Quale scienza quale vita
- Atti Alessandro
2 aprile 2009 Conferenza di Alessandro Atti, scienziato, Quale scienza, quale vita, nel primo dibattito della modernità La scienza e la crisi, con presentazione del primo numero della rivista “La cifrematica”, dal titolo La vita. Il suo numero, La sua scrittura. Il suo valore, (Spirali). Con il Patrocinio della Regione del Veneto, della Provincia di Padova, del Comune di Padova. Padova, Sala Polivalente.
ALESSANDRO ATTI
Quale scienza quale vita
Ruggero Chinaglia Buona sera. Cominciamo questo nostro incontro che è il primo della serie intorno alla “Scienza e la crisi”. Sono otto dibattiti della modernità intorno a questo tema e chi abbia letto il manifesto sicuramente si è imbattuto in questa combinazione di termini, che appunto riguardano la modernità, la scienza, la crisi, con un altro termine che dà un contesto a questi termini e che è la cifrematica. “La Cifrematica” è una nuova collana della casa editrice Spirali che è giunta al suo sesto numero.
Questa sera presentiamo il primo, assieme alla collana nel suo complesso. Una collana che contiene testimonianze, scritti sia di esponenti del movimento cifrematico, sia di ricercatori altri settori con documenti poetici, scritturali, testimonianze scientifiche, letterarie, documenti che raccolgono testimonianze nel pianeta, di quale sia il modo delle cose. Non tanto quale sia la sostanza delle cose, ma il modo. Modernità è in questa accezione che riguarda le cose nel loro svolgersi, nella loro temporalità. Se c’è qualcosa che l’epoca spesso toglie è proprio il tempo, a favore di un immobilismo, di una sorta di concettualità che vorrebbe togliere le cose dal loro modo, per situarle in una sorta d’immobilismo.
Questi dibattiti vertono invece, e insistono, su questo aspetto temporale che esige la ricerca costante, la qualificazione costante di ciascuna cosa e di ciascun atto. Altri due termini sono “scienza” e “crisi”. Scienza e crisi in adiacenza, non crisi della scienza, non scienza della crisi, scienza e crisi. Scienza è un termine che può anche essere letto in maniera banale, intendendo cioè quel complesso di dati e di conoscenze che consentirebbero di avere un sapere sulle cose, una conoscenza. Quindi in questa accezione la scienza sarebbe ciò che consentirebbe di esercitare una presa, per sapere sulle cose, per sapere su ciò che è stato.
Questa accezione di scienza è quella che riguarda la così detta scienza sperimentale. Possiamo dire è la scienza del fatto per avere dei fatti un sapere, una conoscenza, è quel sapere che poi verrebbe trasmesso per consentire quella base di competenza che viene attribuita alla scienza sperimentale e a chi vi ricorre. Accanto a questa accezione di scienza che procede dall’antichità, che è quindi anche scienza dell’origine delle cose, scienza della loro sostanzialità, troviamo però anche un’altra scienza, un’altra accezione di scienza che verte sull’atto, la scienza dell’atto, la scienza di ciò che incomincia e si svolge, la scienza di ciò che avviene e diviene. Quindi una scienza che esige un processo di qualificazione costante e che mai potrà giungere a un sapere che garantisca la presa; dunque un’altra scienza, la scienza, questa, della parola.
Accanto alla scienza sperimentale che ha dato origine al discorso scientifico, quindi a un discorso sulle cose, a una presa sulle cose, sta la scienza della parola con la quale invece è impossibile esercitare una presa definitiva e dove ciascuna cosa, ciascun atto deve essere capito e inteso nella logica, nella struttura, nel modo. Apparentemente due scienze, quasi contrapposte, ma forse si tratta invece della stessa scienza. Si tratta d’indicare, individuare, reperire i termini d’integrazione fra le varie cose, fra i vari approcci, per cogliere proprio il perché, il modo.
Bisogna capire quando e come, rispetto alla logica della parola, alla scienza della parola, si sia costituita una reazione, quasi nel tentativo di restringere il campo per consentire un sapere stabile. Ecco, questo è l’ambiente, l’orizzonte di questi dibattiti che si rivolgono prevalentemente ai giovani, agli studenti, a chi sta indagando su ciascuna questione, su quello che sarà l’avvenire e che quindi esige una formazione intellettuale che consenta all’avvenire di svolgersi senza restrizioni. Per questo abbiamo messo accanto alla questione della scienza questo termine crisi. Questo termine crisi, che in questo periodo gode di una notevole pubblicità – crisi economica, crisi finanziaria, crisi dei valori, crisi di crescita –, ciascuna cosa sembra in crisi, ma questa crisi è pubblicizzata in una accezione negativa. Crisi come caduta, crisi come rottura, crisi come impoverimento, crisi come negatività.
Ebbene, c’è anche un’altra accezione di crisi che indica invece la sua essenzialità: la crisi come giudizio, la crisi come trasformazione, la crisi come variazione e differenza in atto, crisi come quell’intervento del tempo che impedisce ogni sistematica, cara invece ai regimi, alle discipline, a ogni tentativo di governabilità ontologica, dove ogni differenza e ogni variazione è vista come un guaio. Qui si tratta dunque di questa adiacenza: la scienza e la crisi in una combinatoria da cui procedono l’arte, l’invenzione, la cultura e quindi, anche il campo economico, finanziario, civile, sociale.
È la questione del modo, per capire e intendere il contributo essenziale della scienza della parola rispetto a quella scienza che esige di sapere tutto. Ciò che risulta essenziale è lo sforzo di capire e intendere, perché è impossibile sapere già cosa stia avvenendo. E invece conta disporsi, per capire e intendere quanto avviene, perché prosegua e proseguendo si rivolga alla sua qualificazione, alla sua qualità, al suo valore. Quindi è una questione complessa, di una complessità intoglibile, di quella complessità di cui la vita stessa si fa, e quindi abbiamo convocato in questa serie di incontri vari esponenti di settori differenti, per avere vari contributi. Quindi avremo medici, scienziati, giuristi, brainworkers, esperti di direzione imprenditoriale, poeti, scrittori.
Vari contributi da varie parti nell’integrazione per capire, per avere elementi intellettuali, perché le cose non si chiudano in un sapere sterile, ma perché ciascuna cosa sia un contributo verso la qualità che non è mai raggiunta una volta per tutte, ma è in un itinerario in cui la scommessa è quella di divenire intellettuale, ma in cui lo statuto è quello del candidato, alla qualità, candidato all’intellettualità. E questa candidatura comporta un itinerario che non finisce, dove mai la competenza è raggiunta una volta per tutte, ma costantemente si tratta di proseguire, di cercare, di testimoniare e quindi di contribuire in un dispositivo alla qualità dell’itinerario di ciascuno, ma anche dispositivi in cui altri in cui possono divenire protagonisti, collaboratori e con cui stabilire quell’ospitalità che riguarda l’intellettualità stessa.
Quindi c’è questa rivista, “La cifrematica” e accanto a questa rivista vorrei segnalarvi due libri: uno è il libro di Marek Halter, La regina di Saba, che è uscito da qualche giorno e che avremmo dovuto presentare a Padova la settimana prossima, giovedì nove, giorno in cui inauguriamo il laboratorio su “L’amore e la crisi”. Ma giovedì nove è anche il primo giorno della Pasqua ebraica per cui è stato impossibile avere Marek Halter, qui a Padova. Però possiamo leggere il libro. È un libro bellissimo, un libro d’amore, d’avventura, un libro dove si apprezza sia l’intreccio del romanzo, sia la qualità della scrittura e quindi un libro di cui annotare il titolo.
Un altro libro importantissimo che affianca questo, uscito il mese scorso, è di Boris Nemtsof, L’inafferrabile Russia, che è uscito proprio oggi e sarà in libreria nei prossimi giorni. Sempre di Boris Nemtsof, vi segnalo La questione Putin, è un libro assolutamente da leggere, tenendo conto anche di quanto è accaduto ieri a Mosca. Proprio nel “Corriere”, se voi leggete nelle pagine internazionali, c’è la testimonianza che Lev Ponomariov, esponente del movimento per i diritti civili è stato aggredito ieri e preso a bastonate. Lev Ponomariov è stato ospite in luglio al Festival della modernità “La democrazia”, è venuto alla Villa San Carlo Borromeo e accanto a Lev Ponomariov anche Boris Nemtsov, l’autore di questi due libri, è stato aggredito con l’acido muriatico.
