LA FESTA DELLA PAROLA E L’ALLEGRIA DELLA VITA – presentazione a Padova
- Edizioni ETS, Elisabetta Selmi, La festa della parola e le fiabe di Giovan Battista Basile, Ruggero Chinaglia, Silvestrini Antonella
15 marzo 2023. Testo della presentazione del libro di Antonella Silvestrini, La festa della parola. Le fiabe di Giovan Battista Basile, Edizioni ETS, organizzata dall’Associazione cifrematica di Padova, nella Sala Livio Paladin di Palazzo Moroni, a Padova, con un dibattito dal titolo
LA FESTA DELLA PAROLA E L’ALLEGRIA DELLA VITA
Sono intervenuti
- Ruggero Chinaglia, medico, cifrematico
- Elisabetta Selmi, docente di Letteratura italiana all’Università di Padova
- Antonella Silvestrini, psicanalista, scrittrice
Ruggero Chinaglia Buonasera. Questo nostro incontro, con cui proseguiamo le attività dell’Associazione cifrematica di Padova, festeggia anche un anniversario importante, cioè il cinquantenario della cifrematica. Da quando è cominciata l’esperienza cifrematica sono ormai cinquant’anni, era il 5 febbraio 1973.
Ciascuna settimana l’Associazione propone un dibattito, lungo l’esplorazione delle questioni che sorgono nell’esperienza di ciascuno, dove si tratta di indagare linguisticamente anche ciò che può sembrare comune, banale, scontato. Quanto più qualcosa può sembrare scontata, tanto più esige di essere esplorata.
Attualmente gli incontri, che si svolgono il giovedì alla Sala ex Dazio di riviera Paleocapa, hanno come titolo il lutto, il dolore, il trauma e ci siamo rivolti all’esplorazione di questi lessemi perché usualmente vengono considerati sentimenti o emozioni tristi, negativi, qualcosa che ha a che fare con il male, con eventualità o trascorsi nefasti: uguali e comuni a tutti. Alla nostra esplorazione risulta invece che, quanto al dolore, al lutto e al trauma, non c’è nessun riscontro di negatività. Perché questo si chiarisca, occorre rivolgersi all’esplorazione linguistica, all’analisi, che può fornire riscontri clinici importanti per la cura e il suo modo.
L’importanza dell’esplorazione linguistica, per quanto riguarda la salute, è comunemente respinta, trascurata, non accolta. Nella nostra esperienza, la salute è l’istanza di qualità cui approda il processo pragmatico con la sua scrittura. La salute cioè non è qualcosa che si può perdere o che si ha per beneficio divino o perché si ha fortuna, ma la salute è alla punta di un processo di valorizzazione per cui, non disdegnando, non rigettando, non respingendo, dunque senza lo spreco delle occasioni, s’instaura. Occorre vi sia la decisione di non sprecare le occasioni che la vita offre. Questo è il tema che esploriamo ciascun giovedì. Abbiamo cominciato con la combinazione dell’istinto, del desiderio e del bisogno con il lutto, il dolore, il trauma e attualmente stiamo proseguendo esplorando la combinazione del lutto, del dolore, del trauma con l’autorità, l’abbondanza, la fluenza. Questi lessemi, come state ascoltando, non hanno nulla di negativo, nulla d’improntato a qualcosa che significhi la perdita o l’eventualità negativa. Questo è il luogo comune e, allora, il luogo comune va esplorato, non va praticato; va esplorato, analizzato, elaborato e volto in un’occasione di qualificazione delle cose, da cui la vita stessa trae qualità. Questo è nella nostra esperienza e è anche, diciamo, la nostra missione: offrire occasioni di qualità a chi, come voi questa sera, gentilmente si offre all’udire e all’ascolto.
Questa sera la circostanza è leggera, lieve, favorevole. Il titolo che abbiamo dato a quest’incontro è La festa della parola e l’allegria della vita. La festa della parola, che trae lo spunto dal titolo del libro che presentiamo di Antonella Silvestrini, che s’intitola appunto La festa della parola. Le fiabe di Giovan Battista Basile. Della fiaba e delle fiabe ci siamo occupati per lungo tempo, abbiamo esplorato le fiabe più note e classiche dei fratelli Grimm, di Perrault, di Andersen, abbiamo tenuto anche corsi di aggiornamento per gli insegnanti che sono sfociati in una pubblicazione, La lettura delle fiabe. Di ciò si è occupato anche, Armando Verdiglione nel libro Edipo e Cristo. La nostra saga, Spirali. Abbiamo esplorato anche Le mille e una notte, con l’analisi intorno a Aladino e la lampada meravigliosa, da cui abbiamo tratto la pubblicazione di due volumi anni fa, che questa sera sarebbero dovuti essere qui in una veste editoriale nuova, ma non è stato possibile.
Per noi le fiabe sono materia d’esplorazione, sono un materiale importante per cogliere anche cosa si enuncia narrativamente in un racconto e che cosa poi invece il racconto effettivamente dice, perché il materiale della fiaba non è da prendere realisticamente, è da esplorare, da cogliere, da indagare, per capire qual è la fantasia che lo ispira e qual è la direzione in cui va.
Le cose si dicono e, dicendosi, si aprono molte combinazioni e tante ipotesi che poi occorre trovino la direzione dell’attualità; allora la fiaba, la fabula, la saga si scrivono in direzione del valore; occorre non fermarsi alla negatività con cui la fiaba comincia. La fiaba, infatti, solitamente parte sempre da una fantasia negativa, che poi però si dissipa e arriva altrove e è questo il bello della fiaba, il bello anche della sua esplorazione.
Questa sera ascolteremo Antonella Silvestrini e la professoressa Elisabetta Selmi, che è qui con noi questa sera avendo accolto l’invito a illustrare e a dare testimonianza della sua lettura del libro; verificheremo come questo percorso della fiaba viene svolto da Antonella Silvestrini e come Giovan Battista Basile offre con il suo materiale una particolare narrazione della fiaba che lo distingue da tanti altri romanzieri, narratori, novellisti e quant’altro, per la ricchezza della sua lingua e per il suo stile e per il suo modo.
Questa è la materia da cui partiamo. L’altra parte del titolo di questo nostro incontro è L’allegria della vita, che bene si accompagna alla festa della parola, in quanto non si tratta dell’allegria come stato d’animo passeggero, come umore, come qualcosa che può accadere e si contrapporrebbe al suo contrario, per esempio alla tristezza, intesa come emozione o sentimento che costituirebbe una variante dell’animo umano, qui si tratta dell’allegria della vita. Come accade l’allegria della vita? Come interviene l’allegria della vita non come “umoralità” ma come questione di vivenza? Questa è la questione interessante che pure esploriamo e che riguarda il modo in cui ciascuno non rifuggendo dalle occasioni, ma intraprendendo e rivolgendosi alle cose da fare senza alternativa incontra l’allegria della vita, non in maniera variabile, non in maniera ispirata dalla fortuna o dalla benevolenza divina, ma come effettualità del gerundio della vita.
Questa è la materia del nostro incontro, e adesso invito al suo intervento preliminare Elisabetta Selmi; poi l’incontro avrà modo di svolgersi anche con scambi di domande e risposte, e contiamo di dare un contributo alle curiosità che ciascuno ha tratto qui questa sera.
