degli elementi al punto che l’idea prevale sulla realtà. Segni melodici anche in Cézanne e in Gurwic. Come diceva Cézanne: “Bisogna introdurre una somma sufficiente di azzurrati per far sentir l’aria. Lo spazio emerge aperto, più grande, onirico”. Anche Gurwic: la stessa tensione compiuto-incompiuto, densità della aspettazione. Il motivo in Gurwic e il motivo in Cézanne non è mai il soggetto. L’ossessione è ossessione dell’infinito o del principio femminile, specialmente in Gurwic, nel suo mistero e nella sua solitudine.
Cézanne e Gurwic sono per me tutti e due legati all’avvenire, perché lo sono al loro passato originario. E questo è molto vicino alla questione ebraica, perché per esempio, in francese, in inglese e in latino si dice pro-gresso, camminare prima. Anche in inglese progress è una parola latina. Invece in ebraico la cosa è totalmente differente, perché itkadmut in ebraico, kedem, la radice kedem, tre lettere, vuol dire l’origine, la parola originaria. Progress per un ebreo non è soltanto camminare in avanti. È camminare in avanti, sì, come tutti, ma con la testa nell’origine. È una sorta di danza o di scoliosi o di deformazione, per cui l’ebreo ha i piedi nel progresso, nell’avvenire e la testa nell’origine. È incredibile, ma è così, nella lingua ebraica stessa, non soltanto nel pensiero filosofico.
Abbiamo già parlato due anni fa, in questa sala, in questo Museo, a proposito del libro L’arte ebraica e la Cabala, della difficoltà di capire l’arte visuale nel pensiero ebraico per il concetto del tempo. Non perché c’è un interdetto religioso, sarebbe molto superficiale e ridicolo pensarlo. È molto più complesso, è una questione di metafisica.
Il tempo ebraico è un tempo che non è lineare, e io vi darò un esempio. Due cose mi paiono molto importanti per capirlo. La prima è vivere sopra la natura, al di là della natura. Dunque l’ebreo non sente questa necessità di riprodurre la natura, perché la sua ossessione è in un altro viaggio; e la seconda cosa è che per l’ebreo il tempo è un altro tempo, è un altro, totalmente. E io vi darò due esempi, molto facili da capire per una persona che non conosce l’ebraico. Io parlavo un pochino italiano a casa, coi genitori, e francese. Il francese era la mia lingua, l’inglese e il latino lo imparai a scuola, come tutti, ma l’ebraico l’ho imparato da sola.
A quindici anni ho voluto imparare un po’ l’ebraico, e dunque ho preso la Bibbia in ebraico e una traduzione francese. È successo qualcosa di veramente strano. Io ho letto per esempio vaiomer, vaiomer Moshè, nella traduzione era scritto “Mosé diceva”, passato, ma la forma grammaticale che era nel testo era vaiòmer. Iòmer è un futuro, e dopo ho letto veha avta lerè ahha boha: “Dovrai amare il prossimo come te stesso”, dovrai amare, ma veha avta in ebraico è un passato. E veramente per tre mesi non riuscivo a capire nulla. Com’è possibile vedere un futuro, e la traduzione è un passato, e leggere un passato e la traduzione è un futuro?
E, dopo tre mesi, ho capito che questa lettera vav, che è come il candelabro, come un albero della vita, questa lettera vav, che è veramente come una spina, questa lettera cambia il passato in futuro e il futuro in passato. Vale a dire che nella Bibbia, in cui ci sono due tempi soltanto, non come in francese che sono quindici o sedici, non so, il passato è futuro e il futuro è passato. Dunque, veramente nella Bibbia ebraica non c’è tempo. Questo vuol dire o che il tempo non esiste o che Einstein è prima del suo tempo. È una cosa molto, molto strana.
Per i saggi, l’abbiamo detto sempre, non c’è un tempo lineare nella Torah, non esiste, perché il tempo è il tempo della vita, è il tempo del viaggio, non è il tempo dell’orologio, in nessun modo. Dunque, per gli Ebrei, l’arte era soprattutto parola, era scrittura, come nella genetica del Talmud, in cui tutto è domanda, tutto è paradosso, moltitudine di domande, di voci, di saggi, di interpretazione senza fine, scritture. Come la rottura dei vasi nella Cabala, perché, senza questa rottura dei vasi, l’assenza della parola non sarebbe sopportabile, la luce ci farebbe tutti ciechi.
