Perché la cifrematica
- Chinaglia Ruggero, Dalla Val Sergio
25 giugno 2009 Conferenza di Sergio Dalla Val, cifrematico, nel secondo dibattito della modernità La scienza e la crisi, diretto da Ruggero Chinaglia, psicanalista, cifrematico, con presentazione del quinto numero della rivista “La cifrematica”, dal titolo La nostra psicanalisi (Spirali), Padova, Sala Polivalente di Via Diego Valeri, 17, con il Patrocinio della Regione del Veneto, della Provincia di Padova, del Comune di Padova.
SERGIO DALLA VAL
Perché la cifrematica. Quali novità per la famiglia, l’impresa, la salute
Ruggero Chinaglia Buonasera. Cominciamo il nostro incontro di questa sera con Sergio Dalla Val, incontro che conclude la serie di dibattiti intorno alla Scienza e la crisi. Prima di entrare nell’argomento di questa sera e di ciò che è emerso in questi incontri, segnalo alcuni libri, che sono il prodotto editoriale della casa editrice Spirali, usciti in questi ultimi giorni. Innanzitutto di Boris Nemtsov, Disastro Putin, Libertà e democrazia in Russia. Un libro che racconta qual è l’effettiva situazione oggi in Russia, da parte di un testimone degli avvenimenti più recenti e meno recenti, un protagonista del periodo in cui Eltsin era presidente.
Boris Nemtsov è stato governatore di una regione della Russia, è stato ministro dell’energia, è stato compagno d’avventura di Putin, in quanto erano entrambi fra i collaboratori più stretti di Eltsin. Oggi si trovano avversari politici, in quanto Boris Nemtsov è fondatore di un movimento, “Democrazia e libertà”, che rileva invece come il periodo della presidenza di Putin e quello attuale, in cui Putin comunque rimane una delle figure di spicco, abbia visto il restringimento dei diritti democratici e racconta in questo libro la sua testimonianza. Nemtsov, occorre ricordare, recentemente è stato anche oggetto di un fermo di polizia durante una manifestazione di protesta rispetto a quello che lui chiama, “il regime”.
E mentre in Russia accadono queste cose, in Iran accade ben di peggio. E per questo può essere molto interessante leggere la testimonianza di Ebrahim Nabavi e Reza Albedini, due iraniani dissidenti che hanno scritto questo libro, Iran. Gnomi e giganti, paradossi e malintesi, attraverso la satira, indicando quale sia la questione che si pone oggi in Iran, ma non solo, anche nel mondo islamico, in cui la questione della libertà, più che al suo sorgere, si trova ben al di là dall’essere acquisita. A questo proposito invito a leggere la trilogia di Robert Badinter, che è stato Ministro della Giustizia in Francia, trilogia che consta appunto di tre libri: Contro la pena di morte, L’esecuzione, e l’ultimo, L’abolizione, che racconta quale sia stato l’iter in Francia per giungere all’abolizione della pena di morte. Un iter contrastato, un iter che si è concluso recentemente in un paese che sembrerebbe la culla della democrazia, della pace, della libertà, fratellanza, ecc. ecc. e che tuttavia ha conservato fino a poco tempo fa la pena capitale come espressione della giustizia.
Accanto a questi libri, è uscito recentemente e è già in libreria di Mikheil Saakashvili, presidente della Georgia, Io vi parlo di libertà. Anche qui è la testimonianza di una situazione contrastata. È nota la vicenda tra la Georgia e la Russia, tra la Georgia e le Repubbliche adiacenti di qualche mese fa, ebbene, Saakashvili presenta qui la sua versione, un libro intervista con Raphael Glucksmann. Di tutt’altro argomento invece, l’ultimo libro uscito dalla casa editrice che affianca una mostra, che è tutt’ora in corso qui a Padova alla Galleria Civica Cavour, la mostra di Alessandro Taglioni che si intitola Pittura; e il libro di Alessandro Taglioni, La materia, Dio, l’arte, un libro che racconta, non tanto l’itinerario pittorico di Alessandro Taglioni, ma il suo itinerario intellettuale. E è molto interessante perché, soprattutto affiancato alla mostra, consente di capire come pittura e scrittura si combinino con il percorso: l’itinerario intellettuale di un artista.
Questa sera presentiamo il quinto volume della collana “La Cifrematica”, che si intitola La nostra psicanalisi. La collana “La cifrematica” è una collana giovane perché, pur essendo giunta al sesto volume, è sorta da meno di un anno, quindi ha avuto un andamento editoriale piuttosto celere nei suoi primi numeri. E oggi ha contributi d’intellettuali di differenti paesi, di varie tendenze, di vari settori, dunque filosofi, scrittori, psicanalisti, cifrematici, artisti. Insomma varie testimonianze che indicano come oggi, in alcuni settori e da alcune persone in particolare, sia avvertita l’istanza della qualità. Qualità nell’accezione particolare che non riguarda il comfort, il poter accedere ai beni di consumo, ma qualità intellettuale, qualità che non può reggersi sullo standard.
La questione che è emersa durante questa serie di dibattiti è che tra la scienza e lo standard c’è uno iato incolmabile. Eppure oggi vige in numerosi settori una concezione della scienza che è assai prossima a quella di standard, dove viene proposto come scientifico ciò che “è condiviso” dalla maggioranza, ciò che vale per un numero statisticamente più considerevole di casi. Allora diventa scientifico ciò che è approvato da una comunità appunto chiamata scientifica. Ma questo è esattamente il contrario della scienza, questo è lo standard.
La nostra psicanalisi, l’esperienza che è sorta a un certo punto del novecento, negli anni ‘70, è sorta per questa esigenza di qualità incompatibile con la nozione di standard, dove vale la particolarità e la specificità di ciascun caso. E questo è in controtendenza rispetto a quella nozione che vige nel cosiddetto discorso scientifico che è la nozione di standard, che sfocia poi nel così detto protocollo. Il protocollo. Qual è il modo di applicazione di varie tecniche, di varie discipline? Il protocollo sulla base della statistica. Questo oggi viene dichiarato scientifico. Noi diciamo che questa non è la scienza, questo è lo standard, la scienza è un’altra cosa.
La scienza mai può piegarsi a quella che è la concezione che, se può valere in politica, non può valere sul terreno della salute, sul terreno della giurisprudenza, sul terreno della famiglia, sul terreno dell’impresa, cioè nessuna metodologia può venire considerata democratica in materia di scienza. La scienza non è democratica, la scienza non segue l’impostazione della maggioranza. La scienza esige che ciascun caso trovi il suo modo per giungere alla qualità, per giungere, dunque, a quel risultato che vale per quel caso. Per altri può anche non valere, questo non toglie validità al modo, perché riguarda quel solo caso e questo comporta di utilizzare l’ingegno, di utilizzare uno sforzo intellettuale. Questo è il modo della scienza della parola.
Certamente questo è un capitolo piuttosto ampio attorno a cui possiamo dilungarci. Ma questo è giusto un elemento per indicare alcune delle questioni che sono emerse in questa serie d’incontri e che costituiscono tuttavia un messaggio chiaro, indicativo, uno spartiacque tra un discorso comune, tra un luogo comune e la scienza della parola; e quindi quello che è il terreno della nostra psicanalisi. Nostra, non perché di gruppo, nostra, perché riguarda “noi” come indice dell’ infinito, dove noi non siamo un gruppo, noi non siamo una parte, non siamo nemmeno il tutto, siamo l’indice dell’infinito dove ciascuno occorre che trovi il suo modo.
Può risultare difficile questa impostazione, perché è assolutamente differente dal messaggio che giunge dalle scuole, dai giornali, dalle televisioni, da tutto ciò che fa parte della mitologia democratica. La scienza non è democratica, la scienza occorre che individui per ciascun caso quel modo, quell’unico modo che può portare il caso alla sua qualità. Questa è la scommessa intellettuale in cui noi ci troviamo e in cui noi contiamo che ciascuno si situi.
Allora, abbiamo qui Sergio Dalla Val che ci darà una testimonianza del perché la cifrematica. Non tanto cos’è, ma perché la cifrematica e quali novità apporta per la famiglia, per l’impresa, per la salute. Quindi tre questioni piuttosto importanti, decisive per ciascuno, perché ciascuno non è uno dei tanti, non è uno dei tutti, è quel numero particolare che dirige la sua vita, la sua ricerca, la sua impresa in direzione del valore, perché la vita non è standard, va in direzione del valore. Questa è la questione.
