
La maschera, la donna, lo specchio a Padova
- Bandinu Bachisio, Ruggero Chinaglia, Segato Giorgio, serafina Mascia
Venerdì 22 ottobre 2004, alle ore 18,00, nella Sala Rossini dello Stabilimento Pedrocchi, in Piazzetta Pedrocchi a Padova, l’Associazione cifrematica di Padova, il Circolo Culturale Sardo Eleonora d’Arborea di Padova e l’Università internazionale del secondo rinascimento, con il Patrocino della Regione del Veneto e del Comune di Padova, in occasione dell’uscita del libro La maschera, la donna, lo specchio, edito da Spirali, presentano la conferenza con dibattito di Bachisio Bandinu, antropologo, giornalista, scrittore.
BACHISIO BANDINU
La maschera, la donna, lo specchio
coordinata da
Ruggero Chinaglia, cifrante, editore
con interventi di
- Serafina Mascia, presidente del Circolo culturale sardo Eleonora d’Arborea di Padova
- Giorgio Segato, critico d’arte
Ruggero Chinaglia Buonasera. Incominciamo questo incontro con Bachisio Bandinu, scrittore, saggista, antropologo, intellettuale che viene dalla Sardegna e che ha scritto, tra gli altri, questo libro, La maschera, la donna, lo specchio, pubblicato dalla casa editrice Spirali. Questo è il pretesto che ci consente questa sera di averlo nostro ospite, nell’ambito anche del progetto culturale La questione intellettuale a Padova, città del secondo rinascimento, promosso dall’Associazione cifrematica di Padova, in collaborazione con l’Università internazionale del secondo rinascimento.
La questione intellettuale è la questione della parola originaria, la questione dell’intellettualità nella parola e della logica particolare a ciascuno. Vedremo come e perché questo libro si situa in questo contesto, perché attraverso la maschera dell’antropologia, e a partire dalla esplorazione delle tradizioni sarde e non solo, giunge a un’invenzione straordinaria.
Questo avvenimento è organizzato in collaborazione con il Circolo culturale sardo di Padova Eleonora d’Arborea, e è alla sua presidente, Serafina Mascia, che cedo la parola per il suo intervento. È qui con noi anche Giorgio Segato, notissimo a Padova, critico d’arte e non solo, che non ha bisogno certo di presentazioni e che ringrazio di essere qui.
Serafina Mascia Buonasera a tutti. Il circolo sardo è lietissimo di essere stato coinvolto per collaborare alla organizzazione della presentazione dell’incontro con l’autore Bachisio Bandinu. Per noi sardi Bachisio Bandinu è un intellettuale, cresciuto in Sardegna, che, come molti di noi, ha attraversato il mare, ha continuato la sua attività lavorativa e la sua formazione al di là del mare; poi è tornato in Sardegna, continuando e mantenendo la sua missione di esplorare, di illustrare la nostra cultura, cultura intesa in senso ampio, quindi cultura fatta delle persone, dei loro rapporti con la natura che li circonda, con le questioni della vita. È un intellettuale che porta avanti l’identità sarda attraverso le sue opere, i suoi libri, ma anche spendendosi nel teatro, nella musica, valorizzando queste arti nella Sardegna, in lingua sarda, e portandoli in giro per il mondo, facendo anche da scopritore di altri giovani.
Proviene dall’insegnamento, quindi la sua attenzione verso i giovani sardi è intrinseca nella sua personalità, e il libro che lui ha scritto, che noi molto amiamo, è Lettera a un giovane sardo, dove presenta questo problema dell’identità, che arriva da un passato che bisogna continuare a conoscere, a cui bisogna tenere, ma che dev’essere un passato che va a integrarsi, va a svilupparsi nel futuro, negando quindi il fatto o l’idea che essere legati alle proprie tradizioni, conoscere le proprie tradizioni, amare la propria terra possa essere un qualcosa che si vive come dualità, diversità da ciò che è la realtà odierna. Ecco, nel suo libro noi abbiamo trovato tutti questi temi.
Quello che presentiamo stasera è un libro molto complesso, che va letto con attenzione e che però ha il merito proprio di portare all’attenzione della cultura italiana la nostra specificità. Penso che gli interventi successivi illustreranno i contenuti di questo libro. Noi, io, come sarda che vive al di fuori della Sardegna, mi ci sono ritrovata e ho ritrovato i temi dei nostri incontri, nel nostro vivere insieme, comunità sarda a Padova, e a operare, essendo profondi conoscitori della propria cultura, dalla quale si proviene, per mantenerla, ma nello stesso tempo volere confrontarci, integrarci, nel senso del confronto, dell’accettazione dell’altro, per costruire un’altra identità, che è sempre un’identità nostra, personale, sarda, ma è un’identità ancora più ricca perché contiene gli altri, contiene le diversità regionali che noi qui abbiamo incontrato.
In questo libro Bandinu tocca e arriva al discorso dell’interculturalità, che è un tema che a noi sta sempre molto a cuore e che abbiamo vissuto e che continuiamo a vivere con le nostre esperienze e vorremmo che fosse un bene, una esperienza aperta agli altri, dalla quale partire per incontrare sempre nuove culture che si muovono, perché questo è un po’ il destino attuale dei mondi e dei popoli: muoversi e incontrarsi. Quindi, conoscendosi e rispettando la propria cultura e quella degli altri, noi ci prepariamo a affrontare questo tema universale, questo tema molto antico, ma molto attuale. Grazie. Cedo la parola.
Giorgio Segato È stato detto da subito che è un libro molto complesso. E io voglio ringraziare in apertura l’autore, perché è un libro scritto in maniera appassionata e appassionante, un libro che è, sì, complesso e difficile sotto alcuni aspetti, specie per un veneto – anche se ho una certa abitudine e frequentazione della Sardegna – ma non mi era mai capitato di trovare un testo così ben tessuto e così ricco di momenti.
Mi aspettavo, quando Ruggero mi aveva chiesto di presentarlo, un libro sulla maschera e che ci fossero soprattutto delle connotazioni storiche e estetiche. Invece è un libro sulla cultura sarda, sulla tradizione sarda, sulle tre maschere, forse, fondamentali della Sardegna, sul significato che hanno queste maschere nella tradizione e quale capacità di mobilitazione – e è veramente notevole e leggendo il libro questo si coglie – hanno in rapporto al presente e al futuro, al tempo, alla dimensione temporale.
Sono rimasto sorpreso poi anche dallo stile, una affabulazione libera da un punto di vista sia formale, sintattico, grammaticale e ricca dal punto di vista linguistico, nell’italiano, arricchito poi dai continui riferimenti e emergenze sarde, della lingua sarda, come punti di riferimento fondamentali della cultura personale e come esplicazioni di determinati elementi relativi alla maschera, relativi alla funzione della maschera, al modo di mascherarsi, che non passa soltanto attraverso l’oggetto del mascheramento, il costume, la divisa, ma assume aspetti quanto mai diversi e, soprattutto, passa attraverso la parola.
