L’arte ebraica e la cabala
- Brandalise Adone, Segato Giorgio, Shenkar Nadine
11 Aprile 2001. Conferenza di Nadine Shenkar, dal titolo L’arte ebraica e la Cabala, in occasione della presentazione del libro di Nadine Shenkar, L’arte ebraica e la Cabala, edito da Spirali, presso la Sala del Romanino del Museo Civico agli Eremitani, in piazza Eremitani, a Padova, con il patrocinio della Regione del Veneto e del Comune di Padova. Interventi di Adone Brandalise, Ruggero Chinaglia, Giorgio Segato.
NADINE SHENKAR
L’arte ebraica e la Cabala
intervengono
- Adone Brandalise, critico letterario e docente dell’Università di Padova
- Ruggero Chinaglia, cifrante
- Giorgio Segato, critico dell’arte
Ruggero Chinaglia Vi annuncio che è giunta in libreria l’ultima produzione editoriale di Spirali, si tratta di un libro che racchiude gli interventi che Vladimir Bukovskij, Vasilij Bykov e Viktor Suvorov hanno tenuto in varie città d’Italia, qualche mese fa, e il libro si intitola La mentalità comunista. È un libro di grande interesse che contiene le testimonianze di tre intellettuali dissidenti attorno a ciò che loro chiamano “la mentalità comunista”, cioè ciò che resta di un’ideologia.
Invece, l’incontro di questa sera verte intorno a un altro libro, L’arte ebraica e la Cabala, di cui abbiamo qui l’autrice Nadine Shenkar, che viene da Gerusalemme. Nadine Shenkar è autrice di numerosi saggi sia intorno alla cabala sia intorno alla letteratura inglese e americana. Il suo itinerario intellettuale è molto articolato. È vissuta e si è formata a Parigi e vive da vent’anni ormai a Gerusalemme, dove insegna all’Accademia d’arte Bezalel e dove ha insegnato anche all’Università di Gerusalemme.
Questo incontro s’inscrive nella serie di dibattiti che l’Associazione cifrematica di Padova sta organizzando intorno alla questione intellettuale a Padova, città del secondo rinascimento, incontri che mirano a cogliere l’istanza intellettuale, quali siano le questioni attorno a cui si svolge una ricerca innovativa, non ideologica, intellettuale in varie parti del pianeta. Abbiamo cominciato quest’anno attorno alla questione della scrittura della vita, la biografia, con il libro di Maria Antonietta Viero La ballata del Moro Canossa. Abbiamo proseguito poi con Antimo Negri, filosofo, con la questione dello stato e il libro Discorso sullo stato presente degli italiani e siamo qui questa sera attorno al libro L’arte ebraica e la cabala.
Un filo collega questi incontri apparentemente così differenti e vari, e è la ricerca intorno alla parola originaria, alla parola originaria che diviene cifra, che si rivolge alla qualità. Quindi, attraverso la questione della scrittura, la scrittura della vita, la scrittura della memoria, attraverso la questione dello stato come individuo, come l’indivisibile che è condizione del dispositivo sociale, del dispositivo pragmatico, questa sera entriamo proprio nello specifico della parola originaria attraverso la Cabala. Occorre dire che la Cabala ebraica è una questione molto complessa, difficile.
Mi diceva oggi Nadine Shenkar che è composta da 3000 e più libri, e quindi questa sera non è che possiamo entrare nello specifico per più che un granello, diciamo così, però mi pare importante aver approfittato della presenza in Italia di Nadine Shenkar per avvicinarci a qualcosa che riguarda il pensiero ebraico, la civiltà ebraica. La cabala ebraica non già come sistema gnostico di sapere, ma come questione del cammino, dell’itinerario, della formazione che giunge al modo di vita, quindi all’esperienza come esperienza originaria, perché è di questo che ci occupiamo con la cifrematica, con la ricerca attorno alla parola originaria.
Nel catalogo della casa editrice Spirali c’è una presenza di autori ebraici considerevole, proprio perché l’attenzione al pensiero ebraico e a alcune sue fondazioni è stata una caratteristica del Movimento freudiano internazionale e dell’Associazione cifrematica, non solamente perché Freud era ebreo, ma perché ci sono delle implicazioni che riguardano il pensiero ebraico nell’invenzione che Freud ha fatto della psicanalisi. In particolare la questione del sogno non è certamente secondaria all’importanza che ha nel pensiero ebraico la questione della parola, del racconto, la questione di una lingua che esiste nell’atto in cui si formula, non secondo un codice prestabilito, non per seguire e confermare verità già date.
Quindi, in questo senso, mi sembra che si tratti di cogliere gli elementi di testimonianza che ci darà Nadine Shenkar in quanto sono testimonianze della sua formazione e quindi della sua esperienza come esperienza originaria. In fin dei conti ritengo che addentrarci a cogliere qualcosa della Cabala, che si avvale sia della filosofia sia della metafisica, ma è soprattutto qualcosa che approda a un modo originario di vivere, ci consente forse di capire anche perché l’ebreo è sempre stato perseguitato in occidente, qua e là, come rappresentante della differenza, come esponente di qualcosa che è passata come diversità, forse proprio perché introduce con la sua testimonianza un pensiero che destabilizza il sistema a cui l’occidente tende.
E forse è in questo senso allora che noi possiamo cogliere il motto di Freud quando diceva: “Loro non sanno che portiamo loro la peste”. Diceva questo nel 1912 recandosi in America per alcune conferenze, e questo suo motto è stato attribuito alla psicanalisi, la peste della psicanalisi. Ma forse abbiamo modo di intendere oggi che questa peste non riguarda solamente la psicanalisi, ma più radicalmente il pensiero, la logica che Freud, evidentemente in quanto ebreo, ha introdotto anche nella psicanalisi, ma certamente non solo in questo.
Adone Brandalise Vorrei limitarmi adesso ad alcuni rapidi accenni, tentando di servire una finalità che vado rapidamente a enunciare, anche se ricorrendo a una modalità che senza tentativi imitativi, che potrebbero sembrare parodistici, potrà avere qualche tratto un po’ cabalista. Poc’anzi Ruggero Chinaglia ricordava come la letteratura propriamente cabalistica costituisca un monumento immane; la biblioteca della cabala è qualcosa di borgesianamente babelico, ingigantita evidentemente dalla somma dei contributi critici che la riguardano e, probabilmente, fissare questo monumento con eccessiva insistenza potrebbe determinare, anche in esperti assai più corposi di chi vi sta parlando, come un moto di ammutolimento.
Mi soccorre peraltro un passo estremamente ambiguo o, se vogliamo, ambivalente in quel contesto, della commemorazione che il grande Ghershom Scholem tenne alla morte di Franz Rosenzweig. Probabilmente uno dei momenti più elevati del pensiero filosofico del secolo passato e nello stesso tempo, forse, anche uno dei luoghi in cui, con la massima forza e il massimo rischio, la tradizione ebraica, e cabalistica in particolare, viene convocata a confrontarsi con gli snodi più decisivi del pensiero per noi contemporaneo, ivi comprendendo il rischio a cui nel nostro contemporaneo, qualora realmente si riesca a aprirlo, viene a esser messa l’intera nostra tradizione.
E ricordo che Ghershom Scholem disse della Stella della redenzione, il capolavoro filosofico di Franz Rosenzweig, che quasi egli si sarebbe augurato che quelle pagine piene di splendore di scrittura, splendore di meraviglioso e veritiero artificio logico, potessero quasi andare in polvere, perché restasse soltanto la forza della fede in Dio che le aveva rese possibili. Ora, ciò che forse possiamo tentare di fare stasera è di restituire almeno in parte qualcosa che nel pensiero cabalistico si può avvertire, perché è al tempo stesso talmente intimo e profondo a esso, e nello stesso tempo così irriducibile a contenuto di erudizione da poter essere, anche a un contatto rapido e fugace, percepito quello che potremmo dire un essenziale stile intellettuale.
Perché la cabala, difficilmente può essere colta in quella che ne è l’essenza qualora si pensi di poterla ridurre a un elenco per quanto fitto, per quanto meticoloso, per quanto dotto delle moltissime componenti culturali che essa ha saputo convocare nel corso della sua storia, perché in realtà, occupandoci della Cabala, noi ci occupiamo inevitabilmente della tradizione gnostica, di moltissimi aspetti neoplatonici, sostanzialmente di quasi tutta la grande tradizione del pensiero occidentale antico e medioevale, con aggiunta la complessità di ciò che discende dall’interpretazione biblica.
Eppure, probabilmente, al cuore della cabala sta qualcosa che non può essere confuso con nulla di pieno, con nulla che abbia l’aspetto pesante, massiccio di un oggetto culturale, perché al centro della Cabala sta un movimento che non prevede che resti in pace la nostra presunzione che qualcosa ci sia già, qualcosa che noi ritroviamo in quello stile che siamo soliti genericamente, noi che ne sappiamo poco, concepire un po’ come ebraico, rabbinico e magari passati a rappresentanti laici dell’ebraismo, per cui nella conversazione ebraica ad ogni domanda si risponde con una domanda, impedendo che il piede della mente pensi di poter poggiare su di una terra sicura.
Ora, probabilmente, coloro che hanno già avuto modo di prendere in esame il bellissimo libro di Nadine Shenkar si saranno trovati all’inizio, proprio nel primo capitolo Fatti e paradossi, di fronte a una sequela di citazioni bibliche che poi via via vanno, secondo una tendenza di cui sarebbe interessante analizzare il gioco, verso affermazioni di pensatori cabalisti più recenti. Si va, come vedrete, da affermazioni che sembrerebbero una vigorosa negazione di ogni possibilità di pratica artistica a altre, che ci fanno intendere come, per un processo che in realtà non è di negazione, ma di interpretazione attiva delle precedenti, in realtà l’arte venga ammessa, non solo, ma venga rafforzata e espansa proprio attraverso l’energia che prima sembrava manifestarsi nella sua negazione. È qualcosa che suggestiona chi, come me, si sia occupato anche dell’immagine dell’essere ebreo all’interno delle forme del pensiero occidentale.