Dalla Val lavora e opera a Milano e a Bologna e per lo più vive a Bologna. È psicanalista. Prima di avviare la sua formazione analitica ha compiuto gli studi di giurisprudenza a Bologna. Attualmente collabora con la casa editrice Spirali, dirige a Bologna l’”Associazione cifrematica di Bologna” e l’”Associazione culturale progetto Emilia Romagna”, e quindi ha titolo per dare la sua testimonianza scientifica, clinica intorno alle questioni che questa sera ci siamo assegnati. Ma è anche imprenditore, dirige infatti la libreria-galleria Il secondo rinascimento a Bologna, che è un’esperienza culturale e imprenditoriale, dato che è libreria e galleria d’arte, svolge una serie di attività in questa direzione.
È direttore responsabile anche di questa bellissima rivista “La città del secondo rinascimento”, di cui qui abbiamo alcuni numeri. Questo è il penultimo numero, s’intitola La crisi e la riuscita, contiene contributi vari, esce ogni due mesi. È anche direttore della rivista giuridica “Causa di verità”, è autore di numerosi saggi e articoli scientifici e clinici di varie riviste, giornali, atti di convegni, congressi internazionali. E tra poco uscirà anche un suo libro sull’esperienza in corso in questi anni. Invito Sergio Dalla Val a tenere la sua conferenza.
Sergio Dalla Val Quando la parola non si limita più al dialogo platonico o alla logica predicativa aristotelica, quando il fare travalica i concetti di bene o di male, quando la scrittura trae le cose al compimento e alla riuscita, l’esperienza si trova in una trasformazione incessante, la esige. E così, partendo dall’esperienza di parola inaugurata nel ‘73 con Armando Verdiglione, Ruggero Chinaglia e altri di varie città d’Italia, ci siamo trovati in un itinerario culturale, artistico, imprenditoriale, di scrittura che trovava l’esigenza della trasformazione nella teoria che andava scrivendosi e nella pratica che si andava producendo.
Sono oltre trentacinque anni, in cui non si è mai trattato di opporsi a qualcosa. Semmai di cogliere quello che studiavamo nei libri, quello che leggiamo nei giornali, quello che in qualche modo partecipa all’epoca, di cogliere queste cose come occasione di ascolto, di lettura e di scrittura, che sta alla punta della lettura. Di integrarle in questa esperienza imparagonabile, incommensurabile con altre con il prefisso psi che in vario modo hanno avuto fortuna, ma a patto della negazione, della chiusura di quella breccia che Freud aveva aperto più di cento anni fa. Una breccia in cui la parola si annunciava come originaria e in cui una esperienza risultava inedita e senza pregiudizi, limitazioni e rispetti.
Un’invenzione senza precedenti che ci ha portato in questi anni con conferenze, congressi, dibattiti, libri, a precisare volta per volta alcuni aspetti della parola, alcuni cifremi, alcune proprietà che hanno costituito una precisazione di una serie di strumenti per intendere, leggere e scrivere, un’altra scienza. O meglio una scienza altra, una scienza non riducibile ai criteri dell’epistemologia, non riducibile a quei criteri di standard, di ripetibilità, di sperimentazione che hanno in realtà negato quell’istanza della scienza che era stata avanzata prima da Galilei e poi da Peano.
Tra i due, La scienza nuova di Giovan Battista Vico e La gaia scienza di Nietzsche. Avrete sentito in questo corso accennare alle logiche della parola, alle sue particolarità, all’inconscio prima di tutto come logica e alle cinque logiche dell’inconscio che si sono andate formulando in questi anni. Si sono andate formulando, sempre, partendo da un’esigenza dell’esperienza, dall’occorrenza rispetto alla pratica e alla elaborazione e hanno dato una specificità alla cifrematica, rendendola incommensurabile con altre esperienze e discipline.
Pensiamo alla logica delle relazioni. Forse ne avete parlato sicuramente, visto che è un’esperienza che da anni esplora quest’aspetto. La logica delle relazioni. Il termine relazione sappiamo viene da Aristotele. È usatissimo e mai come in questo periodo, potremmo dire, tutto sembra svolto, analizzato, capito in termini di relazioni: le pubbliche relazioni, le relazioni sociali. Chi non ha relazioni non esiste, i problemi nella storia di ciascuno dipendono dalle relazioni interpersonali: Tizio ha avuto un pessimo rapporto con il padre, Caio è ancora invischiato nella relazione con la madre. Oppure, appunto, occorre avere molte relazioni per andare avanti, un sistema, perché no, di relazioni.
Questo è ciò che sembra passare nei giornali quando si parla di relazione. Eppure tutto questo dipende da un concetto aristotelico di relazione. Concetto che tende a considerare la relazione come qualche cosa che costituisce un sistema. La relazione sociale è qualche cosa che consente che una comunità, anche uno stesso incontro, possa essere sistematizzato in una analisi delle relazioni tra coloro che vi si trovano; può essere in una struttura oppure anche in un semplice incontro.
Allora la questione è che la stessa famiglia, per esempio, dopo l’elaborazione freudiana, oggi è stata intesa da moltissima psicologia e psicanalisi come un sistema di relazioni. Non a caso c’è chi parla di terapie sistemiche: un sistema di relazioni in cui il padre ha o non ha una relazione con i figli, la relazione con la madre è buona o cattiva. Poi ci sono le relazioni extra coniugali. Insomma si tratterebbe non più d’indagare la questione dell’Edipo come aveva fatto Freud, ma di aggiustare le relazioni tra i membri, per esempio di una famiglia, per esempio di una scuola, o di un luogo di lavoro. Dunque non già fare l’analisi della storia, della memoria, dell’identificazione, ma semplicemente come funzionano le relazioni.
Questa sovrapposizione tra funzione e relazione in questo secolo è stata ampiamente messa in questione dalla logica del Novecento, in particolare da Peano, eppure nel discorso comune sembra che le relazioni debbano funzionare. La questione è: che se una relazione funziona diventa subito un ruolo. E ecco che non si parla più di funzione di padre o funzione di figlio, ma di ruolo di padre, ruolo di figlio, per cui ecco che il ruolo diventa il posto di una funzione in un sistema. E allora ecco che la famiglia è un modello di sistema, un sistema che certamente tende alla chiusura, perché già con Aristotele il sistema era chiusura. Aristotele parlava del sistema di terra e di cielo, terra e cielo facevano sistema.
Oggi certamente siamo giunti alle moderne teorie dei sistemi che forse conoscete, con la cibernetica, con von Bertalanffi che ammette anche il sistema aperto. Ma, qual è il problema del sistema, anche del sistema aperto? Il sistema aperto deve costantemente recuperare ciascun elemento in una sorta di reticolo di funzioni che si organizzano e si diversificano l’una e l’altra. Insomma che diventano ruoli sociali sotto l’egida dell’interazione (ciascuno deve interagire) e soprattutto secondo il principio dell’ equilibrio.
Può esserci anche il sistema aperto, ma che comunque deve essere in equilibrio e in armonia con ciò su cui si apre il sistema. In questo caso voi capite che l’equilibrio diventa una meta a cui giungere, qualcosa d’ideale: la relazione diventa un qualcosa che bisogna sempre armonizzare, deve essere un qualcosa che porta all’uno, che procede da un uno ideale e che deve mantenere sempre l’unità. Ci può essere certamente l’Altro, ma questo Altro diventa emarginato e per questo deve essere sempre da integrare per unificazione.
Eppure una constatazione della cifrematica, lungo la nostra esperienza, come potete intendere essenziale, una novità assoluta, con risvolti assolutamente pratici, è la constatazione che all’equilibrio non si tratta di giungere, l’equilibrio è originario. L’armonia non è una cosa unitaria che prima c’era, che può essere rotta e poi occorre ricomporre. La questione è che la relazione è originaria, solo che la relazione non è unità, solo che la relazione non è armonia sociale; la relazione è apertura, la relazione è due, non uno, è due, apertura. Non le cose procedono dall’uno, non si dividono in due per tornare uno, come è nel messaggio di Platone ripreso letteralmente in questi termini da Mao Tse Tung.
Le cose procedono dal due, dall’apertura. Non c’è mai stato un uno da cui procedere secondo il modello dell’androgino. È chiaro che in Platone questo modello dell’androgino, questa unità originaria data da maschio e femmina è evidente. È un ricordo di copertura invece, dell’idea che all’origine ci sia un’altra unità fondamentale, quella di madre-bambino che Freud ha messo in questione e che moltissima psicanalisi post freudiana ha creduto di dover introdurre, come per esempio la psicanalisi anglosassone. Quasi Freud avesse un po’ trascurato la questione del rapporto madre-bambino, insistendo su Totem e tabù piuttosto che sui Casi clinici.