La parola diventa la maschera, la parola è la maschera, la parola è come noi ci rapportiamo al mondo, alla vita, alla realtà, agli altri e continuamente, in maniera estremamente originale, per usare una parola alla quale l’autore tiene moltissimo, originale e originaria, come modo di rapportarsi continuamente diverso, metamorfico, al mondo, alla realtà, molto spesso a noi stessi. I tre momenti sono, poi, quasi le tre maschere: la maschera vera e propria, la maschera totale, la maschera corporea, quella dei Mamuthones, che non solo è maschera, mascheramento corporeo e quindi una sorta di entrare in un corpo altro, in un corpo animale, essere l’animal, come dice Bandinu, ma anche emette il suono.
Il suono è un allarme di parola, di discorso, vuole essere l’allarme di un discorso, vuole suscitare l’attenzione, l’ascolto, creare spazio attorno a sé, così come una sorta di balzo, di salto laterale che è l’evidenziazione degli ostacoli della vita come ostacolo continuo che la maschera rappresenta con questo suo modo di attraversare lo spazio e di crearsi spazio, perché lo scarto crea uno spazio ulteriore, rispetto a quello lineare che si percorre. Quindi è, sì, l’evidenziazione di una difficoltà esistenziale, ma è anche il superamento di questa difficoltà attraverso la creazione di uno spazio ulteriore, con una possibilità di movimento differente.
Poi la donna, i rapporti con la donna. La donna non è adatta alla maschera, questo per la tradizione, perché è già animale-dio, è la capra. Elenca poi tutti quelli che sono i malanni, i mali, i difetti della donna. Naturalmente questa elencazione è un’elencazione dell’opposto, cioè evidenziando i mali si evidenzia quello che nell’uomo, nell’ideologia del maschio, la donna rappresenta, quindi la donna brutalmente animalizzata e la donna divinizzata, con tutte le qualità sublimi, perché c’è questa ricerca continua del superamento e del sublime.
Quindi lo specchio, che diventa la maschera della cecità, come è nella realtà di Oliera, mi pare, rappresenta sempre l’oscuramento, l’impossibilità di vedere e di impedire ogni possibilità narcisistica dell’uomo nei confronti di se stesso e rimanda tutto a una consapevolezza interiore, a una coscienza interna, che è il fatto fondamentale della cultura: qualsiasi cultura si valorizza, assume valore dalla quantità di coscienza che uno ha della propria situazione e della propria condizione. E mi pare che sia proprio una delle frasi sarde che l’autore cita, dove si dice che, sì, è uno che sente qualcosa, ma non ha abbastanza coscienza. Quindi sente ma non capisce. La coscienza è la capacità di comprensione e di immedesimazione con se stessi. Tutto questo attraverso proprio lo specchio, attraverso l’idea dello specchio.
Attraverso l’idea della donna c’è tutto il tessuto sociale sardo che emerge prima di tutto, come diceva giustamente la presidente, che parlava di una situazione che però poi si apre.
Direi che la cultura dell’autore è internazionale, è una cultura di ampio raggio, ma profondamente radicato nella cultura sarda, per cui ogni punto di partenza è sardo, nelle radici, nella memoria, nelle tradizioni sarde. I personaggi di cui racconta parte delle storie personali, Franziscu, Anghèlu, sono sardi e vivono, nei suoi confronti e nei confronti della realtà, tutte le tensioni della cultura sarda originaria, propria dell’isola, insulare. E riporta l’esempio dei rapporti con la realtà che viene da fuori: Anghèlu e il rapporto con la RAI, con lo spettacolo, con la televisione, il rifiuto dell’immagine che la televisione gli ha trasmesso, quindi la capacità dei mezzi di comunicazione di massa di impoverire, di pauperizzare l’aspetto culturale, che anche una persona non di elevata cultura come lui, invece, percepiva nell’immagine che veniva trasmessa.
La maschera diventa un pretesto anche per parlare del tempo. Ci si chiede: che cos’è la maschera? Da che cosa deriva? La maschera è da sempre e sarà sempre, e è un mistero da che cosa derivi, quindi non è un semplice mascheramento. Non è nemmeno il contrario del mascheramento, perché “maschera”, originariamente, ha il significato di persona, di personalità, di qualche cosa che viene messo in evidenza, un carattere che non si nasconde ma che è interpretato, è evidenziato: la maschera teatrale non nasconde l’espressività, la aumenta e diventa la rappresentazione di una figura.
Ci sono però anche le maschere che nascondono, che cercano di tenere segreto: la maschera sarda è soprattutto qualche cosa che nasconde. Ecco anche qua tutto un tessuto collegato con la società, il modo di parlare, la lingua sarda come lingua originaria, che si basa sulla negazione continua, il negare le cose diventa una necessità esistenziale. Una donna viene chiamata Zia Nono, proprio perché continua a negare sempre. E perché negare? Porta anche l’esempio dei processi per i rapimenti, per i furti, dove il colpevole nega sempre, anche in flagranza di reato. “Perché, dice, neghi sempre?”. “Perché se nego posso sempre dire che poi mi sono ricordato che era diverso. Se invece dico: ‘sì, ho fatto’, poi non posso più tornare indietro. Quindi ho un vantaggio, quello di potere arricchire la mia personalità, di creare una barriera, una difesa nei confronti dell’accusa, nella quale sono con me stesso”.
Quindi la negazione non come stato patologico dell’individuo, ma come stato di difesa, una sorta di corazza che uno si crea e, tanto più è forte, tanto più è forte l’individuo e tanto più riesce a tenere. Ecco allora il fenomeno – sono rimasto sorpreso da questi continui allacciamenti – della sodomizzazione, di quello che provoca e che si mostra nudo, perché ha abbassato la barriera e quindi non è degno di mantenere la sua dignità completa. Ecco allora la chiusura completa dell’individuo.
Io credo che i sardi ci si trovino: io ho girato molto la Sardegna, ho promesso che prima o poi farò il giro in bicicletta della Sardegna, è una cosa che mi sono ripromesso, ho fatto quasi tutto in macchina o in moto, ma in bicicletta è più bello.
Questo libro parla del presente, del passato e del futuro: il presente è una strozzatura, scrive, fra certezza del passato e incertezza del futuro. Del passato sappiamo com’è, del futuro non sappiamo niente, quindi è inutile cercare di prevederlo. E questo è tipicamente sardo: non si parla mai del futuro, bisogna sempre mettersi pieni di paura nei confronti del futuro, fasciarsi la testa prima che qualcosa succeda.
Questo mi ricorda una frase splendida di Lucio Fontana, l’artista dei tagli che conoscete tutti. Gli hanno chiesto che cos’è il taglio. Anch’io sono capace di fare un taglio, perché è stato preso in giro per 15 anni, Lucio Fontana, prima di essere considerato un grande artista, una persona intelligente. E proprio in una mostra a Milano disse: “Per me, il taglio che faccio è il sesso del tempo”. Rimasero tutti sorpresi. Il taglio è il diaframma tra il presente e il futuro. Il passato siamo noi, il presente è il diaframma della tela che viene squarciato, lacerato, penetrato. Questo senso del taglio, del diaframma come taglio temporale, e è proprio questo il presente, un taglio o una barriera tra passato e futuro. Squarciarlo vuole dire cercare di intravedere qualcosa del futuro e questa strozzatura mi ha ricordato questo.
Invece che una strozzatura, il taglio è un diaframma, ma non tanto come rappresentazione o come presentazione di qualcosa, piuttosto come gesto: “Quello che è importante del mio lavoro” – diceva Fontana – “non è quello che vedete ma quello che faccio”. È il gesto che fa, perché nel gesto c’è tutto il significato del rompere qualche cosa che è nella mia mente, che è nella vostra mente, e per passare oltre.
