
La scuola e le sostanze di uso voluttuario
- Buttazzoni Anna, Chinaglia Ruggero, Grigoletto Stefano, Scala Aurora, Varese Angelo
15 ottobre 2015 Dibattito a Padova, alla Fornace Carotta, dal titolo La scuola e le sostanze di uso voluttuario. Educazione, formazione, istruzione. Quale messaggio. Interventi di Ruggero Chinaglia, cifrematico, Stefano Grigoletto, farmacista, Aurora Scala, dirigente scolastico, Angelo Varese, psicanalista, Anna Buttazzoni, psicologa. Con il Patrocinio del Comune di Padova. Questo è il settimo dibattito intorno al tema dell’abuso di sostanza psicoattive.
LA SCUOLA E LE SOSTANZE DI USO VOLUTTUARIO
Educazione, formazione, istruzione. Quale messaggio
- Ruggero Chinaglia, medico, psichiatra, cifrematico
- Stefano Grigoletto, farmacista, assessore del Comune di Padova
- Aurora Scala, dirigente scolastico del Liceo Tito Livio di Padova
- Angelo Varese, psicanalista
Ruggero Chinaglia Buonasera. Ringrazio ciascuno dei presenti di essere qui e cominciamo questo nostro incontro che ha per titolo La scuola e le sostanze di uso voluttuario. Educazione, formazione, istruzione. Quale messaggio. I giornali cittadini di qualche giorno fa, in particolare la settimana scorsa, titolavano chi “La città è inondata di droga” chi “Un fiume di droga sulla città” e il riferimento era alle indagini in corso da parte delle forze dell’ordine e della magistratura su una nuova mole di droga che ha invaso la città. Questi titoli si basavano su riscontri delle indagini in corso e quello che dava l’allarme non era tanto la questione della quantità, quanto del tipo di sostanza, nel senso che una nuova invasione di eroina entra nel mercato, e il modo, in quanto si tratta di eroina a bassissimo prezzo per allettare i ragazzi sempre più giovani che, con pochi euro, possono comperarsi questa sostanza e fare quella che viene chiamata “esperienza della droga”.
Un allarme quindi giustificato, ma il nostro dibattito è sorto, nel suo disegno, già a marzo di quest’anno e non potevamo prevedere che ci sarebbe stato questo allarme, questa inondazione, questo massiccio uso di questo particolare tipo di droga, perché ciò da cui è partita l’idea del dibattito non è tanto l’uso e l’abuso di droga in sé, ma di quelle che abbiamo chiamato le sostanze di uso voluttuario, cioè in particolare le sostanze e le credenze connesse alla sostanza. Noi abbiamo constatato, nel corso degli anni e dei decenni, che è sempre più aumentata la propensione all’uso di cosiddetti rimedi, per dare soluzione a domande che non trovano la risposta nel loro svolgimento, seguendo il loro corso, e che da parte dei cittadini, ma anche da chi è preposto a dare indicazioni a chi indicazioni chiede, è sempre più massiccio il ricorso all’uso di sostanze che si presume possano soddisfare rapidamente la domanda, il disagio, il fastidio ovunque sorga e ovunque venga avvertito.
La questione, che logicamente e culturalmente noi poniamo, è che l’idea di soluzione è già sostanza. L’idea di dare soluzioni standard a ciò che si pone come problema, a qualcosa che esige la ricerca, l’indagine per trovare risposta, è sostanza. E il fatto di trovare diffusamente la chiusura alla ricerca e all’indagine in ciò che viene proposto come soluzione, ebbene, già questo è propensione all’uso di sostanza, è istigazione al sostanzialismo. Questa impostazione è sempre più diffusa e questo è un dato allarmante, perché fornire la soluzione, che perlopiù è una soluzione standard, una soluzione generica, dove si pone una domanda, quindi una curiosità, quindi una esigenza, toglie la domanda, toglie la pulsione, toglie la curiosità, toglie ogni istanza di ricerca. E questo è un aspetto drammatico, negativo, è un aspetto che sicuramente si riverbera sui giovani in maniera decisa.
Abolire la domanda, abolire la curiosità e la ricerca di quel che non va, quando c’è un fastidio, un sintomo, qualcosa che urge e che preme per il chiarimento, impedisce di capire quale variazione, quale differenza, quale intervento occorra attuare nella vita, nel lavoro, nelle cose che si fanno; si pensa di potere togliere il fastidio mantenendo le abitudini da cui questo fastidio sorge. Non viene messa in questione, quindi, ciò da cui parte il disagio, il fastidio, il sintomo, ma viene fornita “la soluzione” e tutto viene tappato. Questa modalità investe la vita lavorativa, la vita sessuale, il settore dell’alimentazione, della nutrizione; ogni ambito subisce questo che possiamo chiamare un trattamento sostanzialista e qui ne va della qualità della vita, che è data non dalla comodità o dall’agiatezza, ma è data dalla soddisfazione della domanda, dalla soddisfazione pulsionale, quindi dalla soddisfazione delle esigenze, che per ciascuno avviene in modo differente. Non si tratta della qualità generica della vita ma, per ciascuno, della propria qualità della vita.
Allora la questione è: dinanzi a questo ricorso alla soluzione standard, a questo ricorso generico e generale a un’idea di soluzione, dinanzi a questa massiccia abolizione della domanda, la scuola come interviene? Qual è il modo d’intervento nella scuola, in ambito educativo, formativo, nell’insegnamento, perché non vi sia l’accettazione supina di questa chiusura, ma anzi, il rilancio della curiosità, dell’istanza intellettuale, dell’istanza culturale? Un rilancio che vada in direzione non della soluzione ma della ricerca del modo opportuno. La questione culturalmente interessante è questa: dinanzi a una difficoltà, dinanzi a un problema, dinanzi a un sintomo, dinanzi a un inghippo, qual è il modo opportuno per affrontarlo?
Noi invece assistiamo a tutt’altra operazione, a livello sociale e di mercato: se c’è un problema alimentare, se c’è una difficoltà, se c’è un dolore, occorre ricorrere alla chimica. La pubblicità televisiva, giornalistica, radiofonica, in internet, è pressante con l’indicazione di ricorrere alla sostanza, per mangiare, per evacuare, per mangiare meno, per non fumare, per prestazioni sessuali sempre migliori e altro. Per affrontare qualunque difficoltà occorre che vi sia l’assunzione di una qualche sostanza, fino al paradosso che nel nostro paese, che è uno dei paesi industrialmente avanzati, quindi dove l’alimentazione è esuberante rispetto a quelle che sono le necessità, avviene, attraverso i media nazionali, lo spaccio delle vitamine e degli integratori alimentari consigliati persino ai bambini.
Nonostante il problema dell’obesità, la proposta che viene fatta dal Ministero della Sanità, che favorisce ovviamente la vendita di questi prodotti e la loro pubblicità, è che siano proposte ai bambini le vitamine, come se ci fosse carenza. Ma se c’è il problema contrario! A salire da questo, noi assistiamo a livello sociale al paradosso della proposta pressante e insistente di ricorrere alla chimica, alla sostanza, lì dove si ponga una esigenza, una domanda o un fastidio.
C’è del disagio? C’è una difficoltà digestiva? C’è un dolore? C’è una qualche problematica? C’è una disfunzione? Occorre assumere un rimedio o quell’altro, senza chiedersi come avviene che, nel dispositivo di vita che è in atto da parte di quella persona, ci sia evidentemente qualcosa che è trascurato o anche, delle abitudini che sono assunte e vengono mantenute, nonostante indicazioni evidenti che qualcosa non va e deve essere modificato. Ecco, nessuna indicazione viene dal medico rispetto allo stile di vita, ma solamente l’indicazione di assumere, assumere, assumere sostanza. È chiaro che poi c’è sostanza che può costituire medicamento e sostanza che invece costituisce tutt’altro, ma il principio è lo stesso.
Questa è la questione da affrontare, non tanto un ipotetico quesito se si tratta di essere proibizionisti o legalisti o permissivi rispetto all’uso di determinate sostanze, ma la questione della sostanza come fondamento delle cose che avvengono. Soprattutto quindi la questione della sostanza, intendendo per essa già la nozione di soluzione che si tratta di applicare a ogni questione che sorga in termini problematici.
Non si tratta di trovare la soluzione, si tratta di trovare il modo e questo esige dispositivi opportuni a livello di educazione, di formazione, di insegnamento, in famiglia e nei vari ambienti. Abbiamo dedicato sei dibattiti alla questione dell’assunzione, dell’uso, degli effetti delle sostanze psicoattive, sempre in collaborazione con Stefano Grigoletto, con cui da anni abbiamo in atto questo progetto per porre delle questioni in termini culturali, che possano effettivamente costituire anche una fonte di interrogazione, di riflessione, di elaborazione, di proposta. Dopo sei dibattiti ci siamo interrogati su come questa questione si intersechi con la scuola, come la scuola possa dare un contributo, se già lo dia o se possa darne un altro più efficace, a fronte del dilagare del problema.
L’assessore Grigoletto, nella sua veste professionale di farmacista, ci potrà dare dei dati precisi su quella che è l’entità dell’uso e dell’abuso anche di farmaci e psicofarmaci, che rientrano in questa logica della sostanza non solo come rimedio ma come soluzione. Avendo affrontato una serie di temi che riguardavano il benessere, il lavoro, varie mitologie, la promessa della felicità, lo stress e quant’altro nei vari settori, ci siamo anche chiesti, rispetto a un apparato dello stato preposto all’educazione, alla formazione, all’insegnamento, come può porsi la questione differentemente. Storicamente l’Associazione cifrematica si è spesso rivolta alla scuola e agli insegnanti, perché sin dagli anni ‘90 sono stati fatti dispositivi con scuole e insegnanti, corsi di aggiornamento, corsi di formazione, proprio per contribuire a un rilancio della questione intellettuale, perché di questo a mio avviso si tratta, di affrontare intellettualmente la questione che è alla base, e cioè la parola.