Ma prima di tutto che ne è della famiglia se le cose procedono dal due e non dall’uno? In tal caso l’intervento, per esempio, non è più un intervento da terapia sistemica, non è più quello che in ciascuna famiglia bisogna ricostruire l’armonia, bisogna ricomporre l’unità, ma invece, in ciascuna famiglia occorre che le cose procedano dall’apertura, procedano dall’ironia. Ironia che è la figura del due per eccellenza, perché in una parola abbiamo due cose contrastanti, per esempio nell’ossimoro, alto basso, oppure nell’ironia, figura attraverso cui noi diciamo una cosa, affermando il contrario. L’ossimoro: una parola composta da due parole opposte, e l’ironia: un’affermazione mediante il contrario dicono che c’è questo due che non si ricompone, c’è questa apertura che non si chiude, e allora la famiglia non è la serie degli uni, non è l’albero genealogico.
Che cos’è l’albero genealogico? L’albero genealogico è la linea, è la linea della parentela, ma questa linea della parentela non procede dal due, procede dall’uno. Tant’è che voi vedete il capostipite e poi c’è questa linea che si ramifica, ma ogni volta è un uno che si spezza in due, in tre, in quattro, e comunque deve costituire un sistema. Chi è dentro a questo sistema partecipa della famiglia, chi è fuori dal sistema, quale chance ha? Di procedere da un altro albero genealogico e di essere il tramite tra questi due alberi genealogici. Questa come sapete è la funzione delle donne nel discorso occidentale: mettere in comune due parentele, come nota Levi Strauss in Strutture elementari della parentela.
Allora, ecco che la famiglia non è un dispositivo che procede dall’apertura, ma è un sistema di parentela e dunque, si tratta di avere ciascuno il proprio posto nell’albero, e l’albero dà il posto a ciascuno. Allora c’è chi è fuori posto, chi non rispetta le regole della famiglia, chi si contrappone, e certamente perché, il minimo che possiamo dire, è che la parola non si adatta a un albero delle parentele, che la scrittura non segue questa procedura degli uni.
Dunque accade che ci sia il figlio che sembri uscire dal seminato, che non rispetti la nobile menzogna platonica dicendo che occorre che il figlio faccia il mestiere del padre, perché certamente il figlio del vasaio è predisposto a fare il vasaio. Ecco, l’albero genealogico è l’albero delle predisposizioni e le donne devono servire, passando da una famiglia a un’altra, a integrare queste predisposizioni, devono farsi supporto della genealogia. Altra è invece l’istanza del padre, prima di tutto con Freud, che nota che quello del padre certamente non è un ruolo, ma si interroga sulla funzione.
E la prima notazione che trova rispetto alla funzione di padre è che, appunto, non c’è ruolo, nel senso che il padre s’instaura. Lui parla del mito del parricidio, cioè della messa a morte del padre, ma quest’idea, che le istituzioni sorgano a partire dalla messa a morte del padre e dunque fondino su di essa la comunità dei fratelli che condividono questo crimine, è una sottolineatura per alludere alla fatto che la funzione del padre non è un ruolo, non è una presenza, non è una mansione. È qualcosa che ha proprio a che vedere con un’istanza di nome, non con un’istanza di presenza.
Oggi si dice tanto, bisogna che il padre sia più presente, oppure, bisogna che il padre aiuti più in famiglia. Non è questa la questione, non è questo il modo per uscire dalla famiglia patriarcale, proponendo una famiglia in cui tutto è addomesticato, anche la funzione di padre. Freud coglie che qualcosa, quando parla di padre primitivo è un modo forse per dire che c’è qualcosa d’indomestico nella funzione del padre, un qualche cosa d’inaccessibile, un qualche cosa per cui il padre non è alla tua portata, e questa è l’autorità.
Allora, giustamente, la cifrematica parla non di funzione paterna, che sarebbe questo modo paterno di far sì che la famiglia sia un contenitore armonico. Così, secondo le varie teorie che passano nelle facoltà di psicologia di Cesena, ma penso anche di Bologna, di Padova, il padre diventa colui che decodifica i messaggi contraddittori e paradossali della madre, oppure che ha un ruolo di contenimento degli affetti, delle angosce e della paura.
Per la cifrematica non c’è funzione paterna in questa accezione, ma semmai la funzione di padre come funzione di nome. Ma cosa vuol dire funzione di nome? Certamente il padre è presunto dare il nome, ma non è questione di dare il nome, il nome semmai è proprio la genealogia, è proprio la trasmissione del nome. No, funzione di nome è come dire funzione di un qualche cosa che non ha un significato, perché i nomi non hanno significato; funzione di qualcosa di assolutamente improprio, perché chi può fare proprio un nome?
Giustamente, già Schreber, il discorso psicotico, la clinica psicanalitica indicano come non c’è modo di poter operare con il proprio nome o con il nome altrui; ci si accorge che non tiene, e allora ecco la funzione di padre come funzione di nome o come funzione di zero, riprendendo Peano. Che cosa vuol dire? Non che il padre vale uno zero, non che il padre è una nullità, no, funzione di zero, ovvero di non visibilità.
Lo zero è un numero straordinario che ha aperto il rinascimento. È stato introdotto in Europa dopo l’anno mille e era temutissimo. Perché il Papa lo ha tenuto segreto per anni? Perché se ci si accorge che se c’è lo zero non ci sono solo le cose visibili e contabili, non ci sono solo le cose rappresentate e concettualizzate. Cosa cosa ci sta sotto lo zero, che concetto cade sotto lo zero? Zero è il numero di un’assenza di concetto, di concettuabilità, di visibilità, di rappresentabilità.
Allora la funzione di padre, allora un’altra famiglia, quella che procede dalla funzione di padre, la famiglia in cui non tutto si rappresenta, in cui non tutto è visibile, in cui non tutto è conoscibile, in cui c’è qualche cosa di quella che Freud chiama rimozione. Che non è la repressione, che non è il padre che reprime, ma che è il fatto che noi non possiamo dire tutto e non perché ce lo reprima il padre. Noi pensiamo di non poter parlare perché il padre è autoritario, perché proibisce e allora tutti i padri devono diventare permissivi.
I risultati di questa fantasmatica assunta a pseudoteoria sono stati catastrofici, perché la questione non è di assumere l’autorità o di assumere la permissività. La questione è, questa funzione che non è propria del papà, o della mamma o del figlio, è una funzione (dunque non è né una persona né un ruolo), è una funzione che allude all’assenza di origine, all’assenza di naturalità, perché il padre non è certo naturale. Il padre fin dall’antico diritto (mi ha sempre interessato questo aspetto) era definito incertus.
E certamente è incertus, ma nel senso che è irrappresentabile, che è illocalizzabile, che la paternità è un processo astratto, non è un processo naturalistico, non è un processo fisiologico. Ecco, allora la funzione di padre, non è dove c’è il papà presente, assente, buono o cattivo, ma dove c’è irrappresentabile, dove c’è non significabilità, dove non c’è naturalità. Questo solo per accennare a un aspetto assolutamente sovversivo di come si può intendere la famiglia, al di là di una logica delle relazioni che diventano sistema o di una logica delle relazioni che diventano ruolo.
Il ruolo poggia sull’idea della genealogia. Se permane l’ipoteca della famiglia come famiglia d’origine, famiglia come base della genealogia con i suoi beni ben rappresentati, con i suoi mali sempre davanti, è evidente che non c’è itinerario. Chi parla schiacciato dal ricordo? Chi parla presupponendo di non avere il ricordo? C’è chi appunto enuncia un disagio, ritenendo di avere una famiglia troppo presente, c’è chi enuncia un altro disagio ritenendo di non avere famiglia, ma si tratta non di considerare queste cose in modo realistico. La famiglia presunta storicamente è una pseudo famiglia, è gravata da rappresentazioni che dobbiamo considerare non in modo realistico, ma come modo per avviare un racconto.
Con la conversazione, la famiglia storicamente data, comporta un avvio della ricerca, un avvio della scrittura e una messa in questione della fiaba, fino alla dissipazione del fiabesco, fino alla scrittura del romanzo che diviene romanzo storico e romanzo d’impresa, non limitandosi più a quello che comunemente Freud chiamava “Il romanzo familiare dei nevrotici”. E allora non si tratta di riscattarsi dalla famiglia, oppure di dovere sostenere la famiglia. Nel racconto non si tratta di prendere realisticamente i fantasmi per ristabilire la verità, ma di un avvio del racconto in modo che giunga alla scrittura di un romanzo. Un romanzo che appunto è intessuto dalla logica particolare di ciascuno e che non può diventare il romanzo genealogico o il romanzo di un sistema. Del resto, quale romanzo potrebbe rispettare il sistema?