Elisabetta Selmi Grazie. Ho accolto con molto piacere la lettura di questo testo che è un testo che sicuramente, permettetemi questa parola, spiazza. Un testo che spiazza, un testo che scarta, perché le mie competenze sono le competenze di un professore di letteratura italiana, che s’interessa in particolare di letteratura cinque-seicentesca e quindi mi aspettavo dal titolo, dalla premessa, una riscrittura dell’opera di Basile. Dirò anche qualcosa riguardo a questo testo e come effettivamente in esso si opera davvero una fusione tra le modalità che il testo stesso crea, in una pluralità e in una molteplicità di strade e d’immaginazione, di spazi dell’immaginazione che diventano spazi dell’interrogazione, diciamo psicologica, esistenziale, sociale, antropologica nel suo senso più pieno e la capacità dell’autrice di farli lievitare in una sorta di dialogo a due voci, quasi, tra il morto e il vivo: il fantasma sempre evocato, e anche in qualche maniera allontanato, e insieme ricreato.
Quando parliamo di riscrittura, nel gioco dell’operazione di una scrittura creativa della così detta postmodernità, pensiamo sempre a un testo che in qualche maniera è visibile, quale un archetipo con cui si gioca, con cui si rifà una storia, con cui in qualche maniera si dialoga. Qui l’operazione di riscrittura è davvero un’operazione di “riscrittura che scrive”, cioè è un’operazione in cui si coglie dal testo e dalle potenzialità del testo, da quelle che sono già insite nella scrittura e nelle modalità di rappresentazione di Basile, le possibilità di una renovatio che vengono a generare lo stimolo, l’impulso a diversi livelli. C’è il primo, quello più empatico, quello invece dissonante, quello che diventa effettivamente l’elemento immaginativo creativo, quello che riconduce a un circolo – come dico io – sfasato, cioè a un circolo che non è il ritorno all’origine, ma è un circolo che apre altre infinite mille potenzialità di dialogo.
La lettura di un testo come quello dell’autrice è una lettura difficile, è una lettura che potremmo dire ingannevole. Pensiamo, cioè, di entrare nel mondo della riscrittura di un genere aperto appunto da Basile, che è quello del mondo fiabesco, che ha oggi poi una tradizione sterminata, molteplice, di interventi critici, teorici, di discussione sull’importanza della fiaba, sul rapporto della fiaba rispetto a un contesto culturale e al ruolo che la fiaba ha tra il gioco degli antinomi, il diletto, il divertimento, e, dall’altra parte, la ricostruzione, appunto l’essere spiazzante, il sapere condurre in maniera mascherata, dissimulata, il più sornione gioco della critica. Quindi, un’operazione trasgressiva. E ci sono pagine e pagine, lo citava prima Ruggero Chinaglia, e io naturalmente non lo so, ma in altre discussioni e in opere, che ho visto così egregiamente pubblicate, si è già affrontato il nodo e l’importanza del leggere, del leggere il mondo fiabesco, leggere l’universo della fiaba, attraverso quello che ha significato nel costituirsi di un’operazione che è in primo luogo letteraria e, quindi, linguistica, ma dove la lingua si rivergina e dove si gioca sul paradosso, sul rovesciamento, sull’antifrasi. Si fa emergere da ciò che è parola la sostanza e dalla sostanza la parola, in un quadro dove, sicuramente, il testo della nostra autrice è un testo che parte anche da tutta un’esperienza di linguaggio, di concreta applicazione a un discorso di psicanalisi. Sentivo parole importanti, come il tema del trauma, il tema della paura, l’indagine su quelli che sono i grandi temi esistenziali e temi della nostra contemporaneità, ma in generale di tutta una tradizione, però non c’è nel testo della nostra autrice, intenzionalmente, un discorso della psicanalisi che si faccia strumento ermeneutico per la lettura dell’universo delle favole di Basile o dell’operazione culturale fatta da Basile, pur in un processo di attualizzazione.
Nell’introduzione, Antonella Silvestrini dice che non incontriamo Basile, ma invece lo incontriamo perché nel suo testo riproduce passi interi dei vari punti basiliani, tradotti da un’abile penna che è quella dell’editrice, curatrice recente per la Salerno de Lo cunto de li cunti e noi il testo lo leggiamo naturalmente non nel dialetto napoletano, nel dialetto meridionale, che è operazione difficile, ma lo leggiamo in traduzione. Importa il testo nella sua integrità, però poi il testo agisce come leva per un percorso che è quello della logica associativa. È il percorso che permette, appunto, di destabilizzare quei codici sia di tipo culturale, sia di tipo sociale, sia di tipo ermeneutico, interpretativo, che noi ci aspetteremmo. Qui l’operazione va non alla riscrittura del testo originale, ma alla totale creazione di un altro testo che dialoga con il testo originale.
Quest’operazione dialogica è anche ciò che mi ha convinto a affrontare l’analisi e la discussione su questo libro in termini dialogici, cioè con l’autrice, proprio perché la lettura, la comprensione, i percorsi molteplici che si aprono, sono quelli che l’autrice ha voluto suggerire attraverso un percorso e una macchina verbale. Cioè, l’autrice individua nelle fiabe di Basile la potenzialità di una macchina verbale che è legata, ovviamente, anche a una particolare stagione – e qui, per forza faccio anche il mio mestiere – stagione letteraria che è quella in cui Basile scrive, che è quella di “definizione” del Barocco, del Seicento, dove la lingua (e pensiamo a quello che può essere il gioco dell’inedito, della macchina metaforica, della capacità di giostrare con l’inaspettato linguistico) serve a generare uno strumento di conoscenza.
Quando si va a leggere, su una certa manualistica letteraria, che il Barocco è il secolo della metafora di Marino e dei Marinisti o è il secolo dell’evasione e con il termine “evasione” si va a connotare qualcosa che è relegato alla sfera dell’intrattenimento, alla sfera del piacere, ma che ha perso in termini di valore quello che può essere lo spazio della conoscenza, lo spazio dell’introspezione, lo spazio dall’esterno all’interno, noi non siamo d’accordo. È una connotazione che viene data in negativo, senza comprendere che proprio questa ricerca, la scrittura di testi come le fiabe di Basile (e penso anche a un altro testo, il Platone di Marino, perché anche lì c’è un mondo fiabesco dentro, come a altri testi di una tradizione importante quali i testi di Croce, i testi di una certa tradizione seicentesca dove la lingua diventa uno strumento davvero straordinario, che viene definito in generale il così detto “mirabile”, e cioè “quello che va oltre, quello che va fuori”) non è semplicemente un gioco formalistico, è invece uno strumento, un grimaldello per creare un meccanismo che potremmo dire nuovo, antropologico, immaginativo, creativo, associativo che funziona in termini di conoscenza. E è proprio quel grimaldello con cui dialoga la nostra autrice.
Ecco perché il testo di Basile c’è, e il testo di Basile viene anche commentato da Antonella Silvestrini; viene commentato con delle riflessioni, cioè non è un commento letterario, non è un commento accademico, non è un commento filologico, è un commento come un dialogo continuo su quelli che sono alcuni nodi che Antonella Silvestrini individua in questo mondo fiabesco basiliano e che diventano gli strumenti per rovesciare quello che è il caleidoscopio.