Questa parola fu emergenza del deserto, deserto che fu apertura, separazione dal conformismo, nell’universo chiuso d’Egitto. Si deve uscire dall’Egitto ogni anno, sempre, e ogni giorno; del deserto di Giudea dove i profeti hanno scoperto la parola; deserto del Negheb dove Abramo andava con la sua idea molto astratta d’un en sof, d’un infinito, non di un Dio che è un’immagine; deserto del Sinai in cui Mosé andò ai confini della parola.
È scritto nel testo, a proposito di Mosè, che lui andava ahhà amibdà: dopo – è incredibile – dopo il deserto, dopo la parola, ai confini della parola. È soltanto ai confini della parola che finalmente si può ascoltare il silenzio totale. Anche questo mi ha colpita moltissimo. Come diceva Lévinas, filosofo francese ebreo che fu mio maestro in Sorbonne quando studiavo la filosofia occidentale: “Questo popolo ebraico è sempre in viaggio per un altrove”. È tanto vero, perché il luogo suo è luogo di parola. Il deserto parla, midbà, medabé, l’abbiamo già detto.
È vero che adesso io ho un passaporto ebraico, israeliano scusate. Io vivo a Gerusalemme, ma l’impressione ogni giorno, ogni mattina è di essere in viaggio verso Gerusalemme. Io non ho mai sentito questo in Cartagine, dove sono nata, e neanche in Parigi, dove avevo vissuto tanti, tanti anni. In Gerusalemme l’impressione è quasi strana. Siamo in viaggio verso Gerusalemme. È difficile da capire, ancora più difficile a dirlo, ma è la verità, questo essere in viaggio. Diceva un altro ebreo, francese, egiziano – vedete che ogni ebreo ha tre, quattro, cinque passaporti – questo scrittore meraviglioso, Edmond Jabès, che era egiziano e che dopo è andato a Parigi, nel ‘57: “L’ebreo è un libro”. L’ebreo non ama l’immagine, perché lui è un libro, è una parola. Jabès scriveva nel suo modo meraviglioso: “L’ebreo scrive il libro che Dio gli ha dato, dunque la sua infinita libertà”.
E veramente a Gerusalemme tutti, tutti gli ebrei vanno sempre scrivendo il libro, permanentemente. Alla sera vediamo gente, non in Tel Aviv, ma in Gerusalemme, con questo grande Talmud o la Torah o il Midrash o la Cabala nelle strade, qualcuno con il suo maestro, verso questo viaggio infinito d’essere un libro, di parlare del libro, di essere la parola, interpretazione infinita e fluidità totale di questo viaggio. Jabès ha scritto una cosa che mi pare veramente al centro di questo dibattito di questa sera, “La questione ebraica, la scrittura e l’arte”.
Jabès scriveva: “Scrivere è proprio rivoluzionario, è proprio ebraico. Perché? Perché si prende la penna dove Dio si ritirò dalla parola – è proprio bello, perché si prende la penna dove Dio si ritirò dalla parola – e scrivere è il tentativo suicida di compiere la parola – diceva – all’ultima sparizione. Dio fece del suo popolo un popolo di preti, vale a dire di lettori”. È incredibile questo. Siamo lettori d’un testo infinito che io ho letto, che io ho letto e che io scrivo. E dov’è questa parola? Questa parola è sempre in cammino, è sempre in una decostruzione. Io volevo dare un esempio, se avete la pazienza di ascoltare ancora cinque minuti. Per esempio la lettera aleph. La lettera aleph, che è bellissima da contemplare; la meditazione su aleph è una cosa molto interessante.
Forse lo sapete, in ebraico le lettere sono numeri. Nei libri antichi non ci sono numeri, non c’è pagina 1, 2, ma solo lettere. Tutto è scritto in lettere, perché le lettere sono numeri, e dunque questo aleph è l’uno.