Ora, Boris Nemtsov è uno dei candidati alle prossime elezioni e quindi, che sia stato aggredito, è un indice di come nuovamente in Russia la piega sta volgendo in direzione di un regime, più che in direzione di quella libertà e democrazia che erano state ventilate. Questo un po’ per indicare un’attenzione che sia la casa editrice, sia la nostra associazione, hanno in direzione delle questioni che accadono nel pianeta e è per questo che abbiamo invitato questa sera a inaugurare questa serie di incontri Alessandro Atti con la sua conferenza Quale scienza, quale vita.
Alessandro Atti è ingegnere di formazione, ma direi che si può qualificare propriamente scienziato, per la sua vicenda, per la qualità del suo itinerario. È un esponente della casa editrice Spirali, traduttore, traduttore da varie lingue, ha tradotto gli scritti di Freud dal titolo La cocaina e L’interpretazione delle afasie, che a torto sono stati considerati scritti minori e non fanno parte delle opere complete di Freud, e sono invece due opere molto importanti, soprattutto L’interpretazione delle afasie, perché dicono dell’attenzione di Freud, anche quando si occupava di cose apparentemente organiche, alla linguistica, alla logica, alla materia intellettuale, non alla sostanza.
Ha tradotto non solo dal tedesco, ma anche dallo spagnolo, dall’inglese, dal francese opere di Jacques Attali, opere di Harold Bloom, critico letterario americano tra i più importanti, opere di Arrabal e quindi la sua ricerca l’ha portato in vari orizzonti linguistici, scientifici e cifrematici. È stato anche segretario del Movimento Freudiano internazionale, direttore del Museo della Villa San Carlo Borromeo, con un intreccio di vari statuti nella sua ricerca, nella sua esperienza.
Alessandro Atti Sono grato al dottor Chinaglia per l’invito e a voi che siete venuti a ascoltarmi. Grazie al dottor Chinaglia, oggi ho potuto visitare la Cappella degli Scrovegni, famosa nel pianeta per gli affreschi di Giotto, dove un filmato recitava religiosamente che Giotto è “uno dei più importanti pittori europei”! Le tante ideuzze pedanti del “politicamente corretto” danno modo ai pedagoghi dell’arte di annullare lo scandalo di una cultura, che è sorta in Italia, e non in qualsiasi nazione del pianeta. Ma c’era poi la pittura ai tempi di Giotto? O l’arte era ancora nell’ipnosi ieratica bizantina quando, come scrive Vasari: “(come Dio volse) nacque nella città di Fiorenza l’anno MCCXL, per dare i primi lumi all’arte della pittura, Giovanni cognominato Cimabue”? Fu Cimabue, il maestro di Giotto a “dare i primi lumi all’arte della pittura”. E i pedagoghi ignorano perfino Vasari!
La cultura del rinascimento fa ormai capolino in Cina. Davanti alle vetrine l’ecumene planetaria attende dalla moda il placet per gli abiti, per le auto, le strade, i palazzi, la cucina, i mobili, gli elettrodomestici. In qualche paese asiatico spunta una copia della cupola di San Pietro messa come un cappello su qualche grattacielo, come avveniva nella Russia degli Zar, che si fecero costruire a San Pietroburgo l’intera basilica, nonché piazze e palazzi in scala imperiale, finché la “rivoluzione” bolscevica bloccò il rinascimento. C’interessa la moda del secondo rinascimento, ma constatiamo che il “primo” ha trasformato il pianeta.
Il Giappone di oggi, che cosa ha in comune con quello che trovarono i missionari nel Seicento? Prima del loro arrivo, i giapponesi vivevano nelle condizioni dell’Europa preromana e era così, in generale, in tutto il pianeta. Nulla era avvenuto prima che vi giungesse il messaggio della modernità. La posizione particolare dell’Italia, nella storia e nella cultura ormai planetaria, richiederebbe una sorta di assunzione di responsabilità e non i parossistici tentativi di dribblare questo scandalo, nel panico provocato dall’idea di trovarsi implicati nell’inspiegabile. Il messaggio del rinascimento è stato propagato attraverso l’arte, ma lo stesso è avvenuto per la scienza, e anche sulla nozione di crisi dobbiamo interrogarci.
La “crisi” mediterranea. Nel quattrocento il Mediterraneo era ormai soffocato dai Turchi e la “crisi” dell’Occidente pareva senza uscita. Le truppe del Sultano prendevano le città cristiane (nel 1477 arrivarono al Piave, nel 1480 misero a sacco Otranto) e i pirati barbareschi razziavano le coste. Sembrava giunta la fine del tempo e invece ecco le tre caravelle di Colombo salpare per il Mondo Nuovo. E trent’anni dopo pioveva in Spagna l’oro rapinato agli Aztechi, subito intercettato da corsari francesi e inglesi, che rese potentissime le nazioni del litorale atlantico. L’oro calmierò i Turchi. La crisi del Mediterraneo si trasformò nel “secolo d’oro” per la Spagna, ma l’Italia entrò subito in un’altra “crisi”, tagliata ormai fuori delle rotte delle spezie, che si diressero verso il Nuovo Continente.
La forza di Venezia e di Genova venne a mancare, e la ricchezza passò agli imperi del Nord, che, così, si rimisero a invadere l’Italia. Il 1492, l’anno della straordinaria avventura di Colombo, è anche quello della più terribile disavventura: la morte di Lorenzo il Magnifico (“morte acerba alla patria e incomodissima al resto d’Italia”, scrive Guicciardini). Incomincia l’eclisse dei liberi Comuni e, oltre alle razzie saracene, ritornano le invasioni barbariche. Dalla Germania la “crisi” arriva con Lutero e la Riforma. È già quasi il puritanesimo. Ma come funziona il puritanesimo? Per il puritanesimo il male, il peccato e l’incesto sono dell’Altro. Oggi però, anche il puritanesimo è dell’Altro. Un giornale inglese infuriava contro la “solita Italia puritana”, perché il cronista aveva visto, a Roma, un paio di busti marmorei femminili ingabbiati in un’armatura di ferro.
Eppure, prima della Riforma, quei busti erano “scandalosamente” a seno nudo nella chiesa delle Quattro Fontane e nessuno, né i preti romani né le beghine, pensava affatto a scandalizzarsene. Poi, per impedire che il nuovo fanatismo religioso le facesse a pezzi, ricevettero un aspetto più consono alla morale. Ma il giornalista accusava di puritanesimo l’Italia. Puritani i romani? Anzi, erano completamente “dissoluti” per Lutero. Quante prove di una certa libertà aveva fatto Roma subito sconfessata dal moralismo? Lo stesso Scipione Africano, che pure aveva conquistato l’Africa e l’Asia, subiva il moralismo di Catone per avere tollerato i ginnasi, cioè il nudo, e la pedofilia greca.
Roma ci provava da sempre a concedersi una certa libertà. Nella statuaria dei Cesari, una testa di Nerone con una pettinatura tutta treccine è subito seguita dalle teste rapate orridamente a zero di Vespasiano e Tito, Cesari iberici, che ristabilisce il moralismo abbandonato da Nerone. Poi, la testa del successore di Tito, suo fratello Domiziano, riprende la moda di Nerone, e così anche Domiziano passa alla storia con il marchio del despota, massacrato e dannato nella memoria dal senato, che ristabilisce i mores. La provincia non permetteva di oltrepassare gli schemi ereditati e anche il senato doveva adeguarsi alla moralità “media” dell’impero. Trascorsi 1500 anni, la reazione di Lutero sarà un ulteriore esempio di moralismo, contro la “licenza dei costumi” della Roma del rinascimento. E l’aspetto religioso aprirà la via al puritanesimo di Cromwell.
Complessità e complicazione. Fin qui abbiamo parlato della “crisi” in termini “convenzionali”: è la crisi del Mediterraneo come è vista dai manuali di storia e così pure le crisi dei periodi di “libertà” sessuale, subito repressi. La crisi è invece la questione della scienza. Ne abbiamo parlato come una trasformazione inaccettabile che spinge a una restaurazione. Ma è poi questa la crisi? Interverrebbe quando qualcosa turba il “sonno dogmatico”? Chi ha svegliato l’Europa dal sonno dogmatico dell’ipse dixit è stato, si dice, Galileo, che avrebbe pure inaugurato la scienza. Possiamo dire allora che” il “sistema tolemaico entra in “crisi” quando Galileo “prova”, con le sue “sensate esperienze”, che “aveva ragione” Copernico?