La scuola si fonda sulla parola, ciascuna esigenza si istituisce con la parola e dalla parola, però occorre interrogarsi di quale parola si tratti, perché già l’evangelista Luca ci dice che un conto è parlare e un conto è blaterare, nella sua annunciazione a Zaccaria. I greci usavano più verbi per indicare parlare, dire, tra cui: légo, (λέγω), eiro, (εἰρω), phemì, (φημί), qui invece Luca dice lalein (λαλεῖν), blaterare, cioè Zaccaria blaterava, cianciava, diceva stupidaggini; l’angelo gli annuncia un evento generativo e lui dice no, che è vecchio, che non può essere, cioè soggiace al fantasma sostanzialista, soggiace al fantasma di morte e non coglie l’eventualità di un’altra cosa, di un evento che sfugga al modo umano di considerare le cose.
La parola: questo è il punto cardine, la questione essenziale, la questione intellettuale che si pone.
Allora, giusto per procedere, dopo questa breve introduzione per indicare qual è il contesto e quali sono alcuni degli elementi per cui ci muoviamo su questo tema, ringraziando ciascuno dei relatori che sono qui e quindi Stefano Grigoletto, Aurora Scala, che è direttore scolastico del Liceo Tito Livio, Angelo Varese, psicanalista che lavora a Venezia e Anna Buttazzoni che opera a Treviso. Passo la parola a Stefano Grigoletto, che ci dà alcuni elementi proprio indicativi di esperienza, a partire dai riscontri sull’uso effettivo di sostanze che avvengono nella nostra città e non solo. Prego.
Stefano Grigoletto Grazie, Ruggero. Questa sera non sono nelle vesti di assessore, ma di farmacista perché, dopo ventisei anni di professione come farmacista, ho maturato alcune riflessioni stando a contatto diretto con il pubblico e stando attento ad alcune situazioni che mi sono capitate, quindi parlo più che altro come esperienza personale.
Le sostanze di uso voluttuario possono essere sostanze o miscele di sostanze che, producendo un cambiamento psichico o fisico all’interno del corpo umano, inducono colui che le consuma ad assumerle sporadicamente o abitualmente. È una definizione farmacologica, quindi la centralità dell’argomento è la combinazione chimica che queste sostanze fanno all’interno del nostro corpo, in qualche modo anche cambiandolo.
Mi spiego meglio: una sostanza di uso voluttuario classica è il caffè. È una base xantinica, pochi lo sanno, è un eccitatore del sistema nervoso tramite meccanismi biochimici ben precisi. L’abitudine è uno o due al giorno, da sei in poi comincia a essere di uso voluttuario, dopo i dieci si viene esclusi per doping da una gara olimpica. C’è un motivo, no? Quindi da sostanza passa a farmaco, poi ad abuso.
La sostanza che conosciamo meglio è l’alcol, lo conoscono tutti, soprattutto i suoi effetti. Per gli oppiacei, si parlava prima dell’eroina, che è un secondo derivato dell’oppiaceo, perché prima si chiama morfina; c’è una reazione chimica diacetica per cui vengono acetilati i due gruppi ossidrilici e quindi si chiama eroina per due fattori fondamentali: primo, perché la farmacocinetica è più rapida quando uno l’assume, quindi è più veloce; secondo, perché aumenta il peso molecolare e quindi nel mercato è conveniente, perché con 0,8-0,85 grammi di morfina si fa 1 grammo di eroina e quindi conviene di più. Dunque è più veloce e chiaramente c’è un aumento di sostanza quando la si immette sul mercato.
Ne ho citata una e ne potrei citare tante altre, comunque il tema è questo. Che alcuni Paesi adottino la legalizzazione, la liberalizzazione, il proibizionismo, questo è un fatto culturale e politico del Paese stesso. Io non voglio nemmeno entrare in questo, perché magari la pensiamo anche in modo diverso, ma è la combinazione chimica la centralità, cioè quello che fa sull’individuo, perché quello non cambia; la reazione chimica è uguale in Olanda, è uguale in Afghanistan, è uguale in Italia, è uguale anche in Paesi che l’hanno ampiamente legalizzata oppure liberalizzata. Sono gli effetti.
Nelle sostanze di uso voluttuario ci sono anche i farmaci. Farmaco, tecnicamente, è quella sostanza che, con la dose minima necessaria, riproduce l’equilibrio dell’organismo che si chiama omeostasi. Abbiamo la pressione alta, prendiamo un farmaco anti ipertensivo, si riabbassa la pressione sotto il valore 90 della minima e quindi l’individuo ritorna in equilibrio, avendo preso il dosaggio minimo per ristabilire l’omeostasi, per riottenere quell’aspetto fisiologico fondamentale per avere l’equilibrio.
Tra le sostanze di uso voluttuario si distinguono anche i farmaci, quando ci sono due condizioni che sono diverse da queste: la prima è l’abuso e la seconda è l’uso improprio. L’uso improprio è un uso che può capitare quando uno sbaglia il dosaggio perché ne prende un po’ di più o anche un po’ di meno; si prende una goccia di ansiolitico in più o anche due gocce alla sera perché durante la giornata si sono bevuti più caffè, e questo è l’uso improprio. L’abuso è quando si diventa dipendenti dal farmaco dal punto di vista fisico o dal punto di vista psichico. È una cosa diversa. Tra la rosa delle sostanze che ho detto, ce ne sono alcune che in Italia sono proibite, altre che sono consentite, altre che sono legalizzate. Magari quelle legalizzate, che spesso sono quelle che si vanno a prendere in farmacia tramite la ricetta medica e un documento, vengono un po’ sottovalutate perché intanto comunque si va dal medico, si prende la ricetta e si va in farmacia.
Queste sostanze, che sono un po’ sottovalutate da un punto di vista anche mediatico, sono gli ansiolitici (sciolgo l’ansia, l’etimologia è greca) che fungono per dare una soluzione a una persona che ha un momento di ansia dovuto a fattori esterni. Le benzodiazepine sono i capostipiti degli ansiolitici, individuate da una forma chimica ben specifica, un anello benzenico più un anello diazepinico. Questi sono nomi che, per chi non è addetto ai lavori, possono suonare un po’ strani, però quando dico Lorazepam o dico Tavor, già i nomi cominciano a essere più familiari. Di queste sostanze, che vengono dispensate attraverso i farmaci tramite ricetta medica, in Italia siamo i primi consumatori d’Europa. Il Tavor da 1 penso sia il farmaco, con l’Aspirina, più venduto sul territorio nazionale, poi ce ne sono tanti altri. Le benzodiazepine sono molecole che agiscono attraverso un meccanismo chimico ben preciso, sono attivatori del sistema GABAergico, che è l’acido gamma amminobutirrico, che è inibitore del sistema nervoso centrale, quindi ne enfatizzano la funzione e automaticamente l’individuo ansioso o in qualche modo agitato ha un beneficio, perché attenua il mediatore chimico.
Vedete che si riproduce sempre il discorso iniziale della chimica, cioè sempre quello che succede biologicamente dentro all’organismo. Si distinguono in farmaci a breve, a media e a lunga durata d’azione. Per un rapido scorcio, vi cito alcuni nomi che magari qualcuno di voi conosce. A breve, media e lunga durata d’azione si distinguono attraverso un altro parametro che è l’emivita, cioè il dimezzamento della quota ematica del farmaco nel tempo. Noi, quando assumiamo un farmaco, possiamo assumerlo per via endovenosa, parenterale, via orale, via rettale; va all’interno dell’organismo, viene assorbito, viene dispensato dal circolo sanguigno, si calcola poi quando si dimezza l’emivita, questo è il calcolo medio per valutare quanto dura una sostanza all’interno del nostro organismo.
Voglio focalizzare bene l’attenzione sulle benzodiazepine, che sono state inventate nel 1960 e hanno sostituito i barbiturici inventati nel 1909, barbiturici che qualcuno non usava solo per dormire, come ipnotico sedativo o sonnifero, ma c’era il barattolino dei barbiturici se uno voleva un attimino suicidarsi o fare il tentativo. Adesso invece queste sostanze sono ben controllate e hanno ricette mediche precise, per cui non è così facile farsele prescivere. Il barbiturico, per un eccesso di sostanza introdotta nell’organismo oltre la dose terapeutica, riusciva a causare la morte per depressione respiratoria, cioè blocco del meccanismo di respirazione automatica, perché abbiamo un meccanismo volontario e un meccanismo automatico. Succede anche con gli oppiodi o con l’eroina, quando si inietta più della dose che può sopportare l’individuo e quindi si muore per depressione respiratoria. Si blocca il meccanismo automatico respiratorio e, quando ci si mette a dormire, si blocca il meccanismo di respirazione diaframmatica e si muore per asfissia. Una sostanza molto pericolosa perché bastava poco, un dosaggio di poco superiore alla dose terapeutica, per rischiare inconvenienti di questo tipo.
Per la benzodiazepina il dosaggio per indurre il blocco respiratorio è tanto più elevato della dose terapeutica, quindi è una sostanza apparentemente più sicura da questo punto di vista, però, per questo motivo, è soggetta anche a una facile prescrizione. La suddivisione farmacologica è, quindi, a breve durata d’azione, a media durata d’azione e a lunga durata. A breve durata d’azione abbiamo per esempio l’Alprazolam (lo Xanax), il Lorazepam (il Tavor, il Control, il Lorans), il Lormetazepam (il Minias e adesso ci sono anche gli equivalenti, cioè farmaci che costano meno con lo stesso principio attivo ma fatti da altre ditte), abbiamo lo Oxazepam (il Serpax, il Lindormin); abbiamo il capostipite di quelli a lunga durata d’azione, il Diazepam (il Valium che sicuramente conoscerete tutti), il Flunitrazepam (il Darkene, il Roipnol, che è stato tolto da qualche anno perché dava effetti collaterali un po’ fuori controllo rispetto alle finalità terapeutiche), il Bromazepam (il Lexotan).