Come voi saprete, noi possiamo trovarci di fronte alla rappresentazione kantiana e hegeliana degli ebrei come del popolo della pura obbedienza e della pura soggezione alla legge, ma contemporaneamente, per altre vie, questi stessi autori conoscevano, per quel tanto che conoscevano per esempio di Hamann, che in realtà questo stesso popolo sepolto da leggi era anche lo stesso che aveva elaborato una sorta di grande esperienza di rovesciamento della costrizione della legge in stimolo alla libertà, in stimolo all’invenzione, un popolo che aveva in qualche modo condotto un percorso che al suo centro aveva l’ambizione di dar luogo a un destino per l’uomo che andasse forse aldilà di quello della mera creatura.
Io ricordo che qualche anno fa, licenziando una bella antologia di scritti cabalistici, un autore francese di una certa importanza sottotitolava arditamente Les rites qui font Dieu, (I riti che fanno Dio), indicando in questo modo come il pensiero cabalistico aprisse uno spazio in cui il rapporto tra la creatura e il creatore progressivamente vedeva sfumata una distanza e vedeva messa al centro la forza di una pratica che congiungeva radicalmente entrambi i termini. Comunque, chi legge queste prime battute vorrei che si concentrasse per un attimo sullo spazio vuoto tra una citazione e l’altra, perché forse deve stare soprattutto su questo. Perché tutto ciò che c’è nelle citazioni potrebbe anche diventare falso, se noi non lo cogliessimo a partire da quella pausa di vuoto e di silenzio in cui esse diventano non un reperto, ma un avvenimento per noi.
E qui mi viene alla mente come un altro grande, dopo aver citato Rosenzweig, per par condicio è inevitabile nominarlo, del pensiero anche ebraico, ma proprio perché ebraico assolutamente irriducibile a qualsiasi etimo separato, come Walter Benjamin, sognasse per tutta la vita di comporre un libro fatto di sole citazioni, sostenendo che la citazione aveva un gigantesco vantaggio rispetto a un testo collocato nella sequenza in un discorso continuo e compiuto. Perché, mentre una frase collocata all’interno di un discorso filato è bloccata al contesto, una citazione apre le sue sinapsi a 360 gradi e, mentre una frase collocata all’interno di un testo compiuto è schiacciata verso la domanda “che cosa dice quel testo?”, “che cosa vuole dire l’autore?”, la citazione accade adesso per noi, e si apre in direzione di tutti i discorsi possibili, ci apre al rischio di tutti questi discorsi.
Implicitamente Benjamin, e credo che questo spunto possa esserci utile per questo avvio, coglieva nella forma della citazione anche l’assunzione piena, forte della discontinuità, la forza del discorso che da sempre ricomincia perché da sempre ricomincia dall’essenziale. Perché ricominciare dall’essenziale è forse il vero modo di costruire, senza pensare che la costruzione possa essere la sedimentazione di un passato assodato per sempre. Qui i riferimenti psicanalitici e freudiani a cui faceva riferimento Ruggero Chinaglia sono anche importanti.
Tutto sommato Freud è più che mai ebreo, nel senso migliore cabalista, quando, a esempio, nelle Zeitgemässes über Krieg und Tod (Considerazioni attuali sulla guerra e la morte) si interroga sul perché questa gigantesca cultura europea non avesse evitato l’orrore della guerra mondiale, e si accorge che non l’aveva evitato perché aveva pensato che la sua grande tradizione fosse una sorta di assicurazione sulla vita civile, che bastasse un grande passato; mentre, come insegna la psicanalisi, il passato conta quando è messo in gioco nel presente.
Mettere in gioco i frammenti del passato nel presente: non voglio entrare nel merito di tematiche cabalistiche che vanno solo sfiorate con mani molto più sapienti, ma, tutto sommato, la cabala, in larga parte, nella sua parte più manifestata, che cos’è? Sostanzialmente è lo spazio della pratica umana nella quale si compie il lavoro di ricostituzione dei vasi un tempo rotti, i vasi che corrispondono dalla terza sefira fino alla decima, rotti per la forza potente della luce che li ha attraversati. Ricomporli può comportare il tikkun, la restitutio ad intregrum si potrebbe dire utilizzando un termine latino, e la partecipazione al tempo in cui questa ricostituzione diventa reale, un tempo che è inevitabile definire messianico e che, come Walter Benjamin spiegava nel suo fulminante frammento teologico-politico, appartiene così intimamente alla storia da non poter essere ridotto a un contenuto storico.
L’arte ebraica, in quanto segnata da un rapporto con un’esperienza della verità che la cabala sa praticare, è qualcosa che ha questa peculiarità: ci espone immediatamente al centro dinamicamente vuoto di cui è fatta la nostra esperienza, e questo forse è stato anche e è uno dei motivi per cui nei confronti della realtà spirituale dell’ebreo si è concentrata tanta insofferenza. Io ricordo un passaggio di un non antisemita, a mio avviso – affermazione impegnativa, ma avendo tempo potrei argomentarla – come Nietzsche, il quale diceva in un suo passo famoso, che gli ebrei, parlava degli ebrei della assimilazione, degli ebrei del secondo ‘800, del grande successo ebraico, erano come una vernice opaca stesa sui colori delle singole nazioni europee.
Bastava che un faro – lui pensava a un faro di scena, pensava alla grande vocazione teatrale di tanta cultura ebraica – colpisse la patina e i colori delle nazioni brillavano più di quanto mai avrebbero brillato se la patina ebraica non ci fosse stata. Lo scandalo ebraico è stato anche questo: la dimostrazione di come fosse possibile assimilare sino all’estremo della rappresentabilità la fisionomia spirituale di più popoli, aprendo così un terribile vuoto là dove un pensiero, forse incapace di confrontarsi con ciò che la tradizione giudaica ci diceva della modernità, pensava di trovare delle radici.
Ma nella cabala le radici sono in cielo in definitiva, e delude coloro che pensano di trovarle nella terra, in un circuito tra terra e sangue che indubbiamente il deserto, che gli ebrei si portano dietro, sembra necessariamente deludere. Però proprio per questo quest’arte ci parla con una forza particolare di ciò che noi siamo, aldilà di tutto ciò che può sembrare il nostro legame con una radice, la nostra singolarità, quella nostra pura singolarità che noi non possiamo ridurre né a una razza né a un’etnia, né al colore dei nostri occhi né al colore dei nostri capelli, anche se, se proprio la intendiamo giustamente, tutto questo veramente ci appartiene. È ciò che troviamo qui, sapete, in queste prime battute, se ci posizioniamo nel vuoto che, se non viene negato, se non viene ostruito, ci consente di avere rapporto con tantissimi pieni, che a quel punto però non diventeranno idolatrici, non ci comunicheranno la sensazione di identità fittizie, continueranno a tenerci in gioco nel nostro presente.
Ruggero Chinaglia Un’unica questione che pongo subito anche all’attenzione di Nadine Shenkar perché possa riprenderla nel suo intervento, era una sorta di accostamento che Brandalise faceva tra Cabala e gnosi, la cabala come gnosi, cosa che forse alla lettura del testo di Nadine Shenkar è proprio ciò che viene messo in discussione: che, per quanto possa sembrare una costruzione che ricalca alcuni aspetti della gnosi, non giunge ad essere gnosi. Sta proprio qui il suo interesse.
Nadine Shenkar Per capire la complessità del soggetto, l’arte ebraica e la cabala, sarebbe forse utile presentare la problematica dell’arte ebraica e la dialettica della Bibbia ebraica che è basata sul paradosso. Io darò un primo esempio: la terra d’Israele fu data a Abramo con la promessa divina; eppure, quando lui arriva là, il popolo cananeo, straniero anche lui, viveva già là. Quale fu la sua reazione? Invece di utilizzare la violenza o di essere disperato, lui vaga di qua e di là sulla terra e fa un altare in cui proclama il nome più segreto di Dio, il Tetragramma. Lui sa profondamente che la vera conquista è una conquista spirituale.
Il secondo esempio: Adamo è il primo uomo, deve morire come tutte le creature della terra, eppure è stato creato a immagine del creatore, o En sof, cioè, nella lingua della cabala, l’infinito, e quest’uomo è responsabile della creazione intera. Terzo esempio: Adamo è totalmente libero, ma la storia intera è già conosciuta dal creatore. Quarto esempio di paradosso: i moabiti sono condannati per l’incesto di Lot con le figlie e pertanto Rut, la moabita, decide di raggiungere il popolo d’Israele e, dopo il suo matrimonio con Boà di Giudea, sarà la madre della linea di Davide, il re, da cui discenderà il Messia. Dunque si vede che l’ultima perfezione può venire nell’ultima impurità e c’è speranza per tutti.
Quinto esempio: il secondo comandamento presenta la proibizione di rappresentare le immagini, nell’Esodo, capitolo 20, verso 4, eppure Bezaleel, il primo artista, farà il Tabernacolo del deserto. Nonostante il secondo comandamento gli artisti ebrei si sono espressi in tutte le forme d’arte durante i secoli. Il paese e la cultura in cui vivevano furono determinanti. Fra i cananei, i greci, i romani gli ebrei non hanno fatto arte figurativa, eppure nel Talmud ci sono discussioni molto interessanti. Per esempio, Rabbi Meir, un saggio del secondo secolo, accetta che gli ebrei abbiano statue nelle loro case. Rabbi Yehuda ha-Nasi (terzo secolo), anche. Rabbi Yohanan ammette gli affreschi nelle case e Rabban Gamliel, il capo del Sanedrin, permette anche che ci siano statue nelle terme perché sono soltanto decorazione. E non c’è nessun pericolo di Avoda Zara, di paganesimo.