Mi piace ricordare che nell’introduzione, anche per fornire una chiave di lettura, dice una cosa che è assolutamente di rilievo: “Il pleonasmo della parola è il pleonasmo della vita”. Una favola basiliana è proprio l’espressione altissima: il pleonasmo della parola è il pleonasmo della vita. Se si segue in quella logica, che prima dicevo, che rovescia, che fa girare il codificato e il codificante, l’atteso e l’inatteso, quello che è il concetto stesso di destino, salta il meccanismo finalistico, la logica teleologica, per cui salta il rapporto con le grandi categorie che sotterraneamente vengono evocate nel racconto fiabesco, che possono essere il rapporto col destino, il rapporto con la fortuna, la logica delle genealogie famigliari, le tematiche delle parentele, le tematiche connesse al tema dell’invidia privata e pubblica, sociale e famigliare. Lei per altro sceglie di dialogare con alcune delle fiabe basiliane che sono centrali per affrontare questi nodi, per fare vedere come si può cambiare l’occhiale, come, se si sta dentro a certe categorie culturali e antropologiche, si rischia di avere uno sguardo miope. Il problema, invece, è la capacità di riosservare facendo girare i poli. È proprio in nome di questo, che lingua e, permettetemi, letteratura nel senso di comunicazione, diventano lo strumento con cui quest’esperienza – che è un’esperienza in primo luogo empatica, in secondo luogo dissonante e in terzo luogo, diciamo, conoscitiva e addirittura d’interiorizzazione, che significa di costruzione della personalità in direzione di un rapporto con la vita che cambia – cambia i parametri, cambia i valori. Questo non significa, e Antonella Silvestrini lo dice molto bene, che nell’universo della fiaba non ci sia propriamente la presenza di una logica che è quella del tremendum, che è quella del disagio. È proprio la logica del disagio che costruisce la logica della conoscenza, di una conoscenza che rigenera, che rinnova, quindi è l’occhiale che non è più miope, non è più sfocato, ma diventa capace di aggregare, di associare.
Proprio in ragione di questo, nell’introduzione, la nostra autrice cosa dice? Mi piace citarlo: La vera protagonista del Cunto è la lingua: registra l’inconciliabilità degli elementi del contesto e coglie la complessità del vivere, dove la piega e la sorpresa in nessun modo possono venire omologate. Cioè il problema è, appunto, i due universi: il non omologare e, permettetemi un neologismo, il disomologare, cioè creare gli strumenti per fare esplodere, per trasgredire. Trasgressione che però non è fine a se stessa, non è un elemento per riportare il mondo da un falso ordine, che è quello canonico, a un disordine e a un caos che diventa poi vertigine di una situazione di angoscia, solitudine, perdita, disvalore totale, ma significa ricostruire un’altra architettura. Un’altra architettura che però è libera, cioè non è più vincolata a schemi che sono precostituiti, cioè è proprio il problema sostanzialmente del teleologismo, di un certo finalismo.
Poi dice questo: Nella lingua di Basile ciascun elemento è in movimento e deborda come in un’opera barocca. Anche qui i due poli, il finito e l’infinito. Non a caso la grande coscienza del nuovo, chiamiamolo così, è appunto la parola, se vogliamo alle spalle, e qui cito non a caso un grande filosofo, Uno, universo, infinito mundi di Giordano Bruno, quindi l’idea dell’infinitezza, l’idea del molteplice, l’idea di ciò che solo noi delimitiamo e delimitiamo per un senso terribile di horror vacui, di paura, di angoscia, di costruzione, di cristallizzazione delle convenzioni.
Detto questo, poi cita Galileo e qui ovviamente è spiazzante per un lettore che non è ovviamente in grado immediatamente di creare processi associativi o meglio di comprendere qual è la clavis, la chiave di lettura con cui sta operando l’autrice. Il lettore dice: “Ma se stiamo parlando del valore del Cunto e del fatto che il Cunto è attualizzato, cioè gioca con il pleonasmo della parola e il pleonasmo della vita!”. A Giovan Battista Basile – dice Antonella Silvestrini – fa eco Galileo Galilei, quando nella lettera del 16 luglio 1601 scrive a Gallanzone Gallanzoni: La Terra è sferica, ma non perfettamente, essendo di superficie aspra ed ineguale; sarebbe bene la sua figura sferica perfettissima, quando ella fusse liscia, tersa ed ugualissima; e pertanto la Terra sarebbe allora assai più perfetta di quello che l’è ora. Tal discorso è mendoso ed equivoco: perché è vero che, quanto alla perfezione della figura sferica, se la Terra fusse liscia, saria una sfera più perfetta che essendo aspra; ma quanto alla perfezione della Terra, come corpo naturale ordinato al suo fine, non credo che sia alcuno che non comprenda quanto ella sarebbe non solo meno perfetta, ma assolutamente imperfettissima, e va avanti. Qui, il lettore si chiede come mai Galileo, che viene sempre evocato, chiamato come il paradigma della scienza nuova, di ciò che dovrebbe essere il segno della razionalità, addirittura della costruzione di un modello della natura e del cosmo sub specie matematica, in questo caso, invece, è l’espressione dell’altro polo, di quel mondo, chiamiamolo della fantasia, dell’equivoco, del rovesciamento, del gioco che ovviamente sembra essere antitetico a quelle sfere.
Noi parleremmo, in termini contemporanei, dell’irrazionale che non è naturalmente categoria della cultura seicentesca, ma sicuramente si può parlare dell’immaginazione. “L’immaginazione fantastica”, come diceva un filosofo neoplatonico, cioè la sfera non dell’immaginazione icastica, ma dell’immaginazione fantastica; lo diceva appunto Mazzoni e difendeva l’importanza della parola straniante dantesca. E allora, cosa c’entra Galileo? Eh, Galileo è proprio quello che concilia i due poli dell’apparente inconciliabile, dentro paradigmi che sono quelli dati da una logica convenzionale. Galileo, per arrivare alla comunicazione della scienza, si serve dei grandi strumenti del paradosso, dell’ironia, del gioco di rovesciamento. E qui abbiamo una prova dell’idea che comunque il perfettibile e l’imperfettibile sono sfere che non vanno giocate su un senso di contrapposizione e all’interno di un sistema che è quello di un universo fisso, stabile, se vogliamo quello della tradizione, di una certa modalità di approccio aristotelico, o ovviamente del passato. Bisogna invece vedere addirittura l’animale vivente; l’universo è l’animale vivente in una traduzione di un certo naturalismo, che poi arriva anche a un’idea della scienza capace di conciliare gli opposti. Quindi è stato, secondo me, molto geniale quest’accostamento. Poi mi spiegherai come mai ti è venuto in mente di operare questo tipo di accostamento, di soluzione.
