Aleksandr Jakovlev. La Russia. Il vortice della memoria
- Chinaglia Ruggero, Jakovlev Aleksandr, Pisani Giuliano, Quaranta Mario
30 maggio 2001 Conferenza dal titolo Dissidenza e libertà in Russia, di Aleksandr Jakovlev, politico, scrittore, autore del libro La Russia. Il vortice della memoria, a Padova, con interventi di Ruggero Chinaglia, editore, Giuliano Pisani, assessore alla cultura del comune di Padova, Mario Quaranta, filosofo
ALEKSANDR JAKOVLEV
La Russia. Il vortice della memoria
interventi di
- Ruggero Chinaglia, editore
- Giuliano Pisani, assessore
- Mario Quaranta, filosofo
Ruggero Chinaglia Cominciamo questo nostro incontro di questa sera con Aleksandr Jakovlev. Con lui proseguiamo la serie di incontri dedicati alla questione intellettuale a Padova, città del secondo rinascimento. E questa sera, occorre dire, con un ospite veramente straordinario. L’interesse per la cultura, il pensiero russo e per le vicende che hanno contrassegnato la storia della Russia negli ultimi trent’anni è stato un fattore costante nella nostra esperienza e vicenda culturale, in quanto sin dal 1973-74, da quando è sorta a Milano l’esperienza del Movimento freudiano internazionale.
La testimonianza della dissidenza, allora era la dissidenza che viveva in esilio, la dissidenza sovietica, è sempre stato un elemento costante, da Viktor Fajnberg al generale Grigorenko, a Vladimir Maksimov, a Aleksandr Zinov’ev, nelle varie sedi in cui l’esperienza ci ha condotti, quindi Milano, New York, Roma, Tokyo, Parigi, Barcellona e altre città ancora, per dare un’opportunità alla dissidenza, all’istanza della parola libera, del pensiero libero, dell’impresa libera di enunciarsi e di testimoniarsi.
E questo è un carattere che ha contraddistinto le nostre iniziative, di cui andiamo assolutamente fieri, perché occorre dire che in quegli anni non molte erano le opportunità che venivano offerte, anche in Italia, paese cosiddetto libero, a queste voci della dissidenza cui era negata la parola in patria, ma spesso anche nell’Europa. A Padova la nostra associazione ha ospitato negli ultimi vent’anni vari esponenti della dissidenza e della letteratura, dell’arte russa da Aleksandr Zinov’ev, in più occasioni, a Vladimir Maksimov, a Jurij Naghibin, lo scrittore e scenografo, vincitore anche di un Oscar per la sceneggiatura della Tenda rossa, un artista che era sul filo della dissidenza nel senso che partecipava anche della vita artistica all’interno della Russia, ma la cui libertà di pensiero contraddistingueva i suoi scritti, i suoi romanzi di cui abbiamo pubblicato varie cose con Spirali. E ancora, Vladimir Bukovskij, Viktor Suvorov di cui abbiamo pubblicato recentemente, insieme alle testimonianze di Vasilij Bykov, il libro La mentalità comunista, che raccoglie i loro contributi in un giro per l’Italia in varie conferenze, nelle varie sedi, Milano, Roma, Bologna, Padova, in cui hanno dato testimonianza della loro analisi, della loro esperienza di intellettuali, attuale e anche traendo spunto dalle vicende precedenti.
L’incontro di questa sera non è con un dissidente nell’accezione di cui sopra, cioè con un esule, ma con chi ha vissuto dall’interno dell’Unione Sovietica prima, della Russia poi, l’esperienza del governo. Tuttavia, l’istanza della libertà, della libertà di parola, di pensiero, di impresa, di iniziativa è stata che è stato per lui vitale e che l’ha tratto attraverso i vari governi, da Chruscev a Breznev a Andropov a Cernenko fino al presidente Gorbacev a Eltsin e ora a Putin.
Aleksandr Jakovlev ha raccolto in questo suo libro, La Russia. Il vortice della memoria. Da Stolypin a Putin, la sua testimonianza di questo percorso assolutamente unico che l’ha portato dal regime a proporre una istanza di libertà attraverso le riforme. Quindi c’è un arco di circa cent’anni che viene raccontato, anche se in realtà sono gli ultimi quaranta quelli per i quali maggiormente la sua è testimonianza diretta. Lui è stato l’inventore della perestrojka, è stato per questo chiamato talvolta appunto “il padre della perestrojka“, è stato sicuramente quello che ha introdotto la questione della libertà in Russia dopo le vicende della caduta del muro di Berlino; ha accompagnato la trasformazione con Gorbacev, con Eltsin e ora con Putin.
È la sua un’esperienza sicuramente intellettuale, perché condotta lungo l’itinerario delle varie mansioni politiche che man mano lui ha espletato, ma, diciamo così, tratte dall’esigenza, che a un certo punto lui narra nel suo libro e che è stata per lui prioritaria, di una base culturale lì dove, a un certo punto, si accorgeva che l’ideologia stava coprendo, stava in qualche modo avvolgendo, avviluppando il modo del suo fare, e quindi ha avvertito l’esigenza di una lettura dei classici, di una lettura di varie opere, perché la trasformazione e il modo della politica vengono da un’istanza culturale e non viceversa. Quindi, anche per lui, la base è culturale e la politica trae il suo modo dalla cultura, dalle istanze che la cultura propone.
Si è occupato a lungo anche di informazione, a lungo ha avuto incarichi di giornalista; attualmente è presidente onorario della televisione pubblica russa, è presidente della commissione governativa per la rifusione dei danni alle vittime del regime, è presidente del partito “Democrazia” e della fondazione che si occupa appunto di verificare quali sono stati i danni che il regime precedente ha comportato per molte persone. Quindi è attualmente ancora in una posizione attiva della politica e la sua testimonianza è assolutamente unica. Le cose che si leggono in questo libro, in occidente sicuramente non si sono mai lette prima. È per questo che io ritengo un evento assoluto, di qualità eccezionale averlo qui con noi questa sera a Padova.