Dopo Galileo non c’è apparentemente una restitutio in pristinum: il sistema tolemaico viene davvero abbandonato, il sole va al centro e la terra in periferia. Ma non è per caso che l’aristotelismo cacciato dalla porta sia rientrato dalla finestra già con Newton? Non è che con Newton e Cartesio la complessità divenga complicazione? Galileo espone una teoria complessa, e tuttavia semplice, della caduta dei gravi. Una teoria constatabile o confutabile sulla terra, ma subito dopo, Newton la sviluppa in una teoria, a dir poco, iperuranica (qualcosa che ricorda Platone) sui confini dell’universo; quindi assolutamente incontrollabile, immaginando che il tempo a distanza infinita sia nullo e la gravità a distanza infinita altrettanto nulla. E chi mai sarebbe andato a verificarlo?
Newton, un primo demiurgo. Dovremmo dire che Newton fa ipotesi altrettanto campate in aria di quelle di Platone a proposito del Demiurgo. Il problema della gravità, assolutamente complesso, una volta posto nella formulazione galileiana sembrava troppo elementare! Sicché Newton andò a cercare ciò che avviene ai confini dell’universo! Ne nacque una scienza lontana dall’aritmetica che dovette accogliere una pletora algebrico–geometrica, prendendo in prestito anche l’opera di Cartesio, che intervenne come primo geometra squadrando e ortogonalizzando lo spazio, finché anche il tempo fu messo fra gli assi cartesiani. Per rappresentare la funzione si pose sugli assi cartesiani: da una parte il tempo e dall’altra lo spazio, sicché anche il tempo fu reso geometrico tanto quanto algebrico, finché Einstein non ha saputo trattenersi dal farne una dimensione.
Ma da dove nasce l’algebra? Naturalmente l’algebra araba era già nata da sette secoli, ma dobbiamo constatare che solo quando Newton s’impossessa della legge dei quadrati di Galileo diviene indispensabile nella scienza il ricorso alle radici quadrate, e quindi all’algebra! Incredibilmente ritorna la questione di Pitagora: la forma quadratica invade l’universo newtoniano e ritornerà nelle equazioni di Einstein, il demiurgo contemporaneo. Ma che cos’è, dunque, questa pletora algebrico–geometrica? Armando Verdiglione mette in grande risalto quelle che definisce la geometria del tempo e l’algebra del tempo, per il loro grande rilievo nella clinica del discorso psicotico. Ma c’entrano davvero con l’algebra e la geometria come si studia a scuola?
Una crisi da difetto di complicazione. Lo squilibrio di Nash si deve al suo equilibrio? John Nash nel 1949. Ancora studente enuncia l’Equilibrio di Nash, un teorema su una questione di grande complessità, e lo fa in un modo che potremmo definire “aritmetico”, simile al modo galileiano, e cioè senza ricorrere alla complicazione dell’algebra e della geometria. Così poco complicata per lo stesso Nash, la sua teoria è, però, senza valore. No, lui vuole un vero problema da risolvere! Così va in crisi e passa da uno squilibrio all’altro, finché, dopo 45 anni, il suo equilibrio gli vale il Premio Nobel!
Con la lettura di Verdiglione dalle “crisi” del discorso psicotico emerge l’inconsistenza della credenza e dell’immaginazione, sicché possiamo cogliere anche qualcosa delle inspiegabili e irrefrenabili “crisi” del grande matematico, la cui vicenda ha ispirato il film A beautiful mind. È l’immaginazione che ci sia per lui un grande teorema che lo aspetta, con la credenza che sarà dunque l’algebra a dargli la gloria. Con Nash, si tratta di qualcosa che è il contrario del concetto di “crisi” esplorato finora. Le ragioni delle sue crisi sembrano ricondursi al fatto che lui, un genio, con capacità algebriche tanto “superiori”, non ha un problema con cui potere confrontarsi.
Sicché questo nemico inafferrabile sarà da cercare nella Cia e negli extraterrestri. Fra l’altro, quando trova infine una soluzione straordinaria che lo proietterebbe nella fama, scopre che essa era stata già stata pubblicata “nel più oscuro giornale immaginabile” dall’italiano De Giorgi. Probabilmente è impazzito per questo: non aveva un grande problema a cui dedicare la sua attenzione. Lo scienziato, e il matematico in particolare, è costretto anche a inventarsi il problema. Nash è diventato famoso per avere esposto, all’inizio della sua tesi di laurea, una teoria dei giochi, La teoria degli equilibri, nella quale non c’è, neanche a volerla trovare, la complicazione.
Una teoria svolta con cristallina semplicità, senza nessun apparato algebrico che, invece, Nash avrebbe desiderato assolutamente. Nash è come un Achille che non trova un Ettore e deve accontentarsi della tartaruga. L’apparato algebrico–geometrico, introdotto da Cartesio e da Newton, sembra, dal teorema dell’equilibrio di Nash, una pletora di nozioni del tutto inutili. Ma John Nash sembra soffrire: non c’è più nessun problema da risolvere! È curioso che avendo ricevuto il Nobel proprio per “l’equilibrio di Nash”, la sua formidabile preparazione algebrica faccia del grande algebrista uno squilibrato, che deve subire le reiterate attenzioni degli psichiatri!
L’algebra cede il posto all’aritmetica? Quando con Pitagora risultò che la radice di due non era un numero intero, la matematica prese a andare verso quella che gli arabi, poi, chiamarono algebra. Oggi siamo arrivati al computer che non ha più bisogno delle radici quadrate, delle radici cubiche. Praticamente tutti i numeri che il computer tratta sono numeri binari in cui non c’è neanche bisogno di mettere la virgola, perché si dice: il numero è uno, zero, zero, uno, uno, zero, bastano questi due numeri. E si dice: al numero uno, zero, zero, uno, c’è la virgola. Basta. Non ci sono più questi aspetti algebrici accecanti.
Il bastone di Einstein o, nella versione inglese: “Let there be given a stationary rigid rod”. Per capire da dove trae spunto la questione della geometria, leggiamo quello che scrive nel 1905 all’inizio della sua Elettrodinamica dei corpi in movimento (Zur Elektrodynamik bewegter Körper). L’articolo incomincia così: “Sia dato un bastone rigido in quiete”. E dunque, che se ne fa Einstein di questo bastone che per ora, per fortuna, sta quieto? Qui “in quiete” significa che non sta muovendosi in linea retta. E ora Einstein si chiede: che cosa succederà se questo bastone si mette in moto a una certa velocità?
Einstein è veramente un geometra: ha bisogno di un bastone per misurare, di un bastone di misura come un geometra o come quei contadini che misuravano la terra con le pertiche. Solo nella traduzione italiana gli è stato concesso (eufemisticamente) di tradurre il suo “ein ruhender stab” con “un regolo rigido”. Anche nella traduzione inglese si tratta di uno “stationary rod”: di un bastone “stazionario”, ma sta comunque di fatto che esso debba essere starrer rigid: deve essere rigido. E ora Einstein fa tutta una disquisizione per dire come misurare le lunghezze con il bastone, o come misurare un altro bastone sovrapponendo a esso il bastone di misura. Poi, come confrontare i bastoni, anche nel caso che uno di questi sia lanciato a grande velocità mentre l’altro è in quiete. Oppure, se c’è un osservatore lanciato a grande velocità insieme a questo bastone come fare per misurare questo bastone. Si allunga o si accorcia il bastone dell’osservatore lanciato a folle velocità? È più lungo del bastone che sta fermo, lo stationary rod?
Noi leggiamo queste cose con la riverenza dovuta al grande “fisico”, però ci va di leggere anche quel che scrive Freud, nell’articolo Il sogno: “Armi appuntite, oggetti lunghi e rigidi, come tronchi d’albero o bastoni, rappresentano in sogno l’organo genitale maschile”. Questo scrive Freud nel 1901 e nel 1905. Einstein scrive: “Sia dato un bastone rigido”. Quindi, non è chiarissimo di che bastone si tratti? Ora, questo bastone se lanciato a grande velocità, alla fine cosa fa? Ha bisogno di qualcuno che lo osservi, nelle sue manifestazioni retrattili, giacché si accorcia e invece se rallenta è più lungo di quello che va a grande velocità.