In contesto musulmano gli ebrei furono molto fedeli al secondo comandamento, perché i musulmani, che hanno appreso questo dalla Bibbia ebraica, non fanno statue. In un contesto cristiano gli ebrei si permettono l’arte figurativa, quindi è possibile dire che il rispetto del comandamento o la sua interpretazione dipendevano dal contesto religioso e culturale in cui vivevano. Con le scoperte archeologiche delle sinagoghe antiche in Israele e fuori, sappiamo adesso che l’arte figurativa non era assente. I mosaici di Bet-Alfa, in terra d’Israele, con i segni dello zodiaco, il dio Elio sul carro e le quattro donne o allegorie delle stagioni agli angoli, accanto al non-sacrificio d’Isacco, o agli oggetti del Tempio, sono la prova di questo. Corazin, Cafarnao, Bet Shearim testimoniano la medesima presenza del figurativo.
La scoperta di due sinagoghe a Dura-Europos, in Siria, nel III secolo, rivela magnifici affreschi che rappresentano diverse scene bibliche con una moltitudine di personaggi. Anche le aggadot, storia della pasqua ebraica, manoscritti del Medioevo, e altri manoscritti miniati, hanno sempre fatto uso dell’arte figurativa. Potremmo ritenere che il pensiero ebraico, così fortemente impregnato della potenza della parola, del numero, della musica, della matematica non sentisse il bisogno d’inscriversi nell’immagine. Eppure Dio incarica Bezaleel, il primo artista, di una delle più belle creazioni artistiche della storia religiosa, il mishkan, in ebraico, o Tabernacolo del deserto. Nello stesso tempo ci si deve interrogare sul fatto che gli ebrei, che sono stati famosi in filosofia, letteratura, scienza, musica, non hanno mai prodotto un Michelangelo o un Tiziano.
Gli ebrei sono stati molto distanti dall’arte plastica. Bisogna forse cercare più profondamente nell’anima ebraica e nella sua specificità le vere ragioni dei suoi rapporti ambivalenti con l’arte plastica. La prima ragione è per me la più semplice e la più evidente, e è che la Torah, come tutta la Bibbia, si contrappone all’arte pagana, cananea, ittita, mesopotamica e ancor più egizia, e condanna are, sfingi e leoni alati come un abominio e un insulto all’intelletto e ai sensi. Il disprezzo dei profeti d’Israele per le statue che hanno occhi e non vedono, che hanno orecchie e non sentono si indirizza di fatto verso tutte le forze mitiche, magiche o naturali che hanno esercitato il loro potere sull’uomo nel corso del tempo.
La seconda ragione è molto più complessa e consiste nel fatto che, oltre alla volontà di spezzare gli idoli, la Torah afferma la necessità capitale per l’uomo di non vivere a livello della natura, ma di superarla, la necessità non di disprezzarla ma di controllarla, di dominarla e di non accontentarsi di imitarla. Se, per esempio, il corpo umano è supposto venire al mondo compiuto, perfetto, per la Torah, e questo è uno scandalo, questo corpo è incompleto. La circoncisione, o brit mila, alleanza della carne, interviene a perfezionarlo scoprendo l’organo della procreazione, ma non si perfeziona aggiungendo, bensì togliendo, privando, come nella scultura. Il bambino diventa ebreo soltanto all’ottavo giorno di vita, quando ha compiuto una settimana, quindi uno shabbat, più un giorno, quando ha superato il sette, lo statuto naturale del sette che è la perfezione naturale, do-re-mi-fa-sol-la-si, per elevarsi al registro dell’otto, simbolo, nella tradizione ebraica, del marchio umano sulla natura.
Anche le otto candele che vengono accese per la festa di Hanukka, in dicembre, sono l’espressione di questo superamento e la correzione umana dello stato naturale, il tikkun nella lingua della Cabala, cioè la riparazione, la restituzione dei ricettacoli spezzati, come nel libro dello splendore, Zohar, che è il primo libro e il più importante dei 3000 libri della tradizione Cabala. I 613 comandamenti della Torah non sono, come troppo spesso si suppone, la legge austera e rigida di cui il cristianesimo ha fatto la caricatura, ma invece la chiave di questo superamento della natura, la possibilità data all’uomo di elevarsi dallo stato istintivo, pulsionale a quello del controllo di sé a differenti livelli: in materia d’alimentazione, per esempio, o di sessualità, d’etica sociale e religiosa.
Tuttavia il corpo non è, come nel pensiero platonico, quell’”…involucro che bisogna nutrire, vestire e soddisfare”, ma con i suoi bisogni, le sue debolezze e le sue esigenze tende a diventare ciascun giorno un po’ più il ricettacolo della luce. Più il corpo si perfeziona, si affina, più grande è la luce che vi penetra; vale a dire che il corpo è sacro quanto l’anima, di cui è l’unico veicolo. La Torah rifiuta che l’uomo sia sottomesso agli idoli come alle forze naturali e alle pulsioni. Darò un un solo esempio rispetto all’alimentazione: gli ebrei, per esempio, possono bere prima del latte e dopo mangiare della carne, invece mangiare una bistecca e dopo mangiare del Camembert è una cosa impossibile per una persona che rispetta i comandamenti. È strano, perché che differenza c’è in un senso o in un altro, ma per la tradizione c’è un’importanza grandissima, perché il latte è il simbolo della vita e la carne è simbolo della morte e, dunque, andare dalla vita alla morte è una cosa naturale, ma andare dalla morte alla vita non è naturale.
In questo, per esempio, la tradizione si oppone all’Egitto antico dove nella piramide si portavano ai morti cibo, birra e pane. Dunque è veramente una questione di educazione. La terza ragione, ancora più complessa, è la fluidità del pensiero ebraico e della lingua ebraica. Il presente non esiste nella Bibbia, ci sono soltanto passato e futuro. E questo è ancora più complesso, perché nella Bibbia, non nell’ebraico moderno, il futuro si può cambiare nel passato e il passato nel futuro. È veramente una cosa molto strana, perché, quando ho voluto studiare la Bibbia da sola, senza professore, a quattordici anni, ho preso la Bibbia ebraica e una traduzione francese. Quando si legge “Veavtà”, “Ama il prossimo tuo come te stesso”, la parola ebraica Veavtà è, grammaticalmente parlando, un passato, ma nella traduzione francese era un futuro.
E dopo ho letto vaiomer: “Dio (o Mosè)vaiomer (dirà)” è un futuro, e nella traduzione francese è un passato, “ha detto”. Ho pensato che gli ebrei sono pazzi, perché gli occhi vedono un passato e la mente comprende un futuro, e gli occhi vedono un futuro e si deve comprendere un passato. E ho capito, dopo due o tre mesi, che una sola lettera, il waw, la lettera che corrisponde al 6 in ebraico, che è o/o, soltanto questa piccola lettera può cambiare il passato in futuro e il futuro in passato. Dunque, qual è la conclusione? La conclusione è evidente, che non c’è né il passato e né il futuro o il passato è anche il futuro e il futuro è anche il passato. Si ha l’impressione di leggere un libro di Stephen Hawking sul tempo. Dunque l’arte per gli ebrei è qualcosa che rischia di diventare stereotipo.
L’eternità va trovata al di fuori dello statico, dello spazio chiuso e bloccato della terra. Questa concezione ebraica dello spazio-tempo è totalmente opposta alla concezione greca in cui il tempo è un circolo chiuso in cui Cronos mangia i suoi figli. In questo tempo greco non c’è creazione, perché l’atomo è eterno, non fu creato. Non c’è nella concezione greca né fine né inizio, e bisogna leggere il Timeo di Platone per poterlo capire. Il fatum, il destino crudele, conduce tutto, quindi ecco la disperazione degli uomini nella tragedia greca. Nella Bibbia ebraica c’è un inizio e questo inizio è la creazione del mondo, Bereshìt barà Elohim , “Al principio Dio ha creato”, ma barà è creare dal nulla, veramente il big-bang. C’è un bereshit, c’è un inizio, una genesi, e ci sarà anche una fine. Il tempo, dunque, non è un circolo chiuso come per i greci, ma una spirale.
E l’uomo si muove dall’istinto brutale di Caino, di Lot, uomini del diluvio, verso il tikkun, cioè la restituzione, la riparazione dei ricettacoli, con Abramo, con Giacobbe e altri. Presso gli ebrei il nome di Dio, com’è espresso nel Tetragramma, designa l’essere che fa venire all’esistenza, è l’essere e il divenire insieme, ma il divenire per Platone è scandaloso. D’altronde, in ebraico, il verbo essere al presente non si coniuga, poiché l’essere è, per definizione, ciò che si trova in perpetuo divenire. Quando Mosè, dopo che è andato a prendere gli ebrei per farli uscire dall’Egitto, domanda a Dio quale sia il suo nome, Dio dà questa risposta incredibile, perché nella Bibbia ci sono molti nomi di Dio che sarebbe peccato tradurre se ci fosse soltanto il termine “Dio”, ma in ebraico Dio non è mai designato con questa sola parola: Elohim, El, El Shaddai, e il Tetragramma yud – che –waw – che, Y-H-W-H. Dunque lui dà questa risposta: “Eyé asher eyé”, letteralmente “Sarò ciò che sarò”.
Dunque, l’infinito non può dare una definizione, non è Budda, non è una statua. E Rashid, il grande comandante francese del Medioevo, dice: “Io sarò ciò che voi (gli ebrei) vorrete che io sarò”. Dunque è sempre un divenire, è sempre una dinamica. Diversamente dal tempo ciclico e spazializzato del pensiero greco, il tempo ebraico è legato a una qualità naturale, è pulsazione e ritmo. Per esempio, in ebraico, quando si dice un momento, come dice Bergson, un momento è un posto nella linea del tempo dello spazio; ma invece quando in ebraico si dice istante, regah, che è radice del verbo ragoah, riposare, questa è una pulsazione del cuore, dunque l’istante è veramente il tempo della pulsazione del cuore. Il tempo ebraico è pulsazione e ritmo, e la Bibbia ha colto l’uomo, l’essere umano attraverso la durata nel suo flusso, attraverso il tempo, e insegna all’uomo a liberarsi dello spazio, a pensare la realtà in termini di durata.