Ma quando si vede l’aleph, che si vede? Si vedono tre lettere ebraiche: si vede il yod, questa piccola i come la iota in greco, iota qui, iota là, e una lettera di cui abbiamo già parlato, il vav, il famoso vav che è questo albero che cambia il passato in presente. Dunque si può dire, senza esagerazione, senza gioco, che l’aleph è l’1, ma è anche il 3. Perché il 3? Perché c’è yod, yod, vav. Adesso, ogni lettera è un numero, dunque yod (10), vav (6). Dunque io devo dire che l’aleph è l’uno, è il tre, è il 26. A proposito di questo, il 26 è il nome di Dio, il tetragramma, il nome, perché Dio non ha nome, non ha nulla, ma è un modo di dire, 26 è il yod, 4 lettere. Si può dire anche una cosa meravigliosa: in ebraico, aleph e elef sono lo stesso vocabolo. Elef è 1000. Dunque io posso dire senza gioco, perché non è un gioco con le lettere, ma si tratta veramente di una questione di filologia, che l’aleph è l’1 e il 1000, è il 3 e il 26, e io posso continuare perché i saggi hanno aggiunto che l’1 in ebraico si dice ehad. Ehad (13), ahavà, l’amore (13), dunque, questo gioco ad infinitum. Che vuol dire questa cosa? Vuol dire che tutto è relativo, non c’è un dogma.
L’aleph è l’1. Ma è solo questo? No! L’aleph è questo, è questo, questo e questo. Rabbi Akiba diceva … Rabbi Yishmael diceva … E quest’altro diceva … E dunque è un viaggio, è il viaggio della parola, non è un dogmatismo.
In un altro libro molto famoso della Cabala, che è il libro della Sefer Jetzira, il Libro della Creazione, che fu scritto 2000 anni fa, non sappiamo da chi, ma non importa perché i grandi autori non hanno mai firmato i libri, la Bibbia non è firmata, il Talmud non è firmato, il Midrash non è firmato e la Cabala neanche, gli ebrei non hanno veramente firmato i libri con il nome, all’ inizio c’è una cosa incredibile, è scritto: “Dio creò il mondo con le 22 lettere dell’alfabeto, come atomi e molecole, e le 10 sefirot”.
Io non entrerò adesso nel merito delle sefirot. Basta dire che le sefirot sono luci, misure, quindi una cosa totalmente astratta, simbolica. Per esempio questo è Keter (la corona), Hohma (la sapienza sintetica), Binà (analitica). Sono 10, come il corpo umano. Ma non importa. Ciò che importa è che Dio creò il mondo con le 22 lettere dell’alfabeto e le 10 sefirot, cioè, scrive il testo: “32 sentieri della Hohma, sapienza o sapienza suprema”. Ma 32, i 32 sentieri della Hohma, della sapienza suprema, è 30 cioè la lettera lamed, la più grande delle lettere, lamed, come lambda in greco, e il 2 che è il bet, b, come Bereshit, la dualità. Dunque 32 è anche la parola lev, lamed bet, il cuore. E la Bibbia ebraica comincia con un bet e finisce con un lamed. Dunque tutto si inscrive nel battito del cuore, nel viaggio del cuore. L’ultima parola di questo testo dell’inizio del Sefer Jetzira è: “Dio creò – con che, con che cosa? – col sfà, seffer, seppur”, la stessa parola di nuovo. Sfà vuol dire in ebraico cifra, numero. Seffer vuol dire libro come spazio e sippur racconto, ma è lo stesso vocabolo. E Dio creo il mondo, così, con questa parola, il viaggio nella parola.
Si dice nel Midrash Rabba che furono presenti 600.000 ebrei al Sinai, quando la Torah fu data al popolo, e si dice anche in questo Midrash – Midrash è un paragone – che ci sono 600.000 lettere nella Torah intera, vale a dire che ogni ebreo ha la sua propria lettera, ognuno è una lettera particolare. Io posso dire che sono una lettera, sono un segno.
E Bielutin, veramente, ha fatto tutto con segni, con lettere. Lui non è ebreo, ma c’è un incontro di civiltà, c’è un incontro di pensieri, e questa cosa è meravigliosa. Quel mondo sarà un mondo senza morte, perché questa parola è una parola che vive, è completamente diversa dal discorso occidentale, che è il discorso della morte.