Con noi ci sono anche Giuliano Pisani, assessore alla cultura del comune di Padova, che rivolgerà tra poco un saluto al nostro ospite, anche a nome dell’istituzione che rappresenta, e Mario Quaranta, giornalista, filosofo, che dall’attenta lettura del libro ha tratto alcune notazioni da proporre a noi e anche da rilanciare a Jakovlev a mo’, diciamo così, di intervista indiretta.
Giuliano Pisani Porgo veramente, a nome della città, il più cordiale saluto a questo ospite così illustre, che avevo, anche personalmente, vivo desiderio di poter incontrare e di poter conoscere. Desiderio che si realizza grazie all’iniziativa di Ruggero Chinaglia e a questo libro che ho avuto modo di vedere, sia pure nei pochi giorni in cui l’ho avuto a disposizione, e di leggerlo nella prima parte in modo continuativo, nella seconda parte per cogliere alcuni aspetti che più direttamente mi interessavano, come persona che da molti anni segue le vicende del pensiero intellettuale e in particolare dell’impero sovietico. Proprio ieri al Bo, quando abbiamo presentato il volume Primavera di Praga e dintorni, ricordavamo con il professor Zaccaria come nel ’91 avessimo avuto la possibilità di incontrare qui a Padova Vaclav Abel, membro anche lui come noi della Sociète Europeenne de culture.
Un altro interesse molto particolare è legato al fatto che, nel nostro progetto culturale, dico nostro nel senso della nostra città, di “Padova città dei giusti”, stiamo lavorando per l’anno prossimo per una serie di iniziative che portino alla conoscenza di quella che è stata la realtà dei gulag in rapporto soprattutto all’individuazione delle figure dei giusti del gulag, quindi delle persone che, all’interno di questi luoghi tremendi, hanno speso parole di umanità e di solidarietà nei riguardi degli altri che vi erano nelle condizioni che a noi tutti sono note. Riprendendo quello che diceva prima Ruggero Chinaglia, in questo libro si leggono cose che non abbiamo forse mai sentito con tanta incisività. Leggo a pagina 13, per esempio: “Lo sterminio è un peccato dei più antichi – è risaputo. Nel ventesimo secolo fu escogitato il democidio…” .
Ieri sera, in un’altra iniziativa, in sala Rossini, in cui mi sono giocato l’ultimo vestito utile, per cui adesso ho rispolverato quello della prima comunione, dicevamo come il termine genocidio sia stato coniato nel 1944. Qui trovo il termine democidio. Son due parole di origine greca entrambe. “…lo sterminio di un popolo e dei popoli. Fu creata una particolare branca dell’industria democida, quella a nastro trasportatore funzionante senza interruzione:…”. Ed ecco il passaggio che mi pare veramente significativo nella sua crudezza: “…ad Auschwitz per l’appartenenza a ‘razze inferiori’; nel gulag per ‘un’inadeguata appartenenza di classe’”.
Nel momento in cui leggiamo questa definizione, che mi pare di non aver letto da nessuna altra parte così incisiva, “una inadeguata appartenenza di classe”, non avrei altro da aggiungere se non quello di dire che mi piacerebbe poter continuare con Ruggero Chinaglia, in particolare, questa collaborazione che abbiamo in qualche misura avviato e giovarci anche dell’esperienza dell’Associazione cifrematica e di Spirali per le iniziative che l’anno prossimo vorremmo realizzare qui a Padova, e di cui vi anticipo intanto una mostra dedicata alla Lituania, che ho visitato nei primi giorni di maggio, che potremmo dire Dalla shoa al gulag, e porteremo qui anche la mostra sul gulag che è stata fatta a Milano un paio d’anni fa dalla fondazione Feltrinelli, e a novembre faremo il convegno sui giusti del gulag, su cui un comitato internazionale sta lavorando e credo che la collaborazione di Aleksandr Jakovlev a questo nostro progetto sia assolutamente determinante.
Per questo lo ringrazio anche di una futura disponibilità, per darci una mano. Sono, ripeto ancora una volta, davvero molto felice di potere incontrare una personalità così importante, di porgergli il saluto della città e di consegnargli, a ricordo minimo di questa nostra serata, questo volume Padua, industry of arts, definizione ben nota di Shakespeare ne La bisbetica domata, e questa medaglia che abbiamo coniato per ricordare il monumento più importante della nostra città, cioè la Cappella degli Scrovegni, nell’anno dedicato a Giotto.
Ruggero Chinaglia Ringrazio l’assessore Pisani per le sue belle parole e certamente io confermo la disponibilità a collaborare per il progetto che elencava, e colgo anche l’occasione di dire che prima, nell’elenco degli intellettuali, degli artisti che abbiamo ospitato a Padova, ho trascurato proprio quelli a cui in qualche modo tenevo di più, cioè alcuni artisti che abbiamo ospitato, se pur fugacemente, tra cui ricordo Michail Anikushin, lo scultore, autore del famoso Monumento ai caduti di Leningrado, e poi Alekseij Lazikin, il pittore, e Ely Bielutin di cui abbiamo organizzato una mostra nel ’92 a Belluno nel Palazzo della Crepadona con l’amministrazione comunale, date le sue origini bellunesi.
Ely Bielutin aveva il nonno bellunese, e la storia è veramente curiosa, e Ely Bielutin, con le sue opere, fu il protagonista in negativo di quella curiosa manifestazione che anche Jakovlev cita nel suo libro, la famosa mostra del maneggio nel 1961 a Mosca, quando Chruscev, dinanzi alle opere di Bielutin e di altri artisti che non rispettavano i canoni dell’arte sovietica, si avventò sulle tele e le tolse dal muro e le sbatté per terra. Ely Bielutin, che noi abbiamo conosciuto agli inizi degli anni ’90, era un esponente di questa schiera di artisti che, nonostante il regime, introduceva un’arte nell’estrema difficoltà, perché gli era vietato insegnare, gli era vietato avere un atelier che fosse ufficiale, pur avendo titoli altissimi di artista. Nell’estrema difficoltà, produceva tuttavia opere che adesso stanno nei più grandi musei del pianeta, da Tokyo al Canada, agli Stati Uniti, all’Europa stessa.