Questo tempo ha un inizio e anche una fine. È un tempo costruttore e salvatore e Dio agisce entro un tempo storico: “Io sono Dio, il tuo Dio che ti ha fatto uscire dal paese d’Egitto, dalla casa di schiavitù”, è il primo comandamento. La morte è inevitabile e naturale, quindi la questione dell’immortalità non esiste nella Bibbia, come per esempio l’ossessione dell’Egitto antico o l’ossessione di Gilgamesh in Mesopotamia per cercare la pianta dell’immortalità. Questa cosa non esiste mai in tutta la Bibbia. Il Cantico dei Cantici, uno dei più bei canti d’amore, nella Bibbia, offre a questo riguardo un esempio convincente, con le sue immagini essenzialmente legate al movimento:
“Le tue chiome sono un gregge di capre,
Che scendono dalle pendici del Galaad.
I tuoi denti come un gregge di pecore tosate
Che risalgono dal bagno […] “.
L’amata viene paragonata a una “fontana che irrora i giardini”, a un “pozzo d’acqua viva”, a “ruscelli sgorganti dal Libano”. Lo shir ha shirim, il Cantico dei Cantici, è costituito di elementi dinamici in cui l’essere è soltanto divenire. La giumenta, la cerva, la gazzella, il cerbiatto suggeriscono questo movimento costante di corsa e di fuga. Nessun elemento fisso entra in questo testo poetico in cui “i capelli grondano di rugiada”, “le labbra stillano miele vergine” e il nome del giovane, dell’amante, è “un profumo olezzante”. Se Dio santifica il tempo, cioè il sabato (lo shabbat-Bereshit, nella Genesi), l’uomo santifica lo spazio con la spiritualità che vi apporta. L’incontro fra i due ha luogo per eccellenza in questo Tabernacolo del deserto che si chiama, nella Torah, ora mishkan, residenza, quando è passivo, ora ohel moed, la Tenda del Tempo, quando si dispiega nello spazio.
È straordinario pensare che la prima grande opera artistica e religiosa degli ebrei, nel deserto, si chiamava ohel moed: letteralmente lo “spazio-tempo”. 3000 anni fa si enunciava il concetto dello spazio-tempo, ripreso da Einstein oggi. La Tenda del Tempo è movimento e, quando è a riposo, la sua anima è la mobilità del servizio che prende vita in essa: il canto, la musica e le preghiere. C’è qui un concetto profondamente rivoluzionario del religioso e dell’artistico. Il microcosmo del mondo si trasferisce in un universo in movimento e l’uomo nel suo intimo fa l’esperienza fisica della tensione verso l’alto: canti, incenso, sacrifici. Gli ebrei andavano nel deserto e i Leviti dovevano costruire e ricostruire quella tenda, ogni due giorni, ogni tre giorni, dipendeva.
Il sacro non può essere fissato, salvo morire. E il popolo ebreo mira sempre a una terra, ma rimane sempre in viaggio in un altrove. Rav Nahman di Bratslav, un grande saggio ebreo, diceva: “La scala di Giacobbe è l’uomo stesso”, e lui diceva anche: “La santità non si trova nel cielo, non si trova sulla terra; la santità si trova nella tensione fra la terra e il cielo”. E se la Tenda del tempo è una struttura mobile per una presenza mobile, allora lo scritto, cioè la Torah, racchiuso nel Santo dei Santi, sarebbe un’essenza immobile in una struttura mobile, la Tenda del Tempo. Il Davide di Michelangelo è per tutti una meraviglia, eppure gli ebrei preferiscono il Davide della Bibbia, dello scritto, perché lì si vedono tutte le sfaccettature dell’uomo, del re, del giovane, del mistico amante di Dio e del grande musicista.
Come il filosofo Avraham Heshel ha scritto, “Gli shabbat (sabati) sono le nostre cattedrali”, dunque il tempo è per gli ebrei quello che lo spazio è per l’occidente. L’ebreo, dunque, è l’uomo del tempo, non dello spazio. E il sabato è la consacrazione del tempo sacro ogni settimana che si manifesta come fine di tutta la creazione materiale. Nel sabato che si fa? Il sabato non è riposo: sabato è cessare di creare. Un popolo intero non vuole più creare durante un giorno, soltanto meditazione, riflessione intima. L’ebreo preferisce la dinamica, la tensione, la fluidità, l’asimmetria. L’armonia, la perfezione sono troppo statiche, come una prigione. E dunque non è strano se in alcune case di ebrei molto religiosi c’è sempre un posto, un posto piccolo nel muro, nella casa che non è finito. Perché? Per indicare che la perfezione non esiste nel mondo umano.
E dunque, quando la mia macchina ha ricevuto un colpo due mesi fa, io ho pensato: “Questo si deve lasciare”. È molto bello, perché la perfezione non esiste, e dunque la mia Fiat adesso è così. Il famoso verso di Bereshit :”Yafet deve vivere sotto le tende di Sem” è in ebraico veramente interessante, perché “Yafet“, “Yofi“, “Yafé” è il bello, in ebraico, e “Iafet” è la Grecia, secondo i saggi, è l’estetica, il bello, e dunque, secondo questa prospettiva, l’estetica deve vivere sotto la tenda dell’etica, perché “Sem” è il nome e l’essenza, l’etica. Quindi l’estetica è dipendente dall’etica, ma questo un artista non può accettarlo. Questo è molto diverso dalla prospettiva occidentale.
Quarta ragione: nella prospettiva ebraica l’oggetto artistico non esiste in sé, non ha nessuna ragione d’essere se non è il veicolo dello spirituale e del sacro. La prima creazione artistica degli ebrei fu subito, a quanto sembra, il loro apice, il mishkan o Tenda del Tempo, questo Tabernacolo del deserto. Fu eseguito da Bezaleel e da altri artisti, secondo misure fornite dall’alto, precise e chiare, senza che da nessuna parte vi fosse un modello di riferimento, come se l’apogeo dell’arte si situasse nell’adeguamento non a un modello della natura, ma a uno schema del pensiero. Il Tabernacolo, quindi, è il microcosmo del mondo. Quando entrano nel Tabernacolo ricevono una lezione di fisica ed astrofisica. L’oggetto, l’opera d’arte non avrebbe valore per sé, ma tradurrebbe la relazione che si tesse fra il mondo spirituale e il mondo materiale.
La metafisica ebraica mette l’accento sul corpo come ricettacolo dell’anima, donde la necessità di purificarlo per mezzo delle mitsvot, cioè comandamenti. Siamo ben distanti sia dalla dualità greca sia dalla dualità scolastica. Così l’opera d’arte non può avere per confine ultimo la propria essenza, ma tende a essere, come si dice nella Cabala, una matrice, la malhut, un ricettacolo in grado di ricevere la luce dall’alto o shefah. E nella Cabala, questa matrice, questa malhut, l’ultima sefira, è femminile, femminile perché lei possa ricevere e dopo dare, influenzare, come un pozzo. Il pozzo d’acqua riceve l’acqua e dopo dà l’acqua a tutti. Dunque il principio maschile è di dare, influenzare e il principio femminile è ricevere e dopo dare, passivo e dopo attivo, dunque doppio. Perciò aspira a trascendere le rigidità dell’arte e a trasmettere il fluido dinamico della vita.
Adesso, non sarà una grande sorpresa dire che l’arte ebraica fu sempre un’arte concettuale; è soprattutto simbolica. Per esempio la menorah, il candelabro con sette bracci, non è un candelabro per la luce, ma è veramente semplificazione. La menorah, che era tutta un pezzo unico, senza saldatura, d’oro puro, questa menorah era veramente il simbolo dell’albero, l’albero della vita, con tutte le sefirot dalla testa ai piedi (ovvero i dieci elementi del corpo umano, n.d.r.) e con tutta la dinamica del corpo e della mente. La luce è simbolo dell’anima e la menorah, il candelabro, del corpo, il corpo stesso dell’uomo. E non si può separare, perché la menorah senza la fiamma è morta e la fiamma senza il corpo non esiste, dunque la menorah è relazione; come nel Tai Chi, il cielo e piedi, radici nella terra. L’arte dunque, è relazione con l’alto, rivelazione del segreto spirituale dell’infinito o En sof. L’arte rivela il trascendentale e l’artista è il suo prete.
In conclusione, ma è impossibile in ebraico concludere, perché una conclusione è fermare, chiudere tutto, mentre bisogna che tutto rimanga sempre aperto, dunque non si può parlare di conclusione, ma si può vedere adesso, forse, che le immagini sono tutto, un tutto fissato; le immagini sono lo statico, un tutto che ferma la visione del pensiero. Vedere un’immagine non è vedere. Il Santo dei Santi è l’immagine che non si vede mai. Come diceva Franz Kafka al suo giovane amico Gustav Ianus, a Praga: “La fotografia nasconde la segreta natura di una cosa. Il cinema è fatto di immagini danzanti che fanno dell’osservatore un cieco”. E Kafka diceva ancora: “Noi, il popolo ebreo, non siamo pittori, non sappiamo rappresentare le cose in modo statico; noi vediamo tutto in un flusso, un cambio permanente. Non siamo pittori, siamo narratori”.
Ruggero Chinaglia Ringrazio Nadine Shenkar per questo suo primo intervento, ricchissimo di questioni, che pone sempre più un’adiacenza tra le questioni che la cifrematica è andata indagando e esplorando in questi anni e, evidentemente, la questione della Cabala ebraica. Di particolare interesse mi pare la questione del paradosso del comandamento, potremmo dire, dove il comandamento né prescrive né vieta, in quanto l’originario non è prescrivibile e non è vietabile. Ora noi possiamo quindi leggere “Non ti farai idolo né immagine alcuna di ciò che è lassù nel cielo”, non tanto come divieto alla rappresentazione di qualcosa, ma come constatazione che l’immagine, come diceva Nadine Shenkar, è irrappresentabile e invisibile. Ciò che ciascuno vede non è l’immagine; l’immagine resta invisibile, resta irrappresentabile perché è qualcosa nella struttura della parola che mantiene la sua invisibilità, e quindi possiamo intendere per questa via qualcosa di più di quello che diceva Freud quando indicava l’immagine non come visiva, ma come acustica.