E poi però, quello che va a grande velocità è più pesante. In termini cartesiani si usava il termine “segmento”. Anche il metro era un segmento, ma Einstein insiste a dire “bastone” (lui è un “fisico” e ancor più un geometra). Ebbene, le vicende di questo bastone sono diventate la “relatività speciale”, la prima delle sue glorie. E anche il tempo, per Einstein, è una dimensione, quindi occorre un bastone che misuri la dimensione temporale, mentre gli altri bastoni misurano le tre dimensioni spaziali: il bastone diviene la misura di tutte le cose.
Il bastone, da Pinocchio a Dracula. Un bastone simile o un tronco, come quello di cui scrive Freud nel Sogno, compare in un giornalino a partire dal 1881 e diventa poi il libro di Pinocchio. Geppetto si trova lì con un tronco d’albero rigido, senza forma; comincia a lavorarlo e si accorge che questo tronco d’albero è vivo perché piange, si lamenta e alla fine diventa il famoso burattino. Pinocchio esce in forma definitiva nel 1893 e,quattro anni dopo, nel 1897 Bram Stoker scrive il romanzo di Dracula, dove non si tratta più di un bastone, ma di una cassa di legno: legno morto e stramorto contenente un morto. Eppure, questa cassa è misteriosa, è chiusa, sta nei sotterranei del castello e si suppone che dentro la cassa ci sia il vampiro. Quando invece, armati di paletti di legno da conficcare nel cuore del vampiro, gli ardimentosi tremebondi alzano il coperchio, la cassa è vuota, è assolutamente vuota. Eppure il vampiro è atteso da un momento all’altro, sicché anche il legno della cassa è come se potesse riprendere vita. È la risurrezione secondo il vampiro.
La cifrematica ci dice che la scienza è la scienza della parola, non della cosa. Oggi invece tutta la scienza si suppone scienza della cosa. Anche la medicina, che cosa fa? Preleva un campione di sangue e assume di analizzare lo stesso sangue che circola in un corpo umano vivente. Ma sarà vero? Questo sangue non è più lo stesso che circolava nelle vene, è diventato “una cosa” da studiare; oppure, preleva un fegato e lo trapianta su un altro corpo. Ha prelevato un fegato, che ora è una cosa, e tornerà un fegato una volta trapiantato? Non sappiamo se sia veramente così. In effetti i fenomeni di rigetto che sono supposti d’incompatibilità “genetica” dimostrano anche che questo organo, che è stato trattato come una cosa, non è l’organo vivo, è l’organo supposto morto. La “scienza” è presunta scienza della cosa, se non del corpo morto addirittura.
Lo stesso succedeva i primi tempi in cui si facevano le trasfusioni. Si è capito in seguito che la trasfusione produce effetti terribili per cui, addirittura, è molto più dannosa che restare senza trasfusione. E allora lì si va a studiare, si trova il fattore rhesus, si dà tutta una spiegazione di questo fatto. Invece è stato prelevato del sangue che non è più lo stesso sangue che era in circolo. Queste sono ipotesi, ma comunque tutti sanno che basta che uno venga ricoverato in ospedale e non è più un uomo, diventa una cosa. Infatti la scienza della cosa si può applicare solo a una cosa. Poiché la scienza della parola è intesa come una scienza della cosa, succede quello che ho incominciato a accennare e cioè, che anche le cose si animano.
Per esempio il famoso bastone, che doveva essere la misura di tutte le cose, si allunga e si accorcia: non è più possibile parlare di cose inanimate, le cose incominciano a assumere una loro vita. Ebbene, nel 1700 Gian Battista Vico, mentre Cartesio faceva i suoi giochetti con questa geometria del tempo, fa invece questa considerazione: non è affatto vero che homo intelligendo fit omnia, cioè che l’uomo intendendo diventa ogni cosa, così come intendevano i Romani secondo la cultura classica. Al contrario, avviene che homo non intelligendo fit omnia cioè, con le parole di Vico: “l’uomo col non intendere di sé fa esse cose”: “l’uomo, poiché non intende le cose, diviene lui stesso le cose.”
E fa moltissimi esempi. Siccome non sa da che cosa è circondato l’uomo presta le parti del suo corpo alle cose, così può definirle e chiamarle. Per esempio: chiama «bocca» ogni apertura; «labbro» l’orlo di un vaso; «dente» del pettine; «barbe» le radici; usa dire «lingua» di mare; «braccio» di fiume; «seno» di mare (un golfo); «vena» d’acqua; «sangue» della vite, il vino; «viscere» della terra. O dice anche: «ride» il cielo; «fischia il vento»; «mormora» l’onda; «geme» un corpo (una colonna) sotto un gran peso. E non è più così facile, dopo questo intervento di Vico, sapere che cos’è la parola e che cos’è la cosa. Scienza della parola sì, però è veramente difficile definire, potere scindere tranquillamente la parola dalla cosa, perché, da sempre, c’è questa invasione di parti del corpo umano, come dice Vico, che vengono attribuite alle “cose”.
La nominazione in astrofisica. Nell’ambito dell’astronomia gli esempi di questa nominazione sono veramente tantissimi. Per esempio, le supernove sono stelle giganti che, a un certo punto, strapiombano in sé stesse: si schiacciano, si contraggono, fino a ridursi a un diametro di pochi chilometri e poi esplodono. Ebbene, secondo l’astrofisica, il mitico big-bang ha prodotto solo elementi “leggerissimi”, come l’idrogeno e l’elio. Quindi, da questi elementi leggerissimi hanno dovuto essere costruiti quelli più pesanti; e a questo hanno provveduto quelle gigantesche fabbriche che sono le supernove. All’interno della supernova, che si contrae per fusione termonucleare, dall’idrogeno (l’elemento con numero atomico 1) si produce l’elio (numero atomico 2), dall’elio il carbonio (numero atomico 6) e l’ossigeno (8), poi il sodio (11) e il magnesio (12) e così via fino al ferro (l’elemento numero 26). E il ferro è l’elemento più pesante che una supernova può produrre. Poi la supernova esplode un’ultima volta e, espellendo tutti questi elementi, li sparge per l’universo.
Non è forse un modello antropomorfo con tutte queste esplosioni e con tutto il materiale che viene diffuso da ogni parte? O non sarà, invece, un modello ginecomorfo? Infatti lì, dove c’era la supernova, poi rimane un buco nero, che fa venire in mente un follicolo dopo l’espulsione dell’ovulo. Sicché il funzionamento della supernova, come ci viene raccontato dall’astrofisica, è anche simile al racconto che ci fa la medicina quando parla dell’ovulazione. Anche questa fucina in cui vengono prodotti gli elementi che saranno sparsi nell’universo può adattarsi ai termini che dà Vico nel 1700: l’uomo presta il proprio corpo alle cose e solo così è in grado di capirle. Tutte le cose divengono umane, tutte divengono bocca, labbro, diventano spalle, schiena, fronte. Qui però, anche con la supernova, ci stiamo spostando radicalmente dal corpo alla sessualità.
E allora occorre interrogarsi, perché non capiamo cosa sia la scienza, se la scienza è questo modello antropomorfo che entra nelle cose. Quindi, la cosiddetta scienza, di che cosa parla? Parla davvero delle cose (che presume “esterne” e “amorfe”), oppure indaga in un mondo dopo averlo fatto diventare antropomorfo, cioè simile all’uomo, con questa umanizzazione delle cose rilevata da Vico, che servono a capirle? La scienza capisce veramente qualcosa di quello che sta avvenendo, oppure capisce quello che capiva Platone? Ho citato Platone perché Platone ha in particolare questo richiamo al mondo delle idee: c’è un mondo delle idee e poi c’è un demiurgo che costruisce il mondo, cioè il cosmo, cercando di farlo simile al mondo delle idee. È così che il cosmo dovrebbe essere fatto, ma il demiurgo lo fa male, perché non può riprodurre le idee, quindi lo fa in termini abbastanza abborracciati e, in questo modo, Platone ha modo di dire che costruisce anche le cose brutte, il male, l’imperfezione, a differenza del mondo delle idee che è perfettissimo.