Tornando al nostro discorso, il libro si costruisce in un gioco di specchi molto complesso, dove c’è la ripresa. Silvestrini sceglie alcune fiabe di Basile, che sono molto importanti, per affrontare – e elenco anche quanto la stessa autrice sottolinea – il problema dell’invidia sociale, l’idea genealogica della famiglia obbligante, il timore della vecchiaia, la paura della fine del tempo, la credenza del destino assegnato. Proprio su questo volevo poi dialogare con l’autrice, perché la credenza del destino assegnato è il nodo centrale di tutta una tradizione, è il nodo centrale di tutto quello che può essere lo sviluppo dei paradigmi psicologici, mentali, conoscitivi, dalla tradizione antica alla tradizione di oggi, dell’essere e dell’esistere dell’uomo e dell’utilizzo dei suoi strumenti di rapporto con la realtà, con l’esperienza e con l’interiorità. Sono i tre poli e naturalmente entrano tutti in gioco. Anche qui è chiaro che il mondo fiabesco è un mondo che sostituisce, nella tradizione che si apre da Basile in poi, l’universo catalogato che sembra legato all’inatteso, all’inaspettato, apparentemente al caos, ma, sopra tutto, più che al caos, all’idea della metamorfosi, all’idea della capacità di attendersi qualcosa e arrivare a altro. Prima era stato richiamata anche da Chinaglia l’idea del viaggio. L’idea del viaggio, che è anche uno dei temi centrali da cui parte il raccontare di Basile e che diventa anche il capitolo iniziale del saggio, del volume, della ricreazione di Antonella Silvestrini.
Io volevo, proprio su questo, chiederti alcune cose, magari anche in relazione a affermazioni che tu a un certo punto fai. Leggo alcuni contenuti. Questo porta a una riflessione: prima cita una parte del testo di Basile, poi discute su quello che è il cambiamento dei paradigmi, “affidarsi al concetto dell’anomalia” e poi chiama in causa, e qui viene fuori – di solito è abbastanza mascherato il discorso – il confronto con una tradizione anche psicanalitica. L’esperienza della parola, sin dalla breccia inaugurata da Freud, testimonia che la trasformazione interviene quando non è possibile distinguere l’elemento domestico da quello estraneo e questo perché nessun elemento è conoscibile. Nell’Interpretazione dei sogni Freud parla di attività interpretative di integrazione e sottolinea che i sogni di una stessa notte, per esempio, sono da leggersi come fossero uno stesso sogno, perché si integrano a vicenda e pertanto anche la lettura procede da questa integrazione. Vorrei che magari mi spiegassi e dialogassi con me sul perché a un certo punto fai questa riflessione e come questo s’inserisce in questa macchina creativa verbale cangiante, che tu stai dispiegando in questa tua ripresa, in questo tuo dialogo con Basile.
R.C. Nel passare la parola a Antonella Silvestrini, ringraziando Elisabetta Selmi del suo bellissimo intervento ricco di spunti e di questioni, due parole per dire di chi si tratta. Antonella Silvestrini vive e lavora a Pordenone. È psicanalista, è membro del Movimento cifrematico internazionale, dell’Associazione cifrematica europea, e a Pordenone, oltre a lavorare come psicanalista, con l’Associazione cifrematica di Pordenone La cifra, conduce attività di conferenze, seminari, corsi, brainworking, formazione sul terreno della scienza della parola. Ecco, allora, che invito Antonella al suo intervento.
Antonella Silvestrini Grazie a Ruggero Chinaglia e alla professoressa Elisabetta Selmi per questa introduzione. Ringrazio anche tutti voi che siete qui questa sera e sono contentissima di potere parlare un po’ di questo libro che mi è piaciuto scrivere. È stata una sfida perché, come ha giustamente notato la professoressa Selmi, è un azzardo. Io da tempo ho tenuto conferenze a partire da testi di letteratura; la mia formazione è letteraria, quindi trovo sempre un grande spunto nella letteratura e così anche nel testo di molti autori di fiabe. Quando mi sono imbattuta in Giovan Battista Basile mi sono proprio innamorata, nel senso che, come ho scritto nel libro e come citava Elisabetta Selmi, è un testo in cui protagonista è la lingua, e per me la lingua di Basile è la lingua della salute, proprio perché sfata ogni logica binaria, ogni dicotomia, ogni dentro-fuori, alto-basso, bene-male e valorizza l’anomalia. Quindi ho letto Basile, letto e riletto, l’ho fatto un po’ al modo di un altro Giovan Battista che è Marino, che dice “leggere con il rampino, tirando a mio proposito ciò che trovavo di buono, per poterlo poi riprendere al mio tempo”.
E.S. Lettera quarta dalla Sampogna di Giovan Battista Marino.
A.S. E questo “leggere con il rampino” mi è piaciuto molto, “tirando al mio proposito”. E ho letto così Basile, per questo non c’è niente di organico, di completo, non è un commento letterario perché non è il mio compito.
E.S. Se posso interromperti solo un attimo, visto che hai citato un testo che io non ho citato anche perché non siamo in una discussione letteraria, però il testo che ha citato Antonella è quello che la fa una finissima lettrice, pur attraverso un approccio che vuole essere appunto spiazzante, una finissima lettrice dei percorsi interni alla tradizione, letti con chiave che davvero non è quella che era la chiave di lettura di trent’anni fa, di Marino “frivolo”. È proprio in quel discorso della lettura del rampino che lui fa, e con cui si giustifica, in questa lettera quarta della Sampogna, a Achillini e Preti, suoi sodali in questo percorso di rinnovamento, l’affermazione piena del salto alla modernità, sostanzialmente. Da un concetto del passato di imitazione, o emulazione o tutto quello che si vuole, a quello del creare, del fare, dell’imitare. Lì c’è lo scarto, in cui ricreare è operazione creativa e ovviamente destabilizzante.
A.S. Cioè inventare, facendo. Questo gerundio, movimento in atto, che è un po’ un elemento che io trovo molto presente nel Barocco, nella letteratura, nell’arte, nella scultura barocca. Allora, lo psicanalista che cos’è? Se noi togliamo il testo della psicanalisi e della cifrematica dall’idea salvifica psicoterapeutica, è un’indagine linguistica. Lo psicanalista in effetti è un lettore, un lettore che offre spunti, strumenti intellettuali e linguistici, affinché emerga il valore del testo, la direzione – come diceva Ruggero Chinaglia – del testo, la direzione di un racconto. Nella mia pratica, quando una persona fa domanda di un percorso con me – non dico neanche domanda di analisi, ma di un percorso – io penso che ci troviamo davanti a un testo di cui fare la cura redazionale e, quindi, non vanno cambiati gli elementi, ma va sicuramente trovata la via della cura, che è la cura redazionale, non è la cura come processo misterico dal male al bene.
E.S. O iniziatico. Infatti io ti chiedevo, per le mie competenze psicanalitiche, ignoranti in questo caso, oppure per interpretazione della psicanalisi applicata penso anche ai grandi interventi di Freud, Gradiva, Leonardo e via di seguito e, ovviamente, L’interpretazione dei sogni. Io li ho sempre visti, letti, capiti o comunque filtrati come uno strumento legato alla dimensione del patologico che dev’essere reintegrato, che era anche in qualche maniera la critica di Lacan a Freud o comunque ai successivi percorsi psicanalitici. Però mi sembrava che qui tu lo citassi più per l’ottica dell’Interpretazione dei sogni, cioè quello che nel sogno viene immaginato si costruisce con dei percorsi che sono esterni a quelli che sono i codici convenzionali, stabiliti. Mi chiedevo in che senso.
A.S. Freud dice che nel sogno non c’è più l’aut aut, ma c’è il vel, c’è il “sia sia”, pertanto non c’è una contraddizione che vada risolta, non c’è da risolvere la contraddizione. Così non c’è da risolvere la contraddizione nemmeno nella nostra vita, perché il pleonasmo della nostra vita procede proprio da una contraddizione che noi non abbiamo la necessità di risolvere.