Queste considerazioni hanno anche alcune implicazioni rispetto all’impresa. L’impresa oggi, certamente attraversa la questione della crisi che comporta varie difficoltà, ma che esige assolutamente un altro modo di considerare l’impresa. Anche occorre che anche l’impresa non sia un sistema, anche se spesso l’impresa ha spesso risposto a una logica che è quella dell’albero genealogico. Lo constatiamo non solo nelle imprese dinastiche, ma anche leggendo quel che viene chiamato organigramma. L’organigramma dell’impresa, se voi vedete, è ancora un albero, è ancora una serie di uni, di uni uno più importante dell’altro, è un’ordinalità, ciascuno è inserito in un’ordinalità.
Abbiamo il numero uno dell’impresa, poi il numero due; il primo, il secondo, il terzo, in un’ordinalità che poi deve fare sistema, deve fare cerchio. Eppure il termine impresa è stato introdotto da Leonardo Da Vinci, da Ludovico Ariosto, ricordate, “Le donne, i cavalier, l’armi, l’amore, le cortesie, l’audaci imprese”, dove l’impresa non era la fabbrica, non era nemmeno un sistema di relazioni sociali o aziendali.
Oggi ci sono cattedre di Relazioni industriali, di Psicologia aziendale, Psicologia del lavoro e dell’industria, in cui si tratta di trovare come funzionano i ruoli nell’impresa. L’impresa, allora, nel rinascimento erano le gesta, il viaggio, l’avventura, “l’audaci imprese”, le audaci imprese erano audaci viaggi, non erano certo contenitori o l’accumulo di beni, di persone. Allora non si tratta di chiedersi quali sono i ruoli, come armonizzare le forze, come far sì che ciascuno sia rispettato nel proprio ruolo, come fare crescere l’autostima, come sviluppare la performance.
In questi anni abbiamo inventato un’esperienza specifica che si chiama brainworker. Quando ci si accosta a un’impresa, la questione, se consideriamo l’impresa nel suo viaggio e nel suo itinerario, come ricordava Chinaglia a proposito della scienza, la questione è quella del valore. Quali sono i dispositivi per questo viaggio dell’impresa? Non per questo sistema dell’industria delle imprese, ma di questo viaggio delle imprese e anche di questo viaggio dell’Italia, che non è soltanto un sistema delle imprese. Qual è la direzione?
Il valore del viaggio non è il valore di un ente o di un organismo, è il valore di un itinerario, è il valore della direzione del viaggio. Non c’è nessun valore, andando verso le limitazioni a causa della crisi, i ridimensionamenti, le cessioni, o confrontandosi sempre con la concorrenza e la conflittualità. Concorrenza e conflittualità sono nel sistema: posso confrontarmi con qualcuno, concorrere con lui, solo se penso che siamo tutti in una stessa barca, come si suol dire, e allora, ognuno cerca di tirare la coperta e, come dicono taluni imprenditori sprovveduti, la coperta è corta e ognuno la tira dalla sua parte.
Ma la vita non è una coperta, diceva giustamente Chinaglia, la vita attiene all’infinito, non è il finito di una coperta; la vita come coperta è la vita aristotelica. Aristotele diceva che non dobbiamo ammettere l’ipotesi di infinito, perché se ammettiamo l’ipotesi di infinito non riusciamo più a stabilire i parametri di una logica compiuta, sistematica.
Sistematizzare l’impresa non ha nessun interesse. Occorre verificare come si scrive l’itinerario di un’impresa, con quali mezzi organizzativi, con quali strumenti finanziari. Esistono un progetto e un programma dell’itinerario dell’impresa, ma prima di tutto nella vita di ciascuno. Chi oggi pone queste questioni, se non la cifrematica? Nella mia pratica, per esempio, ho constatato l’esistenza di problemi che non vengono considerati dalla consulenza aziendale o dalla società di revisione che oggi sembrano gestire tutto, ma che pure sono assolutamente di impedimento per la valorizzazione dell’impresa.
Facciamo alcuni esempi. Prima di tutto, l’idea di conoscenza, che può essere l’idea di conoscenza dell’impresa o l’idea di conoscenza del cliente. Io conosco la mia impresa, so gestirla, so quali sono i suoi limiti, so quali sono i suoi punti di forza e se non li so li chiedo allo psicologo aziendale che li deve spiegare, li deve capire, li deve fotografare, deve costruire una mappa che in realtà non è una mappa, perché non apre all’infinito della via, delle strade e dei sentieri, ma è un cerchio, è una spartizione delle posizioni.
Ma se io conosco quali sono i conflitti, quali sono i limiti, quali sono i punti di forza, cioè ho già localizzato la forza, è evidente che pongo le mie idee, cioè quelle che presumo le mie conoscenze e le attribuisco all’impresa. Pensavo per esempio, al caso eclatante della conoscenza del cliente. Quante volte sarà capitato, per esempio a Panizzo, che ha promosso libri per tanti anni, quante volte si sarà trovato a sentire il libraio che dice: “Ma io conosco i miei lettori, so che questo libro non va bene”. Ebbene, se conosci i tuoi lettori, i tuoi clienti, vuol dire che hai già un pubblico di clienti finito, cioè hai dei clienti, ma senza il pubblico, hai i clienti, ma senza l’infinito.
Allora non hai clienti, hai un gregge, che poi non ce l’hai, perché solo tu puoi immaginare che ci sia, perché in realtà il gregge non esiste, il cliente non si fa gregge, il cliente non finisce. Se tu sai già prima cosa gli altri devono leggere è ovvio rispondere: “No, questo libro non lo teniamo, perché so che da noi non c’è richiesta; questo non lo teniamo, perché non l’abbiamo mai tenuto finora.” Così, siccome sai che non c’è richiesta, esci bellamente dal mercato e poi dici che c’è la crisi. Invece è assolutamente essenziale non partire dall’idea di conoscenza, perché quello che ciascuno chiama conoscenza non è altro che un pregiudizio.
L’inconscio è l’assenza di conoscenza, non il non conosciuto che deve essere conosciuto. Allora la conoscenza è sempre un pregiudizio, costruisce rappresentazioni che non consentono la lucidità che è essenziale all’imprenditore. La conoscenza è un problema, sbarra la strada all’avvenire, perché è costituita da un ricordo. E in effetti questo è un altro problema per chi non osa intraprendere l’impresa, oppure per chi intraprende e non riesce a proseguire. Il ricordo, ricordo che può anche essere l’idea di non avere ricordo: “Io non ho mai avuto nessuno in famiglia che mi abbia detto come fare per fare l’impresa, allora io come faccio?”
Oppure: “Si, l’impresa è una bella cosa, però mia zia ha avuto dei problemi con le banche, con gli avalli, le garanzie e poi è stato un disastro, ha fallito, è stata una tragedia per la famiglia”. Ma senza giungere a queste figure del ricordo, è ricordo anche la rappresentazione delle cose di oggi, la rappresentazione dell’attuale, che è straordinariamente impensabile per ciascuno di noi. La funzione di padre sottolinea prima di tutto che non possiamo rappresentare l’attuale, non abbiamo conoscenza della funzione di nome.
L’ebraismo diceva: “Non ti farai rappresentazioni di Dio e delle cose.” Non solo Dio è infigurabile, il comandamento diceva, “…nemmeno gli animali, nemmeno gli uccelli, nemmeno le cose…”. Ognuno invece, per figurarsi la realtà, parte dal ricordo, a ciascuna cosa nuova attribuisce un ricordo, considera ciascuna cosa come un ricordo. Ognuno valuta le cose a partire dal già detto, dal già scritto e dal già saputo, che sono dati per scontati e chiamati il vissuto, base delle proprie certezze.
Un esempio che forse conoscete già dell’affrontare le cose come sulla base dei ricordi: durante la prima guerra mondiale la Francia si è trovata invasa dalla Germania e allora, quando è scoppiata la seconda guerra mondiale ha avuto l’idea di costruire la famosa linea Maginot, con un dispendio enorme, perché questa volta non doveva succedere come la volta precedente. Ebbene, cosa è accaduto nel frattempo? Che fra la prima e la seconda guerra mondiale sono stati perfezionati gli aeroplani e così i tedeschi hanno ancora una volta bombardato Parigi, questa volta dall’alto. Questo è un modo tipico di affrontare le cose.