Un’altra questione è, per esempio, la questione del nome: “Non nominerai il nome di Dio”. Non perché si possa vietare di nominare il nome, bensì perché il nome è innominabile. Il nome è innominabile e anonimo; il nome non ha nome e il nome è impronunciabile, perché funzionando, come Freud ha introdotto la questione della rimozione e della resistenza, funzionando il nome, quel che si dice è differente e vario e il nome, quindi, risulta nella struttura della parola, ma mai è pronunciabile perché, funzionando la rimozione, il nome non arriva al nome del nome, cioè a significarsi e cioè a concludersi in qualcosa di stabile.
Tutto ciò è interessantissimo perché comporta l’incodificabile della lingua e l’insignificabile, comporta che ciò che si dice è il sacro che mai diventa sacrale, cioè mai si ferma in questo suo divenire verso la sua qualificazione. Noi diciamo che la parola procede verso la sua cifra, la parola si rivolge alla sua qualità, quindi c’è questa tensione della parola verso la sua qualifica perché non è già dato il valore della parola. E questo mi sembrava molto preciso e interessante anche in ciò che affermava Nadine Shenkar. Come la questione del tempo, un tempo che non è lineare, un tempo che comporta la questione del ritmo, un tempo quindi che nessuno può tagliare secondo la mitologia greca della parca che recide il filo del tempo, ma tempo che è taglio e che quindi interviene come taglio parlando, comportando la differenza infinita della parola.
Ora, si tratta di prime evocazioni, primi echi alla elaborazione di Nadine Shenkar, tuttavia mi sembra comportare molte adiacenze rispetto alla ricerca in corso nel campo della parola originaria da parte della cifrematica e che indica, quindi, come mai il discorso occidentale tenti di respingere questa elaborazione, tenti di respingere questa esperienza della parola originaria, perché mai può giungere a una gnosi, mai può giungere a una disciplina, mai può giungere a una scienza finita, ma sempre comporta la ricerca, sempre comporta il divenire e sempre e soprattutto comporta lo statuto di esperienza. Esperienza quindi mai finita, ma sempre da fare.
Giorgio Segato Molto interessante, perché viene immediatamente da fare la relazione tra quello che è stato detto sulla cabala adesso e quella che è la situazione della scienza contemporanea che oramai riconosce l’impossibilità a sapere e ha affermato un relativismo, quasi l’assenza dell’assoluto, e la assoluta presenza del relativo e del dinamico, della trasformazione di qualcosa che non tornerà mai più come prima. E quindi si va sempre verso qualcosa di differente e questa dinamica oramai è accettata nella scienza a partire dalla legge sulla relatività, se si vuole, ma siamo molto più avanti di questa intuizione di Einstein.
Ormai il cosmo è visto come qualcosa che assolutamente si muove e che non va verso qualche cosa di definito, ma che si muove e che vive una esperienza, una trasformazione costante. Non si parla più neanche del ritorno. Si era parlato del big-bang e si pensava che, finita questa spinta della grande esplosione, ci fosse una sorta di ricaduta per cui poi si riconcentrava tutto ed esplodeva. Anche questa teoria ormai è superata e c’è una continua dilatazione, un continuo movimento. Quindi trovo molto interessante che coincida questo ritorno della cabala con la situazione culturale contemporanea. E ogni volta che c’è stata questa trasformazione, c’è stata anche una ripresa della cultura ebraica. Come all’inizio del ‘500, per esempio, certamente in una maniera particolare. Però cosa accadde?
È tra la fine del ‘400 e l’inizio del ‘500 che i nostri umanisti, i rinascimentali, cominciano a studiare la lingua ebraica, a entrare nella lingua ebraica e scoprono la Cabala, scoprono questi libri della sapienza o della saggezza legata alla tradizione, quindi al riporto della tradizione, una sapienza celata, misteriosa, però legata alla tradizione. Che cos’è la tradizione? È la parola, è la parola scritta. Ecco perché sono tremila i testi, ma diventeranno sempre di più, perché la conoscenza, l’aspetto della esperienza cabalistica è sempre aperto. L’altro aspetto che mi pare interessante come citazione, anche dopo che ha parlato Ruggero Chinaglia, è il “taglio” di Fontana. Mi pare il caso di ricordare che l’origine della parola tempo è, in sanscrito, l’equivalente di taglio, di cesura. Taglio tra che cosa? Tra il passato che non torna più e il futuro che non esiste ancora. Questo taglio è esattamente il presente, una situazione assolutamente fluida che, nella cultura occidentale tradizionale, aveva questo diaframma che interrompeva il flusso continuo tra passato e futuro.
Il gesto di Fontana ha questa valenza di rompere questo diaframma e di creare una continuità tra l’esperienza accumulata, e quindi la tradizione nel passato e l’attesa di un’esperienza futura. Questo mi pare molto interessante, in quanto rompe tutte quelle che sono state le influenze “deviate” della Cabala dal ‘500, poi c’è una ripresa molto forte, come diceva Brandalise, nella seconda metà dell”800 e è il momento del successo della cultura ebraica, e la confusione, molto spesso, con le scienze occulte, la chiromanzia. La Cabala ha prestato molte terminologie, molti concetti anche, per cui nell’occidente si è confuso spesso questo con la Cabala, che invece è un itinerario di esperienza e di conoscenza personale. Non è solo quello che è scritto, ma è quello che ciascuno fa. Allora un altro paragone è proprio, visto che l’anno scorso era l’anno giubilare, che cosa rappresenta l’arte e che cosa rappresenta anche la Cabala se non questa idea di un percorso di conoscenza che però non si conosce.
Machado stesso, in una stupenda poesia, dice: Camminante, non hai cammino. Non esiste il cammino davanti; il cammino esiste dietro, che è l’esperienza che si è fatta, e esiste dentro di te. Ecco allora, la scala di Giacobbe che è l’uomo stesso, cioè il percorso è sempre dentro l’uomo, che si eleva o si abbassa. Questa è un’altra delle immagini importantissime, questa di Giacobbe, la scala che appare a Giacobbe. A Padova è rappresentata più volte e, in particolare, quella del Battistero di Giusto dei Menabuoi è stata studiata per mesi da un certo Peter Colosimo, che scriveva libri di futurologia, come testimonianza della discesa degli extraterrestri sulla terra che avevano avuto un contatto con gli uomini, perché c’erano anche questi scafandri e questa particolare scala. La scala è un simbolo. L’ultima parte di questo libro molto interessante, difficile anche, perché c’è tutta la terminologia ebraica che noi non sappiamo né pronunciare bene, non conosciamo esattamente i riferimenti. Qualcuno sì, naturalmente, ma la nostra cultura ha dimenticato moltissimo delle sue origini e in particolare poi la cultura ebraica è stata abbastanza cancellata. Ma non per chi vive a contatto con questa cultura, anche a Padova c’è una importante comunità.
E speravo fosse presente il rabbino capo che è molto giovane e è un personaggio molto attivo. Tuttavia questa cultura non entra in osmosi, non entra in contatto con la cultura della città; resta sempre come incapsulata, anche dal punto di vista linguistico. E sapendo quanto importante è proprio la parola, la lingua, il significato delle parole, questo diventa una lacuna abbastanza pesante. Dicevo che nell’ultima parte di questo libro, che è abbastanza difficile, ci sono alcuni riferimenti anche a artisti importanti, e è interessante vedere, perché tutto il libro sembra quasi portarci a comprendere meglio alcune scelte formali, tecniche, di Chagall, per esempio, che è il più noto pittore ebreo, anche perché non solo ha interpretato la cultura ebraica e ha cercato di dare anche un senso a questa situazione.
Si diceva prima che la missione, il compito dell’uomo è quello di staccarsi dalla natura e di elevarsi verso il cielo. Le figure di Chagall sono tutte volanti e sono in una situazione intermedia tra la terra e il cielo, e testimoniano sia la gravità verso la terra, che è sempre molto presente nell’anima ebraica, nel pessimismo ebraico, questa paura del peso e della gravità, e la tensione invece verso l’alto che è espressa, oltre tutto sempre mirabilmente, attraverso la musica; c’è sempre il suonatore di violino oppure dell’organetto che danno a questa esperienza esistenziale dello spazio e del tempo una dimensione ritmica e quindi di movimento, di flusso, di evoluzione continua, di trasformazione, anche continua. Che fa sì, cosa molto importante che emerge, che il rapporto tra l’uomo e Dio, per esempio, e ecco perché mi riallaccio anche al fatto che non è nominabile, perché non è conoscibile in sostanza, è un rapporto interattivo. Non è il Dio definito e stabile per sempre; è un Dio che l’uomo continuamente scopre e reinventa in una forma di interattività che non esiste nella religione cristiana, che invece ha bloccato tutto nella figura di Dio padre che si incarna nel figlio.
Questo diventa uno degli aspetti importanti nella ricaduta individuale. Tanto la questione della relatività delle leggi scientifiche, della relatività della situazione dell’uomo nella sua dimensione esistenziale, dell’estrema relatività della sua conoscenza, questa riconosciuta sempre: più si impara, più si conosce e più si scopre di non sapere, quindi si allargano gli orizzonti e ci si trova sempre in uno stato di sgomento di fronte a ciò che è conoscibile e non è conosciuto. È sempre più quello che non è conosciuto e che resta conoscibile di quanto non sia il conosciuto, e quindi si allarga sempre di più, in sostanza, il mistero dell’esistenza e della natura dell’uomo. Ma, dicevo, l’altro aspetto importante è che questa relatività e questa possibilità di interattività nella costruzione, nell’ideazione, nell’immaginazione anche di Dio fa sì che sia responsabilizzato in modo sempre più grave e sempre più presente l’individuo; è l’individuo che deve fare le sue scelte, è l’individuo che deve agire, muoversi, accettarsi nel flusso continuo delle situazioni e nel mutare delle esperienze per scoprire se stesso, scoprire la propria scala interiore dalla terra al cielo.