E io spero, appunto, anche lungo questa collaborazione, che le opere di alcuni di questi artisti possano entrare in una mostra qui a Padova, per testimoniare di una produzione artistica, nella libertà di pensiero e di parola, che è fiorita anche negli anni del regime in Unione Sovietica, ed è una testimonianza anche questa molto interessante perché indica come l’arte e la cultura siano la base di un’istanza poi di libertà e di ricchezza intellettuale. Quindi io spero che possa veramente prodursi una collaborazione intensa. A questo punto, io credo che sia il caso di passare la parola al presidente Jakovlev per il suo primo intervento, in modo che voi possiate sentire dalla sua viva voce le sue prime riflessioni che vuole dedicarci.
Aleksandr Jakovlev Prima di tutto vi ringrazio per l’attenzione. Mi sembra sia veramente compiere un’impresa il fatto che delle persone siano disposte a venire in tarda serata a sentire delle persone che parlano di politica. Non voglio farvi perdere troppo tempo e non voglio neppure dover aver pietà di voi per quello che vi chiedo. Forse ritengo sia una buona idea passare immediatamente a quello che è previsto in discussione vera e propria fra il mio relatore e me per rendere le cose più vive. Come introduzione, mi limiterò a dire che, a mio avviso, e questa è una mia opinione personale, qui in occidente si è capito e si continua a capire poco di quanto è effettivamente successo in Russia.
Nell’ottobre del 1917, quando avvenne quella che io chiamo la controrivoluzione, nel paese successe veramente una tragedia: la terra venne “ridistribuita”, come dicevano loro ai contadini. In effetti non era così. Tredici milioni di persone morirono nella guerra civile successiva, due milioni circa di intellettuali e di ufficiali, comunque di personaggi importanti del paese, decisero di abbandonarlo. Nel 1985, invece, all’inizio della perestrojka e dei grandi mutamenti all’interno del paese, fortunatamente non c’è stato nessuno spargimento di sangue, nessuno è stato cacciato nei lager, nessuno è stato fucilato, nessuno ha dovuto abbandonare il paese forzatamente, non è scoppiata una guerra civile e, piano piano, un passo alla volta, lentamente, da un regime totalitario siamo lentamente passati alla democrazia.
Perché tutto questo sia successo nel 1985, le ragioni per cui si è arrivati alla perestrojka, io cerco di spiegarle nel mio libro e, tuttavia, sono sicuro che sono rimasti ancora dei punti interrogativi; permangono ancora delle domande senza risposta, delle domande che hanno bisogno di chiarimento e di approfondimento. Tuttavia voglio dire che allora è avvenuta quella che io considero una lezione valida per tutta l’umanità. Quello che noi siamo riusciti a dimostrare è che è effettivamente possibile nella realtà passare da una struttura statale, da un certo tipo di regime, a un altro completamente diverso senza spargimento di sangue.
Ero presente come terza persona nel momento in cui Gorbacev consegnò nelle mani di Eltsin il potere. Non so nemmeno perché abbiano deciso di invitare me a presenziare a quell’incontro, sta di fatto che io ero là. Prima di quell’incontro, io e Michail Sergieij Gorbacev avevamo parlato appunto sulle modalità di come questo sarebbe dovuto avvenire. In definitiva, a Gorbacev non è che fosse tanto facile rinunciare alle sue responsabilità di presidente, nel senso che era stato regolarmente eletto e il parlamento l’aveva scelto come presidente, però non l’aveva dimesso, per così dire, dalle sue funzioni. La valigetta atomica col famoso bottone era ancora presso di lui. Continuava a restare il comandante in capo effettivo delle forze armate.
Nel caso in cui, per esempio, avesse spontaneamente consegnato a Eltsin questa famosa valigetta, come avrebbero reagito in parlamento? Che cosa avrebbe detto l’opposizione in questo caso? Si conosceva bene quello che era il carattere di Eltsin. Come si sarebbero comportati poi i paesi a livello internazionale? Avrebbero potuto riconoscere ufficialmente un cambio di potere di tal fatta all’interno del paese? L’avrebbero riconosciuto oppure no? Cioè, riconoscere l’effettivo cambio della guardia e riconoscere in Eltsin l’effettivo presidente della Russia, oppure rifiutarsi di riconoscerlo come tale. Per cui alla fine, per evitare appunto di prendere su di noi la responsabilità di un eventuale spargimento di sangue e anche la responsabilità di una guerra civile, optammo per la decisione che ora vi vengo esponendo.
E tenendo presente anche il fatto che tutti i nuovi presidenti delle repubbliche autonome all’interno della federazione avevano una grande sete di potere, non di un potere generale e universale, ma di un potere personale esattamente nelle loro mani, già s’immaginavano di essere ricevuti nei paesi occidentali, che un tappeto rosso venisse steso sotto i loro piedi, che squillassero le bande, risuonassero gli spari e i colpi a salve in loro onore, e via discorrendo. E quindi siamo arrivati alla conclusione che l’unica soluzione possibile era quella di consegnare tranquillamente gli attributi del potere da una mano all’altra, ovvero Gorbacev a Eltsin.
Ricordo di aver provato veramente un profondo senso di inquietudine quando ho visto passare dalle mani di Gorbacev a quelle di Eltsin la famosa valigetta per il controllo delle armi nucleari: ho sentito dentro di me una forte inquietudine. Ha messo nelle mani di Eltsin documenti ultra segreti, siglati come segretissimi, documenti che Eltsin non aveva assolutamente mai visto e, dopo aver cominciato a leggerli, non finiva di meravigliarsi di quello che i suoi occhi vedevano.