Così innanzi alla crisi attuale, la gente aveva preso come paragone la crisi petrolifera, che però è un’altra cosa! Allora c’era il problema della Russia che occorreva fare crollare, in effetti è crollato il comunismo a causa del crollo del prezzo del petrolio. Oggi è evidente che questo non può più succedere, perché se crolla la Russia, crollano tutti gli altri paesi, la globalizzazione impedisce il crollo di uno solo dei paesi. Per questo c’è tutta una globalizzazione della crisi, ci sarà anche la globalizzazione della traversata della crisi e della costruzione di un altro modo dell’economia, della finanza a causa della crisi. Questo solo per dire, con esempi banalissimi, che è essenziale il primo gesto del cifrante e del brainworker: quello di dissipare ogni certezza soggettiva, basata sul ricordo, ovvero le abitudini, le rappresentazioni, le credenze che costituiscono un vincolo per l’impresa.
Un’altra cosa che impedisce la realizzazione dell’impresa è il cosiddetto compromesso fantasmatico, che inceppa non solo l’impresa, ma anche la famiglia. Questo compromesso si attua quando per esempio nell’impresa, ma può essere anche nella famiglia, può essere anche nella scuola, si avviano delle complicità, ovvero rappresentazioni fantasmatiche vengono messe in comune, vengono avallate e vengono accettate. Una persona, in una riunione cui ho partecipato, diceva: “Non si vende niente in questo negozio, sicuramente perché è nel centro storico e nel centro storico la gente non può entrare; venderemo sicuramente se andiamo in via x”.
Se vi è chi, magari per ricordi concernenti il centro storico, avalla questa fantasia spaziale, questo fantasma diventa subito compromesso fantasmatico, si crea un’alleanza fantasmatica che blocca l’impresa. Invece io sono intervenuto con un’obiezione, sottolineando che non è questione di luogo, l’impresa non è un luogo, ma di ritmo dell’esperienza. Se poi ci fossero dei problemi relativi al centro storico occorre affrontarli, dando un contributo allo svolgimento dei problemi del centro storico. Così avviammo delle iniziative con altri negozianti, facemmo volantinaggio, andammo a fare le consegne a domicilio, cosa che adesso tutti i supermercati fanno.
Allora, se sorgono due discorsi, un fantasma sostiene l’altro, per esempio il fantasma di chi crede di avere bisogno di un’autorità forte e quello di chi crede di potere incarnare un’autorità forte. Se queste due persone s’incontrano, si crea un microsistema, come un serpente che morde la propria coda, che potremmo chiamare un animale che gira in tondo, un animale nemmeno tanto fantastico, che è l’uroboro. In questo modo cosa accade? Che le cose entrano nella circolarità, fanno sistema, la stupidità diventa circolare, diventa sistema e quindi l’azienda entra nell’instupidimento.
Ma il principale compromesso fantasmatico è con sé stessi. È la cosa più difficile. Chi non è complice dei propri fantasmi? Chi non crede che le proprie idee non siano assolutamente condivisibili, che non ce ne siano altre e vive d’accordissimo con sé stesso? “Io non amo stare con gli altri, sono un tipo solitario, sto qui con le mie idee; a me non piace la compagnia”, dice chi fa compagnia con sé stesso, perché così ha modo di darsi sempre perfettamente ragione.
È la più bella compagnia quella di chi inscena la solitudine e che dice “Non ho bisogno di entrare in un dispositivo, in un’associazione, collaborare…! No io sto benissimo con me stesso, nella mia solitudine!” Ma questa non è solitudine, questo è isolamento, questa è la compagnia con sé stessi, che è il compromesso fantasmatico con sé stesso, E nessuno, questa è la constatazione cifrematica, può permettersi questo compromesso, nessuno può essere indulgente, transigente, accomodante con sé stesso. L’imprenditore che lo fosse non avrebbe quella chance per impedire che altri lo siano e che dunque, blocchino l’impresa. Potremmo proseguire a proposito dell’impresa. Potremmo parlare della paura, in che modo la paura incide nelle decisioni e nello svolgimento stesso dell’impresa, magari la riprendiamo.
Ma consideriamo il terzo elemento del titolo, la salute. Giustamente l’idea di sistema ha pervaso anche l’approccio a ciò che è essenziale per ciascuno e che è la salute. In effetti, consideriamo una di quelle che si presumono tra le più intelligenti definizioni di salute. “La salute è il silenzio degli organi.” Bello, perfetto, carino, siamo tutti d’accordo. No! Quando un organo non ti disturba, non parla, vuol dire che stai bene e in effetti tutto tace e va tutto bene. Questo è il principio del discorso occidentale, anche delle aziende, anche delle famiglie.
Tutto tace, tutto tace, basta che ci sia l’armonia, basta che ci sia l’insieme, tutto tace, e andiamo avanti. E anche l’organismo sta bene quando tutto tace. E già, ma questo è l’organismo, non è il corpo! Questo è il silenzio, non è la salute! Questo è un corpo perfetto. “Il silenzio è la salute degli organi”. Ma, anche qui l’idea degli organi è un’idea di sistema, procede dall’idea di sistema. Allora, un conto è il corpo, un conto è l’organismo. Sicuramente potremmo fare un intero corso su questa distinzione, su come intendere il corpo.
Appunto il corpo sarebbe proprio ciò che rappresenta perfettamente ciò che dicevo prima, il due che si fa uno: tutto oramai ci insegna, la psicosomatica in testa, che il corpo è un concetto unitario, sistemico, in particolare l’unione tra corpo e mente, tra corpo e psiche, tra il somatico e lo psichico, è appunto l’unità rappresentata, è il sistema rappresentato. Invece, che ne è se un corpo non è unitario, non fa uno, ma è un aspetto del due? Se la psiche e il corpo non fanno uno?
Accade che occorre un’altra accezione di salute, una salute che non procede da un modello ideale di corpo, per cui era presunta essere all’origine. Una salute che non si tratterebbe di recuperare e di aggiustare come se fosse qualcosa di vecchio da aggiustare, perché la salute perfetta, ovvero la salute ideale, questo mito che percorre oggi il discorso occidentale, non è altro che un ricordo di copertura dell’idea di una mitica salute ideale che ci sarebbe stata all’origine, uno stare bene, ideale, infantile.
La salute non è lo stare bene, questa è una constatazione. Se noi continuiamo a considerare che la salute è lo stare bene, che la salute è il benessere, restiamo nella circolarità, restiamo nella rincorsa alla salute perfetta, al modello ideale, all’uroboro perfetto. La salute non è lo stare bene, va al di là dello stare bene, dello stare male, non è il silenzio degli organi, non è un rimettere in pristino, non un raggiungimento dell’ideale. E’ rispetto a questa salute ideale che occorrono i protocolli terapeutici. Questi protocolli terapeutici, siccome hanno già stabilito la procedura per raggiungere la salute, escludono il problema, il caso particolare e la particolarità del caso.
In questi anni la cifrematica, non a caso, con moltissimi convegni e congressi, si occupa della salute, ma non dello stare bene, non del ripristino, non del raggiungimento dell’ideale, non di trovare i parametri della salute. Sappiamo bene per esempio, come è emerso nell’ultimo convegno di cifrematica con un urologo non protocollare, Comeri, quante persone che sballavano, se così si può dire, dai parametri del PSA, hanno visto l’asportazione della prostata e non solo di quella, ma di gran parte dell’apparato. E invece, si è scoperto dopo, che questi parametri sono del tutto inattendibili.
Anche a causa di un convegno che abbiamo fatto con Comeri, una decina di ditte, giustamente, oggi stanno portando avanti in altri modi l’approccio alla questione della prostata e alla diagnosi della prostata. Giusto per sottolineare come la teoria cifrematica trova dei riscontri, insistendo su esigenze assolute rispetto alla vita di ciascuno. L’obiezione ai protocolli non è ideologica, ha risvolti pratici essenziali per la medicina. Se ci sono i parametri standard e tutto ciò che va fuori dai parametri standard è da amputare, correggere e modificare, allora la medicina diventa la scienza di Procuste: che tutto ciò che non rientra nei parametri va annullato, va bocciato. Salvo poi modificare costantemente i parametri, quasi a dar ragione a chi dice che la medicina ufficiale è diventata una burletta.