Cosa scrive Bandinu? Il futuro è vissuto come tempo di avvento, senza profezia, non ci possono essere profezie, come tempo immanente, senza trascendenza, come tempo di destino, senza predestinazione. Qualunque affidamento al futuro è senza fondamento. Anticipare il tempo è una follia: c’è fede, passione, lotta, ma non c’è speranza come prospettiva esplorabile. La stessa formula dell’augurio, che indica una felice possibilità, viene immediatamente esorcizzata come anticipo pericoloso che apre a una ambivalenza perturbante. Ecco, il futuro è l’angoscia del poter dire, del dover dire, del voler dire, del dire e del fare.
Poi Bandinu dimostra come anche nella lingua esista una difficoltà implicita a parlare del futuro. I tempi del futuro, nella lingua sarda, fanno fatica a venire fuori, non è una espressione diretta, è una costruzione per dire qualcosa che ho da fare, che dovrò fare, che dovrà accadere. Quindi il problema del tempo, che ci porta a considerare, proprio nello sviluppo del tempo, la parola come maschera e l’uso, il modo della parola, di essere della parola, di porsi della parola come rito, come rituale.
Anche rispetto a questo, nella prima parte, ma poi continuamente, torna sul problema della ritualità: che cos’è il rito? Che cos’è la maschera nel rito? Ecco allora un’altra scoperta, un’altra definizione interessante: tanto la maschera quanto la ritualità sono una traccia di percorso possibile, che danno delle emozioni, delle sensazioni nelle quali si può entrare e che, quindi, diventano forme di esperienza. Questo è molto vicino a quello che si dice in Oriente, in quello che è nella cultura giapponese, per esempio, dove ogni cosa, ogni oggetto, ogni azione diventa rituale, e quanto più rientra nel rituale, tanto più c’è esperienza esistenziale e filosofica insieme. Questo avvicina due mondi così lontani, proprio questa ritualità e questa consapevolezza della ritualità, e consapevolezza della ritualità della parola, per cui la parola deve essere pesata, deve essere sentita, deve essere vissuta fino in fondo, proprio perché rituale e perché, come si dice in tantissime culture e ancora oggi nella cultura sarda, la parola una volta detta non può essere ritirata, la parola una volta che è uscita è e basta, non può essere stata, sarà; è, e quindi ha un valore e un peso del quale bisogna tenere conto.
La parola però è attraversamento. Come nasce nella maschera? Dal corpo. Il problema è quindi nel rapporto con il corpo, la maschera e il corpo, la parola e il corpo, la parola e l’urlo. L’urlo è una parola impedita: verbum impeditum, dice l’autore. Cioè, non è, all’origine della parola, una parola che non è articolata o un suono che ancora non ha imparato a essere, è proprio un impedimento, un ostacolo all’articolazione della parola, alla comunicazione. E anche l’urlo è come il gesto dei Mamuthones, cioè un modo di fare spazio; è il dio che si fa sentire con questo urlo, con questo strepito, ma è anche un atto di creazione. E in molte culture primitive la materia nasce dal suono, dall’urlo, dal big bang, ma non solo: anche dal tamburo, dal tam-tam. E il tam-tam in molte culture diventa parola, è il linguaggio. Il tam-tam, in Africa, andava dal Senegal fino al Sud Africa, nel giro di tre giorni sapevano esattamente quello che era successo, attraverso il tam-tam. È una cosa che oramai si è quasi persa, ma nel Kiwu, nel Congo, fino alle regioni degli Zulu, ancora questo persiste, con momenti di interruzione, ma è straordinario.
Quindi, questo rapporto con il rito: il corpo nel rito, la maschera, il corpo, il rito che si sviluppa nel tempo e quindi il rapporto con il tempo, il passato, il presente e la difficoltà del futuro, come la difficoltà di deambulazione. La donna come l’altro, la maschera, quella che non può, che non ha neanche diritto di avere la maschera, ma nel quale c’è tutto, tutto il male e tutto il bene, quindi la figura femminile. Poi lo specchio come metafora, io la voglio chiamare metafora, anche se con questo libro è difficile parlare di metafore e di dire metafore. C’è, nello scrivere dell’autore, una agilità straordinaria, che ti porta in maniera molto rapida e elastica da un’immagine all’altra.
Ecco, lo specchio diventa ancora una volta pretesto per parlare dell’immagine, non soltanto delle immagini che appartengono alla cultura vicina, ma fino all’immagine tecnologica, facendo un’analisi della cultura e della società. Ecco perché è un libro estremamente ben articolato e soprattutto ben scritto, da un autore di cui cercherò di leggere qualcos’altro, sperando che sia a questo stesso livello; perché vi assicuro che è veramente una lettura rapida, ricca di suggestioni, di capacità suggestiva, di capacità di identificazione dei momenti culturali veri, proprio nel tessuto originario della cultura sarda. È un libro che senza la cultura sarda non potrebbe esistere.
Io non potrei, pur conoscendo abbastanza il Veneto e la lingua veneta, scrivere un libro di questo tipo, perché già molto della lingua veneta ha perso le radici fonde della cultura. Ci sono parole, ci sono gli “archeologi” della parola veneta, dialettale, ma le radici che andavano sotto e pescavano nell’humus più lontano delle origini della cultura non c’è più. Invece, nelle citazioni di Bandinu io le sento e le vivo proprio profondamente, cioè sono giustificazioni di un modo di vedere; non è soltanto “così pensavano i nostri nonni” ma: “io la penso così perché la nostra tradizione ci conforta anche proprio da un punto di vista linguistico”. Quindi è una restituzione importantissima che lui fa alla cultura sarda. Grazie.
Ruggero Chinaglia Ringrazio Giorgio Segato per il suo intervento molto generoso, ed è per questo che lo apprezziamo ciascuna volta che abbiamo occasione di sentirlo. Ma vorrei anch’io dare una testimonianza della lettura di questo libro prima di passare la parola a Bachisio Bandinu, come penso interessi a ciascuno di voi, anche non ignorando l’abilità oratoria di Bandinu, che ho avuto già l’occasione e il piacere di ascoltare in altre circostanze, dato che questo non è il nostro primo incontro, ma altre volte abbiamo avuto occasione di ospitarlo presso la Villa San Carlo Borromeo di Senago in occasione di alcuni congressi internazionali, e peraltro alcuni suoi contributi figurano in alcuni numeri della rivista “Il secondo rinascimento”.
Vorrei quindi dire, prima di passargli la parola, che ho trovato questo libro avvincente, interessantissimo, un libro straordinario per tanti motivi e anche, tra gli altri, perché nelle pagine di questo libro ho trovato l’eco di un’elaborazione intorno alla parola, la parola originaria, un’elaborazione che è in corso da oltre trent’anni da parte del movimento cifrematico, da parte di Armando Verdiglione e della sua equipe. E mi pare che in questo libro Bachisio Bandinu accoglie alcune proposte di questa elaborazione cifrematica e a sua volta le rilancia e dà un contributo assolutamente originale e di grande intelligenza, di grande respiro. Per cui per me è doppiamente interessante perché, come raramente capita, ho trovato echi di questa ricerca, di questo itinerario che è in corso da oltre trent’anni da parte del movimento cifrematico.