Come vedete, ce ne sono talmente tante che l’industria farmaceutica si è attrezzata, ha cambiato un metile, un idrossido; cambiando di pochissimo la molecola si fa un brevetto nuovo e io sono il detentore di quella molecola, perché non posso copiarla da un altro, c’è un po’ il copyright, non posso copiare una sostanza di un’altra azienda, però c’è una domanda di mercato talmente cospicua (il mercato è fatto da domanda e offerta, è ovvio, no?) che l’industria farmaceutica si è attrezzata e ci saranno almeno settanta, ottanta tipi di benzodiazepine diverse. E se c’è mercato vuol dire che, come diceva Ruggero prima, c’è qualche problema da risolvere.
Queste sostanze sono diffuse perché, e qui devo fare un appunto ai prescrittori che sono i medici, non c’è più quel dialogo, si è interrotto quel dialogo medico-paziente. Quindi, al posto di un colloquio e della capacità di interpretare un problema del paziente in quel momento, è più comodo di fronte a chi lamenta di non dormire prescrivere Tavor, e avanti un altro; oppure, dall’altra parte, il paziente insiste molto perché dice che non dorme più, c’è dipendenza psichica: “Non ce la faccio più, se non ho la scatola non ce la faccio; mi dia per forza la scatola perché ormai mi sono abituato”. Negli Stati Uniti, se le benzodiazepine vengono usate oltre un mese di terapia, c’è una segnalazione da parte della Food and Drug Administration al medico, perché si devono usare sistemi alternativi per ridurre l’ansia, infatti negli Stati Uniti è molto usato lo psicologo. Qui possiamo andare avanti tutta la vita a prendere il Tavor da 1 fino a quando la esauriamo.
Questo però dà un riflesso anche sociale. Cosa succede per l’abuso di questa sostanza? Vi leggo alcuni effetti collaterali che vengono dall’abuso di questa sostanza. Abbiamo chiarito la differenza tra abuso e dose terapeutica, no? La minima dose, quella che serve per indurre l’omeostasi, cioè per riportare alla normalità l’organismo. Abbiamo un’eccessiva sedazione che si riflette anche sul posto di lavoro, abbiamo una perdita della memoria a breve termine, non ci ricordiamo più dove abbiamo lasciato le chiavi, abbiamo astenia, aumento di peso, atassia, sonnolenza, performance cognitive e psicomotorie ridotte. Teniamo presente che è ovvio che ci sono anche gli effetti terapeutici che sono l’ansiolitico, l’ipnoinducente o sedativo, il miorillassante e a volte può essere utilizzato anche come anticonvulsionante. Questa è una cosa ovvia per i dosaggi terapeutici, ma mi informerei sugli effetti collaterali perché siamo un Paese molto soggetto all’uso di psicofarmaci. Nel primo trimestre di gravidanza si possono anche verificare malformazioni fetali, cosa che non sanno tutti. Sulla dipendenza vera e propria, con l’aumento del dosaggio non si passa più solo da una dipendenza psichica, ma si passa a una dipendenza anche fisica dopo un certo numero di tempo; c’è l’insonnia, gli attacchi di panico, la tachicardia, l’ipertensione, i tremori, la perdita dell’appetito. Teniamo presente che, associate all’alcool, possono indurre una depressione respiratoria e quindi il soggetto può anche morire.
Voi capite bene come si possa riflettere nel lavoro che facciamo tutti i giorni un’assunzione cronica di questo tipo di farmaci. Io li considero esattamente come droghe di tipo voluttuario o droghe tipo la marijuana o l’hashish, gli oppiacei sono un po’ più forti perché danno dipendenza fisica in molto meno tempo, però io mi focalizzo proprio sul tipo di reazione chimica che succede nell’organismo. Nel periodo dell’età scolastica, per meno cultura, per meno difese culturali e di esperienza, si può essere anche più soggetti ad abusarne. C’è poi anche la parte senile, il periodo di vita dell’individuo in cui si riducono quelle capacità reattive dove, magari per la predominanza di grosse sofferenze famigliari, lavorative o di altro genere, non si hanno più le risorse interne per fronteggiarle e quindi si ricorre al medico prescrittore o comunque all’uso di sostanze di questo tipo.
Questa è la centralità dell’argomento di questa sera. Al di là di come la possiamo pensare da un punto di vista politico o culturale, io sono impressionato dal fatto di come si parli poco di queste sostanze, ma se ne sia accorto per la pericolosità solo il codice della strada. All’articolo 187 del codice della strada, c’è: “Guida in stato di alterazione psicofisica per uso di sostanze stupefacenti. Chiunque guidi in stato di alterazione psicofisica dopo aver assunto sostanze stupefacenti o psicotrope è punito con l’ammenda da Euro 1500 a Euro 6000 e con l’arresto da sei mesi a un anno”. Quindi ci siamo accorti, potenzialmente come pericolosità, solo quando guidiamo la macchina, per lo Stato, per ovvie considerazioni. Di tante cose lo Stato oggi, secondo me, non si è ancora accorto. Grazie.
Ruggero Chinaglia Ringrazio Stefano Grigoletto per il suo intervento tecnico che, da un lato, pone questioni molto precise su quello che è un abuso anche di ciò che va verso la terapia e, dall’altro indica che questa propensione alla somministrazione e all’assunzione di sostanze va addirittura oltre l’eventualità terapeutica. Lui diceva, per esempio, a proposito degli effetti collaterali, “non a tutti è noto che…”. Occorre dire che la formula “non a tutti è noto che” andrebbe cambiata in “solo pochi vengono informati che”. Solo pochi vengono informati che un uso prolungato di talune molecole distrugge fegato, reni e cuore; quei famosi e tanto belli stabilizzatori dell’umore come il litio, che viene impiegato come segno della modernità perché non obnubila, distrugge i reni, ma a quanti viene detto che dopo un tot numero di anni ci rimetterà i reni assumendo questa sostanza? Altri ci rimetteranno il fegato, altri il cuore.
Bene, queste informazioni non vengono diffuse, ma questo è un aspetto che esploreremo in un altro dibattito dove magari il referente sarà l’istituzione sanitaria. Quello che emerge intanto, e che mi pare rilevante cogliere, è che i riscontri professionali, tecnici, i dati, dicono che c’è un uso enorme di queste sostanze, un uso che va anche ben oltre la necessità perché, anziché porre la questione in termini culturali, intellettuali, sulla variazione necessaria a un certo stile di vita per non cedere rispetto a ciò che sorge come ansia, paura e quant’altro, viene posto un tappo e un mantenimento, quindi, di ciò che causa ansia e paura, senza porre l’eventualità di un’articolazione.
Questa è la questione. Questa è la questione della parola che a noi interessa in modo assoluto, anche perché cifrematica questo vuol dire, vuol dire la parola che va in direzione della sua cifra, della sua qualifica. La questione quindi di un percorso, di un itinerario che occorre fare, che la parola fa e che occorre ciascuno faccia per trovare il modo opportuno dinanzi a una difficoltà, dinanzi a un problema. Questo perché anche attenuare il sintomo, anche attenuare il fastidio, non fornisce le risposte per cui quel fastidio possa dissiparsi. Il fastidio resta e bisogna continuare ad assumere sostanza, e assumere sostanza non è che ha effetti intellettuali interessanti.
Allora adesso invito al suo intervento Angelo Varese, che ha esperienza psicanalitica e anche nel settore della scuola, nell’insegnamento che ha avuto modo di fare per tanti anni. Con Angelo Varese abbiamo avuto modo di procedere a un’esperienza formativa che ci ha visto insieme, poi a un certo punto lui ha preso altre strade e ha proseguito altrimenti, ma la sua è sicuramente una testimonianza autentetica e quindi lo invito al suo intervento.
Angelo Varese Grazie. Subito una riflessione dettata dalla composizione di questo tavolo così importante, del quale mi onoro di far parte. La cosa mi ha evocato una frase di Freud, che annovera nel trittico delle professioni impossibili il governare, l’educare e lo psicanalizzare. Siamo chiamati, evidentemente, a un compito piuttosto arduo: confrontarci con cose impossibili. Possiamo, ciò nonostante, farci orientare da quello che accomuna queste tre esperienze, queste tre pratiche: tutte e tre puntano esattamente sulla parola.
Quale parola? Una parola intesa non in modo strumentale, come semplice mezzo di comunicazione, come veicolo. L’esperienza dell’invenzione della psicanalisi si è imbattuta da subito nel fatto che la parola non è così a disposizione come si crede. Non sto qui a evocare i termini rimozione, censura, inibizione. Quante volte abbiamo sbagliato a dire una parola, abbiamo commesso un lapsus, quante volte abbiamo fatto una dimenticanza? Sono una realtà che conoscete già molto bene, ma mi preme sottolineare che la parola, di cui ci possiamo occupare questa sera e nella prospettiva dalla quale possiamo approcciare il dibattito, è una parola intesa in modo particolare.
Ruggero ne ha già accennato in maniera molto interessante. E’ una parola che non si può dirigere, che non si può piegare all’idea di padronanza; non la possiamo portare dove vogliamo. D’altro canto, anche la psicanalisi constata che la parola non si lascia piegare: neppure alla guarigione, altrimenti saremmo rimasti agli insuccessi dell’ipnosi. La prima questione: la parola non è uno strumento, ma il campo in cui ciascuno di noi si effettua, esiste. Non è inerte, non è morta, non è sepolta nel suo significato. Nell’atto di parola semmai il significato è di volta in volta attribuito: già qui c’è una variazione rispetto alla grammatica. Anche il significato richiede un’interpretazione. Accennavo prima al lapsus, a una dimenticanza, a un farfugliamento, a un punto di afasia.
Nella parola si fa strada qualcosa d’altro. E ci offre il vantaggio d’intendere che le cose non stanno come crediamo che stiano. La parola è in trasformazione, la sua efficacia si dà in una trasformazione, in una specie di costante e immancabile eterogeneità dei fini. Ci porta sempre da un’altra parte ponendoci in una deriva – in senso etimologico – che ne stabilisce il significato. La storia è quello che una parola raggiunge, è l’esito, l’effetto di un atto di parola. L’etimologia come tale, come logia, non certo come ricerca, dice invece che la storia della parola va indietro, che ha come esito proprio un significato prefissato: ma non interessa tanto la storia delle parole quanto l’eventualità che ciascuno di noi, con la parola, possa effettuarsi. A proposito dell’educazione, possiamo anche dire che non si tratta di un addestramento a conformarsi alle parole, ma di trovare le parole per la specificità del proprio esistere.