Questo “addio” da parte di Gorbacev al potere richiese circa otto ore di tempo, e, secondo me, anche alcune ingiustizie sopravvennero, tuttavia la conversazione posso definirla buona. La considerazione che io ho fatto allora, vedendo questi due uomini discorrere pacatamente fra di loro fu che, se fossero stati capaci prima di parlare fra di loro in quel modo, probabilmente non si sarebbe arrivati a quel punto. E tuttavia, anche in questo caso, emerse il fenomeno, quello che il potere comporta. Quindi, con la storia non bisogna discutere, la storia bisogna studiarla.
Mario Quaranta Io vorrei, è questo il mio obiettivo, dire in breve quali sono le tesi fondamentali che sono sostenute in questo libro, per dar modo anche a voi di formulare alcune domande al nostro storico e politico che abbiamo l’onore di avere qui fra noi. È un’occasione unica, sia per la statura politica, morale di Jakovlev, sia perché credo che tutti noi abbiamo interrogativi sulle vicende attraversate dall’Unione Sovietica in questi cinquantanni e sulle prospettive che si aprono a questo grande paese, che è una condizione fondamentale della stabilità dell’ordine internazionale. Prima di passare a enunciare queste tesi, vorrei dirvi che io ho letto questo libro con un’iniziale diffidenza, perché la mia esperienza di lettore di testi di studiosi sovietici di un tempo è stata un po’ disastrosa, nel senso che ho letto testi grossi, ma noiosi, in cui ci descrivevano un paese che passava di progresso in progresso e che era vicino a raggiungere il comunismo.
Ebbene, questo è un libro di uno storico, prima di tutto, che non ci racconta le favole di un tempo; è uno storico che ci dice con quanta fatica e a quale prezzo il popolo della Russia si è emancipato da un regime totalitario, di cui lui è stato un protagonista. E non lo tace. Anzi, uno dei capitoli più belli, anche dal punto di vista della scrittura, è proprio il capitolo che riguarda la sua vita. Ci racconta dov’è nato, chi erano i suoi genitori, cosa faceva il padre, la madre, quali sono state le sue prime letture, ed è una cosa abbastanza insolita in storici, non solo italiani, quello di avere il coraggio di rivedere la propria vita, di andare cioè alla ricerca delle ragioni per cui è diventato quello che è diventato, delle ragioni per cui ha pensato di poter realizzare una società nuova e più giusta e delle ragioni per cui, invece, si è trovato di fronte a una società caratterizzata dalla repressione. Tutto questo noi troviamo in questo libro e non solo.
Voi avete sentito che Jakovlev ha detto che in occidente si conosce poco, ancora troppo poco dell’Unione Sovietica, e ci ha dato un esempio. Quale libro, resoconto giornalistico avete letto, abbiamo letto di come veramente è avvenuto il passaggio dei poteri tra Gorbacev e Eltsin? Non in questo modo. Jakovlev è stato nei meccanismi più elevati e più importanti del potere sovietico per una vita e ce li descrive in termini precisi, rigorosi. Le tecniche di conquista del potere, le tecniche per tentare di eliminare gli avversari, le tecniche per tentare di liquidarlo sul piano morale, sul piano politico, lui che era uno degli elementi di punta della perestrojka.
Ora, questo libro ha un sottotitolo che può sembrare abbastanza strano: Da Stolypin a Putin. E chi è Stolypin? E perché parte da Stolypin? Stolypin è il ministro, ucciso nel 1911, che ha tentato di realizzare la riforma agraria in Russia. E noi lo comprendiamo bene questo problema, perché anche la storia italiana è caratterizzata da tentativi falliti di fare la riforma agraria, perché, dopo la rivoluzione inglese e quella francese, noi sappiamo che la modernità, lo sviluppo moderno lo si ha quando si supera il feudalesimo nelle campagne. Tant’è vero che lo sviluppo in Italia quando è iniziato? Quando si è fatta la riforma agraria, dagli anni ’50 in poi.
Forse anche Jakovlev avrà sentito parlare del miracolo veneto. E in che cosa è consistito il miracolo veneto? Nella libertà di mercato della piccola proprietà contadina, che è diventata industria del terziario e industria. E Jakovlev sostiene questa tesi. Ve la dico con le sue parole: “Non mi stancherò mai di ripetere che, finché il contadino non avrà ottenuto la terra come proprietà privata, la Russia resterà povera e continuerà a chiedere l’elemosina dell’occidente”. Questa è la prima tesi che sostiene.
In altri termini, c’è uno stretto rapporto tra la libertà politica, cioè la libertà di mercato, e la riforma agraria. Ebbene, la seconda tesi è che in Unione Sovietica c’è stata l’occupazione militare delle campagne, la repressione dei contadini come atto fondamentale dello sviluppo industriale. È questa la costante della storia dell’Unione Sovietica degli ultimi cinquant’anni. Ora, questo, cosa ha determinato? Quali sono stati gli effetti di questa decisione, che è stata la decisione iniziale della costruzione del cosiddetto socialismo? Come nasce un totalitarismo?
Noi sappiamo com’è nato il totalitarismo nazista, il totalitarismo fascista. Ma il totalitarismo in Unione Sovietica, come è nato? Quale è stata la condizione prima? È stata la eliminazione dei contadini come classe sociale attiva e produttiva. E questo ha cambiato la natura del partito comunista, perché lo ha fatto diventare, è diventato lo strumento della repressione, di una repressione permanente, che si è riversata nella società ma anche all’interno dello stesso partito comunista; si è riversata verso tutti coloro che rappresentavano i ceti della media, piccola proprietà, dei contadini, cioè il partito socialista, il partito socialista rivoluzionario, eccetera. Per cui la prima domanda che mi viene da fare alla fine della lettura è questa: è vero, la Russia è passata da uno stato totalitario a una democrazia, non c’è dubbio. Ma quali sono oggi gli ostacoli che impediscono tuttora la libertà di mercato e la libertà, cioè la libertà politica dei contadini?