Lo psicanalista è un lettore in quest’accezione, nel senso che non deve condurre dal negativo al positivo, dal male al bene, ma è un provocatore per una lettura inventiva. Non si tratta quindi di una decifrazione del testo, conl’idea che ci sia un significato nascosto da scoprire. No, leggendo il testo viene restituito non in pristino, cioè non quello che era, ma sempre in modo nuovo, quindi è una restituzione in qualità. Questa è la via che ho seguito in questa lettura, ma questa è la via della cifrematica che sottolinea quest’aspetto importantissimo della psicanalisi originaria di Freud. Quindi, Freud non interpreta i sogni cercando un significato, ma offre letture e ciascuna lettura si aggiunge, e una lettura non esclude un’altra lettura.
Tornando alla curiosità iniziale del perché quella citazione di Galileo Galilei, che ha introdotto la razionalità, la scienza, è perché la scienza non è purista, la scienza si avvantaggia dell’anomalia; la ragione, la razionalità, non purificano l’anomalia.
E.S. Con il concetto poi si arriva a Gardner, Popper, alla falsificabilità della scienza, uscendo dal paradigma della non contraddizione. Poi, alle spalle già il Leopardi intuisce questo, con l’uscita dal sistema della tradizione logica occidentale, “essere – non essere”. Tanto che diventa “il solido nulla” nel linguaggio leopardiano; cioè, l’aspetto della non contraddizione che avvicina e fa di Leopardi quel “caso” già nella direzione che va a Nietzsche e oltre, e va a Freud. Quest’aspetto in rapporto a quello che è il concetto della tradizione. Credo che è forse questo che tu volevi sottolineare.
A.S. Sì, io ho insistito molto sul valore che Basile dà all’anomalia. Certo, è un testo barocco,” il più bel testo barocco” lo definisce Croce quando nel ’25 fa la prima traduzione. E grazie a Dio, perché forse ha messo un po’ in ombra la lingua napoletana, però ha fatto sì che questo testo venisse ripreso, un testo che era importantissimo.
E.S. È uno scopritore Croce e in quel caso ha avuto un’intelligenza critica veramente lungimirante.
A.S. Infatti. Basile ha fatto quest’operazione – come la definivi tu – incredibile perché intanto ha inventato questo modo della narrazione che è il modo del Cunto, e il Cunto raccoglie i proverbi, i modi di dire, il materiale fiabesco dell’epoca, i miti, le saghe, le leggende. C’è La gatta cenerentola che diventa Cenerentola, ma l’ha ripresa dalla tradizione cinese, perché c’è un antecedente cinese.
E.S. C’è addirittura la ripresa di Psiche a un certo punto. Quando leggevo ho detto: “Bravissima! Guarda, arriva immediatamente anche a cogliere che dietro c’è il grande archetipo di Amore e Psiche”. Apuleio significa Apuleio, insomma.
A.S. Ci sono citazioni letterarie, c’è di tutto in Basile. Poi lui ha utilizzato la lingua napoletana insieme all’amico Cortese; erano d’accordo perché volevano sottolineare una ribellione rispetto all’impostura del governo spagnolo e dicevano che il napoletano non aveva niente di meno del fiorentino. Comunque nel testo di Basile, nelle fiabe, la cosa interessantissima è che tutte le fantasie e le questioni che vengono enunciate non rimangono come tali, non ci sono i buoni che restano buoni e i cattivi che restano cattivi.
E.S. È un universo metamorfico e l’anomalia diventa anche continua trasformazione di quelle che sono le polarità errate che noi stabiliamo. E non c’è un fine morale, perché poi la sovrapposizione al genere fiabesco che verrà fatta successivamente, sarà di riportare quello che tu sottolinei essere l’elemento proprio della molteplicità, dell’anomalia, delle tante strade, dei tanti cammini, dentro però poi a una fine, a un suggello in cui c’è l’imprinting moralistico. Sarà il Settecento che lo farà.
A.S. Il Settecento e l’Ottocento. Perché che cosa accade poi? Che nella trascrizione, nonostante i fratelli Grimm riconoscessero il valore di Basile, hanno però preso il materiale e l’hanno semplificato, purificato, l’hanno binarizzato e ci sono i buoni, ci sono i cattivi e, quindi, arriviamo a una versione semplificata e moralista della vita. In Basile non è così, non c’è personaggio che resti totalmente negativo o totalmente positivo e non c’è mai il dramma; ciascuna fantasia è svolta e indagata, è portata all’iperbole, con l’iperbole alla parodia e ciascuna cosa si sfata. Ma la lingua stessa è bellissima.
E.S. Leggi magari anche solo – io l’avevo presa con la traduzione – proprio l’apertura proverbiale. C’è un proverbio di quelli stagionati, di vecchio conio, che diceva: Chi cerca quello che non deve, trova quello che non vuole. La scimmia, che vuole infilarsi gli stivali, rimane presa per il piede, come capitò a una stracciona di schiava che non aveva mai portato scarpe ai piedi e voleva portare una corona in testa. Questo è un incipit proverbiale che andrebbe letto nella sua lingua. Proviamo anche a leggerlo, io l’ho portato. Tu lo sai leggere il napoletano?
A.S. Ho la versione.
E.S. L’avevo portato perché era bellissimo sentirlo in napoletano. L’avevo messo qui ma ora non lo trovo.