Non ho da imparare il discorso dell’altro, devo effettuarmi nel mio. E’ un dato spendibile quando parleremo di scuola come possibile contraltare all’uso di sostanze voluttuarie, come ambiente, anzi, che può offrire di un’alternativa rispetto a ciò, mentre viene, invece, usualmente, drammatizzato come il luogo d’iniziazione dove per la prima volta si viene a contatto con queste sostanze, ci si converte alla sostanza, ce la si scambia. Così potremmo disegnare un orizzonte un po’ più interessante. Seconda questione: la parola trova più di quello che cerca, per cui ascoltarla e interrogarla apre nuovi orizzonti.
La posta in gioco è parlare in un altro modo per intendere in un altro modo. Per intendere, ad esempio, il nesso, che affrontiamo questa sera, tra la formazione e l’uso delle sostanze: un tentativo di passaggio dal che cosa fare al come fare. Un’altra questione ancora: il modo con cui si parla, e parleremo qui di scuola e di sostanze, il modo di dire prefigura anche un campo d’intervento e determina la qualità degli effetti pragmatici, di quelle variazioni che auspichiamo rispetto al modo comune di trattare della sostanza.
Vi propongo un aneddoto, giusto per intendere cosa comporta affrontare la cosa dal lato della parola invece che dal lato del significato. In analisi, una persona con un fratello dedito agli stupefacenti, mi ha detto che credeva fossero più pericolose della tossicodipendenza certe dipendenze tossiche. Le chiamava così riferendosi a un fatto molto specifico, cioè a una specie di dedizione “a prescindere” che il fratello, proprio in quanto tossicodipendente, aveva introdotto in famiglia. Bisognava occuparsi di lui, a prescindere, senza che da parte sua ci fosse neppure la domanda, neppure il chiederlo. Insomma la presenza del fratello tossicodipendente aveva finito per produrre la dipendenza dell’intera famiglia dal suo stato, o forse sarebbe meglio dire, dal suo statuto. Ecco la cristallizzazione di una parola nel suo significato, la feticizzazione della parola, la sua immobilizzazione, il livellare, l’etichetta di tossicodipendente. È bastato questo per produrre una certa circolarità sostanziale all’interno della famiglia. Il transfert dalla tossicodipendenza alla dipendenza tossica sta anche in questo.
Riprendiamo il termine “sostanze psicoattive”, che è uno dei due termini di cui discutiamo questa sera. Il termine ha una lunga storia che non stiamo qui a ripercorrere. M’interessa semmai sottolineare qualcosa che non sia dell’ordine del repertorio dei significati che abbiamo trovato fino a ora a questo riguardo. Diamo qualche elemento di ascolto. Attualmente, parliamo di sostanze psicoattive. Tempo addietro non parlavamo di sostanze psicoattive, parlavamo di droga. Certo, questo “psicoattive” sa di lifting, tende già a rendere accettabile la cosa, non vi pare? Anche dal punto di vista medico la faccenda sembra più trattabile, meno volgare di “droga”, più elegante, meno pesante, automaticamente più leggera, magari in primis per gli operatori che se ne occupano.
Allora, dalla canna, alla sniffata e alla bevuta del sabato sera, con qualche scivolata nel coma etilico, la dipendenza dal Web, la sindrome di Hikikomori per cui ci chiudiamo nella stanza giorno e notte per stare connessi a Internet. Ecco: per un verso, la ricreazione, e per l’altro, la stimolazione, non finiscono mai. Sullo sfondo, l’ideologia dell’inerzia, della passività. Prima, Ruggero Chinaglia evocava giustamente la questione del disagio: qualcuno ne parla più del disagio? No, perché il disagio accompagna l’istanza del desiderio, la sua elaborazione, quindi è costitutiva dell’esperienza umana: oggi vale, piuttosto, il rinvio a una depressione generalizzata. Non c’è più disagio, “siamo un po’ depressi”. La depressione come condizione esistenziale comporta l’idea della psiche come un circuito che va attivato, sollecitato, stimolato.
Tra le cose che non si dicono, in merito agli interventi terapeutici, c’è il fatto che sta tornando in auge, come cura psichiatrica, l’elettroshock. Quale miglior sollecitazione? Poi la profondità della sollecitazione chi la conosce? Quale limite a questa profondità? Questa idea della psiche come circuito da attivare, si trova lontano mille miglia dalla parola, completamente estranea. Ecco, siamo già pronti a quel concetto d’interazione sostantificata che va oggi per la maggiore: l’interazione mediata dalla sostanza. Anche semplicemente per stare insieme abbiamo bisogno di un po’ di sostanza, di un po’ di sostanza da condividere.
Facciamo, intanto, una precisazione: tra uomini e donne non c’è interazione, ma atto di parola, noi non interagiamo, parliamo. Come si vede, basta poco per introdurre la sostanza. L’introduzione della sostanza è prima di tutto un passaggio logico, fatto magari in perfetta buona fede, animati dalle migliori intenzioni, agendo anche a fin di bene, con scopi terapeutici, lenitivi. Su questa frontiera troviamo la scuola, munita di parole d’ordine con le quali pensa di affrontare efficacemente la questione della sostanza e che rischiano, invece, di supportarne l’ideologia. Stimolare! Motivare! Salvo poi vivere nell’incubo dell’abulia dello studente, del suo disinteresse, dell’estraneità, della demotivazione. Questa stimolazione e questa motivazione stanno sempre di più prendendo il posto dell’esigenza, vorrei dire originaria, di ascoltare e di parlare.
Poniamo, allora, una domanda diretta: quando e come la scuola rischia di diventare il luogo di spaccio, di uso di sostanze? Quando si dimentica o si dimette dall’insegnamento, non come prerogativa, non come il luogo dove qualche cosa deve essere dispensato, ma come effetto di una ricerca che proviene dal confronto con la parola, dalla promozione e dalla provocazione del dire in cui essa vive. Quando ancora? Quando si dimette dall’insegnamento per diventare luogo dell’ammissione o della sopportazione dell’ignoranza. La formula è nota, è la formula della resa: “I ragazzi hanno problemi, perciò non possono imparare, hanno altro a cui pensare, i problemi famigliari, questo e quest’altro ancora”. Poi abbiamo l’ultima versione, quella della scuola come luogo da stimoli di laboratorio, dove insegniamo le nuove tecnologie, credendo che, avvalendosi delle nuove tecnologie, si possa dare un’alternativa alla parola. È un miraggio credere di avvicinarsi ai ragazzi dispensandoli e dispensandoci, vi parlo da un’esperienza di insegnamento ultratrentennale, dal dire. Una volta parlavamo di più e avevamo meno laboratori: non è una questione di quantità, è una questione di priorità, è una questione di priorità logica.
Un’ulteriore questione: la scuola, dicevamo, sta al nodo e alla frontiera della parola. Come possiamo spingerci oltre questo orizzonte di animazione e di maternage, come promuovere il confronto con la difficoltà dell’itinerario intellettuale, ma anche della soddisfazione che lo corona e che lo rilancia? Come farsi guidare dal giro della pulsione e dalla ricerca che la pulsione porta con sé?
Con una certa approssimazione Freud aveva parlato di pulsione di sapere, perfino riguardo ad alcune speculazioni intorno alla sessualità fatte dai bambini. Come farsi guidare, allora, dal giro della pulsione e dalla ricerca che la pulsione porta con sé, anziché dal loop che imprigiona entro un piacere mortifero? La pulsione è una carta che possiamo giocare, è un ritrovato analitico, della psicanalisi. Vediamo in cosa consiste. La potremmo anche definire una specie di motivazione originaria, visto che abbiamo il problema della motivazione, qualcosa di indistruttibile che non manca, cui è possibile fare ricorso, senza eccezione. Basterebbe, anche, solo questo per avere un’alternativa rispetto all’animazione. Ma, possiamo anche dire che la pulsione impegna il corpo: un argomento che ai ragazzi e alle ragazze interessa di default, gli americani direbbero a good point, un buon punto da mettere in gioco. La pulsione non manca, Freud ne parla come di una forza costante. Esattamente l’opposto dell’animazione, che considera invece la motivazione come una variabile, che può esserci o no, per cui bisogna darla; perciò ha una determinazione sociale, viene dall’esterno, dall’ambiente.
L’idea drogologica è già qui, il principio del somministrabile, dato da una sostanza magica; che non ci sia come tale, non implica che ci troviamo meno in una logica della sostanza. Prendiamo l’esortazione: “Ragazzi, facciamo, impegnamoci! Ah, forse v’interessa questo? Lo riprendiamo da Internet, ecc.”. Che cosa dà più assuefazione di un’esortazione? Poi, per quanto riguarda gli effetti, è di tutta evidenza che attendersi un aiuto non aiuta a trovare e neppure a ricercare. L’aiuto, in quanto prescinde dalla domanda, ignora la pulsione e quindi distoglie dal lavoro intellettuale. Così gli effetti sono da una parte la demotivazione, come abbiamo detto, e dall’altra il burn out, impossibile da contenere, per i docenti chiamati a fare sempre di più, ad animare sempre di più, finché a un certo punto… non se ne può più!
Si tratta invece, di aprire un’altra possibilità, di dare un’opportunità di parola, posto che nella parola ciascuno esiste già, il materiale c’è già, non occorre che introduciamo nulla di nuovo. Parlavo prima del primato dell’esistenza della parola, ma non perché sia qualcosa da preferire nel repertorio dei cosiddetti linguaggi, linguaggio visivo, linguaggio musicale, quelli che servono per trovare la comunicazione, la sintonia, questa mitologica sintonia con i giovani: uno sforzo davvero paradossale quando invece tutto indica l’attualità della parola e anche la sua urgenza. Allora il linguaggio, in quanto si parla, in quanto ciascuno di noi parla, non è uno strumento di comunicazione ma, come dicevo, un campo di esistenza, per cui ciascuno apprende dal confronto con la parola, non dal confronto con il simile.