Aleksandr Jakovlev Quello che Lei mi pone è un problema che tormenta anche me. Nonostante tutto, con la perestrojka noi siamo riusciti a rimettere in piedi un parlamento. Non posso dire che lavori al meglio, tuttavia lavora. Abbiamo restituito 4000 chiese alla varie religioni, consentitemi di esserne fiero. Tuttavia non siamo riusciti a compiere quello che ora, a posteriori, vedo che sarebbe stato il passo definitivo, cioè non siamo riusciti a dare all’uomo la proprietà, perché un uomo può considerarsi tale, e un uomo libero può considerarsi tale, solo quando è padrone della sua proprietà e ha la possibilità di difenderla. Se siamo riusciti a fare qualcosa dal punto di vista economico, dal punto di vista politico molte sono le lacune rimaste.
E, d’altra parte, io cerco di capire come possa essere avvenuto questo e cerco anche di capire il mio comportamento. Noi allora ci rendevamo perfettamente conto che non appena si fosse passati sul piano delle riforme vere ci sarebbe stata, da parte della nomenclatura, che era tuttavia la vecchia nomenclatura, una fortissima straordinaria opposizione. Io ricordo una conversazione precisa avvenuta fra me e Gorbacev, una conversazione nella quale io gli proponevo la necessità di ridurre l’apparato burocratico elefantiaco nel paese di un buon 60-70%. La risposta di Gorbacev è stata molto perplessa e molto indecisa. “No, – dice – non bisogna spezzare le ossa alla gente”. Io gli risposi allora: “Beh, forse conviene farlo prima che siano loro a spezzarle a lei”.
Il vero passaggio, la vera uscita dal vecchio regime al nuovo è cominciato ad avvenire in realtà circa un paio d’anni dopo l’inizio della perestrojka. Per esempio il generale Lokachov, che in seguito, nella Duma, è diventato un chiaro antisemita e un fascista e tuttavia, fortunatamente, ha perso nelle ultime elezioni e quindi non fa più parte della Duma, questo generale, a proposito del presidente, l’ha dichiarato assolutamente ignorante di cose militari e con tono molto ironico e molto irriverente, alla Duma, davanti a tutti, ha proposto al presidente che venisse mandato a un corso di due settimane per informarsi sullo stato dell’esercito.
Immediatamente mi recai da Gorbacev e gli chiesi: “Che cosa vogliamo fare? Bisogna fare qualcosa”. Gorbacev telefonò in mia presenza al ministro Jazov e Jazov immediatamente suggerì che l’avrebbe mandato come attacché militare in Vietnam. Voi pensate che sia successo qualcosa? Nulla di nulla, nulla di fatto. Ed ecco che pian pianino hanno cominciato a criticare Gorbacev, è stato allora l’inizio. Lui è un uomo tutto sommato malleabile. E purtroppo, quando si è uomini di stato, arrivano dei momenti in cui è necessario prendere su due piedi delle decisioni molto dure.
È esattamente questo che, ora come ora, impedisce un passaggio completo alla democrazia, ovvero questo immenso apparato di funzionari e di burocrati, che fu sicuramente la base, il fondamento del regime bolscevico e che ora costituisce l’ostacolo maggiore per un compiuto passaggio alla democrazia per il semplice fatto che i burocrati non la vogliono. Il secondo fattore io lo trovo nella psicologia, un elemento che noi sicuramente non abbiamo a suo tempo valutato fino in fondo. Abbiamo allora forse ingenuamente pensato che ci sarebbe bastato annunciare di dare al popolo la libertà e sarebbe diventato tutto un ballare nelle piazze dalla gioia. Invece, più che della libertà, l’uomo comune si occupava della sua sopravvivenza, di sbarcare il lunario, diciamolo chiaramente.
Quindi, questo elemento, la psicologia della gente, secondo me continuerà a costituire un ostacolo per lungo tempo nel passaggio della Russia verso la democrazia. A questo proposito, vorrei citare una barzelletta, che mi sembra molto buona. A un vecchietto, pressappoco come me, viene chiesto: “Andava meglio prima o va meglio adesso?” Il vecchietto rimescola a lungo dentro di sé la risposta e poi dice: “Beh, prima si stava meglio” “Ma come! – gli dicono – Tu sei un democratico!” “Non è questo il problema. Le ragazze erano più giovani!”.
Mario Quaranta Io la ringrazio di questa risposta molto completa. Come avete sentito, Jakovlev ha iniziato ricordando una cosa fondamentale, che oggi in Russia è vissuta come l’elemento che caratterizza questa nuova fase: abbiamo un parlamento. Sì, avrà i limiti, avrà tutto quel che volete, ma c’è un parlamento. Perché ha messo in evidenza per primo questo elemento? Perché un’altra delle tesi che sostiene Jakovlev è che il regime dittatoriale ha un momento di inizio storicamente molto preciso: è iniziato quando il partito comunista ha eliminato il primo parlamento che è avvenuto in Russia allora, con la rivoluzione del febbraio del 1917 che precede quella del 1918 con Kerenskij.
Lasciamo stare perché è avvenuto, come è avvenuto, ma egli ritiene che aver impedito che si consumasse una esperienza, che è un’esperienza liberal-democratica, è stato l’elemento decisivo dello sviluppo successivo degli eventi. Perché? Perché lo diceva anche il nostro Churchill. Il parlamento e il regime parlamentare ha tanti limiti, ma se togliamo questo, creiamo una situazione peggiore. Oltre il parlamento c’è la dittatura, di qualsiasi tipo, di destra o di sinistra che si presenti. Perciò loro, giustamente, mettono innanzitutto in evidenza che la differenza e il momento di passaggio dal regime totalitario alla democrazia è avvenuto tramite il parlamento, come è avvenuto nei paesi occidentali.
La domanda è questa: noi abbiamo vari tipi di regimi parlamentari. Abbiamo la repubblica presidenziale, abbiamo il nostro regime parlamentare. Oggi, in Europa, in tutti i paesi, si discute dei poteri che ha o deve avere il parlamento, dal momento che abbiamo un’Europa che ha già dei poteri per quanto riguarda la politica economica e altri aspetti della politica, che non vengono fatti dai singoli paesi ma vengono fatti dall’Europa in quanto tale. La domanda che pongo è questa, e per essere più chiaro, voglio dire anche qualche cosa che non mi ha soddisfatto pienamente del libro, e cioè l’avere messo troppo poco in evidenza che uno dei motivi fondamentali del totalitarismo staliniano è la repressione delle minoranze nazionali, delle minoranze etniche. E noi ricordiamo che quando Gorbacev si è trovato di fronte a questo problema, non l’ha affrontato di petto, tanto è vero che oggi in Unione Sovietica c’è la questione cecena.