Scrivere sarebbe rompere tutte le appartenenze, scrivere questo libro sappiamo che è l’essenza. L’essenza sarà sempre laggiù.
Un’altra cosa veramente incredibile è quando in ebraico si dice la parola più importante di tutte, e qual è questa parola? Shem. Shem, il nome.
Quando gli ebrei vogliono parlare di Dio, che è totalmente astratto per gli ebrei, lo sapete, loro parlano con Dio come a un amico, è tanto naturale parlare con lui, invece di dire Dio dicono haShem, il nome, Dio è il nome. Ma una cosa straordinaria nel testo ebraico è che la parola shem, che si scrive shin, shin è il simbolo del fuoco, e mem il simbolo dell’acqua, shem, due, un contrasto terribile, è la stessa parola che dice sham, laggiù, fuori. Dunque, quando io credo di dire, per esempio “Giorgio è il suo nome. Lo conosco, è Giorgio. Tu sei Giorgio”, la lingua mi dice: “No, tu non sai assolutamente niente, perché shem, il nome, non è qui, è laggiù”. Shem è sempre sham.
Voi capite questa dialettica incredibile, che è un cambio totale per una persona che aveva studiato nell’Occidente. Quando arrivai in Gerusalemme fu veramente un terremoto, completamente l’inverso di tutto. Avevo il pensiero cartesiano, l’ho abbandonato. È questo che è successo, perché questa parola che è shem/sham, questa lingua è un viaggio interiore, sempre. Non è soltanto un discorso filosofico, non è soltanto un blà blà blà, un gioco, è molto concreto, perché in ebraico la parola si dice davar. In tutta la Bibbia, la parola è questo: Davar varim. Ma anche “atto” si dice davar. In ebraico, la parola e l’atto sono la stessa cosa, lo stesso vocabolo. Dunque, io non posso parlare di carità o di qualche cosa di simile senza farla, non posso parlare d’amore senza veramente praticare questo comandamento. Questa cosa è un problema, non è un discorso, gli ebrei non hanno filosofia, in nessun modo, perché la filosofia è un sistema. C’è il Talmud, queste voci, voci, voci, interpretazioni, ma la filosofia veramente non è una cosa ebraica.
E, per concludere sull’arte, la scrittura, il pensiero ebraico, io non so di che cosa ho parlato, ma per concludere, piuttosto per non concludere, perché ogni conclusione per noi è morte, si può dire che scrivere è il passaggio dal visibile, che è l’immagine, all’ invisibile. E si dice piuttosto: “Ascolta Israel”, “Shema Israel”, piuttosto che “Vedi Israel”. Non è nello sguardo.
In questo Museo, con il Tiepolo e il Veronese, è proprio incredibile dire questo. Vedere Padova o Venezia, che sono la bellezza incarnata, e vivere a Gerusalemme, che è una bellezza tanto differente, è un’astrazione, è un concetto, è un deserto, non ci sono statue, non ci sono immagini; vivere tra le due è o un piacere incredibile o una schizofrenia. Dunque, per non concludere, val bene non concludere, volevo citare una frase di Edmond Jabès. Nel suo libro meraviglioso che fu tradotto in italiano Dal deserto al libro, editore fu Elitropia nell”83, lui scriveva: Se l’ebreo è l’altro è perché, cercando di essere a ogni costo se stesso, è ogni volta di più un essere di nessun luogo. Qui si scrive la sua differenza e la distanza in cui si mantiene.
Vi ringrazio molto.