Come ingegnere ho passato moltissimi anni con i baroni dell’università che si leggevano un libro, l’ultimo libro appena uscito in America e venivano a raccontarlo. Senza sapere assolutamente cosa fosse l’ingegneria, raccontavano queste teorie americane (credo che fosse così anche in medicina). Allora lì, le equazioni che ci venivano a raccontare sembravano un po’ il mondo iperuranio, queste idee perfette a cui poi era il caso di adeguarsi e l’ingegnere era come il demiurgo che non riusciva a adeguarsi. Mentre bisognava calcolare, per esempio, la sezione di una trave di 100 centimetri quadri, tanto per dire un’enormità assoluta, dicevano: “Be’, voi fatela di trecento; se è trenta centimetri quadri voi fatela di un metro quadro, perché è stata calcolata secondo i modelli matematici. Però voi per stare tranquilli fatela tre volte più grossa, perché altrimenti si rischia.” Si è poi visto in questi giorni che su questa base fanno le costruzioni con degli elementi scadenti, anziché usare tutto quello che occorre. Utilizzano materiale scadentissimo. Questa è la questione: queste equazioni su cui si basa il tutto sono equazioni algebriche che sembrano idee platoniche, a partire dalle quali bisogna costruire la realtà come se fossimo ancora al tempo del demiurgo.
Einstein è il demiurgo del nostro universo. Questa è una cosa molto evidente nel caso di Einstein. È lui, questo demiurgo, che geometrizza e algebrizza fino a produrre l’universo. Voi sapete che tutto quello che noi vediamo nel cielo è, grosso modo, quello che ha voluto farci vedere Einstein. Con il telescopio è stato trovato a un certo punto il buco nero. Non si vede, ma è chiaro che è lì, bisogna che ci sia! Tutti alla ricerca del buco nero. Se non si trova sono guai! Nel 1905 Einstein era ormai famosissimo, aveva trovato la relatività ristretta sulla base dei bastoni rigidi e quindi, a questo punto, cerca d’inglobare nella sua relatività ristretta anche la gravità, di fare la relatività generale.
Si serve di due matematici italiani famosissimi, Ricci Curbastro e Levi Civita, che gli danno gli elementi dell’analisi tensoriale e sulla base di quello che gli dicono, e lo correggono più volte, costruisce queste equazioni (e ci vorrebbe un matematico di un certo livello deciso a sfrondare la scienza di certe cose) e, a quel punto, è come il demiurgo che ha di fronte l’idea suprema platonica e non sa come realizzarla. Lui non era in effetti un matematico, era un geometra: abbiamo visto che misura l’universo con i suoi bastoni. In ogni caso, giunto a queste strabilianti equazioni che costituiranno il futuro mondo della scienza, voluto da lui stesso come moderno demiurgo, Einstein pubblica nel 1916 la sua nuova creatura, senza sapere cosa sia.
E nello stesso anno, addirittura dalle trincee delle Ardenne, uno di questi matematici tedeschi che si chiama Schwarzschild, dà una prima soluzione di questa equazione. Einstein non era in grado di risolverla. E questa prima soluzione che cos’è? È il buco nero. La soluzione di Schwarzschild prospetta che esistano i buchi neri e, siccome Einstein è famoso, la sua idea di universo è credibile, e così tutti alla ricerca del buco nero! Un mese fa a Milano c’era un’esposizione astronomica con fotografie del buco nero! E’ una cosa strabiliante. Noi stiamo parlando di scienza e stiamo parlando di una fotografia di qualcosa che è distante da noi dieci miliardi di anni luce, quindi la foto di quella cosa che ci sembra lì, che noi vediamo, è la foto di qualcosa che era lì dieci miliardi di anni fa. Lì, dieci miliardi di anni fa, forse c’era un buco nero! Siamo a questi livelli, cose da mettersi a ridere.
Comunque il buco nero non può essere visto. Non è che si veda, lì ci dovrebbe essere, perché intorno le galassie sono disposte in maniera irregolare e impossibile da descrivere in altro modo. Einstein ha questa creatura, questa creatura che lui ha costruito e c’è bisogno di trovare la cosa. Veramente lui non voleva assolutamente ammettere il buco nero, perché il buco nero significa che l’universo, in questi buchi è in una compressione pazzesca, quindi lui, da buon geometra, sperava di aver costruito una bella casa ferma, che il suo universo fosse statico, senza movimento. Invece questa soluzione che viene data da questo astronomo matematico che si chiama Schwarzschild, scudo nero, è il buco nero.
Poi naturalmente si potrebbe giocare su questo buco nero, perché non è l’unico buco, ovviamente. Sapete benissimo che c’è il buco dell’ozono; anche quello ogni tanto si apre e si chiude. Allora, quello che ci dice Vico è estremamente vero. C’era ai tempi di Vico il buco dell’ozono? Non sappiamo, perché non avevano i mezzi per verificarlo, però è qualcosa che c’è veramente oppure qualcosa che noi vediamo perché è previsto che lo vediamo? Anche sul buco dell’ozono se ne dicono tante. Doveva diventare enorme, poi invece si è ristretto, sta sparendo. Noi naturalmente non sappiamo assolutamente nulla: ce lo dicono.
C’è una mentalità puritana molto forte, cioè quando si dice scienza si dice un termine che ha una etimologia specifica: scio, schio. La scienza comporta la schisi (non siamo nemmeno sicurissimi dell’etimo), cioè la divisione. Freud ha abbandonato la coscienza e il conscio, ha introdotto l’inconscio. Il conscio che cosa sarebbe? Se scio è la divisione, con-scio sarebbe la con-divisione, il sapere condiviso, sicché al di là del sapere condiviso, al di là del sapere conscio, Freud trova il sapere inconscio, quindi non condiviso. Che cosa è scienza secondo l’etimo? È una divisione.
Fra il sentiero del giorno e il sentiero della notte. Nella cifrematica un aspetto importante è quello per cui ci sarebbe una divisione, che è il tempo, che sta fra quelli che vengono chiamati il sentiero della notte e il sentiero del giorno, usando termini che risalgono addirittura a Parmenide, un filosofo antichissimo. Quindi, fra il sentiero del giorno e il sentiero della notte ci sarebbe questa divisione che non è esattamente la scienza, ma siccome la scienza è divisione potremmo trovare qui cos’è la scienza. Abbiamo questa teoria in cui si dice ‘il sentiero della notte’, ‘il sentiero del giorno’: che termini, che stranezze! Il tempo è qualcosa che non ha niente a che vedere con quello che è il trascorrere ordinato dei secondi, dei minuti, dei giorni. Il tempo verrebbe situato in questa divisione fra il giorno e la notte. Noi possiamo dire: che cosa significa?
Intanto capiamo che ciascun significante va ben oltre l’ambito limitato che siamo abituati a dargli. Abbiamo visto che già Vico lo notava. Scrive, per esempio, che “l’uomo chiama «bocca» ogni apertura” e, così, noi notiamo che il linguaggio chiama “notte” o “giorno” tante cose, ben lontane dal giorno e dalla notte prodotti dal moto della terra: che c’entra il giorno con “l’orlo a giorno” e la notte con “la notte della mente”? E, allora, potrebbe chiamarsi “giorno” anche “la veglia” e “notte” il “sonno”. E, così, constatiamo che tra la notte (il sonno) e il giorno (la veglia), c’è un “passo”, che, per qualcuno, è “impassabile”: c’è chi non riesce a addormentarsi e assume psicofarmaci per dormire, perché questo passo dal giorno alla notte è veramente impassabile. Lo stesso succede con quelli che si trattengono a letto e che non si vogliono svegliare. Molti non vogliono svegliarsi, ma non perché facciano bei sogni e preferiscano dormire. No, il sogno è proprio un trauma!
Non è già stranissimo che in tedesco trauma si dica “Trauma” e sogno si dica “Traum”? Possibile che un tedesco come Freud non sia influenzato dall’idea che in tedesco il sogno sembri il trauma stesso, quando scrive la Traumdeutung? Trauma in greco è la divisione. Ci sono sogni pieni di vicende interminabili lunghissimi, e invece sembra proprio che tutto avvenga in pochi secondi nel “passo” dalla notte (il sonno) al giorno (la veglia): una vicenda di giorni e giorni in meno di un secondo. Il tempo, che è definito dalla cifrematica come l’”istante”, è un po’ come questa divisione fra il sonno e la veglia. Stiamo narrando un esempio, una rappresentazione, ma fino a un certo punto.
Pensate al caso famoso di Eluana o a tanti casi simili. Tutte persone che non si vogliono svegliare. La scienza ci dice che non si svegliano perché sono in coma, però freudianamente noi dovremmo dire che il sogno non è assolutamente qualcosa di desiderabile, perché è quello che avviene in questo passo che non si vorrebbe mai attraversare. Poi ci si ricorda di questo sogno come l’incubo, come ciò che era pericoloso, bellissimo anche, in certi casi, però si ricostruisce in modo difficilissimo. Sembra una questione d’ingegneria. Voi sapete che sulle linee elettriche se si prova a interrompere l’elettricità succede un botto, un fulmine. Lo stesso, se in una condotta dove c’è un certo flusso d’acqua si chiude improvvisamente tutto, la condotta non regge.