C’è, ad esempio, una ideologia dell’assimilazione che, ancora, transita nell’ambiente scolastico, ponendolo a rischio di sostanza; si tratta di assimilare nozioni, di assimilare buoni comportamenti, di assimilare buoni modelli. Ciò non può evitare il paradosso che ci siamo convinti ormai che i cosiddetti pari, cioè i compagni, i simili per eccellenza, sarebbero più insegnanti degli insegnanti, anzi sarebbero i veri insegnanti, perché sono gli insegnanti più seguiti e quindi più efficaci: “I ragazzi si ascoltano tra loro e non stanno ad ascoltare te”. Questo porterebbe ad analizzare l’uso corrente di certe tecniche, pur interessanti, perché possono evidenziare l’aspetto di provocazione proveniente dalla parola, come il cooperative learning, il tutoring, ecc. Sono dei formidabili motori di esperienza, basta non utilizzarli in questa prospettiva dimissionaria per cui facciamo in modo che i ragazzi si insegnino da sé.
Ci si dimentica poi che tutto questo avviene a un prezzo elevato, quello di sacrificare la parola all’appartenenza, al principio d’identità; abbiamo, così, la lingua dei segni, il look, il tatuaggio, la sostanza comunitaria, come dicevo, lo sfumacchiare qualcosa, lo sbevazzare qualcos’altro, per stare tutti insieme, per farsi compagnia. Dovremmo cogliere invece l’ironia di tutto ciò, nonostante l’apparenza tragica, e dire qualcosa intorno al principio d’ identità, che è l’equazione impossibile dell’adolescenza, la sua impasse, ma anche la provocazione che ci lancia, quella di sostituire l’identità all’identificazione. Ci s’identifica, o se vogliamo, anche ci si motiva, confrontandosi con un punto di provocazione, per l’impatto con una differenza che rilancia l’esigenza dell’individuo.
Mi soccorre qui un’evocazione: quando eravamo ragazzi negli anni ‘70, giovani contestatori, cercavamo di conquistare alle nostre lotte, si parlava così, i docenti che più ci interessavano, quelli che ci piacevano di più; ma ci piacevano di più quelli che, pur ascoltandoci e confrontandosi con noi, non ammiccavano troppo. Vi lascio un’ultima provocazione, che aprirebbe un altro capitolo interessante: l’educazione viene dall’istanza del padre. Grazie, Ruggero.
Ruggero Chinaglia Bene, ringrazio Angelo Varese che ha introdotto vari aspetti. Uno di questi, che mi pare molto interessante, è la questione famiglia, la questione padre, che magari avremo modo di riprendere, e poi c’è una cosa che ha colto nel suo intervento ed è la distinzione tra sostanze psicoattive e sostanze di uso voluttuario. In altri casi noi abbiamo adottato la prima formulazione, in questo caso, invece, abbiamo posto l’accento sull’uso voluttuario, perché non sono equivalenti queste due formule.
La questione dell’uso voluttuario pone l’accento sulla questione del piacere ed è un nodo spinoso la questione del piacere oggi, perché dalla famiglia alla scuola e oltre, a vari livelli, il messaggio, che sembra un messaggio generoso, è quello del “fai quello che ti piace” e di risposta c’è: “Io voglio fare quello che mi piace”, senza che nessuno si accorga che questa idea del fare quello che piace è un avvitamento, perché indica una presunta padronanza sul piacere, mentre il piacere è un effetto, non è ciò che, già noto, si ripeterà alla bisogna a seconda della mia volontà. No, questa idea della padronanza del piacere è un assurdo, eppure non c’è famiglia, non c’è insegnante che dica ai suoi figli o ai suoi alunni che la questione del piacere è differente e che fare quel che piace è un’idea assurda, perché è uno stravolgimento temporale.
Prima si tratta di fare e eventualmente, facendo, può giungere il piacere, ma in maniera imprevedibile, imprevista, effettualmente. Non può essere anteposto e, quindi, “faccio quello che mi piace; voglio fare il mestiere che mi piace”. Non c’è intervista televisiva che non ponga questo assunto, che l’importante è fare quello che piace e allora l’uso di sostanza è giustificato, perché questo è un messaggio sostanzialista. Il piacere anteposto a ciò che dovrebbe produrlo. Occorre porre attenzione alla parola, alle cose che si dicono, ma soprattutto occorre analizzare il messaggio che viene proposto. A questo punto è giunto il momento per il suo intervento e passo il microfono ad Aurora Scala.
Aurora Scala Grazie. Io ho avuto parecchi spunti dai discorsi che sono stati fatti finora da persone che sono anche dei tecnici. Ha parlato il farmacista, ha parlato lo psichiatra, lo psicanalista, anche se tutti e tre hanno chiamato in campo la scuola, perché la scuola è il luogo dove i ragazzi si prendono come anime da trasformare, da formare e da portare anche ad essere adulti. Io, invece, come preside di una scuola, voglio soffermarmi soprattutto su due aspetti fondamentali della scuola come luogo in cui si cresce e in cui queste tre parole, che sono state usate e che poi sono già nel volantino, sono usate e abusate nella scuola: educazione, formazione, istruzione.
Sono le parole chiave che ci permettono di fare un discorso anche concreto su quella che è l’esperienza, che noi che lavoriamo nella scuola possiamo fare insieme a dei ragazzi. A volte la scuola è occasione di commenti vari nell’opinione pubblica, in senso positivo ma molto spesso anche in senso negativo. È facile esprimere giudizi, è facile pensare che si conosce la scuola, perché si è frequentata una scuola nella propria vita, oppure perché i nostri figli vanno a scuola e siamo sempre in contatto con persone che appartengono al mondo della scuola. Anche le leggi che vengono fatte sulla scuola hanno la pretesa sempre di conoscere la scuola in assoluto, per cui spesso ciò che viene dettato in queste leggi fa parte di una costruzione, che a volte è più mentale che non concreta nei fatti.
Io voglio parlare come donna che lavora insieme agli insegnanti, ma che soprattutto è molto vicina ai ragazzi di un’età che va dai quattordici ai diciannove, vent’anni ed è un’età, tutti lo sappiamo, dell’adolescenza, e della preadolescenza. È un’età particolare ed è un’età che basa tutto sulle emozioni. Io mi vorrei fermare un attimo proprio su che cos’è l’emozione che spinge un giovane a comportarsi in una certa maniera, proprio sulla base dell’esperienza concreta. A parte il fatto che le neuroscienze hanno dimostrato che prima di vent’anni non abbiamo una maturazione del cervello, per cui il ragazzo adolescente determina tutti i suoi comportamenti sulla base delle emozioni.
Le emozioni, però, come le intendiamo noi, che non siamo tecnici, non siamo né medici né tecnici dell’animo, sono provocate da quella reazione che il ragazzo ha nei confronti di problemi o difficoltà o disagi o anche cose belle che deve affrontare. Ma, proprio perché non sempre condotto dalla razionalità, non sempre condotto dal fatto di saper distinguere il bene dal male, non in senso etico, ma in senso di rischi e benefici di ciò che fa, un adolescente spesso è spinto a scegliere le proprie decisioni sulla base di quello che sente, di un’emozione che può essere molto vicina anche all’istinto.
Queste emozioni nel giovane spesso sono fondamentali anche per far assumere dei comportamenti che non sempre sono adeguati, se non aiutati dalla razionalità, alle richieste del mondo sociale. Dicendolo sinteticamente, un ragazzo non sempre è in grado, proprio perché vive soprattutto di emozioni, di rispondere razionalmente, con un modo che pretenderebbe l’adulto, a un comportamento, a una richiesta stessa che gli viene dal mondo sociale. Naturalmente il primo mondo sociale per un ragazzo sono le persone che gli sono vicine e queste persone che gli sono vicine sono o i genitori, gli affetti, o i compagni. Se queste emozioni non possono in un ragazzo molto giovane sempre essere controllate dalla razionalità, a volte il comportamento di un ragazzo si spinge verso due estremi.
Noi infatti diciamo che il ragazzo o vede bianco o vede nero, difficilmente sa mediare le posizioni, perché per un ragazzo l’emozione significa anche poter far esplodere tutti gli ideali che ha dentro e questo è anche positivo, eh, non è che sia qualcosa di negativo. Nello stesso tempo, però, porta il ragazzo a orientarsi o verso qualcosa che lo angoscia, lo deprime in una maniera che lo rende, non usando un termine medico, infelice, oppure al contrario lo spinge alla violenza. Oggi vediamo sempre più che un ragazzo, un adolescente, non solo non è in grado sempre di vincere queste emozioni che ha dentro di sé, ma soprattutto non sa viverle in modo appropriato, cioè o non è in grado di sostenerle e di superarle o non è in grado di viverle in modo appropriato.
Perché dico queste cose? Non è perché abbia fatto degli studi particolari, assolutamente, ma il vivere da tanti anni, quotidianamente insieme ai ragazzi e anche vivere l’esperienza di essere un preside, che è diversa da quella di un’insegnante, mi porta proprio ad aver capito che l’adolescente ha bisogno dell’adulto per passare dal momento emozionale, istintuale, al momento razionale. Ogni mattina, da tantissimi anni, trovo sempre il momento per parlare con i ragazzi, mi piace, e quando posso farlo? Se c’è una lezione non li posso disturbare, quindi il momento in cui assolutamente lascio le mie cosiddette sudate carte è quello dell’intervallo. Perché? Perché i ragazzi escono tutti dalla classe, girano per la scuola, e allora quello è il momento di osservarli, di osservarli bene, ma anche di fermarsi con loro a parlare, a chiaccherare per conoscerli.