R.C. Io ringrazio moltissimo Nadine Shenkar per questo contributo, che effettivamente meriterebbe un ulteriore dibattito, discussione, vari momenti di riflessione, perché ci ha dato, ci ha fornito alcuni strumenti in maniera proprio precisa e semplice di quello che cercavo all’inizio di testimoniare in maniera così vaga, avendo letto qualcosa della sua scrittura, cioè, quando dico che lei reperisce nei quadri, nelle cose che descrive un ordine non ordinale, cioè coglie che c’è una cosa, ce n’è un’altra, un’altra ancora. Queste cose non sono in successione, non vengono una dopo l’altra, stanno una accanto all’altra e ciascuna è indispensabile. Come accade che ciascuna cosa sia indispensabile? Ebbene, ce l’ha indicato con la logica della questione linguistica, cioè con questa questione dell’aleph, uno, tre, dieci, ventisei, mille e più, che è la questione quindi dell’infinito, è ciò per cui ciascuna cosa è essenziale. Ma non viene una prima, una dopo, poi l’altra. Apparentemente io ne scorgo adesso una, poi un’altra, poi un’altra, ma questa non è una successione, è un ritmo, è qualcosa per cui una cosa si staglia prima, poi se ne staglia un’altra, e ciascuna cosa contribuisce a dare valore al ritmo, alla narrazione, al racconto. Ora tutto ciò non è che si possa imparare, è testimonianza per una formazione che riguarda il modo di accogliere le cose, la vita; è la questione ebraica.
E questa prossimità tra la questione ebraica e l’esperienza cifrematica è straordinaria, perché quello che diceva adesso attorno all’esperienza linguistica, che viene dalla ricerca della Cabala, dell’ebraismo, è assai prossima all’esperienza della parola originaria, quella che Verdiglione ha chiamato la logica singolare-triale, per cui c’è la singolarità, ma c’è la trialità, cioè ciascuna cosa risponde a una logica singolare, per cui c’è quella particolarità di quella cosa, ma c’è la tripartizione del segno, per cui nella simultaneità abbiamo il nome, il significante e altro dal nome e dal significante. E questo ci consente di leggere, di leggere senza l’applicazione di uno schema ideologico o psicologico o sociologico, perché altrimenti prevale l’adeguamento, il ricordo, qualcosa che deve significare qualcos’altro. E allora siamo nella circolarità, come diceva Nadine Shenkar.
Ma questa è la questione intellettuale, è la questione della conquista intellettuale. E, paradossalmente, non è che l’esposizione di Nadine Shenkar sia stata senza contraddizione. Anzi, ascoltando, noi abbiamo colto varie contraddizioni, ma queste contraddizioni non tolgono nulla alla sua lezione, alla sua invenzione, alla sua testimonianza.
N.S. La contraddizione è l’essenza del viaggio.
R.C. Esatto!
N.S. Per esempio, in ebraico, un bacio ci dice neshikà, radice neshek, l’arma. Dunque ogni bacio è un bacio vero o è un’arma, come la storia di Esaù e Giacobbe, una cosa e il suo contrario nella stessa parola. Per esempio olàm. Olàm in ebraico è il mondo, olàm e la parola più banale, olàm il mondo, la materia, la sostanza e gli atomi, e leolàm è l’eternità. Dunque il mondo, che non è eterno, e l’eternità sono la stessa parola. E io vi potrei citare esempi ad infinitum, perché la lingua ebraica è così, sempre così: ogni parola ha in sé l’inverso, perché il viaggio è fatto così. E ciò che Freud ha scoperto, lui in realtà non lo aveva scoperto, perché tutto era nel Talmud. Quando io ho imparato il Talmud, ho impiegato cinque anni, la cosa più bella per me fu, dopo anni di filosofia occidentale, Heidegger, Husserl e tutti gli altri, che nel Talmud, nella stessa pagina, vi erano due cose totalmente inverse, totalmente…
R.C. Contraddittorie.
N.S. Totalmente. Per esempio io mi ricordo che nel corso di Talmud, il primo anno, con un gran maestro, Rosenthal, accanto a me era seduto un prete francese, Michel Remond, che è un amico molto caro che vive a Gerusalemme e insegna a Gerusalemme, e che parlava e capiva benissimo l’ebraico. Il maestro spiegava il testo del Talmud, e una cosa veramente interessante è che era un testo sull’immagine, l’idolatria, lo sguardo, ecc. Abbiamo parlato di questo, e subito, in questo discorso molto cartesiano, molto logico, molto serio due saggi parlano di Dio che va a passeggiare nel cielo sul Leviatan, a insegnare ai piccoli la Torah alla sera e a dare il cibo a tutte le creature. Michel, il prete francese, mi ha colpita. A quel punto io avevo capito tutto, ma lui dice: “Siete pazzi. Ma cosa ci fa Dio in cielo con il Leviatan?” Lui non aveva capito quanto invece molti giovani studenti israeliani capirono subito, perché è il loro modo di pensiero. Andare, per esempio, dalla logica, alla poesia, al fantasma è naturale. Dunque, per esempio, è interessante dire questo, accanto a Giorgio che è un grande critico d’arte.