Questo libro è sicuramente un contributo alla Sardegna da parte di Bandinu, alla sua storia, al suo mito, alla sua civiltà, ma è anche un contributo a ciascuno. Leggendo il libro, il lettore trova una ricchezza infinita e il modo della vita del lettore sicuramente ne risulta trasformato: non può più essere lo stesso, ascoltando le indicazioni che vengono da queste pagine. È un libro senza naturalismo, senza gnosi, un testo che qualificherei educativo, nell’accezione originaria di educazione, se l’educazione procede da quello che Bandinu chiama lo “svezzamento linguistico”, che mi sembra un’immagine molto bella, molto interessante per indicare come ciascuno procede nel suo itinerario non già per un naturalismo, un’inerzia verso la sua predestinazione, ma per questo incessante svezzamento linguistico, di cui dà testimonianza riportando questi vari modi di dire della lingua sarda e che si traspongono in un’altra lingua, che non c’era prima della scrittura di queste pagine. È una testimonianza, mi pare, del viaggio che è in corso da parte di Bandinu nella parola, nell’arte, nella cultura della parola, nella sua civiltà, viaggio senza l’idea di ritorno. Già questa è la novità. Ciascun viaggio è gravato da questa idea naturalistica di ritorno all’origine. Ebbene, qui no. La stessa nozione di origine si sfrangia, si dissipa. Non c’è un’origine localizzabile, tantomeno questa prescrizione di dovere ritornare all’origine. Quindi è un viaggio senza fantasma di origine e senza genealogia, cioè, come nota in un capitolo dedicato proprio a questo, senza più fantasma materno, che, dice Bandinu, è il fantasma di morte. L’idea di dovere tornare all’origine è l’idea della morte, la rappresentazione della morte. Dunque, una scrittura senza nulla da dimostrare e il cui testo è senza una fine assegnata, senza la necessità di dimostrare l’assunto da cui parte.
Con l’analisi dei modi comuni più diffusi, dei modi comuni più consueti, delle tradizioni più seguite, Bandinu, con leggerezza, propone un altro modo delle cose, un’altra lingua, un’altra logica. Sin dalle prime pagine è constatabile che la logica del discorso comune, che è la logica del discorso occidentale e che costituisce quello che possiamo chiamare lo zoccolo duro dell’ideologia razzista, ebbene, questa logica viene messa in discussione; con piccoli tocchi leggeri, arguti, viene man mano proposta la logica della parola originaria, con la sua lingua, la lingua diplomatica: il terzo non è più escluso, il due è originario, non c’è più androgino.
Questo ha una portata incalcolabile nella vita di ciascuno, dove l’ideologia vigente prescrive la riunificazione, l’idea dell’unità, la predestinazione a questa unità da conseguire. No. Il destino di ciascuno è libero dalla prescrizione alla riunificazione, nessuna riunificazione da conseguire se il due è originario. Sogno e dimenticanza trascorrono in ciascuna pagina e la struttura onirica della parola è man mano riproposta attraverso l’analisi linguistica, l’analisi del modo in cui intervengono, parlando, metafore e metonimie, condensazione e spostamento, sineddoche, ironia, ossimoro, diniego, ellissi, iperbole, catacresi, varie figure retoriche che vengono introdotte nel testo nello statuto della maschera, per dire che non è possibile dire “pane al pane e vino al vino”. Il modo di dire più diffuso è che bisogna dire “pane al pane e vino al vino”. Bandinu dice no, la lingua sarda lo testimonia, la parola originaria lo testimonia, non è possibile dire “pane al pane e vino al vino”. L’insostanzialità della parola rende impossibile un significato stabile, un riferimento predeterminato. In ciascun caso occorre lo sforzo di capire, lo sforzo di intendere la lingua di Babele e la lingua della Pentecoste.
Dice: “Nessuna comprensione per trasparenza”. E lo dice nell’epoca della trasparenza a tutti i costi. È in assoluta controtendenza! E così, faveddare in suspu, parlare per nascondimento, non è più un modo per non farsi capire, ma è il modo originario, è il modo della parola. Non c’è altro modo che faveddare in suspu, perché la logica particolare non si può togliere, la piega che trae al caso specifico non si può appianare; la lingua è cifrale, non cifrata come vorrebbe l’ideologia dello svelamento, che è l’altra faccia dell’oscurantismo.
Che la lingua sia cifrale comporta la traduzione, la trasmissione, la trasposizione, l’ascolto, la clinica. Essenziale il silenzio nell’intervallo della parola che, come nota puntualmente Bandinu, non coincide con il mutismo o con il non parlare o con il non dire nulla, ma è il silenzio strutturale, è il silenzio dell’assenza di fondamento, dell’assenza di riferimento ideologico, dell’assenza di genealogia. La libertà della parola dissipa ogni idea di predestinazione e il tempo interviene come tempo del destino, senza predestinazione.
Ironica e essenziale la conclusione del libro, con la sua nota bibliografica, che si conclude con questa frase: La parola non appartiene a qualcuno, non è mai propria. È sempre originaria perché procede nel tempo e continuamente inventa qualcosa nella ripetizione.
Bellissime le pagine del capitolo La donna. La donna, come la parola, procede dall’integrità originaria, integrità ossia intangibilità dell’intero. Nulla può essere tolto all’intero. L’intero è intero perché nulla può essere tolto, dunque non può essere toccato e nulla può essere tolto all’Altro. La questione dell’integrità è qualcosa di straordinario perché, instaurata l’integrità per ciascuno, non c’è più da avere paura. Questo è un messaggio straordinario, che instaura la tranquillità senza bisogno di psicofarmaci, e non è cosa da poco. E riecheggiano in queste pagine, con la questione dell’integrità, le parole di Cristo riferite da Luca nel sepolcro dopo la resurrezione: “Noli me tangere”, non puoi toccarmi, nulla può toccarmi, nulla può intaccare l’integrità.
Così, l’integrità originaria della donna impedisce di fondare l’ordine sociale e la garanzia dell’addomesticabilità della famiglia e delle cose. E, con l’integrità, si spalanca un’altra scena, un altro ordine delle cose: non tutto può essere detto, non tutto può essere visto. L’immagine è invisibile nella sua integrità e non può essere conosciuta, né toccata, né fissata. L’immagine è ignota. L’immagine ignota è l’immagine originaria, la cui visione richiede la lettura da parte di ciascuno, perché non può essere condivisa.
Non c’è la vista dell’immagine, ma una visione in cui ciascuno vede a modo suo qualcosa e non tutto, perché l’intero è “non tutto”. Con l’integrità segue un altro statuto del corpo, come corpo in gloria, un altro statuto della salute senza più psicosomatica. Non c’è più conoscenza, non c’è più discorso scientifico come metadiscorso.