A.S. Per fare un esempio di lettura, qualche anno fa è uscito il film Il racconto dei racconti di Matteo Garrone. Non so quanti di voi l’abbiano visto. In questo film prende a esempio tre fiabe di Basile La cerva fatata, La vecchia scorticata, e La pulce. Un film bellissimo per la fotografia, i costumi, riprende proprio tutto il grottesco barocco, è strepitoso. Però cosa fa Garrone? Prende i contenuti della fiaba, dimenticandosi della lingua di Basile e quindi che cosa accade? Vi faccio un esempio che è molto interessante. Il film inizia con la fiaba La cerva fatata, che racconta di una regina molto afflitta per il fatto di non potere avere figli; era molto triste, invidiosa delle donne che invece potevano averne, quindi con il re convocano un indovino e gli chiedono che cosa fare per potere avere figli. L’indovino dice che ciascuna cosa ha un prezzo e che si poteva avere un figlio, però qualcun altro doveva morire. E come si fa a avere questo figlio? Bisogna prendere il cuore di un drago, ammazzare un drago, prenderne il cuore, farlo cucinare da una bella fanciulla in una stanza chiusa. Facendolo cucinare, automaticamente la regina sarebbe rimasta incinta. È sconvolgente tutto quello che accade. Succede che il re va a uccidere il drago, si tuffa nell’acqua – scene incredibili – ammazza il drago, però muore. Eh, muore lui! E cosa succede? Che qualcun altro squarta il drago che muore, la regina scende dal castello, prende questo cuore pulsante del drago, ancora caldo, lo porta al castello e lo consegna a questa bella fanciulla che lo cucina e, automaticamente, lei rimane incinta, lei, la fanciulla. Adesso sentite la versione di Basile della Cerva fatata. Il re convoca un saggio, un vecchio, e chiede appunto come fare. E il saggio dice: Ora senti bene, se vuoi cogliere nel segno fa’ prendere il cuore di un drago marino e fallo cucinare da una vergine, la quale, solo all’odore di quella pentola, diventerà anche lei con la pancia gonfia. E una volta cotto questo cuore, dallo da mangiare alla regina, che vedrai che uscirà subito incinta, come se fosse di nove mesi. Come può accadere questa cosa?, riprese il re “Mi sembra, per dirtela tutta, una cosa assai difficile da ingoiare”. Non ti meravigliare disse il vecchio, ché, se leggi la favola, trovi che a Giunone, mentre passava per li campi Olani sopra un fiore, si gonfiò la pancia e figliò. “Se è così, tornò a dire il re, si trovi immediatamente questo cuore di dragone. Alla fin fine non ci perdo niente. Nella versione di Garrone lui muore, qui invece non ci perdo niente! E così, mandati a mare cento pescatori, allestirono tanti spiedoni, chiusarane, palangresi, buoli, nasse, lenze, fili e tanto andarono in giro finché presero un dragone e, toltogli il cuore, lo portarono al re che lo diede da cucinare a una bella damigella. Avete sentito l’iperbole, no? E, chiusasi in una stanza, non appena mise il cuore sul fuoco e uscì il fumo della bollitura, non solo la bella cuoca rimase gravida, ma tutti i mobili della casa si gonfiarono e in capo a pochi giorni figliarono, tanto che il letto fece un letticciolo, il forziere fece uno scrignetto, le sedie fecero delle sedioline, la tavola un tavolino e il vaso da notte fece un vasino verniciato e così bello che era una delizia. Questo è il testo di Basile, dove la fantasia di una donna che non riesce a avere un figlio viene svolta e sfocia nella parodia e non c’è la vittima sacrificale. In Garrone c’è sempre l’introduzione…
E.S. È chiaro, c’è sempre un’introduzione, ci dev’essere la morte, cioè ci dev’essere l’aspetto del sacrificio, vita e morte in giudizio. Poi ci dev’essere – lo dicevo prima – la sovrapposizione moralistica. Perché, la lettura di quest’universo molteplice, che significa la possibilità di liberare dalle scorie di un processo codificante che deve andare per forza in una certa direzione e dove il dolore dev’essere legato a un certo tipo di questioni, dove c’è un percorso iniziatico, produce che i lettori successivi, che rientrano implicitamente in questo processo di distinzione, razionale e irrazionale, leggono questo tipo di discorso, o gli sciocchi, come un discorso d’evasione, una fiaba ecc., ma i lettori intelligenti lo leggono come un’indifferenza morale. Cioè, c’è la sovrapposizione tra il discorso veramente trasgressivo, intelligente, importante che Basile fa e che altri autori fanno in questo Seicento che, vi ricordo, è anche il secolo Della dissimulazione onesta, giusto per capire i paradigmi, il secolo degli ossimori, dei paradossi in cui si cercano scorciatoie nuove per rileggere il problema del vero-falso, del dire la bugia e del dire la verità, del comunicare ciò che ha valore e ciò che non ha valore, aprendo infinite strade e lo si legge come un atteggiamento d’indifferenza morale; allora bisogna riportare il fine moralistico, che è l’operazione che fa il Settecento e poi tutti gli scrittori di fiabe, che pure s’ispirano al discorso del modello di Basile, però lo moralizzano, cioè danno dei finali in cui dovere rientrare. È la stessa operazione che fanno sui così detti archetipi del mito antico greco. Il mito greco, se lo leggiamo, è un mito che a una lettura con il giudizio dato con parametri rigidi, ci dà l’idea di un mondo dove c’è una crudeltà anche efferata, dove c’è una logica enigmatica. È il discorso di Edipo. Ma che cosa ha fatto il povero Edipo di male che addirittura cerca di fuggire da Corinto per non cadere nell’incesto e nel parricidio? E poi ci cade puntualmente, dove la divinità sembra essere persecutoria. Non lo lasciano libero, il che sta a significare un concetto diverso rispetto a quello convenzionale del destino, della ritualità, perché lo leggono con la sovrapposizione moralistica.
A.S. La questione qual è? Che il pleonasmo della parola, di cui troviamo in Basile, un esempio bellissimo, è il pleonasmo della vita, che riguarda ciascuno e non è confinabile a un testo di letteratura. È proprio questa la questione, per questo Basile è un testo formidabile e io me ne sono avvalsa per dire questo; perché, come nessun testo ha un destino assegnato, nessun racconto ha un destino assegnato, quindi nessuno di noi ha un destino assegnato. E è questa la questione: ci sono sempre le pieghe, c’è sempre la breccia, perché la compensazione, il calcolo, la padronanza, sono fantasie di potere ricondurre la vita a qualcosa di più semplificato, ma è impossibile togliere la complessità dalla vita. Ho intitolato il libro La festa della parola, per dire che dove c’è la parola c’è la festa, cioè senza la parola non c’è la festa. E se c’è la parola, c’è il pleonasmo dove le cose non finiscono, non si compensano, non sono in un calcolo.
Faccio un altro esempio. Nella fiaba I due fratelli, i due fratelli sono Marcuccio e Parmiero e sono uno bravo, che studia, si attiene alle indicazioni del papà e l’altro invece non si attiene per niente, disobbedisce, è un perdigiorno. Inizialmente, il figlio bravo non ha un soldo e gli sembra incredibile il fatto di essere stato così ligio a assecondare e obbedire alle indicazioni del papà, eppure non avere avuto fortuna. Va dal fratello scalzacane e gli dice: “Tu, che invece te la cavi bene, dammi una mano”. E questo gli risponde. Alla fine, non riuscendo più a stare saldo per il tormento del bisogno, andò a trovare il fratello, pregandolo, dal momento che la fortuna lo faceva figlio della gallina bianca, di ricordarsi che lui era dello suo stesso sangue e che erano usciti dallo stesso buco. Basile prende in giro tutte queste banalità, quest’idea semplificata della vita, che siamo della stessa natura, che usciamo dallo stesso buco, quindi ci sono toni molto alti nella sua prosa, come modi così diretti come questo. Parmiero, che nell’agio e nella ricchezza era diventato stitico, gli disse: “Tu che hai voluto seguire gli studi per consiglio di tuo padre e mi hai sempre rinfacciato le compagnie e i giochi, rosica i libri e lasciami stare coi malanni miei, ché io non ti darei niente perché me li sono stentati questi pochi spiccioli che mi ritrovo… e quindi lo manda a quel paese. Quell’altro, disperato, cosa fa? Va sulla montagna e medita di buttarsi giù, se non che non riesce perché interviene la fata, la Virtù, e lo convince a proseguire e a rilanciare. D’altro canto, il caro Parmiero, che se la passava bene, cade in disgrazia a un certo punto e pensa di farla finita. Quindi, due fratelli che hanno scelto strade opposte, in realtà sono nella stessa fantasia di elezione, speculare. Parmiero va in una casa abbandonata e tenta d’impiccarsi. E qui dice, sentite la lingua: Ma volle la sorte che, poiché la trave era tarlata e fradicia, alla caduta che diede, la trave si spezzò nel mezzo e l’impiccato vivo finì col costato sulle pietre e se ne risentì per alcuni giorni. “L’impiccato vivo”, questo è il testo di Basile! Ma questa è la chance che ha ciascuno di noi, ascoltando, di trovare le pieghe nel suo racconto. E, quindi, poi dice: Spezzandosi la trave, caddero a terra catene, collane, anelli d’oro che erano ficcate negli incavi fatti dai tarli, e tra le altre cose una borsa di cuoio cordovano, con dentro un mucchio di scudi. Per questo, Parmiero, vedendo con un salto da impiccato saltato il fosso della povertà, se prima era impiccato per la disperazione, ora era sospeso per l’allegrezza. Sentite la finezza: prima era impiccato per la disperazione, adesso era sospeso per l’allegrezza. Quindi, questo passaggio da mania, malinconia a euforia, disforia sono l’una e l’altra faccia della stessa questione. Queste sono le finezze del testo di Basile, che mi hanno consentito di esplorare le fantasie più comuni, ancora oggi attuali e questa, secondo me, è l’attualità di questo testo, oggi che sentiamo parlare di operazioni come quelle del testo di Roald Dahl, in epoca di cancel culture. Come sapete, Roald Dahl è morto nel ’90, e i parenti hanno ceduto, prima in parte e adesso tutti, i diritti dei testi a Netflix, e Netflix in collaborazione, in combutta potremmo dire, con Puffin, che è la casa editrice, stanno riscrivendo il testo, togliendo tutti i termini come madre, padre, sostituendoli con genitore, togliendo la parola grasso, grassa, cioè stanno purificando il testo di questo scrittore strepitoso, perché è proprio ben lontano dall’essere politically correct. Oggi c’è quest’intento e anche per questo ho sottolineato l’importanza di questa ricchezza impurificabile nel testo di Basile, perché oggi in realtà c’è la tentazione di ricondurre tutto a un’ideologia.