C’era un altro aspetto che mi pareva molto importante, il tempo come spirale. Se noi guardiamo la rappresentazione di Giotto che è qui vicino, nella Cappella degli Scrovegni, che è stata spiegata molte volte come una descrizione lineare delle storie dalla Annunciazione alle storie di Gioacchino e di Cristo, ci accorgiamo che in realtà ha uno sviluppo a spirale, un interessantissimo sviluppo a spirale partendo dall’arco trionfale, con Dio che chiama gli angeli e gli arcangeli a raccolta per decidere cosa fare dell’umanità. Decide perché è suprema bontà e suprema giustizia, quindi non può né condannare né perdonare. L’incarnazione. Dall’incarnazione, che ha come conseguenza l’Annunciazione, che corrisponde esattamente, immediatamente con il concepimento, si passa alle storie di Gioacchino come itinerario di conoscenza. Gioacchino viene cacciato dal tempio e si gira con uno sguardo pieno di costernazione, in quanto non capisce perché viene cacciato dal tempio. Gioacchino comincia il suo itinerario, va presso i pastori e lì ha la visione.
Ecco il sogno, la visione, il momento di eliminazione di ogni disturbo esterno e il momento in cui uno guarda più dentro se stesso, e emerge la sua natura; quindi il momento del sogno e della visione, che è in Giacobbe, che è in Abramo, c’è sempre il momento del sogno e della visione. E dell’apparizione, poi, che indica la strada, perché nessuno la conosce, e allora c’è il bisogno di un intervento che possa mostrarla. Nella storia di Gioacchino, a un certo punto c’è anche questa situazione di dibattito culturale, religioso: quando Gioacchino ha la visione e l’angelo gli dice di tornare a Gerusalemme, torna e bacia Anna sulla porta. Tra Gioacchino e Anna che si baciano e le amiche festanti c’è una figura nera, con il velo, che guarda da un’altra parte. Secondo la tradizione, Giotto avrebbe qui rappresentato la religione ebraica che, come un momento di cesura, da questo momento, cioè dall’accettazione, il ritorno di Gioacchino, Elisabetta, Anna, quindi la nascita di Maria, in cui la storia cambia, non capisce più questa storia che è cambiata con la venuta del Messia, e invece aspetta ancora il Messia. Quindi c’è questa cesura che divide due momenti importanti e quindi anche le due religioni, in sostanza.
E continua la storia di Gioacchino fino a che s’innesta la storia di Giuseppe, un altro che capiva poco, e quindi, quando nasce Gesù, si addormenta e non ha una sua visione laterale, e poi le storie di Cristo fino alla morte, ma non solo la morte, ma la discesa dello Spirito Santo sugli apostoli. Alla fine, nel piccolo baldacchino in cui c’è la Pentecoste, c’è Pietro che guarda verso l’interno della chiesa, cioè assegna il compito di testimonianza a ciascuno che guarda. E quello che sta guardando si trova verso il Giudizio Universale, cioè verso la fine del mondo, avendo a destra i vizi e a sinistra le virtù, cioè facendo le scelte: se scegliere la via etica, la via della giustizia, la via della fede, la via della carità oppure la via dell’ingiustizia, della disperazione, dell’incostanza, eccetera. Alla fine si arriva al Giudizio Universale, allora c’è il Dio padre che benedice, accoglie le anime, condanna gli altri. Ma sopra di lui che cosa c’è?
Ci sono due angeli che chiudono il sipario; si vedono due angeli, uno con il sole a sinistra e uno con la luna a destra, che avvolgono tutto il sipario, cioè la storia, in realtà, questa grande spirale che ci porta verso il Giudizio Universale, verso la fine è una finzione, è una recita, perché tutto è già compiuto, nella religione cattolica, e quindi questa finzione ci porta a che cosa? A quello che c’è dietro il telone, cioè la Gerusalemme celeste che è contemplata nella religione, cioè questa struttura perfetta, di assoluta perfezione che è sempre stata e che sempre sarà. Quindi niente di dinamico, nonostante questa spirale. Questa è una differenza straordinaria, perché, ancora una volta, definisce il tempo della religione in senso cattolico con un tempo concluso, che si chiude, che è già contemplato nella sua fine e che porta tutta quella che è l’azione dell’uomo a essere una recita, mentre, nella situazione attuale della scienza, e questa ripresa della cabala a me pare molto interessante questa estrema relativizzazione e questa possibilità di dialogo interattivo con la divinità. Questo mi pare assolutamente importante, cosa che si manifesta, e il discorso era questo – e trovo importante questo libro proprio perché non pone la cabala e l’arte, ma il rapporto tra l’arte ebraica e la Cabala -.
Un altro esempio molto interessante può essere dato dagli artisti contemporanei, qui non se ne parla, però chi ha avuto rapporto, per esempio, con un artista israeliano che è conosciuto in tutto il mondo, Dani Karavan, sa che proprio questo principio della mobilità, del flusso, della dinamicità, del rapporto tra terra e cielo che viene in qualche modo alimentato e nutrito dall’acqua che scorre, che diventa uno dei simboli principali della crescita e della partecipazione continua al modificarsi dell’opera d’arte da parte della natura stessa che è intorno, capisce come anche nell’arte contemporanea questo concetto sia presente. Mentre Dani Karavan è sabra, cioè è nato in Israele, Tania Preminger, invece, una scultrice, è russa, e realizza queste grosse sculture-ambiente, installazioni, generalmente in modo che ci sia un rapporto completamente diverso tra il fruitore e l’opera, perché basta spostarsi e in una installazione si hanno punti di vista diversi, percezioni differenti, quindi diventa estremamente mobile. se poi l’installazione ha anche elementi che si modificano nel tempo, ancora di più. Questa è la scultura di Tania Preminger, che viene modificata dagli agenti atmosferici, per cui, dopo tre mesi, non si trova più la stessa scultura, qualcosa di concepito dall’artista, ma modificato dall’ambiente, o dalla presenza delle persone perché a volte, ed è interessante per alcuni artisti, è l’intervento stesso del pubblico che modifica, perché modifica quella che è l’apparente assolutezza di un’opera d’arte.
Un altro è Igor Brown, di origine ucraina, invece, che m’interessa molto per le sue rappresentazioni. L’idea del movimento e del mutamento come necessario anche nella espressione, nella ricerca artistica che non si chiude mai, e questo nelle arti visive che è più vicino ai miei interessi. Ma è presente soprattutto nella letteratura, quando Brandalise, citando Kafka, diceva in chiusura: “Noi non siamo pittori, siamo dei narratori”. Si può essere però anche narratori nella pittura, e Chagall è un grandissimo narratore nella immagine, ma è chiaro che c’è un peso diverso nella parola, un peso diverso che, io voglio anche sottolineare, e è stato un po’ accennato, esiste anche nel modo di scrivere, che si è trasmesso forse più nella cultura araba di quanto non sia rimasto nella cultura ebraica. Ma, per tutti e due, la calligrafia, la scrittura ha un’importanza enorme. Per gli arabi la scrittura è la voce stessa e può essere modulata. Nella scrittura ebraica non credo che esista la stessa possibilità di modulazione della scrittura, per cui una parola brevissima può essere scritta in una maniera molto dilatata dilatando tutti i segni. E poi nel suono, anche, in come viene pronunciata. È la voce stessa che rende fertile la terra, quindi anche l’arte si rapporta a questi valori.
Se la calligrafia, anche negli ideogrammi cinesi c’è la stessa cosa, ancora di più dal punto di vista della capacità dell’artista, perché nell’ideogramma cinese c’è l’idea che possa essere ricreata la realtà; nella pittura e nell’ideogramma in particolare, che è sempre pittorico, c’è la creazione della realtà da parte dell’artista. Quindi c’è un rispetto straordinario per i calligrafi, sia in Cina sia per gli arabi, e credo che la scrittura, anche in ebraico, abbia questa valenza. Quindi la pittura in qualche modo è anche sostituita dalla scrittura, completamente sostituita, perché nella scrittura e nella parola si sente il suono; e siccome la creazione, come è stato detto, sia nella religione ebraica sia in moltissime altre religioni, è un momento di suono, tutta la parola è il continuo riverberarsi di questo suono originale, e credo sia questa una delle caratteristiche.
Ruggero Chinaglia Ringrazio Giorgio Segato per la generosità del suo intervento, ricchissimo di evocazioni, e soprattutto ricco della testimonianza della sua esperienza e è questo che lo rende prezioso. E prima di passare la parola a Nadine Shenkar per una breve risposta alle cose dette e, prima ancora, a Adone Brandalise che pure aveva qualche ulteriore elemento da addurre al dibattito, volevo riprendere brevemente una questione che è stata evocata da Giorgio Segato e che mi pare importante nel libro della Shenkar e anche quanto al dibattito di questa sera, e riguarda la questione della scala, la scala che è importantissima nel discorso ebraico, che comporta tuttavia una questione non di alternativa fra l’alto e il basso o di scelta possibile fra l’alto e il basso, quindi che comporta, secondo me, la questione di una assenza di dicotomia fra l’alto e il basso.
C’è alto-basso nella scala, cioè entrambi, alto e basso, esistono senza che l’alto escluda il basso e che il basso escluda l’alto, e questo è essenziale proprio quanto alla questione dell’idolatria che permea il libro della Shenkar, ma anche la civiltà occidentale. È proprio la questione della dicotomia che introduce l’idolatria nel discorso occidentale, cioè che comporta l’idea che si possa fermare l’immagine, che si possa fermare la parola, che possa avere significazione ultima quel che si dice, quindi che s’instauri l’idolo.