Nella traversata in atto, per Bandinu, ciascuna cosa è pretesto per la sua qualifica. Ciascuna cosa è maschera e in maschera, è nello statuto intellettuale senza presentificazione, senza rappresentazione, cioè nella sua attualità. Nulla è presente, nulla è presentificabile, nulla è rappresentabile; ciascuna cosa è nell’attuale, cioè è nel suo viaggio inarrestabile, quindi non è mai identica a se stessa. Da qui, la dissipazione del ruolo come ruolo sociale, del personaggio come personaggio sociale o genealogico, dunque la dissipazione della personalità e della psicopatologia. Come litigare con la maschera? Come prendersela con la maschera? Come demonizzare la maschera? Solo con queste cose si instaura un altro pianeta, un’altra vita per ciascuno. Ciascuna cosa infatti sta nella parola, nella sua materia intellettuale, e la Sardegna diviene un’altra regione del cielo. Grazie.
Bachisio Bandinu Grazie per la vostra presenza e per questa occasione che mi date di comunicare, di metterci in relazione. Grazie a chi ha organizzato questo convegno così vissuto, in questa bella sala. E mi ha colpito questa lettura profonda: posta una distanza tra Veneto e Sardegna, mi ha colpito questa lettura profonda del professor Segato, questo sguardo da lontano che entra proprio dentro l’articolazione della cultura sarda, con una pertinenza davvero impressionante. E questa lettura ora del professor Chinaglia, per cui si libra questa presenza inquietante, una lettura cifrematica, una interrogazione. E ancora, alla presidente Mascia, che ha avuto parole un po’ troppo esaltanti del mio percorso culturale, ci tenevo a dire che io sono stato presidente del Circolo degli emigranti di Varese, quindi che ho vissuto sempre questa esperienza del vostro universo e dell’universo dell’emigrazione.
Come avviare il discorso? Non è facile uscire dal libro per me, creare un distanziamento per procedere in questo atto di parola. Ma vi proporrei: che differenza ponete tra la faccia, il volto e la maschera? La faccia: “Ma che faccia!”.
La faccia è qualcosa di somatico, di muscoli, carnagione, tensione, nervi, eppure ha un valore simbolico, a volte. “Ma guarda che faccia quel tipo!”, “Bella faccia!”, che non vuole dire la fisionomia o la fisiognomica, forse qualcosa d’altro. “Perdere la faccia”. E il volto? “Bisogna scoprire il vero volto di quella persona…”. E che cos’è questo volto? Perché? Ci sono volti falsi? Qual è il volto vero? Come se occorresse scoprire veli, o entrare da ladro, sottilmente, dentro la persona, per coglierlo quasi in flagrante: “Eccolo, il volto! È lui! Adesso ti ho scoperto!”.
Perché è difficile scoprire il volto? Ma perché c’è l’uso di infinite maschere. Quali sono le nostre maschere quotidiane? Quando ci alziamo al mattino quale maschera prepariamo più immediata per andare in ufficio, per andare al lavoro, per presentarci davanti agli altri? Che tipo di maschera? Una maschera di autoriconoscimento? Un trucco? Riempiamo il taglio per rendere la carnagione uniforme, piana, morbida come le carni di bimbo e per occultare il taglio del tempo nel volto, la ruga che dice una nostra storia, e così ci presentiamo con un volto liscio e morbido? Questa è una prima maschera? Che tiene? Tiene tutta la giornata? E no, mi devo rifare il trucco, mi devo ridefinire come maschera. Una maschera per ciascuna occasione? Una maschera autoritaria, in certi momenti: “Eh, ne va di mezzo la mia personalità”. Maschera-persona. O una maschera benevola? Seducente? Una maschera morbida? Arrendevole?
Provate a osservare questa molteplicità e questa moltiplicazione delle maschere d’uso quotidiano nella vostra esperienza di relazione e interrogatevi quale rapporto, in ciascuno di voi, possa intercorrere tra faccia, volto e maschera. Maschere. Ora avviene che, per riferirmi a alcune esperienze, la maschera della Carnia, dicevo ieri in Friuli, non risponde a questa trilogia, a questo modello faccia /volto /maschera. E in un convegno, ricordo, a Lignano Sabbiadoro c’era la sfilata di queste maschere austriache, tedesche, slovene e mi colpì la maschera della Carnia.
La maschera del Mamuthone, la maschera del Merdule, del Thurpu non sono nell’ordine dei mascheramenti, cioè non sono nell’ordine del mio consapevole atto di mascherarmi, di attribuirmi qualcosa che prendo dall’esterno – io, soggetto dominante, operatore della scena, prendo la maschera e mi maschero in un modo o in un altro – perché la maschera cade addosso all’uomo nel tempo, senza che abbia consapevolezza e coscienza di mascherarsi. Forse per prendere attraverso la maschera psicologie, stati d’animo? No, non è la maschera della Commedia dell’arte, non è Arlecchino servitore di due padroni, o L’avaro, o Pantalone o Brighella; non è la maschera che rimanda a una tipologia, a un tipo psicologico o anche, più che a un tipo, a un personaggio che comunque ha da mostrare – diceva bene il professor Segato – non nascondere, ma accentuare una caratterizzazione psicologica: la maschera tragica della Sardegna centrale non risponde a un’esigenza psicologica, non vuole dire nulla, non nasconde dietro di sé uno stato d’animo, una caratterizzazione, tant’è che voi potete dire come dicono i turisti: “Per cortesia, si tolga la maschera, che voglio vedere il volto”, o peggio, “Si tolga la maschera che così vedo chi è per davvero”, non rendendosi conto che dietro quella maschera c’è un’altra maschera, che è in gioco l’infinito, che non c’è lo svelamento, che non c’è: “Chi sei, mascherina?”. Avete visto per il carnevale, in Sardegna, per una tradizione di violenza e di omicidi al carnevale, attraverso il camuffamento, ci si presenta al banco e al responsabile si fa vedere il vero volto, e poi ci si rimette la maschera e si entra nella sala da ballo.
Non c’è qualcosa dietro la maschera e bisogna tentare di osservare attraverso la maschera, dentro la maschera, ma senza l’obiettivo di smascherare, di decifrare, di spiegare, di trovare la persona vera. Invece è inquietante questo rapporto maschera-persona, perché noi potremmo dire: “Ma ciascuno di noi ha questa maschera”. Non le maschere dell’occasione, della contingenza dell’esperienza quotidiana di vita, ma una maschera radicale, originaria. Che non sia quello il vero volto enigmatico di ciascuno di noi? E comunque rimane questa inquietudine del rapporto nostro tra faccia, volto, maschera.
In Sardegna è accentuato questo processo di mascheramento, nel senso non di una consapevolezza ma di un procedimento che è nella struttura del vivere senza la coscienza di mascherarsi, per esempio nel linguaggio. Diceva il professor Segato: noi neghiamo sempre, noi per affermare neghiamo, noi non diciamo mai “Antonio è intelligente”, ma diciamo: “Eh, no es tonto Antonio” (eh, Antonio non è tonto). Ma perché non dire: “Antonio è intelligente”? È lineare, è diretto. No, nel linguaggio sardo c’è il “mandare a dire”.
Il mandare a dire significa che la parola opera un processo di rimbalzo, come su una sponda del gioco della carambola. Per poter cogliere il segno deve in qualche modo allontanarsene e percorrere una traiettoria obliqua e ancora obliquamente entrare nella buca, o sbagliare. E allora osservate voi il modo di procedere della negazione o per esempio del parlare in suspu, cioè del parlare occultando, dove l’ascoltatore è impegnato in una tensione per decifrare ciò che non va da sé e non è decifrabile immediatamente. O la terribile frase sarda: “Tu averes cumprennere, prima de ti la narrere” (“tu devi capire prima che io te lo dica”); se capisci una volta che ti dico: “Eh, sei tonto”, voglio dire, tutti capiscono! No, tu devi capire prima che io te lo dico, perché tu devi sapere leggere il sintomo.