Così è impossibile passare dallo stato di veglia allo stato di sonno o viceversa, senza fenomeni che vengono chiamati “transitori”. E in effetti, anche nella scienza, gli unici fenomeni inspiegabili sono quelli che avvengono in questa divisione tra due stati, come nel trauma del “Traum”, di cui Freud ha incominciato a occuparsi. Il trauma è come la crisi e un po’ come la scienza. Io prima ho citato il fatto che Colombo in un momento di crisi terrificante trovò l’America e non c’è stata più crisi.
L’incontrollabile capitale di Marx. Il Capitale racconta una diatriba, che può suonare curiosa se ascoltiamo che si svolge fra gli operai che cercano di alzare i salari, nonché di abbassare le ore di lavoro e i padroni, che vogliono abbassare i salari e alzare le ore di lavoro. Scrive Marx nel Capitale: “Il salario ⌈…⌋ viene abbassato ancora molto”. “Uno scrittore ⌈…⌋ dichiara compito storico vitale dell’Inghilterra l’abbassamento dei salari inglesi”. “È tendenza costante del capitale abbassare gli operai fino a questo punto”.
Marx è decisamente un filosofo (platonico), se cogliamo che la sua opera è tutta volta a riassumere la padronanza su questa cosa, il capitale, che “non è una grandezza fissa”, è suscettibile d’”ingrandimento”, è una “parte elastica”, “costantemente fluttuante”, con “forza di espansione subitanea”, è dotato di “crescente elasticità”, è “funzionante”, e così via. Leggiamo: “Grazie alla elasticità della forza-lavoro il campo dell’accumulazione si è ampliato senza essere preceduto da un ingrandimento del capitale. Il capitale non è una grandezza fissa, ma una parte elastica della ricchezza sociale costantemente fluttuante. ⌈…⌋ cresce la forza d’espansione subitanea del capitale, non soltanto perché crescono l’elasticità del capitale funzionante e la ricchezza assoluta di cui il capitale costituisce semplicemente una parte elastica”.
È piuttosto chiaro che cosa sia il capitale che sconcerta Marx e opprime il popolo, mentre i capitalisti, loro, sembrano usarlo a piacimento! Non è immorale? Ci vuole l’uguaglianza sociale! Ma non è, ancora una volta, l’emergere dell’invidia? È incredibile. Freud diceva che tutto quello che esiste a livello, per esempio dell’arte, è fatto a imitazione della sessualità, e per lui non era affatto un difetto. Questa è una formulazione un po’ grossolana. Adesso scopriamo che anche la scienza, quella che viene chiamata scienza, è fatta a imitazione della sessualità.
Ho parlato di questi esempi virilistici, ma nel caso delle supernove sembra che il modello sia forse più femminile, l’ovulazione che produce tutti questi componenti. Proiettati in un mondo nel quale i regoli rigidi, i bastoni rigidi si contraggono, lì gli orologi ritardano. Sta qui, tutta la relatività speciale di Einstein! Comunque, quello che non si riesce a capire del buco nero è che è chiamato sia black hole, sia worm hole cioè, sia buco nero sia buco del verme, come nella mela. Allora sono due cose differenti? Buco nero sarebbe tendenzialmente qualcosa chiuso, il buco della mela è il verme che mangia e rimane tutto vuoto dentro. Anche lì c’è un’altra fantasia che per il momento non vi racconterò.
Il caso di Eluana per esempio, sembra sia una questione di difficoltà di passaggio: preferisce starsene nel sonno, non vuole svegliarsi. Lo chiamano coma. Leggendo mi ha sorpreso. La scienza di questi esempi naturalmente non parla perché, ripeto, il puritanesimo è invadente: qualsiasi teoria che non sia medicina ufficiale non viene presa in considerazione. Facevano invece alcuni esempi sul giornale e raccontavano di una mamma che aveva un figlio in coma e, tutte le sere, gli faceva il segno della croce. Una sera gli dice: “Figlio mio stasera non ho proprio voglia di farti il segno della croce (perché gli era morto il papà), io sono proprio disperata”. Si volta per andare, poi guarda e vede che lui si fa il segno della croce, perché era talmente abituato…
Quindi si è svegliato in quanto gli è mancata una cosa. Però per la scienza, letture che non sono quelle consuete non possono essere fatte. La questione del puritanesimo è terrificante. Tutto quello che hanno fatto Galileo, Vico ecc. è stato ingabbiato, è stato fatto diventare politicamente corretto. Queste cose volevo raccontare, perché mi sembrano tra le cose più colossali che si possano raccontare. Ho letto a un certo punto (quando facevo qualche ricerca del genere) Galeno, un medico greco famoso che scrive tre o quattro secoli dopo Ippocrate (non si sa bene esattamente il tempo nel quale è vissuto). Galeno scrive: “Aristotele non sapeva dove le donne hanno i testicoli”. Un enunciato che poi ho cercato di esplorare.
Aristotele pensava che le donne fossero dei semplici contenitori nei quali veniva messo l’homunculus da parte del maschio, e la scienza ha proceduto così. La scienza, a un certo punto, ha capito che bisognava accoppiare i tori con le mucche perché ci fossero i vitelli, ma l’ha capito, a quanto pare, attraverso cose mitiche, mitologiche. Nel caso di Caino e Abele, la Bibbia dice che Caino era agricoltore, mentre Abele sacrificava i vitelli e gli agnelli a Dio, quindi è un po’ la favola per cui si sono resi conto che accoppiando le mucche e i tori, o i caproni con le capre, succedeva qualcosa, hanno capito che c’era questa prima scienza. Sembra che si siano messi a allevare le mucche da una parte e i tori dall’altra e non succedeva niente, e allora si sono resi conto che qualcosa doveva succedere tra loro.
Questo avveniva prima del duemila avanti Cristo, prima che arrivasse questa forma di allevamento del bestiame che ha soppiantato l’agricoltura, per cui c’è il mito di Caino e Abele. Può darsi che questa sia una spiegazione sensata. Comunque, quello che è sicuramente sensato è che Aristotele è convinto che i testicoli non servano affatto per la generazione. Lui sapeva che c’erano questi testicoli, però supponeva che le donne non li avessero. Invece Galeno circa all’epoca di Augusto, poco prima o poco dopo, prende in giro Aristotele perché non sapeva che le donne avevano i testicoli. Di Galeno ci sono arrivati dodici libri, di cui i primi undici sono in greco, il dodicesimo è in arabo, perché il dodicesimo libro conteneva argomenti scottanti che i nostri monaci non hanno copiato.
Invece gli arabi, che traducevano tutto quello che trovavano di greco, hanno tradotto in arabo e poi dall’arabo è stato tradotto in italiano. E lì risulta che gli arabi hanno capito che Galeno parlava di testicoli. Non sappiamo come si chiamassero questi organi femminili per la riproduzione, sappiamo che gli arabi li chiamano testicoli. Gli arabi però ovviamente avevano una cultura speciale e una loro impostazione l’hanno data. Questo fatto a me risulta di una importanza inimmaginabile, perché vuol dire che all’epoca di Cristo, l’impero romano si è reso conto che le donne avevano un principio generatore. Ma per la scienza questo non conta. Lì, invece, si può misurare la crisi, lì veramente si vanifica tutto ciò che era stato creduto fino a quel momento.
In Giappone fino a un secolo fa, prima che arrivasse la scienza, ritenevano che la donna fosse un contenitore che serviva a allevare i feti. Invece l’impero romano ha dovuto reagire a questa questione, costruendo il cristianesimo. Nel cristianesimo emerge la figura della Madonna, la vergine, e questa struttura per cui in effetti, improvvisamente, immediatamente, la donna che era considerata zero è diventata un essere al pari dell’uomo. Nelle religioni come l’Islam ancora oggi non siamo a questo livello; in oriente, specialmente in Cina, se nasce una donna in più la buttano via, senza neanche volerla vedere. Invece il cristianesimo ha dovuto prendere atto di questo fatto. Questo è quello che ricordava il dottor Chinaglia: la crisi come giudizio; era impossibile dare un giudizio.