Spesso lo stesso fermarsi a parlare di una cosa che non ha una grande importanza, ma che sia qualcosa anche un po’ al di fuori della scuola, su cosa stanno preparando, su cosa stanno facendo, anche interessarsi da dove vengono, quanto tempo impiegano a venire a scuola, interessarsi a loro, io vedo che crea un contatto con la persona, che è fondamentale. Anche quando questa persona a loro può sembrare lontana, perché naturalmente del preside c’è sempre la soggezione, c’è sempre il rispetto quasi reverenziale, c’è sempre un distacco rispetto all’insegnante con cui c’è un rapporto più affettivo quasi o comunque più vicino. Ecco, allora, parlando con i ragazzi, si capisce una cosa fondamentale: le loro paure. Ti accorgi che oggi i ragazzi vivono delle incertezze, delle fragilità che dipendono da due cose fondamentali. Una è la solitudine, cioè se ti avvicini a loro e parli della loro vita odierna, ti accorgi che i momenti in cui sono insieme agli altri sono pochi.
Sono fortunati quelli che, per esempio, hanno un’attività sportiva e allora fanno parte di un gruppo, però la maggior parte dei ragazzi passa il pomeriggio quasi interamente da solo a casa, quindi quando torna da scuola vede i genitori soltanto la sera. Un rapporto, un dialogo con il genitore è rarissimo nel corso di una giornata, per cui si parla semplicemente di cosa ha fatto a scuola, che voto ha preso, adesso neanche quasi se ne parla più, perché il procedimento elettronico permette al genitore di sapere il voto e neanche glielo chiede più. Quello che diceva prima lo psicanalista, le tecnologie, che sono pure un vantaggio per noi e quindi è impossibile ormai farne a meno, hanno rappresentato un ulteriore distacco dalla realtà proprio umana, dalla possibilità di avvicinarsi all’altro, di parlare, la parola come dialogo. Per l’abuso di sostanze, adesso io posso dire che l’uso di sostanze, di droga all’interno della scuola, senz’altro ci sarà, sostanze ci saranno, circoleranno, però io credo che circolino più fuori che non proprio dentro la scuola, perché nella scuola bene o male i ragazzi sono dentro le aule, sono pressati e non è che abbiano tanta possibilità di accedere a questo. Poi ormai sanno benissimo che determinati controlli ci sono. Fuori della scuola senz’altro, c’è secondo me un abuso.
C’era scritto anche sui giornali l’altro giorno e se viene detto sarà vero. Poi sul giornale dell’altro giorno c’era anche un articolo che faceva riferimento a uno studio sul numero dei ragazzi, addirittura dell’età dai 18 ai 25 anni, che assume anche qualche sostanza. Però penso che tra i ragazzi della scuola, fra i giovani, ci sia invece un abuso di psicofarmaci, questa è l’impressione che ho avuto osservando proprio una realtà che è quella che frequento ogni giorno. Dico subito il perché. Una volta, io faccio il preside da ventiquattro anni, non capitava tanto di chiamare l’ambulanza. Se un ragazzo non si sentiva bene si poteva chiamare l’ambulanza, ma magari perché c’era un ragazzo epilettico, o perché c’era un ragazzo che aveva l’asma, o perché c’era un ragazzo che aveva delle patologie reali, invece adesso in tutte le scuole, e sovente ne parlo con i miei colleghi, spesso dobbiamo chiamare l’ambulanza perché vediamo ragazzi che tremano, hanno i sudori freddi, hanno le palpitazioni, non respirano bene.
Naturalmente ci preoccupiamo, perché a volte anche svengono, ci allarmiamo, chiamiamo l’ambulanza, dopo di che si chiede informazione di quello che è successo e si finisce sempre per conoscere che è un attacco di panico, che è un fatto emotivo, che è un fatto determinato a volte dal non dormire molto la notte, perché ci si sofferma spesso davanti al computer fino a tardi oppure per alcune problematiche che non si sono risolte. Dopo di che si viene a sapere che in fondo il ragazzo utilizza degli psicofarmaci e, quindi, se in quel momento ha una prestazione che deve dare, un momento di difficoltà perché ha bisticciato con un compagno, o perché prima di uscire di casa ha litigato con la mamma, facilmente avvengono questi episodi. Io devo essere sincera, negli ultimi anni e in scuole anche molto diverse, in molti casi l’ambulanza è stata chiamata per questi motivi. Quindi senz’altro è vero che ci sia anche da parte degli adolescenti un abuso nell’uso di queste sostanze.
L’uso di queste sostanze non deriva, secondo me, da fatti contingenti, deriva dal fatto che si diceva prima, cioè dal fatto che i ragazzi sono abituati a consumare subito i loro piaceri, sono abituati a consumare subito le loro emozioni, e anche quelli che una volta erano definiti sentimenti più profondi adesso vengono considerati come beni di consumo che si devono consumare presto, tipo l’amicizia che si cambia facilmente, gli amori che si cambiano facilmente e anche gli affetti, gli affetti qualsiasi, anche gli affetti più vicini. Il nocciolo della questione, a mio parere, è: cosa può fare la scuola? La scuola adotta due tipi di intervento sul disagio del ragazzo, un intervento di informazione e formazione, e cioè non c’è scuola che non metta a contatto i ragazzi con lo psicologo, che c’è in tutte le scuole; c’è un centro che si chiama CIC, a cui il ragazzo può rivolgersi in anonimato e farsi aiutare su quelle che sono le sue difficoltà.
Le difficoltà di un ragazzo di oggi sono poi le stesse di un ragazzo di ieri, anche se in una società diversa, perché quando va a confidarsi da uno psicologo generalmente i problemi sono sempre gli stessi, problemi scolastici, problemi con la famiglia, problemi con i compagni, quindi sono gli stessi problemi che si affrontavano quando eravamo noi adolescenti. L’altra informazione, che viene data in tutte le scuole, è l’informazione che viene data attraverso esperti sulle tossicodipendenze, su cosa comportano, che cosa comporta fumare, che cosa comporta assumere droga, che cosa comporta assumere alcol, quindi un’informazione che rende edotti i ragazzi su quelli che possono essere i pericoli. Allora, questa informazione è un’informazione che penso che in tutte le scuole avvenga, ma secondo me non credo che basti.
Io penso che la cosa più importante che si possa fare in una scuola è proprio l’educare. Educare, intendendolo proprio nel termine etimologico, di portare fuori il ragazzo, il far crescere, il farlo passare da quello che è il suo momento emozionale, fatto di emozioni, al momento in cui deve creare l’equilibrio con la razionalità, cioè l’emozione che diventa razionalità. Questa crescita come avviene? Secondo me la scuola da sola non può farlo, cioè il dialogo è importantissimo con il ragazzo, ma non può farlo soltanto la scuola, non lo possono fare soltanto gli operatori all’interno della scuola. All’interno della scuola riesce questo dialogo con il ragazzo se, insieme, famiglia e scuola possono parlarsi per aiutarlo. Noi naturalmente non possiamo dire e parlare della generazione dei giovani come se tutti quanti fossero in difficoltà. Assolutamente.
Posso dire, io che vivo in una scuola e ho vissuto in altre scuole in precedenza, che per fortuna la maggior parte dei ragazzi supera il periodo emozionale, il periodo istintivo e arriva poi al momento della razionalità. Io ho sempre insegnato e sono stata preside nelle scuole superiori, e lo vedi quando tu li prendi, dei ragazzi che sono piccoli, li conosci quando arrivano nella scuola, arrivano che sono ancora ragazzini, hanno 14 anni e li vedi poi a 19 anni che vanno via; vedi proprio che la maggior parte di loro ha una crescita bellissima, cioè sono ragazzi che vivono veramente la loro giovinezza nella maniera in cui qualsiasi persona adulta e equilibrata l’ha vissuta.
Quindi io non vorrei che si pensasse che la scuola è un luogo dove ci sono tantissimi problemi. La scuola è anche gioia, è anche bellezza della libertà di poter dire, di espressione, anche momento in cui si vive, come vivevamo anche noi. La scuola è il momento di difficoltà e di dolori quando dobbiamo essere interrogati, quando abbiamo momenti di incomprensioni con i nostri docenti, però senz’altro è il momento in cui il ragazzo può essere libero di fare e di parlare con i suoi compagni e anche di divertirsi, quando la scuola permette anche attività che non sono soltanto quelle di insegnamento, seriose, ma anche attività che socialmente aiutano il ragazzo.
Voglio dire, quindi, che la maggior parte dei ragazzi, attraverso la scuola e attraverso la famiglia, effettivamente riceve questa educazione, cioè viene portato dal momento istintuale al momento razionale. Certo c’è invece una parte, che per nostra fortuna è minima, che vive con grande disagio, con grande difficoltà e con sofferenza interiore indicibile. Quando ce ne accorgiamo, il primo passo che si fa è, oltre che parlare con il ragazzo, quello di affrontare il discorso con le famiglie. Il problema più difficile forse è questo, perché non sempre le famiglie si accorgono della sofferenza del ragazzo; può essere una sofferenza qualsiasi, il non essere capito nel gruppo, il non essere accettato dal gruppo, il sentirsi solo per tanti motivi. Il problema effettivo è quello che oggi le famiglie sempre più hanno difficoltà a gestire i rapporti con i figli, rapporti che non nascono da conflittualità generazionali, come potevano essere quelle nostre con i nostri genitori, ma proprio non riescono a gestire perché non ne sono a volte capaci.
Questo è il problema reale che noi vediamo nella società sta aumentando, ed è quello il problema che induce poi i ragazzi a trovare, diciamo, sollievo in determinate sostanze, perché non sono capiti. Non sono capiti, in fondo, perché non riescono a parlare all’interno della loro casa, all’interno delle loro famiglie e il non parlare non permette la comprensione. Non è che questo sia dettato da una colpa del genitore che non sa fare il suo dovere, ma nasce dal fatto che non si ha più il tempo di parlare con i propri figli. È questo il problema cruciale, cioè il tempo non c’è più. Noi passiamo tutta la giornata, e la trascorriamo, generalmente fuori di casa. Quasi tutti hanno un lavoro ormai che li porta fuori di casa dalla mattina alla sera, a volte non ci si incontra più a pranzo nelle famiglie, ma ci si incontra solo a cena e a cena neanche si parla.