Per la cifrematica si tratta dell’itinerario di qualità, della salute come istanza di qualità. Un’istanza di qualità senza standard. Voi dite: “Come si misura la qualità se non c’è lo standard? ” La qualità non è qualcosa di misurabile e di commensurabile. La qualità non è qualcosa che c’è già, non è un aggettivo di un oggetto. La qualità è ciò verso cui tende un itinerario. Oggi si parla nell’azienda dei criteri della qualità, della misurazione della qualità, ma la qualità non è un qualcosa di misurabile che è già dato, l’itinerario va in direzione della qualità, non è che la qualità è una virtù personale, soggettiva. La qualità esige un programma e un progetto di vita. Non è la qualità è l’armonia dei componenti di un sistema o di un organismo, la salute non è questo. Il progetto e il programma, però non mirano al benessere. Se c’è un programma e un progetto non sempre stai nel relax, magari incontri lo stress.
Lo stress, come notava benissimo Ruggero Chinaglia nel congresso “Lo stress”, è la tensione. Lo stress è la tensione delle cose verso la qualità. Nessuna salute senza questa tensione, altrimenti le cose cominciano a girare in tondo, cominciano a costituirsi in sistema e allora l’investimento pulsionale viene meno. La salute esige un progetto e un programma di vita, esige un rischio e la scommessa, esige l’investimento. Già Freud diceva nell'”Introduzione al narcisismo”, che se le pulsioni non vanno in direzione di una meta, ritornano verso l’io e comportano l’ipocondria, se non tutta una serie di nevrosi narcisistiche o altri tipi di disturbo. È un modo abbastanza semplice per indicare che se non c’è istanza pulsionale rispetto alla meta, rispetto alla soddisfazione, ognuno si trova in una depressione, in un’assenza di pulsione.
Chiaramente la depressione non esiste, è un’invenzione della medicina che qualifica come depressione il fatto che c’è, semmai, un differente orientamento della pulsione, un’altra istanza pulsionale. Se considerassimo la depressione come venir meno di uno standard, come venir meno di una prestanza, dovremmo appunto ripristinare questo standard, questa prestanza. La qualità senza standard, che esige progetto e programma, esige che questo progetto e programma portino a compimento le cose. Nessuna salute senza compimento, nessuna salute senza l’istanza di conclusione, conclusione della scrittura, scrittura della sintassi, della frase, del pragma. L’inconcludenza è la migliore via per l’assenza di salute.
Ruggero Chinaglia È stato un intervento ricchissimo di proposte, di annotazioni che esigono magari qualche ripresa. Allora, per avviare il dibattito abbiamo un primo intervento di Cecilia Maurantonio, un secondo di Sabrina Resoli e poi altri che seguiranno. Prego.
Cecilia Maurantonio Buona sera. Riceverla qui questa sera è per noi un onore e una gioia. Ho letto il suo articolo in questo volume, La nostra psicanalisi dal titolo “Schede per una storia” e mi pare che costituisca proprio la base di questo dibattito. Auspico che costituisca per ciascuno anche il varco per trovarsi nella scrittura dell’esperienza. Ho anche una domanda. Come non cedere mai all’idea di fine? Capire che non vi sia alternativa alla vita non va da sé e nemmeno che sia acquisito una volta per tutte. Grazie.
S. D. V. Grazie a lei.
Sabrina Resoli Perché la cifrematica? Perché quando ci s’imbatte in questa esperienza cominciano a accadere diversi incidenti, senza male e senza danno, per cui qualcosa cade ma non si rompe, qualcosa sfugge ma non si perde, qualcosa dimentica ma consente la memoria. Qualcosa cade e ciò che si credeva di avere, la coscienza di sé e di ciò che si riteneva proprio, vizio o virtù che fosse, vacilla, si frantuma, si dissipa. Qualcosa sfugge, e con ciò il presunto controllo su ciò che si dice, controllo sul senso, sul sapere, sulla verità ritenuti propri o altrui, ma comunque comuni e accomunanti. Da qui si giunge al vicolo sordo che è il colmo del dialogo, quel relativismo che il discorso comune spaccia per tolleranza, secondo il quale ognuno sarebbe detentore della propria verità, del proprio senso, del proprio sapere. Invece accade che qualcosa sfugge e ci si trova a accogliere ciò che si dice parlando. E il “si dice” testimonia che parlante è l’inconscio, logica particolare a ciascuno. Qualcosa dimentica e il fatto non sussiste.
Non c’è atto che stia “all’origine”, comportando una premessa, un precedente che fissi un destino, ma ciascun atto è originario e libero di volgersi alla qualità. Così, per via di incidenti, dell’incidenza della parola e dei suoi effetti, la vita è un’altra cosa, è l’altra cosa, e niente è più come prima. E non c’è alternativa al proseguimento del viaggio intellettuale: le cose procedono dalla parola, non le preesistono e non esistono al di fuori di essa. Si strutturano parlando, si precisano, si qualificano e non rimangono tali, non sono finite e non finiscono. Con la cifrematica l’infinito non è teorico, non è immaginifico, non è la moltiplicazione pensabile dei finiti, è infinito attuale, è nell’esperienza della parola, permea le implicazioni che questa esperienza trae con sé e costituisce elemento imprescindibile e costitutivo della formazione intellettuale di ciascuno.
Pubblico Posso fare una domanda ingenua?
R. C. Prego.
Pubblico Io vorrei sapere cos’è questa qualità.
R. C. Mi dice il suo nome?
Enrico Martino Ho sentito soltanto caratterizzazioni negative, della salute per esempio. L’unica cosa di positivo che ho sentito è questo tendere verso la qualità, solo che non saprei in che cosa consista questa qualità. Uno per esempio potrebbe dire: “Tendere alla qualità è tendere al silenzio di Giobbe.” Poi mi sembra, se ho capito bene, che lei consideri propria della medicina (che questo non sia proprio adeguato per la salute), l’uso sistematico dei protocolli. Nel protocollo sembra esserci una staticità, una mancanza di apertura; però i protocolli sono suscettibili di essere modificati, non mi pare che i protocolli restino sempre gli stessi, anzi, a volte sembra quasi che sia una moda cambiare ciò che prima si considerava facesse bene, poi si dice, no, questo qui fa male, e si cambia tutto. In questo non si può già vedere una forma di apertura in questo continuo mutare dei protocolli? Grazie.
R. C. Grazie a lei.
Lucio Panizzo Io ho letto l’articolo di Sergio Dalla Val nel numero “La cifrematica”. E soprattutto, ascoltando l’intervento di questa sera, posso dire che c’è molto pragma in quello che ha detto, c’è un aspetto pragmatico fra le righe, per cui parlando anche di famiglia, di salute, d’impresa c’è anche questa instaurazione dell’auctoritas, da augeo, spinta verso l’aumento, per cui uno si può chiedere, ma che c’entrano queste cose con la famiglia, la salute e altro. Io mi trovo da trent’anni a collaborare con l’associazione cifrematica e posso testimoniare di un aspetto pragmatico che ha a che fare con varie imprese. C’è l’impresa della casa editrice Spirali, c’è la Villa San Carlo Borromeo, che ora comprende una casa editrice, un Museo; ecco c’è un’esperienza teorica e pratica che è unica. Io mi sono trovato in questi anni a avere un apporto di salute, di entusiasmo, di voglia di fare, di ritmo, che non ho trovato in altri settori o sistemi. Questo volevo dire, che c’è una testimonianza di un aspetto pragmatico, di un aspetto del fare, artistico anche, che è unico. Non ci sono alternative a questa esperienza.
R. C. Grazie.
Pubblico Chiedo qualche minuto, ho una domanda. Ho ascoltato con attenzione, ma non si può parlare di tutto. Si può parlare di tutto, perché sono aspetti fondamentali che determinano anche quelli particolari. Cosa vuol dire la famiglia oggi, rispetto a sessant’anni fa nel Veneto? Mica rispetto all’Africa o all’America latina. Io ho vissuto negli anni cinquanta e ho conosciuto i contadini quando venivano in fabbrica, ma la famiglia era la famiglia dell’economia di allora. Oggi il cinquanta per cento non si sposa, oggi il quarantatré, il quarantaquattro per cento si separa, perché in effetti la famiglia non è un obbligo, né religioso, né civile. È un fatto affettivo, di stare bene assieme e magari di fare anche figli, quindi la famiglia cambia secondo le condizioni economico-sociali in cui uno vive, in cui le persone vivono in determinati paesi.
La famiglia dell’Africa o dell’America latina non è la famiglia italiana o europea di oggi. Il rapporto poi tra la vita in generale, e parlo in primo luogo della vita economica, è data da un sistema e faccio un esempio. Il sistema è dato dal fatto che uno investe cento, non per avere novantanove, ma per avere più di cento, in tutto il mondo e sotto qualsiasi bandiera. Infatti l’URSS e la Cina hanno dovuto cambiare, tanto per intenderci. È il sistema economico a determinare soprattutto, non esclusivamente ma soprattutto, anche gli aspetti sentimentali. La famiglia di sessant’anni fa era una famiglia collegata alla terra, la famiglia collegata all’economia dei campi di terra. Oggi invece lo sviluppo economico ha conseguito una maggiore libertà, anche sentimentale. Non si può parlare di tutto, perché lei ha toccato l’insieme della vita, non si può parlare così, altrimenti non si approfondisce nulla.