Giorgio Segato C’è una frase molto importante in questo senso che mi son dimenticato di citare, e cioè il fatto che l’uomo è creato a immagine di Dio. Allora ci sono due possibilità: una che l’uomo si veda come Dio e idolatri se stesso in qualche modo, cosa che è assurda, oppure che veda in Dio qualche cosa di assolutamente simile a lui e quindi inesistente. Le due posizioni sono esattamente queste, che nascono da questo modo di vedere l’uomo fatto a immagine di Dio. Allora posso fare Dio, perché io sono come sua immagine, e contemplarlo, con il rischio di creare un idolo, oppure non posso fare Dio perché è qualcosa che è in me, e allora vado alla scoperta continua.
Ruggero Chinaglia Ecco, ma forse, questo pericolo di fare l’idolo, di costruire l’idolo, di far sì che s’instauri l’idolo è una paura del tutto occidentale, perché proprio la cultura occidentale, che è dicotomica, non tollera il paradosso, che è invece introdotto proprio da quel versetto del Deuteronomio che leggeva prima la Shenkar: “Abbiate timore di pervertirvi fabbricando gli idoli, rappresentazioni o simboli di qualsiasi cosa, immagine di maschio o femmina, immagine di qualunque animale, immagine di uccello, immagine di Dio”, cioè non c’è rappresentazione dell’immagine, quindi nemmeno rappresentazione di sé come rappresentazione di Dio o rappresentazione di Dio come rappresentazione di sé. Resta il paradosso di questa immagine, che non può essere mai sostantificata. E la scala, con questa compresenza di alto-basso, senza cesura, quindi senza poter scegliere fra alto e basso, è quell’apertura che consente il mantenimento del paradosso e consente quindi che il discorso non sia idolatra, cioè non possa costituirsi mai come idolatra.
Un’altra questione riguardava il Messia, ma forse magari chiedo a Nadine Shenkar se può accennarne qualcosa, perché anche nell’intervento di Segato c’era un riferimento all’accezione cristiana cattolica di Messia che comporterebbe la questione del figlio. Nel testo di Shenkar, invece, il Messia è posto come istanza dell’avvenire, quindi compimento dell’avvenire, un compimento che mai può realizzarsi nella nascita del Redentore. Allora questo è molto interessante perché comporta, anche quanto al Messia, un’impossibile sostantificazione e quindi un’impossibile concretizzazione del Messia che resta un’istanza dell’avvenire, con le conseguenze che ha anche proprio a livello culturale e artistico.
Adone Brandalise Forse può essere conveniente tentare di evidenziare alcune questioni che fanno nodo, che tengono assieme molti dei fili che siamo andati tessendo nel corso di questa serata. Ma innanzitutto, quello che potremmo definire un’avvertenza complessiva: il gioco tra le tre religioni del libro è aperto a grandi rischi e a grandi opportunità. Nel momento in cui, come in un processo fotografico, tentiamo di metterne a fuoco uno dei punti, quasi inevitabilmente finiamo per sfuocare gli altri e probabilmente un aspetto di grande dinamica interna, che è di tutte e tre le grandi religioni, rischia di volta in volta di essere sacrificato. Il che, probabilmente, toglie alla nostra evidenza il fatto che, in realtà, tutte e tre vivono in larga parte gli stessi rischi. In maniera diversa si può essere idolatri, in maniera diversa si può di fatto accedere a un’evidenza di verità superiore, alla tentazione di possesso che rende idolatri.
Sotto questo aspetto allora una delle grandezze, a mio avviso, della Cabala sta anche nel suo non poter essere tout-court ridotta ad ebraismo, non certo perché tra ebraismo e Cabala debba istituirsi un conflitto, ma perché la Cabala indica con una forza particolare quel moto di autosuperamento del rischio proprio della religione monoteista che, in varia misura, è presente in buona parte delle esperienze più autenticamente esoteriche presenti in tutte e tre. È questo che ci consente di cogliere spesso elementi di fortissima consonanza, aldilà di ogni confusione, sia chiaro, tra momenti alti del pensiero collocato in contesto cristiano, addirittura alcuni aspetti di pensiero antico, e forme di pensiero proprie della Cabala, e forme di pensiero musulmano, come per esempio il sufismo, dove cogliamo, per vie diverse, l’emergere forte degli stessi procedimenti e, nello stesso tempo, la capacità di cogliere una trascendenza rispetto agli stessi procedimenti di ciò che a questi procedimenti si affida.
Non so se qualcuno di voi ha familiarità con un gigantesco pensatore, in parte anche ebreo, come Raimondo Lullo, allevato per tanti versi alla scuola araba di Ibn Asm, ma lì, a un passo da Girona e da quella che è stata uno dei primi grandi radicamenti della tradizione cabalistica, che non a caso nel suo vasto Blanquerna fonda forse uno dei maggiori testi della mistica occidentale, con una storia in cui si racconta che un ex papa, per poter far tornare a un’esperienza di fede i monaci di un monastero, non trova di meglio che prendere esempio dalla pratica dei sufi e scrivere per dei monaci cristiani un libro che abbia il ritmo e le modalità affidate dall’esperienza di questi filosofi e mistici musulmani alla loro pratica. La Cabala probabilmente ha questo elemento di particolare forza: riesce a mettere in assoluta evidenza come non vi sia nessuna requie possibile in una pura sedimentazione dottrinale e quindi opera con un efficacissimo antidoto nei confronti di qualsiasi riduzione catafatica, oggettuale, dogmatica dell’esperienza religiosa, e quindi tenderebbe a disattivare quel terribile meccanismo che crea l’opposizione tra ortodossia ed eresia e che tramuta il simbolo religioso in principio di intolleranza, in un primo aspetto; però l’altro, diventa anche una serie di domande a grappolo per la nostra autrice.
La prendo da questo spunto, ma è una questione ramificata, etica ed estetica. Probabilmente, la vocazione cabalistica in contesto novecentesco viene ad avere una particolare forza perché attraversa, come una sorta di freccia lanciata in un pertugio giusto, in definitiva, in uno spazio vuoto miracolosamente identificato, quella che potremmo definire una radicale faglia al cuore dell’umanesimo. Probabilmente, un pensiero alimentato dallo stile cabalistico sa che, per così dire, al cuore della figura dell’umano, vi è qualcosa da cui la forza dell’umano dipende, che umano non è; si badi bene, questo non necessariamente dev’essere inteso in direzione della posizione nel senso classico di una trascendenza, ma nel riconoscimento dell’inadeguatezza di qualsiasi umanesimo, al coglimento esatto proprio dell’umano. E, conseguentemente, mette in evidenza l’aspetto finto di una contrapposizione tra umanesimo e tecniche, dove i due termini in realtà sono, come un pensatore tutto sommato senz’altro poco legato all’ebraismo come Martin Heidegger ha messo in evidenza, il complemento di una medesima vicenda, la tecnica come compimento della metafisica.
Ecco, probabilmente, un elemento che la Cabala mette in qualche modo in evidenza è che, se noi riusciamo a cogliere al cuore di ciò che apparentemente produce degli oggetti, una pratica che è il vero motivo per cui noi a quegli oggetti possiamo interessarci, questo mette anche in evidenza che al cuore dell’operare estetico sta esattamente una pratica, e quindi l’operare estetico ha un cuore etico, ma che il cuore etico dell’operare estetico non può avere una sua collocazione sovraordinata ed esterna all’operare estetico stesso. E quindi coglie una situazione tipica del novecento, dove la pratica artistica diventa per eccellenza uno di quei luoghi in cui tende in un certo senso a rifugiarsi, a trincerarsi, a riprendere slancio la possibilità di un’etica che è in realtà distantissima, in ciò che la fa veramente tale, da qualsiasi sistema di pura prescrizione o da qualsiasi sistema di mero convenzionalismo. E qui, effettivamente, probabilmente, ci troviamo di fronte a un’altra delle risorse che forse questo pensiero in qualche modo arrischiatamente ci propone, che è sostanzialmente quella di cercare le condizioni del rigore al di fuori di quella tabula presentiae in cui normalmente siamo soliti cercarle.
Noi tendiamo spesso a credere che il rigore si ritrovi nella soggezione a una costrizione. Esiste un rigore della libertà che è più severo, più esigente proprio perché non può risolversi nel senso della pura soggezione a una traccia precostituita. Per tanti versi, forse, molta dell’esperienza psicanalitica, ciò che fa sì che per tanti versi la psicanalisi sia una cosa diversa da quasi tutta la letteratura psicanalitica sta probabilmente in questa capacità di sapere che il proprio oggetto, forse, non c’è, se lo consideriamo come un ambito demaniale, territoriale in cui collocarsi, ma che essa ha un assoluto specifico che si colloca al cuore, paradossalmente, delle cose più diverse, là dove il soggetto è messo in questione, là dove il soggetto può avvenire e forse, per poter veramente avvenire, non deve pensare di essere già avvenuto.
Un’ultima immagine per sottolineare, brevissima, con gradimento delle molte evocazioni di Segato e anche per rendere un omaggio a un grande pensatore del teomonismo come Enrico Alben, in definitiva, che ricordava l’immagine della sinagoga velata del portale della Cattedrale di Strasburgo. La sinagoga velata è l’immagine della cecità degli ebrei a fronte della visione invece trionfale della chiesa. In realtà la benda sugli occhi può garantire un altro vedere o, forse, può garantire, qui potremmo cominciare, ma qui io senz’altro finisco, l’avvio di un discorso sull’ascolto, perché probabilmente il discorso sull’immagine nella tradizione cabalistica fa parte di un discorso sulla sonorizzazione dell’immagine e, come direbbe Benjamin, della sonorizzazione della lingua muta delle cose.
A questo proposito, visto che riguarda un aspetto implicitamente musicale, il cinema è un’arte tutta novecentesca, come sappiamo, ha a che fare con qualcosa che riguarda questo discorso, perché il cinema, come ci spiegava recentemente Gilles Deleuze, è semplicemente una scoperta antica – questo lo sapeva anche Platone, per la verità – che le immagini, quando sono vere immagini, sono in movimento; sono in movimento da sempre. Non ci sono immagini fisse. Giotto non dipingeva immagini fisse. Certo, i limiti del nostro sguardo possono farci pensare che l’immagine sia ferma, ma un adeguato ascolto ci fa scoprire che l’immagine è sempre in movimento, ha la caratteristica di venire verso di noi.