Diceva Michelangelo Pira: “Leiere sos sinnos”, nel teatro che abbiamo dato a Verona l’anno scorso, dove erano presenti molti di Padova. Quindi, c’è questo rapporto col tempo e con la parola e col tempo nella parola e con la parola del tempo che procede, molto enigmatico e molto instabile. Noi non diciamo, per esempio, “quando morirai”, ma “quando avrai da morire”, “quando potrai dover morire”. Ma, un momento: perché ci metti un verbo ausiliario e due verbi servili e non dici direttamente “quando morirai”? Ma perché c’è un processo col tempo e con la morte, col futuro, perché è col tempo futuro l’enigma; per cui noi procediamo per trasgressione, per procedimenti obliqui, per intrattenimenti labirintici, perché il tempo è enigmatico, non possiamo organizzare il futuro, nella struttura profonda del procedere linguistico sardo. Quindi si va sempre col congiuntivo e col condizionale. “Eh, si avria poter essere…”. Noi non usiamo mai il presente indicativo, così, immediato, il presente indicativo è terribile, è problematico; o usiamo il passato prossimo, che è un passato sicuro e noi diciamo “ho visto”, “ti ricordi quando abbiamo vissuto…”, e quello è sicuro perché è collocato in una dimensione del passato, fa parte di un segmento temporale ben calcolato.
Il presente ci pone in crisi, perché il presente… Non diciamo “io vado”, ma “io sto annanne”, “io vi a pòtere annare”. Un momento: ma perché ricorri a questo percorrimento labirintico, invece di dire semplicemente “vado”? Qualcosa si pone di traverso, dunque, qualcosa si pone come ostacolo, come rimozione, come resistenza, come pulsione bloccata? “Io potrei anche finire”. Il congiuntivo, perché? Perché il congiuntivo è il tempo della possibilità, non della certezza; il condizionale garantisce da tutta una serie di “a condizione che…”.
Quindi io, davanti a un uso di congiuntivo e condizionale nella stessa frase, sono davvero in un tentativo di orientarmi, perché sono in una inquietudine radicale e non posso definire, non posso organizzare, non sono padrone del tempo, non posso anticipare il tempo. Si dice a uno che vuole anticipare il tempo: “Poveretto, quello crede di dominare il tempo”, “quello crede di essere il tempo”, poveretto, e non lo sa che il tempo non è addomesticabile, che il tempo ne sa più di lui, che il tempo non è governabile. Perché, nella cultura sarda, c’è questo taglio, c’è il canto e il ballo tropeitu. Tropeitu vuol dire che ha la tropea (pastoia), è come il passo tropeitu del Mamuthone. Avete visto che il Mamuthone fa un saltello a destra e contorsione a sinistra, un saltello a sinistra e torsione a destra: è come se le gambe avessero le pastoie. Quindi c’è un salto, tra piede e passo, non c’è un percorso normale, c’è un salto es tropeitu; c’è il verso tropeitu, il verso tropeato.
Nell’improvvisazione in versi della cultura tradizionale sarda, nella improvvisazione estemporanea c’è una inversione, una trasposizione del verso, s’istirra, tesa, torrata, continuamente giocato in un ritorno della rima, in un ritorno delle parole invertite, dove una parola che era prima diventa seconda, poi diventa terza, poi ridiventa prima in un gioco infinito combinatorio e travolgente, inventato dal poeta sullo stesso momento in cui canta. La poesia nasce così, da un tema dato un secondo prima dalla giuria.
Su ballu tropeitu, cioè, anche a che punto questo ballo sardo che, avete visto, è travolgente, improvvisamente in questo ballo tropeitu c’è un blocco, onirico, come quando voi sognate che non potete muovervi. Cos’è questo blocco? Cos’è questa tropea che anima il linguaggio, che anima il ballo, che anima il canto, che anima la parola, che anima la relazione, che fonda la negazione? Addirittura il diniego, la negazione, “non sono stato io”. “Come non sei stato tu?”, ma lo si manifesta chiaramente, c’è un documento, no… Mio padre, alla fotografia che gli ha fatto il fotografo del mio paese rispondeva: “Io non te la pago questa foto, questo non sono io. Tu sei il fotografo del paese? Non c’è arte! Ma ti pare che questo sono io?”. Ma non scherzando! Mamma scherzava dicendo: “Eh non sei tu, guardati quelle orecchie”, segno di riconoscimento, un po’ a sventola. “No, io non sono orecchie e naso. Io sono io”, cioè l’intero. E tu fotografo non hai saputo prendermi intero, hai fatto di me una caricatura. “Non so ego. To’, tieni!”.
La difficoltà di guardarsi allo specchio nella cultura sarda: nel campo maschile assolutamente non esiste lo specchio, all’ovile. L’immagine è perturbante perché è un’immagine riflessa sul pelo dell’acqua ed è un’immagine in movimento, non c’è identificazione, non posso guardarmi e dire: “Sì, sono io”. Anzi, quell’immagine sembra in fuga, in una traiettoria di fuga, sembra in una dimensione di sprofondamento, e quindi considero che è un riflesso strano del gioco della luce dell’acqua, ma non vorrei approfondire, perché il rapporto con l’immagine è inquietante. Nella tradizione, l’immagine è la morte. L’immagine è l’immagine degli avi appesa sulle pareti della camera da letto. L’immagine è l’apparizione del defunto.
Mia zia va sempre al cimitero per ricordare un figlio morto a vent’anni, e ancora oggi dice: “Eh, mi è apparso Saverio. Era triste oggi. Ieri sembrava più…”. No, no, state attenti è una donna di una intelligenza raffinata. Questo rapporto con l’immagine, cioè tutta la cultura ha lavorato sul come giocare le apparizioni e le sparizioni, perché l’immagine viene dall’altro mondo e non può entrare nel mio mondo. Noi abbiamo fatto un funerale rispettoso, la messa, le preghiere: i mondi devono rimanere separati. Abbiamo fatto il lutto per due anni, per cinque anni: proprio perché non ci sia questa invasione del mondo dei vivi rispetto al mondo dei morti, un mondo incombente che rischia sempre di entrare nel mondo dei vivi. Allora, come organizzare la cultura per bloccare le immagini? Quindi, qual è il discorso tra essere e apparire? E nello specchio chi c’è? “Ma sono io”. Sì, voi fate le smorfie! “Vediamo se lo becco in un momento di distrazione, faccio un movimento così e anche lui fa un movimento così…”. Giocate, ma è un gioco inquietante. “Ma davvero sono io?” Ecco, questa è la scoperta freudiana del perturbante: l’immagine allo specchio sono io e non sono io nello stesso tempo; è familiare, certo, e allo stesso tempo è strana, estranea. Este de familia, este istranza: estranea, nello stesso tempo. Oggi meno, perché oggi lo specchio è nella dimensione della moda, della cosmesi e del trucco. Lo specchio punta sul riconoscimento e, infatti: “Questo specchio non mi piace, non mi vedo bene, voglio uno specchio in cui io mi possa vedere bene”. Bene cosa vuol dire? Secondo il modello dello specchio universale, dello specchio globale, dello specchio televisivo per cui io mi riconosco, mi riconfermo e mi dico: “Oggi mi piaccio”, ed esco contento, contenta, ma con qualche rischio perché, poi, qualche volta al mattino, come vi alzate, osservandovi, dite: “Oggi sono una maschera”. Una maschera: e che cos’è? Voglio cancellare la maschera per acquisire look, come un volto a prestito?