R. C. Forse suo malgrado, ha fatto il più bel complimento alla conferenza di Dalla Val questa sera, nel senso che ha toccato, come lei dice, l’essenziale della vita. Questo non è poco se nella sua conferenza Dalla Val è riuscito a sfiorare (non diciamo a toccare, la vita è intangibile e quindi anche la sua materia è intangibile), è riuscito a sfiorare l’essenziale della questione della vita, è qualcosa di nobile che ha fatto. Ora occorre cogliere qualche granello di questo essenziale; certamente non tutto, non si può parlare di tutto, ma è proprio quello che diceva Dalla Val, non si può parlare di tutto e soprattutto non si può dire tutto. Io la ringrazio per il suo intervento, perché tocca proprio questa cosa, la questione intellettuale è questa, non c’è il tutto. Intellettualmente parlando possiamo affrontare questa questione, un’altra, questo o quell’aspetto di una questione, per come ci sfiora, per come riguarda un dettaglio della giornata o della vita o delle cose che stiamo facendo, ma tutto è impossibile. È impossibile prendere, toccare, pretendere di raccogliere il tutto, soprattutto quando noi affrontiamo la questione del valore.
Pubblico Bisogna capire che cosa è il valore prima, altrimenti non c’è il confronto!
R. C. Bravo, ma bravissimo, è che questo non si può dire prima, capisce? Questa esigenza che lei indica con forza e precisione, è l’esigenza di ciascuno: l’esigenza di potere stabilire di cosa si tratta quando parliamo. Non si può stabilire prima. La questione della psicanalisi, la questione della nostra psicanalisi, verte proprio attorno a questo. Ciascuno, parlando, parla un’altra lingua, è una lingua altra, non sa cosa sta dicendo, perché parlare non è questione di coscienza o di volontà; parlare comporta un logica particolare che non sappiamo quale sia prima. Non sappiamo, ma non perché siamo deficienti, ma perché non è possibile saperlo. Questa è la questione culturale, artistica, scientifica della nostra psicanalisi. Noi non possiamo sapere prima ciò che si sta dicendo; allora l’esigenza dell’ascolto sta lì.
Se noi sapessimo prima, se noi parlassimo tutti la stessa lingua, non avremmo nessuna esigenza di ascoltare, sapremmo immediatamente, ci sarebbe una telepatia dilagante, una comunicazione realistica, non ci sarebbe bisogno di parlare. Invece l’esigenza sovrana, sovrumana, l’esigenza intellettuale è parlare, comunicare, per capire perché non sappiamo. Questa è la questione intellettuale. Questo è quanto invece il fiorire delle discipline ha cercato di tamponare. Ha affermato una conoscenza preventiva che doveva stabilire le cose da sapere. Ognuno deve sapere come fare questo, come fare quello, ecco la questione dei ruoli: il padre deve fare così, la madre deve fare così, il figlio deve fare così, il cittadino deve fare così; il ruolo sociale, “deve fare”. E su questo obbligo fantasmatico l’ascolto non c è, c’è l’obbligo fantasmatico, il compromesso fantasmatico, diceva prima Dalla Val, ma è proprio questo il passo straordinario da fare. Capire, intendere perché non sappiamo, quindi l’ascolto.
L’ascolto è un’invenzione della psicanalisi, è un’invenzione. Da Freud, l’inizio della psicanalisi era questo: qualcosa che esigeva l’ascolto, non la comprensione, non il conforto, non l’avallo, non l’approvazione. L’ascolto cos’è. Non è stare a sentire qualcuno finché è stufo di parlare, l’ascolto è cogliere in quel che si sta dicendo, una faglia, una faglia che interrompe il luogo comune, che interrompe il discorso comune, interrompe l’idea che io ho di me o di te o di lui. Ecco, su questa faglia si apre uno squarcio, l’ascolto è questo, cogliere questa faglia, lasciare che si squarci questa apparente omogeneità. Allora, se questa omogeneità della conoscenza, della presunzione di sé, dell’idea di sé, dell’idea dell’Altro si squarcia, allora abbiamo la produzione artistica, la produzione culturale, la produzione scientifica, abbiamo la scrittura, abbiamo le cose che si fanno, abbiamo che ciascuno trova il modo per affrontare quel caso che gli si pone. Questo è l’orizzonte della psicanalisi, non è “guarire” da qualcosa.
La psicanalisi non è una pratica di guarigione. Chi si trova a fare la psicanalisi, chi si trova a occupare la posizione di psicanalista non è un guaritore, non fa quel mestiere di guaritore. Lo psicanalista non è uno sciamano, non è un taumaturgo. Questo è lo scarto assoluto con lo psicoterapeuta, con lo psicologo, con lo psichiatra, i quali presumono di potere applicare un metodo per guarire. Guarire da cosa? Dal male, dalla morte? La questione da leggere non è sui manuali di psichiatria, è sul Vangelo prima di tutto. Cristo per primo diceva: “Io non ti ho guarito, io non guarisco nessuno. La tua fede ti ha guarito”. “La parola ti ha guarito, non io”. Occorre diffidare da chi tende a occupare la posizione dell’agente della guarigione. Occorre tenere conto che questa sarebbe la schiavitù: che ci fosse un agente in grado di somministrare la vita o la morte.
Effettivamente la fantasia c’è, questa mitologia vige. Non è forse un caso che tra le professioni, oggi, quella del medico e quella intellettualmente più svalutata. Effettivamente tra gli avvocati, tra gli ingegneri, tra i commercialisti ci sono ingegni più interessanti, perché nessun ingegnere, nessun avvocato può invocare l’ausilio di una sostanza che possa, somministrata, far guarire, il medico sì. E su questa somministrazione della sostanza, il medico si adagia e rinuncia al suo statuto che non è quello del guaritore, è un’altra cosa, è quella dissipare la schiavitù dall’idea della morte, questo è lo statuto del medico.
Il medico non può guarire dalla morte, non può allontanare la morte e nemmeno, come diceva Ippocrate, come pretendeva Ippocrate, deve evitare di nuocere. Evitare di nuocere è l’idea di fare male. Allora se su questa idea si erige il contrario, fare il bene, siamo sempre in una forchetta, siamo sempre in una alternativa dove male e bene la fanno da padroni. Ma non c è il progetto di vita, non c’è l’istanza della qualità, non c’è la questione della salute, così come ci diceva Dalla Val, come istanza della qualità, che è quella che consente di procedere in direzione della vita, del valore di ciascun atto della vita. Questione impegnativa, questione, come diceva il nostro amico qui, essenziale, ma che nessuno può stabilire di sapere, di conoscere e di prescrivere agli altri. Occorre questa umiltà di lasciare che le cose si dicano e che l’ascolto si instauri. Allora lì, può sorgere qualcosa per la famiglia, per l’impresa, per la salute, per ciascuno, lì dove sta attuando il suo itinerario. Ma richiede questa scommessa. E questa era solo un’evocazione tra i vari interventi che ci sono stati e l’intervento di Dalla Val, a cui adesso lascio la parola per rispondere alle domande che gli sono state rivolte.
S. D. V. Due aneddoti rispetto alla medicina. Negli Stati Uniti, mi ha raccontato un amico medico, succede che se una persona viene operata perché ha un tumore all’intestino, e si trova durante questa apertura che viene fatta all’organismo, che ha un principio di appendicite che esigerebbe un piccolo intervento, il medico non può intervenire perché il taglio intervenuto è finalizzato soltanto all’operazione del tumore e deve essere come tutto è prescritto. Cioè l’operazione ha un modello assolutamente standard, occorre richiudere il paziente e successivamente riaprirlo, magari urgentemente, poiché l’infiammazione non è piccola, perché il protocollo prevede questo. L’altro aneddoto riguarda l’Italia, è qualcosa che ho incontrato. In Italia esiste il trattamento sanitario obbligatorio. Una persona ha avuto un trattamento sanitario obbligatorio, poi il marito ha chiesto la separazione e lei ha chiesto l’affido della figlia. Ma il marito ha avuto buon gioco, perché questa persona essendo stata ricoverata una volta, ha il rischio di incapacità, quindi la figlia deve essere affidata al padre, peraltro pieno di problemi a tutti i livelli.