E.S. Sì, tu hai scelto quel caso, ma v’invito a leggere il dialogo che l’autrice fa sulla fiaba del Catenaccio. Qui è l’altro punto centrale. Anche lì ci sono le dinamiche delle questioni famigliari, della genealogia famigliare, e poi c’è il discorso dell’incontro, il disinvestimento, cioè ci si deve rivestire di vesti nuove. E come avvalersi dell’incontro se ci si dispone – dice l’autrice – con il proprio autoritratto, con la propria divisa, con l’affermazione di sé o dei propri ricordi o con la speranza nella salvezza? La parata dei soggetti e delle stereotipie garantisce l’erotismo, non la sessualità. Nessuno sa perché s’innamora, l’invisibile è sempre la garanzia dell’incontro, commento questo che, meglio di tanti altri, spiega qual è il meccanismo di funzionamento, poi il processo di attualizzazione agisce da specchio e ci fa vedere da cosa parte sostanzialmente il discorso di Basile.
R.C. Vorrei introdurmi in questo dialogo dialogico, per introdurre la trialità della conversazione.
E.S. Facciamo la triade, sì.
R.C. Sono interventi molto belli che danno un’immagine interessante del libro e credo inducano altri a leggerlo. Emergeva un dettaglio a proposito di Marcuccio, uno dei due fratelli invidiosi, in cui apparentemente c’è la stessa fantasia, ma non è la stessa fantasia. Anche la stessa fantasia, alla lettura, risulta che non è la stessa fantasia: è impossibile condividere la stessa fantasia. Ciascuna fiaba di Basile, proprio nell’introduzione alla fiaba, indica, che la fiaba è avvolta dal mito. Con il pretesto di una fantasia negativa, che può essere il padre morente, il padre malato, la mamma che non c’è perché è morta, come nella migliore tradizione fiabesca, la fiaba inizia con il padre che muore, lascia un’eredità, che deve essere divisa. Come, per esempio, nel caso del Gatto con gli stivali, in cui un figlio riceve il gatto e pensa di essere sfortunato, ma il gatto poi diventa proprio l’elemento da cui partono i dispositivi della riuscita. Allora, in ciascuna fiaba c’è l’indicazione del mito. Nella fiaba dei due fratelli invidiosi forse è la più sottile, la più nascosta, il mito è proprio da trovare. Per Moscione è evidente il mito del padre che lo trae, perché, anche se il padre apparentemente lo caccia, in realtà gli dà una chance.
Questo aspetto è curioso: mentre oggi, in quest’epoca, c’è la tutela dei figli ritenuti inabili e incapaci per sempre, per cui vanno tenuti protetti, riparati e assistiti, Basile ci racconta che il padre che vede che il figlio non vale nulla, che è proprio uno zoticone, uno zuccone, non lo tiene in casa, ma gli dice: “Vai!” e lo manda a fare esperienza. Quindi, c’è quest’abbandono intransitivo, per cui il padre abbandona il figlio, ma gli dà la chance, istituisce un’occasione per l’esperienza. Poi le vicende, le traversie e le avventure danno la direzione a questo figlio, che in realtà non è per nulla inetto, perché se la cava in modo mirabile, anche se può attraversare fasi alterne.
Per quanto riguarda Marcuccio, data l’invidia con il fratello, il mito del padre è piuttosto “debole”, ma ciò che lo trae è il mito della madre. Non a caso, nel momento dell’apparente derelizione, dell’apparente sfiducia totale, nel momento in cui pare che stia per cedere, compare la fata, che non è il mezzuccio del deus ex machina che risolve, non è l’incantesimo risolutore. No, è il mito della madre che lo trae nella sicurezza della riuscita, perché la madre questo dà; il mito della madre assegna la securitas, cioè la sicurezza nella riuscita. Questa è la proprietà della madre che va intesa non nella funzione procreatrice, che sarebbe la funzione di morte, ma nella sua indicazione vitale, quella di assicurare, di dare la sicurezza nella riuscita. Con la sicurezza anche la forza insiste. E questo è il bello. Per esempio anche per Beliuccia, che affronta “per” il padre il rischio della sessualità, il mito del padre c’è, e così il pleonasmo, e non è che teme chissà quale strano destino…
E.S. Ma non è la figura dell’autorità, è quello il punto, cioè separa da quello che è il ruolo…
R.C. La questione che questa fiaba pone è che, pur trattandosi qua e là di un fantasma di negatività attorno all’origine, al tempo che finisce, alla malattia che può intervenire, alla sfortuna, la vicenda è avvolta dal mito e la famiglia che risalta alla conclusione della fiaba non è segnata dall’idea negativa di origine. È questo il viaggio.
E.S. La crescita, cioè c’è un processo di progressiva valorizzazione.
R.C. Da qui il gusto della lettura, perché avvalendoti del contributo linguistico, trovi gli elementi di valore.
A.S. Poi, nella conclusione c’è ancora l’enigma, infatti, non è che vengano rimesse a posto le cose o rimediate, perché il povero Moscione, che è il figlio dappoco, quando torna a casa con i soldi, dopo una bella avventura, conclude così la fiaba: Per questo, senza incontrare altri impedimenti, arrivarono alla casa del padre, dove Moscione dividendo con i compagni il guadagno, perché si suol dire che “a chi ti fa guadagnare il tortano tu dagliene una fetta, li mandò via consolati e contenti e lui restò ricco sfondato col padre e si vide un asino carico d’oro, non smentendo il motto: Dio manda biscotti a chi non ha i denti. Quindi, non c’è nessuna rigenerazione, non c’è l’euforia del successo, non c’è il risanamento. Questa è la cosa interessante, che la questione rimane aperta.
E.S. Non si ritorna all’ordine, a quello che è l’atteso.
A.S. Certo, il cerchio non si chiude.