Guardate tutte queste inquietudini e questo perdere il volto durante la giornata, perdere il look e riproporlo: “O mi piaccio o non mi piaccio”. Nonostante questo tentativo pubblicitario del bel volto, del pieno riconoscimento, della gratitudine, del gratificante, non viene eliminata l’inquietudine della maschera, del volto, della faccia. Quindi, questo gioco di specularità non è mai pienamente soddisfacente, non posso eliminare il rapporto con l’altro. “Chi c’è dietro lo specchio?”, diceva l’ubriacone nel racconto del mio libro, quando parlava con la sua immagine nello specchio: “Lo vuoi un bicchiere di vino? Oh, che tu non vedi… Tu, tu, ma tu esisti? Si, tu ci sei lì, ma guarda che se io ti tocco, così, c’è lo specchio… Dietro di te c’è il muro, poi c’è la casa di mia cugina Antonietta. Tu, chi sei? Perché non esci fuori da lì? Guarda che ti offro da bere. Ce ne hai soldi? Tu soldi non ne hai. E dove li metti? Ma tu, ne hai tasche? Dai, vieni che in fondo sei diventato mio amico, vieni che andiamo assieme a bere un bicchiere di vino… Beh, adesso me ne vado. Che fai? Ma tu adesso dove dormi? Dove stai, lì sullo specchio? Ma dietro alla parete non c’è niente… Ma tu lo conosci che dietro poi c’è il muro di mia cugina? Ma vieni con me, dai andiamo, ti ospito io, vieni a casa. Ma no, ma tu… Ma vai, vai, che tu non esisti. Guarda, se me ne vado io, forse tu manco ci sei più, forse scompari…”. Questa inquietudine del “Tu sei mio amico”, a volte: “Tu sei io”. A volte, veramente: “Ma tu chi sei?”, “Ma io chi sono?”, questa è l’inquietudine del riflesso non rispondente, del riflesso non riconoscente, di un fallimento, dell’identità identificatoria. Lo specchio è trasparente e pure perturbante. Non dice di un mio essere, ma mi interroga.
E la donna? La donna non può diventare Mamuthone, non può diventare Thurpu, la donna non può diventare Merdule. Poi, la donna non si può mostrare, a Orotelli, a Mamoiada e a Ottana, perché la donna è la maschera per eccellenza, nel senso più profondo.
C’è in Sardegna questa dualità irriconciliabile, non economizzabile del femminile e del maschile. Non si può addivenire all’unisex. Il discorso della parità, certo, è legittimo giuridicamente, occupazionalmente, sociologicamente, ma la differenza è radicale. C’è qualcosa che è originario, che è specifico della femminilità, della donna, de sa femina e de s’homine. C’è un campo e un controcampo.
L’uomo ha tentato di ridurre questa differenza inquietante organizzando l’universo femminile. Ecco allora sa domo, mere de domo (tu sei la padrona di casa), ma de domo, intra sa domo, mama de sa familia, mamma della famiglia. La famiglia: tu sei tutto, ma dentro la casa e dentro la famiglia. Perché fuori della casa e fuori della famiglia femina est capra, è ingovernabile, è la maschera, è inconciliabile, è indomabile perché ha una potenza creativa che non rientra nell’ordine simbolico maschile. Est inventera, perché procreatrice di vita, è il matriche, sa madrighe, cioè lievito.
Solo la donna, l’uomo non può entrare nella stanza della nascita, del parto. L’uomo non entra nella stanza del parto e non entra nella stanza del pianto e del cordoglio, dove le donne piangono il morto, non l’uomo. L’uomo è in un’altra stanza dove si va a fare le condoglianze, perché solo la donna, la madre, può toccare quel corpo, che è un corpo eterno anche se morto, è un corpo della sua carne, che è nato, lo ha allattato, s’attitu, cioè lo allatta simbolicamente col canto, nel pianto del cordoglio, attittare su morto. E lo tocca, tocca il morto, suo figlio morto, perché è vivo, eternamente vivo. Un grande scultore sardo internazionale che è Costantino Nivola, dice in una sua scultura: “La madre del figlio meraviglioso”.
L’uomo invece no, non ha rapporto col corpo del figlio, è perturbante, il corpo del figlio lo rifiuta. È mortu. E nel sistema vendicativo lo recupera: me lo hanno ucciso e io ucciderò l’uccisore. Vedete come lo recupera sul versante della vendetta, non sul versante dell’amore, cioè del rapporto profondo, materno, col corpo del figlio. Ecco, questo ci fa dire, come dice la psichiatra Nereide Rudas, professoressa emerita che ha scritto libri importanti a livello europeo, soprattutto di psichiatria criminale, di cui è presidentessa nazionale, e dice: “Questo rapporto profondo tra madre e figlio in Sardegna è un nodo instricabile”.
Guardate tutti i romanzi di Grazia Deledda, il rapporto madre-figlio, come lo ha toccato molto bene una scrittrice sarda e filosofa, la Piano, è sempre conflittuale. In Cenere, non so se avete visto il film recuperato dagli anni trenta, la madre muore per salvare il figlio, perché il figlio è illegittimo e, morendo lei, il figlio era legittimo.
La madre e il conflitto del figlio prete, che sta cadendo nella dimensione del peccato, con una donna: come salvare il figlio? In quanto figlio che ha fatto i voti, che è integro e che non può diventare e farsi a pezzi, conoscendo una donna smembrata, fatta a pezzi nelle parti del suo corpo. O ancora Dessì, l’altro grande scrittore sardo, della madre che nasconde a tutti che il figlio, latitante, è rientrato dal militare perché ha ucciso un capitano che gli aveva dato uno schiaffo, umiliandolo davanti a tutti, e rientra e nessuno lo sa e lei vive questo segreto doloroso. E il figlio è ammalato e moribondo e muore, e lo assiste nel silenzio di questo rapporto salvifico impossibile. E neppure dopo morto si sa della sua morte. Questa mater salvifica.
C’è un nodo profondo nella psicanalisi sarda, questo rapporto così profondo tra madre e figlio fa problema, fa nodo, c’è qualcosa di non risolto. In un convegno, ricordo, dieci anni fa, Alle radici della violenza, si pose questo quesito appunto: da dove viene la violenza del giovane sardo? Forse da questo nodo irrisolto tra madre e figlio? Com’è questa figura del padre, allo stesso tempo assente e padre-padrone, come nel film dei fratelli Taviani e nel romanzo di Gavino Ledda? Vedete, tutto questo universo…
Ora io non sono padrone del tempo e bisogna che mi avvii a concludere, provvisoriamente, perché l’atto di parola se ne va per conto suo, non ho una scaletta mentale, non so quello che sto dicendo. Tutto questo ci interroga su questioni che non sono solo sarde. È stato detto bene, ma sul vivere nostro contemporaneo, sulla differenza di genere maschile e femminile, sull’invenzione di un linguaggio femminile nuovo, che non sia imitativo del linguaggio maschile, anche nel parlare comune, perfino nelle forme boccaccesche, a imitazione maschile, anche a imitazioni somatiche, nel maschio, nel frasario. Com’è che la donna può inventare un linguaggio originario, suo, profondamente pertinente a sa natura sua, si direbbe nella cultura sarda? Come sfuggire al circolo vizioso del prestito maschile, dell’imposizione maschile? Della circospezione spaziale e temporale maschile?