Chagall, per esempio. Io non sono una critica, ma Chagall non è un pittore surrealista, non importa questa denominazione, o un’altra. Chagall è veramente un uomo, un ebreo che ha studiato il Talmud quand’era piccolo a Vitebsk, in Russia. Dunque Chagall è capace di mettere nella stessa tela la rivoluzione russa, il disordine, la guerra, e nel cielo una vacca o un uomo con il violino, o suo nonno a mangiare. È incredibile.
Il libro di Chagall Mia vita è scritto così, l’onirico e il logico insieme, non separati, come nell’occidente dove c’è la poesia e c’è la prosa. Ma nel Talmud le due cose sono totalmente intricate. Dunque, lei aveva ragione quando diceva che la contraddizione non è la contraddizione occidentale, a o b, è la stessa cosa.
R.C. È l’apertura da cui procede l’invenzione, l’arte, la scienza.
Dal pubblico Questo modo di pensare influenza anche la realtà del popolo ebraico, perché altrimenti noi non possiamo a un certo punto capire certe cose.
R.C. Certo.
Dal pubblico Se è così.
N.S. È assolutamente vero, perché è una pazzia ritornare sulla terra dopo 2000 anni. Veramente è una cosa che non è logica. E adesso il problema è qui, perché la cosa non è una cosa cartesiana, è una cosa logica.
R.C. Io ho visto che Giorgio Segato prendeva molti appunti e poi è stato chiamato in causa. Forse una breve notazione ulteriore?
G.S. È soltanto un rilevare, ma mi pare che l’ho già fatto altre volte, che in sostanza anche nella cultura greca classica quello che conta è la parola. Se noi guardiamo le Muse, non esiste una Musa per la pittura, una per la scultura, una per le arti visive, ma è tutto legato alla parola, al canto e alla parola, cioè nasce tutto dalla parola.
Anche tutto ciò che è immaginario, che è prodotto quindi dalla fantasia, dalla immaginazione che è dentro di noi, esiste soltanto se viene pronunciato, se viene nominato, se viene detto. Quindi anche nelle radici della nostra cultura esiste questo, l’importanza della parola.
E volevo dire che questa lettura degli artisti binaria è una restituzione dell’immagine alla parola, il che è molto bello, perché noi abbiamo il problema anche dal punto di vista educativo nella scuola. Si parla molto adesso, alla scuola materna, alla scuola elementare, di educazione all’immagine per far capire cos’è l’immagine, eccetera. In realtà il problema è restituire la parola ai bambini, cioè che loro sappiano dire quello che vedono, non quello che devono vedere, quindi andrebbe capovolta la situazione, didatticamente. C’è questa sfasatura.
Poi, ancora, è affascinante come Nadine espone la cultura ebraica e, come ha rilevato anche l’intervento, in realtà noi, ascoltando, cominciamo a sentire come questa cultura impregni tutti i comportamenti. E si capisce meglio quello che si sente alla televisione o si legge sui giornali, proprio perché cominciamo ad avere alcune informazioni di questo tipo, che sono strutturali proprio nel pensiero, culturali, della struttura del pensiero.