E.S. Qui è, appunto, l’idea dell’imprevedibilità che significa l’apertura esistenziale. Cioè, c’è una difficoltà, c’è il dolore, però c’è poi il processo salvifico; qui è letto diversamente e poi è individualizzato, cioè ogni storia ha la sua storia, ha la sua costruzione, ha i suoi tipi, ha la sua molteplicità, in questo senso: mentre tu ti aspetti che vada bene, che le cose siano così e i tipi siano questi, invece no.
A.S. Poi, per esempio, citavi Il catenaccio. A un certo punto Luciella, la protagonista, si lascia un po’ convincere dalle sorelle rispetto all’idea della felicità, dell’allegrezza perfetta. È incredibile come Basile sottolinei e prenda in giro quest’idea di felicità perfetta, di allegrezza perfetta, dell’idealità del viaggio, dell’idealità della conquista; quest’idea viene sempre presa in giro, irrisa. L’irrisione è un altro aspetto importantissimo di questo testo.
R.C. C’erano alcune notazioni che faceva Elisabetta Selmi nel suo intervento che sono molto interessanti: diceva della questione del testo che agisce, l’azione del testo. L’azione del testo è qualcosa di essenziale. Il testo agisce per la parola che c’è nel testo. L’azione del testo è l’azione della parola e l’azione della parola procede dalla contraddizione intoglibile che impedisce la conciliazione nel cerchio, facendo sì che il punto di partenza possa coincidere con il punto d’arrivo. Questo non potrà mai avvenire proprio perché c’è la contraddizione e c’è l’azione della parola, che non è automatica, per via del tempo. L’ideologia può tentare di chiudere questo varco. La serie delle logìe unificanti tenta di chiudere il varco della parola e di appianare la contraddizione, per giungere alla moralizzazione del contenuto. Questa è la questione importante: come notava Elisabetta Selmi all’inizio, è impossibile che l’esperienza della parola possa avere una strumentalizzazione ermeneutica.
Questo è ciò che ha portato alla negazione della psicanalisi nella psicoterapia, perché è stata attribuita alla psicanalisi una funzione ermeneutica. “Che cosa dice la psicanalisi di questo, di quello e di quell’altro?”. Non dice niente, perché la psicanalisi, come notava argutamente Antonella, è un’esperienza di lettura, quindi un’esperienza di parola, che non mira a chiudere l’apertura, la contraddizione, ma anzi a cogliere dove, per l’apertura, il viaggio vada. Non si sa dove approda il viaggio, ma è proprio l’approdo il piacere e, da qui, l’allegria. L’allegria è l’allegria dell’approdo, perché lì sta il valore.
E.S. Qui semmai le polarità sono l’essere statico che intristisce e la dimensione dinamica che invece è continua e che non si può sapere, perché le cose, l’interazione, il rapporto sono in continuo movimento e, quindi, non c’è un destino segnato, e quello dà l’allegria.
R.C. Esatto, perché se noi facessimo della psicanalisi un’ermeneutica…
E.S. La fissiamo.
R.C. La fissiamo, bravissima. Sarebbe come chiudere la bocca, tappare la bocca a chi ha l’esigenza di parlare, non per ricevere l’interpretazione di quello che vuole o voleva dire. Occorre che le cose si dicano per cogliere ciò che sta tra il tempo e la piega e oltre, per cogliere la novità del gerundio della parola.
A.S. E che non c’era prima.
R.C. Esattamente, e questo è anche il gusto della lettura di Basile, perché Basile te lo lascia questo gusto di andare verso la direzione che non è già annunciata, che non è già predestinata. E è questo il bello. Il bello del viaggio è che non finisce e che non va nella direzione che gli àuguri avevano preannunciato, perché non ci sono gli àuguri e non c’è la predestinazione. Ma, se ce n’è la credenza, questo inficia. La questione è non cedere alle fantasie di limitazione che vengono applicate alla parola a favore di una sorta di riduzione all’uguale. Questa è la questione veramente importante per ciascuno, a proposito della vita: non c’è la vita uguale a un altra, non si può imparare a vivere e nessuno può insegnare a vivere, perché la vita è un’esperienza senza uguali.
E.S. C’è la serializzazione e l’omologazione e dall’altra parte – sono proprio due paradigmi – l’anomalia, l’interrogazione.
R.C. Esatto, bene. Allora, Antonella, vuole fare un intervento conclusivo di questa bella serata?
A.S. Sì, sono contenta del contributo di Elisabetta Selmi e di Ruggero Chinaglia, perché effettivamente il testo di Basile rilancia, apre e rilancia, cioè c’è sempre uno squarcio. La cosa veramente interessante è che c’è chi ha detto che il barocco oggi andrebbe ripreso. E effettivamente forse non viene ancora valorizzato abbastanza, perché se ne parla sempre come questione storicistica, ma non per il contributo che può dare all’attualità. Viene ripreso del barocco sempre un aspetto storicistico, di storia della letteratura, senza tenere conto del valore della forza del testo, di questa dirompenza, anche nella pittura, nella scultura, nella scrittura, che è la dirompenza della parola. E è questo il valore oggi, secondo me importantissimo, perché in realtà tra radicalismo e purismo ci troviamo in un conflitto che non ha nessuna chance; ci sono i radicali apocalittici e i puri messianici, ma è un conflitto tra ideologie, infatti oggi non c’è dibattito, non c’è ragionamento, ci sono solo contrapposizioni, perché ci dimentichiamo del valore del ragionamento, che c’è solamente quando accogliamo la vita e accogliere la vita vuole dire accogliere la complessità. Cos’è un complottista? Un complottista è uno che ha paura della complessità.
R.C. Occorre dire che nella complessità ci sono la differenza e la variazione. Tutte le campagne a favore dei generi, delle libertà, poi falliscono sulla tolleranza, perché non vengono ammesse la differenza e la variazione costanti. La differenza e la variazione non sono a termine, sono costanti in ciascun atto, per cui non si può andare d’accordo, bisogna accogliere il disaccordo che è indice di differenza e variazione.
E.S. Bisogna tornare proprio all’idea platonica. Il dialogo platonico, maieutico è ciò che fa andare avanti la conoscenza, cioè la conoscenza non è data e si discute su posizioni da una parte e dall’altra aprioristiche; la conoscenza rampìna viene fuori dal dialogo. È lì il nodo.
R.C. A questo proposito, propongo questo lessema differente: invece del dialogo, il dibattito. Perché il dialogo, sembra di no, ma poggia su una verità già data.
E.S. No, io dicevo la maieutica, bisogna tornare proprio al concetto originario.
R.C. Il dibattito non dimostra una verità già data; il dibattito è aperto e va in direzione della novità e del valore.
Ricordo che in fondo alla sala sono disponibili dei libri, che Antonella sarà lietissima di dedicare a chi li acquisterà. Nel ringraziare ciascuno che questa sera è stato qui con noi, ringrazio Elisabetta Selmi, Antonella Silvestrini, l’equipe organizzatrice dell’Associazione cifrematica di Padova e in particolare la dottoressa Fernanda Novaretti che ha dato un contributo rilevantissimo.
Ricordo che il giovedì noi ci troviamo attualmente alla Sala ex Dazio per il nostro dibattito cifrematico, che verte in questo periodo su Lutto, dolore e trauma, non luttuoso, non doloroso, non traumatico. Prossimamente faremo un altro dibattito in presentazione di un altro libro, con un altro autore. Grazie, buona sera, e arrivederci.