Nadine Shenkar Soltanto brevi parole, lo spero. Questo movimento di andare e sempre tornare all’inizio, all’incominciamento, questa parola nella lingua ebraica è veramente evidente, perché quando si dice in ebraico hithavvut, in latino, in inglese e in italiano significa “progresso”, dunque andare in avanti. Pro-gresso: andare in avanti. Ma, in ebraico, hithavvut è anche progredire, ma la radice è qedem. Qedem è l’origine, è Dio, è l’origine, l’origine di tutto, l’inizio, è il posto dove il sole si alza. È dunque come un paradosso, veramente molto particolare. Non si può andare come un cieco. Si può andare veramente avanti, progredire se solamente la testa è all’inizio, all’origine. E dunque è una bellissima parola hithavvut, invece di progresso.
Un’altra caratteristica che mi pare molto importante è la calligrafia. La calligrafia non è come per gli arabi, ma nella tradizione ebraica è una cosa che mi pare ancora più complessa e interessante, perché le lettere in ebraico, le otiot, sono nella Cabala e la luce, l’energia, e anche il ricettacolo, il veicolo e la luce, l’energia e quello che la riceve. E le otiot, le lettere ebraiche sono, nel midrash (l’allegoria), in tutto il midrashin (le parabole), sono la materia della creazione. Dice il midrash che Dio giocava con le lettere, prima di creare il mondo e la Torah, che ci dice che le lettere, questa parola, ci fosse prima di tutta la creazione. Dunque la ot anche in ebraico è una cosa molto interessante, perché “ot“, la lettera, in ebraico si dice aleph, la prima lettera, waw, questa lettera che è veramente la spina dell’uomo, l’albero, e taw che è l’ultima lettera. Dunque la parola “lettera” è la testa, la radice, o la fine, e la colonna vertebrale; si chiama in ebraico ot, lettera.
Un’altra cosa che mi pare interessante è la storia della scala di cui tutti hanno parlato questa sera. Nella Bibbia si dice che nel sogno di Giacobbe c’era una scala e questa scala, i piedi della scala, il fondamento è in terra e Dio era al sommo, ma interessante che si dice in ebraico malakhim. Malakhim non sono angeli, perché l’angelo non è una concezione ebraica, con le ali e tutto. Deriva da una parola che vuol dire lavoro, lavoro manuale, energia; nella concezione ebraica melakhà è energia, letteralmente è energia. Dunque, che dice la scala? La scala dice che questi malakhim, tradotto in angeli, ma non è preciso, salgono e discendono. Ma si può domandare: perché salgono e discendono? Io avevo pensato che l’ispirazione discende dal cielo verso la terra, ma nell’allegoria della scala è il contrario: l’energia parte dalla terra verso il cielo. Ma qual è l’implicazione? L’implicazione è che la malhut, l’ultima sefira, la terra, l’azione dell’uomo è veramente la cosa più importante.
Il desidero, come Levinas dice, il desiderio dell’infinito comincia nella terra, non viene dal cielo. Dunque l’uomo, nella prospettiva ebraica, cambia il cielo, cambia il desiderio del creatore. C’è veramente questo gioco tra il creatore e la creatura nella Bibbia. Abramo può dire a Dio, nella storia di Sodoma: “È uno scandalo! Come puoi distruggere una città? Ci sono 50 giusti”. Dunque l’uomo ebraico può discutere con Dio veramente e egualmente. La terza cosa che abbiamo evocata qui, molto interessante, è questa: l’immagine o non immagine di Dio. Veramente è la cosa più centrale di tutta la Bibbia, perché l’uomo, che è una creatura mortale, dall’inizio della Genesi al bereshit della Torah, è creato a immagine del creatore. Ma che immagine se il creatore della Bibbia è En-sof, l’infinito totale che non si può rappresentare? Dunque, di quella immagine noi parliamo. Ma i commentatori, i rabbini, i saggi, loro spiegano benissimo. Dunque l’uomo, ma anche Descartes in francese l’ha detto tanto bene. Ha detto: “Io, creatura finita, vado a passeggiare con la scintilla dell’infinito in me”. È una cosa straordinaria come l’uomo pensa l’infinito, lui che è atomi finiti.
E dunque è una cosa interessante se, in latino o in francese o in italiano, si dice, anche in inglese, pregare, to prey to God, o pregare Dio, immediatamente si vede il cielo, gli occhi si volgono al cielo per pregare Dio. Ma in ebraico non c’è questo. In ebraico pregare si dice leitpalel, un verbo riflessivo; non è quello, è questo, come un talit, una tenda; dunque, dove si cerca Dio, si cerca Dio non nel cielo, perché non c’è alto, basso, sinistra, destra. La terra torna nello spazio, ma quello che c’è, veramente, è io stesso. Dunque leitpalel è riflessivo, come “vestirsi”. Dunque, quando l’ebreo prega, non è una domanda verso il cielo, è una ricerca della scintilla dell’infinito che è in lui. Questa scala, questo tempio, questo tabernacolo non è qua. Il tabernacolo è io stesso. Il tempio è io, la scala è l’uomo, dunque è totalmente differente. E non si può parlare di immagine che è idolo, perché è sempre movimento.
Un’altra cosa che lei ha evocata, che è bellissima, è questa cosa dell’ascolto e il vedere e, nella tradizione ebraica, nella Bibbia e anche nel Talmud e anche nella cabala la cosa più importante è l’ascolto. Si dice “Shemà Israel, ashem eloenu ashem echad ” [Ascolta Israele, il Signore è nostro Dio, il Signore è uno]. Dunque quando l’ebreo ha ricevuto la legge sul Sinai, c’è un verso che è incredibile. È scritto in ebraico: il popolo “roim et hakolot”, vede le voci. Come si può vedere una voce? Ma si può, la scienza l’ha provato, perché è un’onda. Dunque vedono l’intera parte del movimento della parola, cioè l’onda. Si può vedere la parola e si può ascoltare l’immagine. È proprio meraviglioso. Dunque, per concludere, ma concludere non va bene, l’ho detto, è impossibile, il Talmud non vuole mai concludere, tutto è domanda. Il Talmud, 60 volumi, comincia con una domanda e finisce con una domanda. Dunque la chochma, la sapienza ebraica, non è fare un dottorato e anche una tesi, e anche un’altra tesi, è soltanto sapere fare le domande.
Se Einstein non si domanda: “Newton ha ragione o non ha ragione?”, non c’è Einstein. E anche per Proust e anche per Bergson è la domanda la cosa più importante nell’ebraismo. E dunque io posso dire di questo illustre scrittore Edmond Jabes, francese, nato in Egitto, che ha perfettamente capito l’attesa ebraica. Il libro, anche la Bibbia, non è mai scritto; è scritto totalmente, non si può cambiare una virgola, ma questo libro non è mai scritto. Io lo scrivo quando io lo leggo. Dunque c’è questa complicazione che la persona che legge è la persona che scrive. E, per finire con le lettere, c’è un paradosso incredibile, che riguarda il rotolo della Torah, non il libro, il rotolo che si trova nella sinagoga, che si scrive a mano con calligrafia, per ore e ore, e dunque ogni lettera, la calligrafia è veramente un’esperienza mistica. Dunque, questo rotolo della Torah, quando si trova nell’Arca Santa della sinagoga, se si apre questo rotolo, che si vede? Si vedono le lettere, le consonanti, ma non ci sono punti (vocali), non c’è la musica, indicata nel testo stampato con dei segni chiamati teamim in ebraico, ci sono soltanto le “corone”, taghim.
Dunque, nel rotolo della Torah ci sono due cose: i segni, le lettere stesse, nere, consonanti, e questo disegno meraviglioso, le corone, taghim. Ma l’essenziale, i punti e la musica, non c’è. Quando un uomo prende il rotolo e lo porta qui e comincia a cantare e a leggere, deve sapere totalmente la musica che è molto complessa, la musica e i punti; deve sapere che Bereshit barà si può leggere “borescì”, “briscì”, “brasciò”, “birò”, “barà”, ma lui ha appreso che si dice Bereshit barà. Dunque lo scritto e l’orale sono inseparabili. La creazione dell’uomo che legge il testo che non si può cambiare, è creazione. Io non posso leggere se non conosco totalmente questo testo. Dunque, l’ebreo è sempre creatore del testo che legge.
Ruggero Chinaglia Mi pare sia stato un incontro di grande efficacia e interesse, che ci induce a leggere e rileggere questo testo di Nadine Shenkar e addentrarci vieppiù nella questione dell’ebraismo e della Cabala ebraica, e quindi ringraziamo Nadine Shenkar di essere stata qui con noi questa sera. Tra l’altro, Padova, nell”800, è stata sede di ricerche cabalistiche molto importanti, e quindi certamente questo è un rilancio, una provocazione intellettuale perché l’elaborazione prosegua, prosegua accogliendo anche la proposta che faceva poco fa in direzione dell’originario. Direi che ciascuno può accogliere le proposte di Nadine Shenkar in questa direzione, anche leggendo il suo libro, cioè ciascuno si disponga ad andare in direzione dell’originario; più che in direzione dell’origine, in direzione dell’originario, perché l’originario è senza origine, e proprio per questo si trova nell’infinito, nell’infinito dove maggiore, minore, destra, sinistra chiaramente non hanno senso proprio perché si tratta di infinito. L’infinito è un concetto, anzi è qualcosa di irrappresentabile, è qualcosa di inconcepibile, che non può mai diventare un concetto. Proprio per questo è così difficile che ciascuno possa accogliere questa istanza di infinito che tuttavia nella parola c’è e provoca, appunto, all’ascolto, provoca alla ricerca, provoca all’indagine, provoca ad andare verso l’originario per incontrare la qualità della parola, la qualità della ricerca.