Ora, la mia domanda è questa: qual è il rapporto che avete stabilito o che pensate di stabilire con le minoranze nazionali, con i parlamenti delle singole nazioni? Perché è lì che si è giocata la partita fondamentale all’origine del totalitarismo e è qui che si gioca la partita fondamentale della democrazia, in Russia come in Europa, perché anche qui c’è stata una lunga guerra civile, in Irlanda, della minoranza, e è stata risolta; anche qui la democrazia spagnola ha il problema basco. Risolvere i problemi nazionali, anche noi li abbiamo avuti, in Trentino Alto Adige, significa creare rapporti fiduciari tra tutti i popoli dell’Unione Sovietica, fra tutti i popoli europei; è una condizione fondamentale per lo sviluppo stesso delle nazionalità. Perciò non ritiene Jakovlev, che questo aspetto delle minoranze non sia stato affrontato adeguatamente da Gorbacev e lo trovino oggi come un elemento decisivo nello sviluppo della democrazia in Russia?
Aleksandr Jakovlev Effettivamente la domanda che mi pone è una domanda reale ed è anche molto seria. Secondo me, il presidente in carica ha cominciato a risolvere nel modo giusto esattamente questo tipo di questione o perlomeno ad affrontarla. Ha dato disposizione affinché i parlamenti locali delle varie repubbliche e l’esecutivo provvedessero a rinnovare o a creare le loro costituzioni in perfetta armonia e nel perfetto rispetto della costituzione centrale, della costituzione della federazione. Questo è il primo passo mosso da Putin. In secondo luogo ha diminuito, limitato il potere dei governatori e anche dei soviet della federazione. Per dirla in termini duri, si tratta sicuramente di un provvedimento non esattamente democratico, però tutti i governatori, con l’eccezione di uno solo, hanno aderito alla richiesta di Putin, si sono lasciati, per così dire, ridurre la sfera di potere. Perché si sono affrettati ad acconsentire e a piegarsi alle richieste di Putin?
La risposta è molto semplice. Per il semplice fatto che sono stati loro mostrati personalmente i dossier relativi ai furti da loro abbondantemente operati. Praticamente, il discorso che è stato loro fatto è una forma di ricatto: “Non vi cacciamo in prigione, però voi, dal canto vostro, state molto bene attenti a come amministrate la vostra sfera di potere”. Alcuni governatori, dopo aver letto quei dossier, hanno deciso addirittura di dare le dimissioni, per esempio Kondratienko il governatore del distretto di Krasaiatz. Era un individuo il quale gridava a piega gola, e non si vergognava di farlo, che tutto il male del paese era da imputarsi agli ebrei. E questo per darvi un’idea del livello intellettuale della nostra nomenclatura.
Secondo me, il passo successivo sarà quello di una chiara differenziazione delle funzioni, ovvero le funzioni che rimarranno al potere centrale e quelle che verranno delegate ai poteri locali, di modo che non ci sia incrocio e sovrapposizione. Secondo le mie osservazioni, mi sembra che questo processo stia procedendo in modo positivo e con successo. Per esempio, addirittura i tartari hanno acconsentito a non mostrare più sul passaporto la loro nazionalità, hanno proposto di fare una dichiarazione a parte, ma non inserire questo nel passaporto. Abbiamo 140 nazionalità diverse nella federazione, e se tutte queste 140 nazionalità dovessero continuamente lottare per la loro identità e per la loro autocoscienza nazionale, una coscienza nazionale di cui spesso si ha ben poca idea, insomma, non è che ne siano molto al corrente, non si farà nessun passo avanti. Lei aveva preannunciato delle domande un po’ malandrine. Dove sono?
Dal pubblico Professor Jakovlev, io ho sempre avuto un grande dubbio sulla personalità di Gorbacev. Chi era Gorbacev? Doveva essere il becchino del comunismo? Era convinto che bisognava liberare il comunismo in tutte le sue forme e implicazioni o era semplicemente il notaio che voleva accompagnare e prolungare il comunismo nel più lungo tempo possibile?
Aleksandr Jakovlev Devo dire che Lei mi ha posto la domanda che io ritengo più difficile, anche per il fatto che, non dimentichi, io ho lavorato quattro anni al fianco di Gorbacev, e potrei restare qui a raccontarle di lui a lungo, fino al mattino. È un uomo che merita sicuramente un discorso molto serio. Nel mio libro gli ho dedicato un capitolo a parte, un centinaio di pagine. Addirittura, dopo l’uscita del libro, per un paio di settimane, lui non si è fatto nemmeno sentire, non mi ha neanche telefonato, cioè si è offeso; è infatti un uomo molto sensibile e quindi si offende facilmente. Poi, comunque, abbiamo rimesso le cose a posto, anzi, tanto a posto che adesso cerchiamo di unificare i due partiti che fanno capo a noi. Se non altro per il fatto che Gorbacev ha avuto il coraggio, l’ardire di alzare la voce contro il regime totalitario, mi basterebbe solo questo elemento per provare rispetto nei suoi confronti. Sicuramente io non nego il ruolo che ho avuto nella glasnost’ e nella perestrojka nei mutamenti avvenuti nel paese, ma vi assicuro che non avrei fatto nulla senza Gorbacev.