È una scommessa incredibile, perché davvero la differenza sia come un arricchimento, una differenza di potenziale che crea energia, una ricchezza incredibile di diversità, non verso l’unicum, non verso il cosiddetto pari, non verso l’unisex, ma verso la differenza originaria, verso il taglio non ricomponibile, eppure arricchente per entrambi.
Io vorrei che una possibile lettura vostra si interrogasse, anche se il libro è un po’ difficile, perché il linguaggio spesso ha dei prestiti specifici, che non sono disciplinari, nel senso che sono presi da una particolare disciplina, o di antropologia o di psicanalisi, però nell’interrogarsi inquietante, spesso non c’è una risposta del lettore, abituato invece a dire: sì, ma insomma, che cosa vuol dire questo qui? Ma, insomma, che cosa vuol dire? Ascolta, se me lo dici già dall’inizio, forse è meglio. Guarda, io voglio dimostrare questo, voglio dirti questo, allora, io magari controllo se tu davvero mi stai convincendo. E no, non vale, questo gioco non vale, non è creativo questo gioco, come se tu sapessi già. E allora non ho capito che cos’è la tua discrezione? Demostrandum est? Come volevasi dimostrare? Posti certi dati, io poi porto a conclusione…? Ah, sei contento? Bravo… Hai visto? Adesso sì… No, adesso sì, no … quello lo sapevi già, non è inquietante, non è arricchente, perché devi, come dire, incontrare il linguaggio e anche sbatterci la testa contro il linguaggio, per vedere come possano insorgere in te liberamente altri linguaggi. Grazie.
Ruggero Chinaglia Allora, per dare appena un’eco a quanto ha detto Bandinu, vi leggo un breve brano del suo libro, perché non vorrei che vi foste spaventati dinanzi alla enunciazione che è un libro complesso, un libro difficile. È vero, ma c’è uno stile narrativo bellissimo. Per esempio, a proposito della maschera del folle, scrive:
Un Mamuthone attraversa il tempo del paese: è Franziscu, il matto. Maschera sintomatica, figura straniante. Ogni comunità ha un folle che la salva dall’essere communitas, dal pensare e fare in comune e in accordo. Franziscu, il castigato, il destinato, sosta spesso a cavalcioni sulla sponda del muraglione che divide la campagna dal centro abitato. Intervallo separante. Funzione vuota della relazione campu-vidda (campagna-paese). Campu, il regno dell’uomo pastore, villa (vidda) il luogo della donna massaia, limite che indica la differenza sessuale. Il matto occupa questo tratto differenziale, come il ponte, come l’immondezzaio. Franziscu fissa la bocca del ponte, dove abita la Mamma del sole, un fantasma che mette luce e ombra, che accarezza e inghiotte i bambini. Con movimento cadenzato del mento, il folle ripete la sua nenia: “Franziscu, su maccu de sa vidda” (il matto del paese) per tre volte, poi un respiro e ancora per tre volte. Tra canto e silenzio sposta lo sguardo dall’imboccatura del ponte alla fuga della strada. I pastori rientrano dall’ovile, gli lanciano battute umoristiche, ma non li degna neppure di uno sguardo. Appena intravede una persona sconosciuta, s’istranzu, un estraneo, gli corre incontro cantando la sua nenia: su maccu de sa vidda … su maccu …. su maccu. L’ospite, imbarazzato, lo invita ad allontanarsi, perché non vuole avere a che fare col matto. Si trova a disagio per la presenza e per la canzone che non sa se prendere come invito all’entrata o come avvertimento. Senza ottenere rimedio, cerca la via del dialogo e gli fa domande: figlio di chi sei, cuius es? Dov’è la tua dimora? Ma Franziscu prosegue il suo ritmo: su maccu de sa vidda … su maccu … su maccu. Davanti alla prima casa, il folle gli si para davanti con lo sguardo obliquo e lo mette in guardia: intra, intra, attentu mih (entra, entra ma stai attento), semus totu maccos, maccos… maccos (siamo tutti matti).
Come andrà a finire? Ciascuno lo potrà sapere leggendo il libro. Grazie.
Giorgio Segato Volevo fare ancora una piccola considerazione che è interessante, perché una delle prime cose che faccio quando prendo in mano un libro è guardare l’indice, e allora ho visto la struttura del discorso e ho visto che alla fine c’era una nota bibliografica. E ho incominciato a leggere dopo avere capito quale era un poco la struttura del racconto. E alla fine dei primi tre, quattro capitoletti ho detto: bè, andiamo a vedere dove le prende queste cose, la nota bibliografica. Allora vado alla nota bibliografica, che dice: le note bibliografiche non servono perché è un modo per trovarsi dei genitori, i quali poi dichiarano di non avere figli e che comunque sono tutti figli illegittimi. Quindi questa, vuole dire, è la mia esperienza narrativa, questo è il mio percorso.
Questo mi pare molto ironico, sardo, come modo di chiudere il libro, ma anche molto vero. Proporre il proprio percorso linguistico, e il libro è un vero e proprio percorso linguistico, di narrazione. Grazie.
Ruggero Chinaglia Allora, vorrei ringraziare ciascuno di voi, in particolare Bachisio Bandinu, che è stato qui con noi questa sera e che auspico possa tornare ancora prossimamente per presentare altre sue produzioni; ringrazio Giorgio Segato, Serafina Mascia e il Circolo culturale sardo che ha collaborato per l’avvenimento e do l’appuntamento a ciascuno di voi per il prossimo incontro, che si terrà venerdì 12 novembre. Abbiamo l’occasione di presentare il libro di un grande poeta, Ennio Cavalli, un libro che contiene testimonianza della produzione di scrittura di trent’anni. Si svolgerà quindi il 12 novembre presso la Fiera Campionaria in occasione della manifestazione di ArteFiera, le cui manifestazioni culturali sono coordinate e organizzate da Giorgio Segato, quindi anche in questo caso una collaborazione tra l’associazione e Giorgio. Ci saranno per la città annunci, comunque ciascuno può tenere presente e per l’occasione il biglietto d’ingresso sarà fornito dalla associazione a chi ne fa richiesta, per cui l’ingresso anche in questo caso è gratuito.
Giorgio Segato E le cose si rincorrono tra loro, tant’è vero che in ArteFiera ci sarà una straordinaria mostra di maschere contemporanee di quattro fratelli vicentini, che da 25 anni lavorano sulla maschera dell’uomo contemporaneo e dell’animale.
Ruggero Chinaglia Quindi un modo per proseguire anche la lettura di questo libro, che, chi vuole incominciare già questa sera, può acquistare qui in questa sala e Bachisio Bandinu sarà lieto di firmare la copia e di fargli la dedica. Grazie e buonasera.