Una cosa allora che diventa importante dire è che tra i due ultimi libri c’è il romanzo, L’amante di Granada, che è interessante perché parla degli ebrei sefarditi della Spagna, di un grande poeta che parte tra l’undicesimo e il dodicesimo secolo, proprio nel periodo in cui si dice che cominciavano a essere presenti anche gli ebrei a Padova, come diceva anche l’ex rabbino. E quindi è interessante non solo per noi ma anche perché, in una sintesi, in un linguaggio molto controllato, in una scrittura che io direi lineare in questo caso, nel senso che ci conduce veramente a una capacità di esplicazione notevolissima attraverso la storia, la politica, la religione, la poesia e il canto si sente come la poesia non è la poesia scritta, ma è sempre canto, canzone. E questo è un’altra suggestione forte che dà questo libro. Un libro d’amore molto bello. La parte della relazione, del rapporto d’amore è la più forte, perché l’amore è un po’ il nutrimento della vita e dell’esistenza. Quindi è interessante anche questo libro, L’amante di Granada, che Ruggero mi ha fatto leggere in fretta, ma che ho letto molto, molto volentieri. Grazie.
N.S. Grazie tante. Ci sono domande?
Dal pubblico Volevo dire una cosa, se è possibile. Si sente bene?
N.S. Si sente bene.
Dal pubblico Io penso che una delle cose più belle dell’ebraismo è il legame con la concretezza, nel senso che non esiste teologia riflessa, ma esiste l’esperienza concreta. Perché si capisce, si sente che lei veramente ha fatto questo percorso. E allora c’è una grande differenza tra chi veramente ha fatto un percorso e lo trasmette e chi magari fa tante discussioni di carattere ideologico, teologico, molto interessanti anche, un racconto forbito, con tante informazioni. Sì, però è proprio diverso, un aspetto filosofico che tende alla riflessione, e invece questa grande, bellissima esperienza, non dico del popolo ebraico, nel senso che giustamente una… non è mai individuale, ma è sempre collettiva, è sempre in funzione di, non solo verso se stessi. si dice, mi pare si dica: Israele […] aloim, luce del popolo. Questa luce vi può essere solo perché vi è stato un cammino.
N.S. Ciò che Lei dice è tanto esatto, perché un’altra cosa della lingua è questa, per esempio il concreto si dice in ebraico pshat, pashut, semplice. Il concreto si dice pshat e l’astratto si dice mufshat, passivo; è la stessa parola, ancora, pshat e mufshat. Concreto e astratto sono assolutamente la stessa cosa.
Dal pubblico Sì, nel senso che non può esserci una questione se prima non c’è un cammino, un programma.
N.S. È vero.
R.C. Bene. Allora ringraziamo anche lei per questo suo intervento, e in particolare Nadine Shenkar di essere stata qui con noi. Invito ciascuno, quindi, a tenere conto delle indicazioni che ci ha fornito, leggendo e continuando, proseguendo il viaggio delle cose, visitando questa mostra I tesori della Russia, maestri dell’arte russa 1800 -1900 al Palazzo del Monte in Piazza Duomo, e quindi per ciascuno c’è questo augurio di proseguire il viaggio, questo viaggio incessante che comporta, come corollario, per riprendere alcuni termini e per lasciare poi ciascuno alla riflessione, che dunque, essendo il viaggio incessante, non c’è più creazione, cioè non c’è più il momento da cui ex nihilo qualcosa viene creata, perché il viaggio è incessante. Ciascuna cosa è costantemente in viaggio e non viene dall’origine, perché l’origine non ha luogo, non ha spazio, non ha modo di essere individuata.
N.S. Vorrei concludere su una parola che è bellissima. Un saggio ha detto: “Perché – sempre domande con gli ebrei – nel Talmud non è mai segnato il numero uno nella prima pagina?” “Perché tu puoi studiare, studiare, studiare, ma non arriverai mai alla prima pagina”.
R.C. È chiaro. Non c’è l’inizio. Allora, prima di congedarvi, vorrei segnalarvi il prossimo appuntamento, che coglie sempre come pretesto la mostra in una intersezione quindi con l’arte non solo pittorica. Venerdì 31 di ottobre, alle 17.30, alla Sala dei Giganti del Liviano in piazza Capitaniato, avremo con noi un ospite molto interessante. Si tratta del maestro Sylvano Bussotti, quindi ci sarà una sua conferenza, con un concerto del maestro Luca Paoloni che suonerà due composizioni del maestro Bussotti.
Dal pubblico Venerdì.
R.C. Venerdì 31, alle 17,30, alla Sala dei Giganti. Grazie, grazie anche a Giorgio Segato, grazie a Nadine Shenkar e a ciascuno di voi.