In pratica lui era segretario generale del partito e tutto dipendeva da lui, qualsiasi cosa io proponessi, era necessario che fosse lui ad avere l’ultima parola. E tuttavia, a mio avviso, fino ad ora, in parte continua a illudersi e a parlare del suo soggetto preferito, ovvero del socialismo. Io cerco di convincerlo che è inutile continuare a parlare di socialismo in Russia, anche per il semplice fatto che la gente, sul socialismo, ha idee molto precise che difficilmente cambierà, e lo associa automaticamente al passato del paese. Al che lui obbietta che la sua idea di socialismo invece è un’idea tutta diversa, l’idea del socialismo delle origini, collegato anche a elementi di cristianesimo. Al che io gli ho detto: “Ma tu pensi che qualcuno avrà mai il coraggio di credere a un personaggio come te che è stato segretario generale del partito comunista, ha ricoperto le cariche più alte, ha lavorato all’interno del partito per decenni, ha puntualmente eseguito le direttive del regime? Di botto, un personaggio come questo diventa un social-cristiano. Come facciamo a crederti?”. Poi continuo a obiettare e gli dico: “Ma non ti rendi conto che noi il socialismo in casa nostra l’abbiamo già fatto, ed è finito male. Diamo adesso la possibilità a qualche altro paese di realizzarlo e noi stiamocene tranquilli a guardare”.
Mario Quaranta Effettivamente il capitolo su Gorbacev è quello in cui si avverte di più la partecipazione politica di Jakovlev, e lui dice esplicitamente quale è stato il limite di Gorbacev, il limite culturale e politico, cioè quello di avere ritenuto che il partito comunista fosse ancora in grado di collaborare alla revisione di se stesso, che ci potesse essere un’autoriformazione, e, come abbiamo sentito, anche adesso Gorbacev pensa ancora che il socialismo sia un modello realizzabile. Mentre Jakovlev è stato più lucido, ha capito che un’epoca storica era finita e che bisognava voltar pagina. Non solo, ma qui nel libro c’è un documento di poche pagine, molto importante a mio giudizio, perché è la prima formulazione della perestrojka che ha dato Jakovlev, la sua posizione.
Allora io vorrei chiedere questo: qual è stato l’atteggiamento, la decisione di Gorbacev che gli ha fatto capire che questo personaggio, i cui meriti storici sono indubbi, era al di sotto delle speranze, delle attese e della situazione russa? E poi: Jakovlev è stato, l’abbiamo sentito, sempre presente ai massimi livelli della nomenclatura, da Chruscev in poi. C’è stato un momento della sua vita politica e personale in cui ha detto: “Beh, mi metto da parte, ho capito che non c’è nulla da fare”, cioè qual è stata la spinta che l’ha indotto a continuare, anche se isolato, e cos’è oggi la spinta che lo induce a fare un giro per il mondo, a discutere della Russia e a partecipare alla vita politica attraverso quei partiti, quei partitini, diremmo noi, che ci sono e che non si sa quale futuro abbiano in termini di sviluppo e in termini di alternativa ai partiti che ancora si richiamano al vecchio regime?
Aleksandr Jakovlev Sono stati due i momenti fondamentali e decisivi che mi hanno costretto, per così dire, alle dimissioni. Successe alla fine di luglio del 1991. Ho cercato di mostrare a Gorbacev che il complotto (si stava preparando il putch [colpo di stato], non lo dimentichiamo) era assolutamente inevitabile. E addirittura non mi limitai alle parole, ma gli scrissi addirittura una nota, un biglietto ufficiale. Gli scrissi ufficialmente, nero su bianco, che l’élite della nomenclatura del partito e dell’esercito stavano preparando un complotto. Lui obbiettò dicendomi: “Fammi vedere i fatti. Dove sono i fatti?” “Purtroppo – dissi – non ne ho a disposizione, però so contare, so contare sicuramente fino a dieci”. Lui rispose alla mia nota dicendo che sembrava che io sopravvalutassi il coraggio, l’ardire e l’intelligenza delle persone di cui parlavo. Recentemente io gli ho chiesto perché allora non mi abbia creduto, e lui mi ha risposto: “Non lo so nemmeno io”. Io però so perché lui allora aveva smesso di avere fiducia in me.
Il capo del KGB di allora Chruckov, aveva cominciato a far circolare cattive voci sul mio conto, a far circolare il fatto che io fossi agente della C.I.A.. Il secondo elemento è derivato dal documento che avrebbe dovuto costituire la nuova unione delle repubbliche, un trattato sulla costituzione della nuova federazione russa che si sarebbe dovuto firmare il 19 di agosto. Cercai allora di convincerlo che da una federazione non sarebbe uscito nulla di buono. Ho cercato di convincerlo che non una federazione quanto una confederazione si doveva creare all’inizio. Al che lui obiettò dicendo che era impossibile delegare il potere in tale quantità. Ho cercato invano di convincerlo che quanto maggiore potere avesse delegato, tanto maggiore potere, comunque, sarebbe rimasto a lui nelle sue mani, e non c’è paradosso in questa affermazione. Sarebbe rimasto, cosa veramente essenziale, a capo di un esercito unito, a capo di una amministrazione unita e di un sistema difensivo, quindi, della polizia centralizzata. Quale potere di più pretende un uomo di concentrare nelle sue mani?
Quando gli ho mandato la lettera delle dimissioni, mi ha telefonato e abbiamo avuto una conversazione di circa tre ore e mezzo. Abbiamo cercato in qualche modo un modus vivendi fra di noi, purtroppo senza esito. Lui dovette firmare le mie dimissioni e se ne andò in vacanza. Non appena lui andò in vacanza, io venni immediatamente radiato dal comitato centrale per spazzarmi via dalla scena politica e il 19 agosto i carri armati riempivano le vie di Mosca. L’Unione Sovietica è crollata. Non è solo crollata. Che sarebbe crollata mi era chiaro fin da prima, ma il suo crollo è stato un crollo caotico; è il caos che si sarebbe dovuto evitare. Sulla base di una doppia trattativa si sarebbe dovuto evitare il caos. Devo dire che, dopo il complotto, Gorbacev mi ha richiamato accanto a sé, stava passando un periodo molto difficile e io ho deciso di riavvicinarmi a lui.