Questa ragazza, su cui pendeva una dichiarazione di incapacità, mi ha chiesto (sapeva che io non condivido l’idea che ci sia il cittadino incapace, incapace d’intendere e di volere: la circonvenzione d’incapace) se io potevo dichiarare che non è vero che questa persona fosse un’incapace, insomma di fare una diagnosi di capacità. Io ho detto che ciascun giorno porto avanti una battaglia, contro il reato di circonvenzione d’incapace, contro la segregazione psichiatrica, ma non posso dichiarare che questa persona è capace, perché dichiarare che è capace sarebbe mettersi sullo stesso piano di chi dichiara che è incapace, cioè accetterei questa logica che c’è chi sa qual è il destino, la vita, la forza, l’intelligenza, le capacità, i talenti di un’altra persona, e che si può arrogare il diritto, protocollarmente inteso, medicalmente stabilito, di decidere sul suo destino. Questo rispetto alla medicina.
Allora qual è la qualità? La qualità non è il passaggio dal male al bene, dallo sbagliato al giusto, la qualità non è nella logica dell’alternativa; la qualità è la questione stessa dell’infinito. Se io dico che la qualità è il passaggio dal male al bene, dallo sbagliato al giusto, resto in una chiusura, non c’è infinito in questa alternativa, non c’è itinerario in questa alternativa, c’è il bene o c’è il male. Tu stai dalla parte del bene, io sto dalla parte del male e poi ciascuno dice che lui sta dalla parte del bene, l’altro dalla parte del male, che lui sta dalla parte della salute, quell’altro del torto, lui sta dalla parte della solidarietà, quell’altro è pazzo. E però lo dicono ciascuno dei due, per cui il Presidente Bush dice che Saddam è pazzo, e quell’altro dice che è pazzo Bush, e non ne usciamo più. Allora la qualità non è questa, la qualità è un frutto dell’itinerario, qualcosa che concerne la constatazione che c’è l’infinito. La qualità sta nella constatazione che le cose non finiscono e che non vengono valutate dalla loro fine o dalla loro possibilità di scampare alla fine, magari dalla fine in un ospedale psichiatrico.
L’intervento dello psicanalista e del brainworker non può essere quello del consulente che a un certo punto, l’azienda va male e lui taglia di qua, scinde di là, come dicevo prima, fa lo spezzatino aziendale e poi le cose vanno bene, perché il problema non è passare dall’azienda cattiva a quella buona, il problema è di avviare dei dispositivi per cui l’azienda non è né buona, né cattiva, ma che prosegua; proceda, prosegua e non finisca. È qui la bellezza dell’intervento di Maurantonio, perché dice come non credere all’idea di fine. Se crediamo all’idea di fine non c’è più qualità, è solo la qualità che impedisce che ci sia l’idea di fine e l’alternativa alla vita. La qualità che procede dall’instaurazione del tempo: il tempo non finisce. Da questa constatazione, che le cose non finiscono, si avvia la qualità. Tutto ciò che è destinato a finire, che noi supponiamo possa finire, rispetto a cui noi reagiamo, ipotizzando che possa finire, tutto questo non è la qualità.
Mi si chiedeva cosa intendo per qualità. Le cose che si qualificano sono le cose che trovano la via dell’infinito, sono le cose che non si rassegnano a finire; questo mi sembra il criterio della qualità che solo la cifrematica ha posto in essere. Ci sarebbero tante altre questioni, l’intervento sull’auctoritas; l’incominciamento, lo zero, l’auctoritas, l’autore, qualcosa incomincia. Dall’auctoritas all’infinito: questo è l’itinerario cifrematico. Per quanto concerne l’economia, non dimentichiamo che la teoria che siano le forze economiche che decidono, appunto, della famiglia, della cultura, del lavoro è proprio la teoria marxista che ha dimostrato il suo più totale fallimento nel fallimento del regime sovietico testé evocato. L’economia non è quell’economia che sorreggerebbe l’idea di sistema.
Noi stiamo lavorando attorno a un’altra accezione di economia, che è un’economia senza sistema, un’economia in cui non si tratta della sostanza, non si tratta del valore che procede da un equivalente generale, non si tratta di un’idea di sistema. Questa economia non può divenire quella sostanza economica, quella struttura materiale che era la base del marxismo, prima teorico e poi applicato nel comunismo, che pretendeva che alla base delle decisioni ci fossero delle motivazioni economiche e che l’economia potesse decidere del paese.
Bene, noi sappiamo che questo criterio è assolutamente fasullo. Ciascuno decide, non certo secondo criteri economici, anzi, l’interesse della nevrosi, ciò che ha colpito Freud, è l’assoluta ineconomicità che prima di tutto l’isteria sottolinea, perché puoi fare ragionare l’isteria in mille modi, che è più conveniente fare questo, che è più redditizio fare questo, che le decisioni vengono prese e dettate da parametri economici, eh, non passa, ma non passa per ciascuno. Basta pensare che tutti i mestieri economicamente non redditizi, che erano nell’elenco famoso che fa Adam Smith, – il musicista, il pittore, l’artista, – sono oggi le attività che più smuovono l’interesse finanziario a livello monetario, per cui troviamo l’economia senza sistema, troviamo un investimento che non sia finalizzato a una monetizzazione che da novanta diventa cento, perché il novanta, nell’investimento, non diventa cento, ma centomila, diventa l’infinito. Nessuno sa qual è il guadagno del suo investimento, non è monetizzabile. Voi siete stati qui questa sera, cosa avete monetizzato? Sapete cosa avete guadagnato?
Chi può dirlo cosa ho guadagnato io? Chi può dirlo? Non è monetizzabile, perché prima di tutto il godimento non è monetizzabile, prima di tutto il desiderio non è monetizzabile, perché prima di tutto il piacere non è monetizzabile. Freud parlando di un’economia libidica forse diceva qualcos’altro, alludeva a un altrove, a un altrove che è nella parola, che non è da un’altra parte, che non è la struttura rispetto alla sovrastruttura, ma che è, appunto, un altrove irrappresentabile, indecidibile e insituabile nella parola. Dunque, rispetto a questa economia, voglio ricordare per concludere, la frase, forse la più bella che ho trovato nel testo di Hegel: “Lo spirito non è un osso”. Grazie.
R. C. Allora, prima di passare al brindisi a cui ciascuno è invitato e ringraziando Sergio Dalla Val e ciascuno di voi di essere stato qui questa sera, vorrei ricordare due cose. La prima è che i nostri incontri proseguono giovedì prossimo alle ore 21, alla Sala Polivalente di Santa Maria Assunta, con un altro appuntamento della serie “Pirandello, l’amore, l’inconscio”, giovedì prossimo. E poi volevo riprendere una frase che diceva prima Dalla Val, quando dice di una frase in voga, che alcuni genitori dicono magari al figlio che esce dal seminato, “è fuori dal seminato, che sta uscendo dal seminato”, che è una frase molto interessante. Perché attraverso quella che sembra un’affermazione della genealogia, interviene un processo di disconoscimento, riconoscimento proprio della funzione padre in cui viene ammesso il figlio che non è proprio. “Tu sei mio figlio e, fino a che sei qui, devi fare come dico io.” Questo è il crollo dell’autorità, crollo della funzione padre, è una concezione di successione genealogica. Ma proprio mentre il padre coglie che c’è qualcosa che è sorto fuori del seminato, lì, lì c’è qualcosa che va oltre la genealogia, lì c’è effettivamente la chance che il padre e il figlio non si trovino in una logica dell’incesto, ma in una questione di funzionamento, e quindi di avviamento di un dispositivo. Questo è molto interessante e è la chance per la famiglia.
L’ultima cosa, giusto per consentirvi di dormire sonni tranquilli questa sera, è che, come nota François Keller nel suo articolo, in una notazione che sembra quasi di sfuggita, ma che vi consiglio di leggere a pagina quarantatré: “Ognuno degli umani lotta contro l’entropia. È questa la sua condanna a morte”. Che cos’è l’entropia? L’entropia è il disordine di un sistema. Allora, Dalla Val diceva, un conto è l’equilibrio originario, un conto è tendere all’equilibrio. Ecco, tendere all’equilibrio comporta l’entropia zero, la curva asintotica dell’entropia, cioè che l’entropia tenda a zero, il sistema raggiunge l’equilibrio, lì muore. Il sistema con l’entropia zero muore. Allora, come si raggiunge l’entropia zero? Lo diciamo e qui concludiamo, dandoci appuntamento a giovedì prossimo, l’entropia zero si raggiunge con il benessere.Grazie.