Il momento del parlare, di affrontare i problemi non c’è. C’è il consumismo degli affetti, il consumismo che porta, diciamo così, a vedere non più i sentimenti come qualcosa di duraturo ma come qualcosa che finisce subito. Non c’è poi la possibilità di esternare le proprie emozioni, i propri sentimenti a nessuno, perché non c’è neanche tanto la possibilità di vedersi con gli amici dato che con gli amici ci si vede soltanto, a quell’età, nel fine settimana. Un’altra cosa è il non poter parlare anche telefonicamente, perché non ci si parla più, non ci sono più quelle belle chiaccherate che ci si faceva quando si era ragazzi e si occupava sempre il telefono, con i genitori che si arrabbiavano perché non potevano usarlo; non si fanno più, perché ormai c’è un ciattarsi soltanto e non rispondono neanche più. Fate caso, i vostri figli quando voi telefonate non rispondono neanche più al telefono. Se li volete trovare lo potete solo fare inviando un SMS o adesso un WhatsApp.
Queste sono realtà che non permettono più l’uso della parola, come voi dite, e quindi non essendoci più l’uso della parola, non ci si riesce più a spiegare, perché parlarsi permette anche di esternare il proprio pensiero e il proprio pensiero va confrontato con quello dell’altro, quindi adesso non lo si può confrontare più. Quella volta che lo vuoi confrontare, spesso nasce la disputa, per cui diventa subito un arrabbiarsi, un essere violento, aggressivo verbalmente verso l’altro, proprio perché non si è abituati a parlare e non si usa più la parola come mezzo di comunicazione, ma si usa la parola soltanto per dire la propria, e la propria non è ciò che penso ma quello che mi viene al momento di dire. Ecco io terminerei, perché spero di aver dato anch’io un contributo nel mio piccolo e ringrazio chi mi ha invitato.
Ruggero Chinaglia Grazie a lei. Il suo intervento ha posto moltissime questioni, ha aperto un ventaglio di cose che sicuramente verranno articolate e discusse ulteriormente. Interessante l’accostamento che lei fa con la scuola come luogo in cui si cresce, quindi come il luogo in cui è ospitata l’adolescenza e questo sta quasi, apparentemente, nell’ordine naturale delle cose. Quello che però a questo punto si pone come domanda è se questo luogo che ospita l’adolescenza, dunque luogo deputato a fornire i termini della crescita, cresce. È la scuola incline a situarsi nell’adolescenza oltre che avere gli adolescenti dinanzi?
Perché è questa la questione, che se viene mantenuta la dicotomia tra l’adolescenza e l’età adulta, dove l’età adulta sarebbe l’età in cui non si cresce più, allora come poter ascoltare l’istanza della crescita da parte di qualcuno che non cresce più? C’è uno iato. Questa è la questione che allora si pone per la scuola: come non trovarsi mai come scuola adulta, come scuola che ha perso l’istanza di crescere, e quindi poter ascoltare da parte dei giovani, dei ragazzi, degli adolescenti, che lì si trovano, ciascuna istanza rivolta alla crescita e che però coinvolge nella crescita la stessa scuola?
Aurora Scala Posso rispondere subito?
Ruggero Chinaglia Sì, tra breve. Prima una nota: quelli che vengono chiamati, per esempio, attacchi di panico hanno a che vedere con questo. Al di là dell’etichetta che li uniforma, l’attacco di panico in realtà indica non tanto una patologia ma l’intervento di una fantasia che si rivolge a negare l’avvenire, quindi è una fantasia che nega la crescita, è una fantasia che nega l’avvenire, è una fantasia di fine, una fantasia di morte, che mai però viene ascoltata in questa direzione, ma viene sempre patologizzata.
Occorre quindi, di fronte a questa emergenza degli “attacchi di panico”, tra moltissime virgolette, porsi la questione se non vi sia un tappo rispetto all’istanza della crescita, cosa che viene avvertita come un pericolo. Ecco, la reazione al pericolo, che si manifesta apparentemente allo stesso modo, ma che in realtà consiste in una variegatura assoluta, differente e varia di cose che intervengono, che però trovano lo stesso tappo, questo sì. Lo stesso tappo che sta nella questione dell’educazione. L’educazione è chiaro che non è tanto quello di prescrivere il comportamento ma, come lei notava, di seguire nell’articolazione tra l’emozione e il ragionamento, certo!
Ma come? Occorre pure che siano forniti dei criteri in base a cui ciascuno poi valuterà, deciderà, però il criterio deve pur essere fornito. Questo è l’aspetto di educazione su cui occorre interrogarsi e riflettere. C’è questa fornitura dei criteri? E per concludere, poi avrà modo di intervenire, a fronte della constatazione che in famiglia, con gli amici, nei vari ambienti, le occasioni di parola sono sempre più ridotte, non è forse la scuola quell’occasione narrativa che deve far sì che questa istanza di parola non venga soffocata? Non è forse la scuola che deve trovarsi come tempo, più che luogo, tempo del racconto, tempo della narrazione, tempo della conversazione, tempo dello scambio? Domanda che lascio aperta ovviamente, e prima di darle modo di replicare, perché occorre che questo giustamente avvenga, passo al breve intervento di Anna Buttazzoni.
Anna Buttazzoni Una breve riflessione a partire dalla mia pratica, per dare un contributo a questo dibattito.
Una signora, figlia dei fiori nei mitici anni ’70, mi racconta in analisi che allora si drogava. Lo faceva “per andare fuori di sé”, “per esplorare il confine tra la vita e la morte” e, in un’estrema padronanza, “fare l’esperienza di vivere la morte”. Paradossale. Una ricerca che, a suo dire, muoveva dall’idea di libertà e quindi era pensata come parte della ricerca della felicità. Questo nell’intendimento, ma come si può immaginare, non è andata così. Oggi non è la ricerca di qualcosa, tantomeno della felicità, alla base della droga ma è l’idea di sballo.
In effetti dal punto di vista fenomenologico assistiamo a nuove forme di “assunzione”. Madri e padri chiedono aiuto perché i loro figli sono sequestrati dal Web: si isolano nella loro camera, giorno e notte prigionieri della rete; si tratta della sindrome di Hikikomori, ben nota in Giappone e di cui parlava poco fa il dottor Varese. Oppure ci sono gli assuntori di alcool del sabato sera, e non solo. Poi, ecco altre new entry, come le dipendenze dal cibo, anoressia e bulimia, la compulsione all’autolesionismo, la dipendenza dagli SMS, che alcuni ragazzi utilizzano in modo compulsivo, fino a settecento o ottocento al giorno, e che, per una cura, devono essere sottoposti a scalaggio. Ma, tra ieri e oggi, la logica dell’assunzione è cambiata?
I figli dei fiori, con il loro viaggio nell’impossibile, volevano padroneggiare ciò che non è padroneggiabile, entrare nella padronanza addirittura estrema, anche della morte. Oggi lo sballo è fatto per uscire dalla padronanza, per un’idea di evasione che suppone l’idea di prigione, di galera. Non è, questa prigione, il maternage, cosi diffuso oggi in famiglia e nella scuola, ovvero quella soluzione già data e mai conquistata, di cui parlava il dottor Chinaglia, che porta alla passività e alla depressione, una depressione da cui si “deve” uscire con l’evasione?
L’evasione è la caricatura della dimenticanza, per uscire da una sorta di campo di concentramento. Entrambi i casi, di ieri e di oggi, sono due modi di rappresentarsi l’inconscio, ma fuori dalla parola, come alternativa alla coscienza invece che come altra logica. Nell’ipotesi di una polarità coscienza – inconscio e non di un supplemento, quale effettivamente l’inconscio è rispetto alla coscienza. Oggi forse il fenomeno della dipendenza è più triste, più drammatico, perché manca il mito, la posta in gioco, c’è solo la necessità di uscire. Il principio della droga è questo voler andare al di là della coscienza, senza la parola, con la sostanza al posto della parola. Per un verso, della parola non c’è padronanza, per l’altro, dalla parola non si esce. L’al di là della parola è ancora la parola. Con la parola conquistiamo sempre nuovi territori, ci spingiamo oltre, mai fuori.
Ruggero Chinaglia Bene, ringrazio anche Anna Buttazzoni per il suo intervento poetico, direi, ma molto preciso clinicamente. Purtroppo la questione dell’alcol del sabato sera non è più ridotta al sabato sera. L’alcol alla sera, nel migliore dei casi, ma in realtà è l’alcol durante tutta la giornata ormai. Alla sera si punta a raggiungere l’acme con lo sballo e questo è veramente un problema, che va analizzato, perché certamente attraversa sia la questione emozionale sia quella razionale. “Sballo, fuori di testa”, sono tutti termini che indicano certamente un andare oltre, ma controllato e trasgressivo, e quindi è molto delicato. Tutto ciò esige naturalmente delle riflessioni ulteriori, dei dibattiti specifici, ma questi elementi si aggiungono comunque a quanto nella serata è stato sin qui proposto. Ora la professoressa Scala voleva replicare.
Aurora Scala Voglio aggiungere qualcosa che riguarda quello che lei mi ha chiesto, quando ha detto che la scuola deve stare attenta a non soffocarla la parola, deve stare attenta che ci sia effettivamente la crescita che ci si aspetta.
Ruggero Chinaglia Porne le condizioni.
Aurora Scala Porne le condizioni. Allora io invece penso che la scuola sia rimasto l’unico luogo privilegiato in cui il ragazzo è contento. Il fatto stesso che al ragazzo piace venire a scuola, il fatto stesso che non c’è un forte assenteismo da scuola, il fatto stesso che vede la scuola anche come il luogo dove potersi divertire, perché molto spesso, e faccio un esempio concreto, i ragazzi mi chiedono se non possono venire a scuola anche il pomeriggio, se non possono fermarsi a scuola a fare i compiti insieme agli altri. Allora questo cosa significa? Significa che preferiscono addirittura la scuola alla loro casa e questo non è positivo, non per la scuola, ma non è positivo per la famiglia e per la società.