Ai miei tempi io andavo a pescare i pesci e in certi periodi le femmine erano piene di uova e noi sapevamo che erano uova. Invece fino ai tempi dell’impero romano nessuno lo sapeva ancora, e sicuramente questo dubbio è rimasto, perché effettivamente, dopo sono nate tutte le gnosi, le religioni gnostiche, che hanno cercato di recuperare Platone a tutti i costi: c’era qualcosa che non andava e allora tentavano di ricostruire il mondo com’era prima che succedesse questo putiferio incredibile. E l’impero romano è crollato per questo, perché non era più possibile costruire niente sulle basi che c’erano state prima. Nell’impero romano fino a quel momento nessuno poteva alzare nemmeno un dito, poi man mano, sono arrivati i cristiani che ne hanno fatte di tutti i colori e hanno fatto entrare i barbari. Se da una realtà si passa improvvisamente a un’altra è come passare dal sonno alla veglia, con uno scarto in cui in mezzo non c’è nulla. Improvvisamente la scienza ci divide da quello che era tutto il passato.
In effetti i cristiani ne hanno fatte di tutte i colori, anche nascondere tutto quello che avevano fatto gli antichi, cancellare tutti i testi antichi, far sparire i presocratici. Ma dopo, a un certo punto, si sono ripresi e hanno cominciato a ricopiare integralmente i testi. È chiaro che nessuno capiva quello che succedeva: le donne improvvisamente diventano esseri pensanti, anzi, hanno pari dignità perché danno un contributo pari a quello dell’uomo, però non era sicuro che fosse così. Allora costruiscono una religione in cui c’è la Madonna piena di grazia, l’immacolata concezione. Tutti questi elementi, che sono vagamente allusivi di questo, e questa cosa va avanti in maniera incerta.
Alla Villa di Senago abbiamo organizzato un’esposizione di tante opere di Fernando Arrabal, in particolare di libricini, libercoli, libri, e questi suoi libri, quelli piccoli, come si intitolavano? Ad esempio Uevo frito. Parlavano tutti dell’uovo. Io stavo rivisitando queste teorie e a un certo punto, siccome avevo occasione di parlargli, mi racconta questa storia in italiano: nel 1600 gli italiani hanno trovato che le donne hanno le uova e le hanno chiamate come se fossero galline. Quando parlava di questo aspetto era incredulo, perché la sua struttura era quella dello spagnolo, quindi un moralista, una scrittura durissima, anche se lui è un anticonformista enorme.
Ma lui diceva: “In America quando un ombre se casa se descuenza a uscire”, non esce più di casa quando è sposato, si vergogna. Hanno ancora pregiudizi incredibili sulle donne. Lui è nato prima della guerra, però quando parlava di questa cosa impazziva, perché diceva: “Gli italiani hanno trovato, hanno visto con le lenti che c’erano questi corpuscoli che poi hanno chiamato ovuli, copiandoli dalle galline. Anche questa questione è importantissima, perché si tratta della nominazione stessa: come chiamare queste cose. Dopo, quando si sono visti gli ovuli hanno capito che magari poteva essere l’ovaio, e comunque li hanno chiamati in maniera abusiva (noi parliamo spesso di abuso e di catacresi), hanno fatto un abuso assoluto, cioè le hanno chiamate con un nome generico che è nelle femmine dei polli.
R. C. Ci fermiamo qui per il momento per verificare se ci sono domande. Atti questa sera ha dato testimonianza di questioni importantissime attraverso la lettura e l’ascolto. Atti, in questa sua traversata, ha colto sfumature linguistiche che, se invece la lettura avviene in nome del senso, non vengono colte. Se noi leggiamo qualcosa, come indicava il puritanesimo, in nome di qualcosa che è da tramandare, da conservare, da mantenere nello stato in cui si presume che sia, non cogliamo nemmeno.
Atti in questa sua traversata ha indicato che leggendo i termini linguistici della teoria di Einstein, della teoria di Galeno, del contributo di altri scienziati, si colgono elementi che vanno oltre ciò che è presunto scienza, riguardano invece la parola, la fantasia, la fantasticheria, la sessualità: vanno ben oltre il senso comune. E proprio cogliendo queste faglie, questi aspetti linguistici, allora si produce qualcosa di nuovo, si produce un altro senso, un altro sapere, qualcosa d’Altro che non è che sia da contrapporre a nulla. Nessuna vecchia verità contrapposta alla nuova verità, ma qualcosa che sta accanto.
Gli effetti di senso, di sapere, di verità non si possono togliere, e quindi non possiamo più ascoltare quello che ci viene raccontato, che ci viene tramandato in nome di una presunta scienza dell’essere, ma dobbiamo ascoltare gli effetti linguistici. Mentre Atti parlava mi veniva in mente un brano di questo libro in cui a un certo punto, la regina di Saba ha una sorta di duello di intelligenza, di saggezza con il re Salomone e pone un indovinello: “Di te si dice che sei il signore degli uccelli. Conosci quell’uccello che non ha né carne, né sangue, né penne, né piume? Mai si sa se morto o vivo, perché resta immobile nel suo colore d’oro e di latte? Salomone aggrottò le sopracciglia, il silenzio della foresta si fece più pesante, poi la sua risata scoppiò e si propagò sotto il fogliame. “Ho capito, Regina del sole, tu mi parli di un uovo.” Quindi, qual è quell’uccello che non si sa se sia vivo o se sia morto, senza carne e senza sangue, e lui risponde è un uovo. Un altro quesito, dice: “Dimmi, che cos’è che colpisce come un martello, ma resta invisibile pur sembrando nel soffio delle parole freddo o ardente?” Salomone risponde: “Tu parli del cuore, regina di Saba.”
Allora, c’è la parola e c’è la cosa, c’è un quesito che si pone, una combinatoria linguistica e qualcosa viene evocato. La questione della lingua, la questione della lettura, la questione dell’ascolto possono essere trascurate in nome di una presunta essenza scientifica? Se qualcuno va dal medico e dice: “Ho mal di cuore!” Di quale cuore si tratta? Del cuore metaforico, del cuore metonimico, di qualcosa che chiamato cuore e che riguarda il sentimento, l’amore, il cuore caldo, il cuore freddo? O riguarda il cuore in quanto organo? Di che cosa va a parlare al medico chi si rivolge dicendo, io ho male al cuore. E in che modo viene colta la sfumatura linguistica se la risposta va direttamente al senso comune? Quanto diceva Atti questa sera sembra introduca questa apertura, questa esigenza all’ascolto, questa esigenza che pone la parola e quindi la sua scienza, differentemente dalla scienza delle cose, dalla scienza del fatto, dalla scienza che apparentemente propone qualcosa che è.
Anche vari aspetti che lui ricordava prima in questa combinazione fra l’antropomorfismo della scienza e l’antropomorfismo della religione è qualcosa che veramente invita a riflettere. Perché se non teniamo conto della lingua, se non teniamo conto della parola, se non teniamo conto di questa tensione linguistica con cui qualcosa si annuncia, allora noi possiamo veramente credere che c’è un dio agente: c’è dio che dà l’ordine allo Scrovegni di dare la sua chiesa in cambio del suo pentimento o che allora, questa cappella viene eretta in uno scambio tra Dio e l’uomo, in cui Dio fa le cose, l’uomo ubbidisce, cioè in una rappresentazione infantile, assolutamente infantile. Così come è infantile il commento che nella visita a Giotto viene rilasciato, anche nel video che abbiamo visto, in cui appunto tutto è antropomorfizzato e non viene tenuto conto, invece, di questa pittura che si svolge in un’altra era, in una condizione di vita assolutamente particolare.
E di questo non viene detto nulla, né di come era la città, né di come si svolgeva la vita, di come questo pittore dunque si trova a operare, non in qualcosa che vediamo adesso dopo essere scesi dal taxi, ma in una condizione di vita che è di quella età. Di questo non se ne parla, c’è una traduzione di quell’arte in termini infantili, come se chi va a vedere queste opere debba essere convertito a una forma di paganesimo religioso per credere a un idolo che deve mantenere la sua posizione, senza tenere conto del messaggio di questa pittura. E così è la scienza, antropomorfismo religioso da una parte, antropomorfismo scientifico dall’altra, e chi ci rimette è chi ci crede, senza che possa intervenire la crisi ossia il giudizio, come diceva prima Atti, che impedisce alle cose di essere attaccate in una sorta di stabilità che mai non si trova, perché ciascuno può fare l’esperienza di come invece la complessità non sia riducibile al modo di essere.