Ruggero Chinaglia Chiaramente, ci sono moltissime cose che il presidente Jakovlev potrebbe raccontarci; molte cose sono anche nel suo libro che invito ciascuno a leggere, ad acquistare e lui sarà lieto di apporre anche la sua dedica questa sera. Ma prima di congedarlo, vorrei fargli un’ultima domanda, perché dalle domande che molto acutamente, con precisione Mario Quaranta gli ha posto è emerso il panorama, i motivi, le ragioni della trasformazione che c’è stata, del suo stesso travaglio intellettuale che l’ha portato a occupare posti di governo insieme a una “posizione” intellettuale che proponeva un’altra cosa. Ebbene, in questa sua posizione di non avvallo di qualunque cosa, anche di promotore, che a un certo punto in situazioni drammatiche l’ha portato a fare qualcosa che ha impedito la guerra civile, in questa sua posizione non ha mai temuto per la sua vita? La sua vita non è mai stata in pericolo? Non ha mai pensato che avrebbe potuto anche venire eliminato?
Aleksandr Jakovlev Forse la mia affermazione può avere un suono eccessivamente patetico oppure eroico, ma io non mi considero un eroe. Anch’io naturalmente provo sensazioni di paura, perché sono un uomo normale come tutti. Non credo sicuramente a questi impavidi eroi che sono degli stupidi e dei fanfaroni. Eppure io ritengo, siccome ho combattuto durante la seconda guerra mondiale, che in qualche modo il mio terrore interiore, la paura di ogni uomo in qualche modo è scomparsa, l’ho tenuta sotto controllo. Questo riguardo alla seconda guerra mondiale. Durante gli avvenimenti di cui abbiamo parlato questa sera, mi sono sempre ripetuto: “Se tu hai paura, per quale ragione ti sei messo dentro queste faccende, in questa guerra maledetta che hai cominciato a combattere?”.
Alle sei del mattino del 19 agosto del 1991 il generale Kalubin, era un generale del KGB, mi ha svegliato per dirmi che si stava preparando un complotto. Mi ha lasciato senza parole. Gli ho chiesto se avesse la testa lucida e lui mi ha risposto che era lucido come non lo era mai stato. Alle nove del mattino, un giornalista che conoscevo bene è venuto nel mio appartamento per dirmi che due automobili del KGB stazionavano sotto la mia casa. Ho chiesto che bisogno c’era che stessero lì e il mio amico mi ha risposto che sotto casa mia si era radunata una folla di giornalisti. Erano tutti intenzionati a farmi un’intervista, a intervistarmi esattamente quel giorno.
Telefonai a Eltsin, era alla sede del parlamento, appena arrivato dal Kazakistan. Stava scrivendo qualcosa con i suoi giovani aiutanti, un appello al popolo, ma la cornetta venne alzata al parlamento dal mio vecchio amico membro dell’accademia delle scienze Rechov. E lui mi chiese: “Hai proprio bisogno di Eltsin?” E io dissi: “Sì, ho veramente bisogno di lui”. Cinque minuti dopo, mi telefonò a casa Eltsin in persona. Gli raccontai delle macchine del KGB sotto casa mia. Nel giro di cinque minuti arrivò un’altra macchina che conteneva quattro giovanotti delle truppe speciali e quelli del KGB fecero dietro-front e se ne andarono. Al KGB vennero tolti i documenti, documenti relativi al fatto che 72 persone avrebbero dovuto venire arrestate esattamente quella mattina. Era stata addirittura preparata una caserma per accogliere questi 72 individui, però quelli del KGB sono riusciti ad arrestare in tutto solo tre persone delle 72 indicate, che secondo la bella tradizione russa, non avevano nulla a che fare con quella vicenda.
C’era anche il mio nome in quell’elenco. C’era in quest’elenco di 72 persone un elenco speciale, all’interno di esso, che ne comprendeva 12. Era previsto che queste 12 persone venissero eliminate. Eltsin pensava a un internamento in un campo di concentramento, cioè in uno dei vari campi in mano al KGB. Però coloro che organizzarono il complotto, in definitiva si dimostrarono dei vigliacchi, incapaci di compiere l’opera iniziata. Veramente io non riesco a capire come il capo del KGB, con il potere che si ritrovava e tutti gli altri pezzi grossi che stavano con loro, non sia stato capace di occupare il parlamento. Sarebbe bastato un battaglione, una squadra di fanteria marina, alla quale io appartenevo durante la guerra, per impadronirsi dell’edificio del parlamento; invece loro, per ben tre giorni, con tutto il potere del paese e dell’esercito a loro disposizione, non sono riusciti a impadronirsi del parlamento.
Devo dire una cosa a conclusione: in tutti questi tre giorni terribili del putch di agosto, sono state le donne di Mosca che mi hanno veramente stupefatto. Sono quelle che hanno capito subito che c’era da fare una cosa immediatamente: dar da mangiare ai carristi. Preparavano una minestra a casa e andavano a dar da mangiare ai soldati, ai carristi, come se fossero figli loro. E, in questo modo, tutti i carristi sono stati in qualche modo neutralizzati. È stato veramente uno spettacolo molto commovente e assolutamente stupefacente.
Ruggero Chinaglia Insomma, ci sarebbero sicuramente molti altri aneddoti nella vita di Jakovlev che potrebbe raccontarci, ricchi di esperienza, testimonianza, ricchi soprattutto della lezione di vita che viene dalle sue parole una testimonianza soprattutto della sua libertà intellettuale, della sua umanità. Proprio riconoscendo il valore morale e intellettuale della sua vita, a Milano gli è stata conferita l’onorificenza dell’Ordine del secondo rinascimento proprio per un apprezzamento delle sue doti morali e delle sue qualità intellettuali. E anche stasera dalle sue parole se ne ricava una lezione di vita: chi si trova alla punta dell’esperienza, chi si trova nel rischio di vita non ha nemmeno il tempo di avere paura e credo che sia questo il motivo che ciascuno può trarre dalle sue parole, stasera, di non avere paura, di trovarsi giorno per giorno nella battaglia per la libertà intellettuale. A questo noi puntiamo, da questo procediamo e con questi incontri, con questi dibattiti e con le attività della nostra associazione e della casa editrice.