Quando mi riferivo prima alla solitudine dei ragazzi di oggi, è una solitudine dettata dal fatto di una casa vuota. Allora i genitori riescono a riempirla quando sanno destinare gli spazi liberi che hanno, a un colloquio con i loro figli, quindi non è che tutti i genitori abbandonino i loro figli, no! Il lavoro ci porta fuori di casa, ma si sa benissimo che se trovi i momenti opportuni tu sai recuperare il rapporto con i tuoi figli, c’è il momento da trascorrere insieme, il momento per stare con il figlio. Il periodo dell’adolescenza scolastica è il periodo in cui il ragazzo sta con i genitori; c’è una differenza tra il maschio e la femmina, la femmina si allontana un po’ prima, però il maschio fino all’età scolastica va ancora con i genitori, comincia ad allontanarsi dai genitori verso i diciotto anni.
Diciamo che questo non è che ci sia in tutte le famiglie, però il ragazzo ama molto stare a scuola e, se chiede di rimanere a scuola anche il pomeriggio, vuol dire che a scuola sta bene, che a scuola comunque trova un luogo dove poter avere gli amici, perché poi a quell’età si preferisce la compagnia dei coetanei, si sta bene se si può stare insieme ai coetanei. Quindi, secondo me, la scuola ha l’obiettivo di far crescere i ragazzi da tanti punti di vista, sia come studente che come uomo e come cittadino, e penso che la scuola ha ancora gli strumenti perché questa crescita possa avvenire. Secondo me la scuola è ancora guida perché il ragazzo passi dallo stato adolescenziale allo stato più adulto e lo si vede dal fatto che sempre, o quasi sempre, lo si vede tornare nella scuola, cioè ci sono ancora i ragazzi che nei primi anni di università continuano a venire a scuola a trovare i loro insegnanti.
Quindi io penso invece che, nonostante le varie critiche che vengono poste dall’opinione pubblica alla scuola, ancora la scuola sia un luogo privilegiato di crescita per i nostri figli, stando attenti che, e qui secondo me la famiglia deve stare attenta, quando i ragazzi sono molto piccoli, nella scuola primaria, è giusto che non stiano troppo a scuola, cioè che possano godere di più della famiglia. Quando invece si giunge a un’età in cui i genitori passano in secondo piano rispetto agli amici, allora anche rimanere di più a scuola può essere importante ed educativo, purché sempre vengano rispettati gli spazi in cui il ragazzo deve crescere con la famiglia. Però non si può pensare che può essere solo la scuola, assolutamente, perché ultimamente i genitori, e lo dico per l’esperienza che ho, hanno delegato proprio alla scuola la crescita dei loro figli. Invece è fondamentale, a mio parere, l’equilibrio che è quello che crea il passaggio dal momento dell’adolescenza alla formazione dell’adulto, ed è proprio questo il momento in cui la famiglia con la scuola deve far crescere, non può delegare la scuola a educare.
Purtroppo spesso i genitori vengono a scuola e, invece di cercare di capire i problemi dei loro figli attraverso il colloquio con l’insegnante e con il preside, vogliono venire per portare le loro istanze di genitori, quasi a difesa o a difesa dei loro ragazzi, per cui è più facile che il colloquio col genitore si trasformi in una critica alla scuola anziché essere un colloquio costruttivo per far crescere il ragazzo. Ultimamente si vedono spesso questi rapporti tra scuola e genitori. L’intelligenza sta, da parte del docente e del preside in quel momento, nel cercare di portare a sé il genitore, come fa con i ragazzi, con un dialogo sempre costruttivo. Quindi l’obiettivo della scuola è di far crescere i ragazzi, ma è anche di aiutare i genitori ad avere come obiettivo primario quello di costruire, insieme alla scuola, la crescita del loro figlio. Lo ritengo fondamentale e volevo ribadire questa unione e questo rispetto fra famiglia e scuola, quindi il rispetto che ci deve essere tra queste due grandi istituzioni, che poi sono le istituzioni fondamentali su cui nasce uno stato e una società. Il parlarsi fra queste istituzioni farà crescere il ragazzo.
Ruggero Chinaglia Perfetto. Adesso per concludere, un minuto a Stefano Grigoletto e un minuto per una breve ripresa ad Angelo Varese. Intanto comunico che gli elementi emersi in questo dibattito, che sono numerosissimi, più altre cose, saranno ripresi e discussi nel corso degli incontri che sono già in atto ciascun giovedì sera, presso la sede dell’Associazione in Largo Europa 16, in una serie di incontri che hanno per titolo La festa, la sessualità, l’odio, e che ciascuna settimana forniscono l’occasione di incontrarsi, ascoltare ed elaborare alcune proposte. Prego.
Stefano Grigoletto Mi ritengo anch’io privilegiato questa sera per avervi ascoltato e, durante l’arco di alcuni interventi, mi è nata una riflessione. Se è vero che i genitori delegano sempre di più alla scuola, anche oltre i compiti che in teoria avrebbe, è forse anche vero che magari in quella famiglia non dialogano, che c’è una situazione nell’ambito famigliare sempre più spaccata nella società di oggi, che magari il nucleo famigliare non è più quello di una volta, diciamo anche i genitori separati, e quindi si crea una situazione per l’adolescente per il quale c’è un rifugio.
Quindi la scuola avrà in futuro un compito che sarà sempre più importante da questo punto di vista. E il nuovo metodo chatter va a favore o va contro chi un domani sarà forse un baluardo per essere delegato a questa educazione degli adolescenti? È libertà, o magari si va a instaurare una spaccatura anche all’interno dell’ambito istituzionale, che vede la scuola avere un compito che l’istituzione non le dà, ma che gli eventi, bene o male, in futuro daranno? Questa è una questione che magari sarà vista nei prossimi incontri.
Ruggero Chinaglia Certo. Angelo Varese, un minuto.
Angelo Varese Sì, giusto per un ping pong sulla questione anche del genitore uno e del genitore due. L’ultimo intervento dell’assessore ha rilanciato una cosa molto importante: se c’è un motivo per cui la scuola vale ancora la pena di essere frequentata, è perché è un luogo dove si sperimenta un percorso di differenza e d’individuazione, dove la posta in gioco è divenire qualcuno, divenire nel senso di effettuarsi della parola, di ritrovarsi, magari anche laddove non si pensava. È un luogo in cui la cura per la differenza deve essere prioritaria.
Per fare questo, però, non bisogna fermarsi alla fenomenologia delle differenze, bisogna capire che è un luogo dove, della differenza, si parla. Ragazzi, ragazze, l’amore, sono elementi fondamentali, straordinariamente potenti, che entrano nella cultura, che la fanno. E’ lo spazio straordinario della scuola, a patto che non ci sia omologazione, standardizzazione e distribuzione di qualche cosa di assodato, di preordinato. Penso che questa sarà proprio la questione dell’avvenire e, sicuramente, una questione su cui ritornare.
Ruggero Chinaglia Bene, allora, giusto per aggiungere un granello. Forse la questione non è tra scuola e famiglia in una scissura o in una unione, ma è come accade, come può accadere, come instaurare per ciascuno il mito della famiglia, quindi il mito del padre, il mito della madre, il mito del figlio; come questo può avvenire nella famiglia, nella scuola, in ciascun contesto, per ciascuno, perché senza questa instaurazione del mito che riguarda il padre, che riguarda la madre, che riguarda il figlio, l’educazione rischia di ridursi a una mera pedagogia, e non è la stessa cosa. Chiaro che adesso non c’è il tempo per indicare dove ci porterebbe questa differenza, però mi interessava marcarla.
Educazione non equivale a pedagogia, questo occorre intenderlo. Un’ultima cosa: io volevo indicare, per chi avesse letto il manifesto senza leggere l’immagine che lo supporta, che qui c’è un’opera di Ferdinando Ambrosino, pittore napoletano, inventore dell’Icona mediterranea. Quest’opera s’intitola Atena e Medusa. Non è un caso, cioè Atena e Medusa e le sostanze di uso voluttuario, due esempi di madri senza tempo, anzi di negazione della madre. Atena, matricida in quanto sorge, nella mitologia, dalla testa del padre e dunque senza madre; Medusa, o Mèdusa se vogliamo dirlo alla greca, come chi, vittimista, deve manifestare il suo vittimismo, la violenza subita, a difesa degli inferi. E come finisce? Finisce con la testa sulla corazza di Atena. Allora, Atena vergine non madre, Medusa madre non vergine: qui, la sostanza. Senza il mito della madre, allora sicuramente l’esigenza di sostanza, perché il tempo è tempo che finisce, non c’è madre, non c’è l’istanza del proseguimento, della costanza, della domanda incessante che mai finisce. Ecco l’importanza, allora, del mito della madre nella famiglia, ecco l’importanza di cogliere nell’adolescenza di ciascun giovane l’istanza dell’autorità, l’esigenza dell’autorità.
Noi oggi assistiamo a una negazione dell’autorità, a un’abolizione dell’autorità, in nome di che cosa? Del buonismo, dell’ognuno faccia da sé? No, l’autorità è una esigenza che sta nell’esigenza stessa della crescita! C’è crescita procedendo dall’autorità. Questi sono i termini per cui la famiglia può esistere nel suo mito, il padre nel suo mito, la madre nel suo mito, il figlio nel suo mito e non ognuno come gli pare. Questo nella famiglia, nella scuola, in ciascuna circostanza, ma ciò esige una formazione particolare, esige la parola, la parola originaria, la parola della cifrematica, cioè la parola che si rivolge alla cifra. Si rivolge, non “è”, esige un rivolgimento, un percorso, un itinerario, c’è da fare un itinerario ma non fittizio, autentico, senza più sostanza. Questo è il bello.
Ringrazio allora ciascuno di voi, Anna Buttazzoni, Angelo Varese, Aurora Scala, Stefano Grigoletto e ci diamo appuntamento al giovedì nella sede dell’Associazione e in un prossimo dibattito che sicuramente avverrà ancora su queste questioni. Grazie.