Ecco, mi pare quindi che il contributo di Atti questa sera sia stato rilevante e comporta veramente moltissime riflessioni. E se c’è qualche domanda o annotazione ulteriore che qualcuno vuole fare mi pare che per qualche minuto si può chiedere a Alessandro Atti un supplemento di generosità. Ci sono domande?
Emanuela Macario Lei prima ha parlato dell’algebra e della geometria e di tutti questi scienziati, chi non trova il problema da risolvere, chi non la può utilizzare ecco, mi chiedevo se hanno valore nella vita o se siano di giochi e basta, come dei giochi di parole. Ne ha parlato come una cosa che veniva lasciata lì!
Cecilia Maurantonio Brevissima. Cos’è che interviene? Lei prima ha detto che il tempo interviene come divisione; perché, che cos’è questo istante, questa divisione tra la notte e il giorno?
Lucio Panizzo Mi sembra che in questo percorso che ha tracciato Atti della questione della scienza qualcosa resta, che ci sia un resto e quindi un punto di domanda e che secondo me, qui, si pone la questione dell’oggetto, cioè della provocazione di questa scienza. Non c’è un fatto certo, ma c’è qualcosa in atto che pone la questione del viaggio e quindi la questione dell’oggetto, della provocazione, del sembiante che poi Armando Verdiglione elabora in termini precisi. Ecco, la domanda è la questione della ricerca scientifica e quello che rilascia.
R. C. Per concludere lasciamo a Alessandro Atti di rispondere a queste tre domande.
A. A. Quello che veniva chiesto dell’algebra e della geometria certamente ha a che fare anche qui col resto. John Nash non riusciva a trovare quel che cercava. Queste intelligenze cercano sempre la risposta a qualcosa che viene continuamente rilanciato. Certo, che cosa resta? Resta che con l’algebra e la geometria non si arriva da nessuna parte. Come dicevo prima, noi siamo abituati ormai a questi calcoli che arrivano al miliardesimo, al supermiliardesimo, quindi la generalità del problema viene risolto con un l’uno, il due, con lo zero.
In effetti, quasi tutti i calcoli che vengono fatti a posteriori, ci si rende conto che possono essere fatti molto più grossolanamente, quindi è chiaro che quando mi si chiede che cosa sia l’algebra e che cosa sia la geometria mi si chiede che cosa sia questa che io poi ho chiamato la creatura. Einstein aveva costruito questa creatura, perché? Perché c’erano Levi Civita e Ricci Curbastro che avevano costruito questa creatura, avevano costruito il calcolo tensoriale che non si sapeva come usarlo, però era bello matematicamente, era una cosa splendida, magnifica. Tanto che Einstein non sarebbe stato in grado di fare le sue equazioni e allora, grazie a questa creatura, lui ha costruito la sua creatura, quindi, è forse anche, come diceva Panizzo, questo resto è un qualcosa che si dovrebbe riuscire a riempire di qualcosa e invece non è possibile.
Lui ha accennato all’oggetto. È chiaro che noi in cifrematica diciamo che l’oggetto è lo specchio, lo sguardo e la voce, è una definizione assolutamente inconsueta e allora uno pensa allo specchio che è lì davanti. Lo specchio in realtà è invisibile, non è quello che noi vediamo lì, quindi c’è questo oggetto, ma non è quello. Per esempio, riflettevo che il discorso paranoico che in pratica è in grado di tollerare qualsiasi cosa, però dice: “se ti becco in contropiede sei fatto”. Questo sarebbe un po’ il discorso paranoico: se ti becco in contropiede e in contrappasso, noi diciamo, perché io parlo con qualcuno, sono affabile, ecc. ecc., però, se dice una parola “fuori luogo…”, per quella parola succede il finimondo, c’è il blocco.
Come mai il tempo, diceva Maurantonio, viene interpretato così dal discorso paranoico. Fino a quel momento il nostro rapporto è stato bellissimo, poi improvvisamente il tempo si interrompe, è come se intervenisse il taglio. “Basta, non c’è più nessun rapporto tra me e te. Adesso il nostro rapporto è chiuso ad infinitum”. Non è che il discorso paranoico dica: “abbiamo litigato, domani…, no, basta, è chiuso”. Se rincontri il paranoico non ti guarda più in faccia, va per la sua strada, non ti guarda più, è finito, è interrotto per l’eternità il tempo. Quindi c’è questo tentativo di sostituirsi al tempo, tagliando, ma quando? Quando lo specchio diventa visibile.
Il discorso paranoico è completamente sicuro che lo specchio è invisibile, però ti dice: “Se ti vedo sei finito.” Come dire, se ti becco in contropiede, come dicevo prima, ecco il contrappasso. Cioè, lo specchio, il discorso paranoico sa benissimo che non è quello. In cifrematica noi chiamiamo lo specchio, il tu. La cifrematica costruisce una teoria assolutamente più evoluta di questi, come Einstein che spera di vedere il regolo, la misura, le distanze spaziali. Invece no, quella dello specchio, come la struttura, diciamo, prima dell’oggetto. E dice però che lo specchio è invisibile, non il pezzo di vetro che abbiamo lì. Però lo chiama tu, perché sei tu che sei stato visto, se ti vedo sei fatto. Come dicono i francesi (in francese): “Vedo dove vuoi arrivare, (ancora in francese), capisco che tu vuoi arrivare qui.” Come dire, se nel discorso io ti vedo, il tempo a questo punto interviene come un taglio.
Diciamo che è un tentativo un po’elementare per dare una risposta a Maurantonio. Però resta, come notava intelligentemente la prima intervenuta, che noi qui abbiamo fatto una specie di critica a Einstein che è così grossolano nella sua descrizione. Però lui ha costruito questa creatura e ci si chiede cosa sia, perché adesso succederà che veramente trovano il buco nero e allora, come mai? In pratica è sempre la questione di Vico che dice: “Noi chiamiamo con le parti del nostro corpo le cose, così le capiamo.” Quindi loro troveranno il buco nero, se non l’hanno già trovato, sempre a livello che non possa essere visto.
Questa che non è propriamente la scienza, questa è una specie di tecnologia stranissima che noi costruiamo attraverso lenti, stetoscopi, varie apparecchiature elettroniche, che è la scienza che noi conosciamo. Poi c’è la medicina che vede addirittura certi tessuti cellulari, ma per vederli col telescopio elettronico deve distruggerli e dopo averli massacrati sono morti, io li vedo! Il raggio luminoso a certi livelli li uccide.
R. C. La medicina è riuscita anche a dare un premio Nobel a chi ha inventato il prione che non si è mai visto. Il prione sarebbe l’agente causale della malattia di Creutzfeldt Jacobs, che sarebbe la cosiddetta malattia della mucca pazza. L’agente causale sarebbe il prione. Il prione nessuno l’ha mai visto, però è stato inventato e la sua invenzione ha comportato un premio Nobel. Questo accade nella scienza canonica. Il prione esiste? C’è il prione. Funziona?
Questa è una questione scientifica, linguisticamente sicuramente esiste, linguisticamente c’è. Sostanzialmente la scienza ci dice che non è rilevante che ci sia, sostanzialmente. È rilevante che ci sia linguisticamente. È un aspetto, è un messaggio, è una questione che la scienza rilascia, e soprattutto ci rilascia questa sera la testimonianza di Alessandro Atti che ringrazio infinitamente per aver accolto il nostro invito e di essere stato qui.
L’appuntamento per questa serie di dibattiti è fra quindici giorni, giovedì sedici aprile, in cui interverranno Domenico Lavermicocca, giurista e scrittore e Michele Marin, medico, ricercatore, scienziato, intorno al tema l’intellettualità e il piacere, quindi un incontro che verte su diritto, medicina, scienza e che si preannuncia molto interessante. Tra qui e il sedici aprile, giovedì prossimo, si inaugura la serie “L’amore e la crisi”, che si tiene alla sala Polivalente di Santa Maria Assunta, quindi non qui, ma alla Guizza, di fronte al cinema Porto Astra, alle ore 21. Chi volesse ulteriori indicazioni trova la cartolina che può essere ritirata e fungere da ottimo promemoria. Allora intanto ringrazio ciascuno di voi per aver accolto questa nostra proposta e di essere stato qui con noi questa sera. E ricordo che in fondo alla sala sono disponibili alcuni numeri della collana “La cifrematica” e di altri volumi. Sicuramente, leggendo questi volumi, lo spirito vola alto. Grazie.