ODÈO E ALTRI RACCONTI presentazione a Padova
- Chinaglia Ruggero, Frasnedi Alfonso, Muzzarelli Marco, Odèo e altri racconti
Venerdì 26 maggio 2023, alle 20,45 nella Sala Livio Paladin di Palazzo Moroni, a Padova. TESTO della presentazione del libro Odèo e altri racconti, di Marco Muzzarelli, edito da Spirali, con un dibattito dal titolo
L’ENIGMA DELL’ASCOLTO
Sono intervenuti, Ruggero Chinaglia, Patrizia Ercolani, Stefano Fior, Fabrizio Moda, Fernanda Novaretti, Sabrina Resoli, Maria Antonietta Viero.
Ruggero Chinaglia Il dibattito di questa sera s’inscrive nelle attività in corso dell’Associazione cifrematica di Padova, che attualmente ha come tema dei dibattiti Afasia e Alingua. Legge, etica, clinica della vita. I dibattiti si svolgono il giovedì sera alle 21, nella Sala “Ai Caduti di Nassiriya” del Quartiere centro e affrontano varie questioni che riguardano come le cose si dirigono alla qualità e come ciascuno, avvalendosi delle cose che si dirigono alla qualità, vive senza l’idea di fine, senza il pericolo di fine, senza badare, sopra tutto, ai pericoli, ai mali, all’idea di morte perché il dispositivo della ricerca e dell’impresa nella parola instaura il gerundio della vita. Quindi, instaura il modo senza l’idea di fine. Questi sono dibattiti che puntano a dissipare molti luoghi comuni e credenze, radicate anche nelle istituzioni, che costituiscono il messaggio, sopra tutto rivolto ai giovani, grazie a cui i giovani vivono in quest’epoca una vita molto difficile, perché tutto ciò che viene proposto, imposto, prescritto dalle varie discipline e nei vari apparati istituzionali, contrasta proprio con la domanda libera di ciascuno che, sopra tutto nei giovani, se viene stoppata difficilmente trova il modo di elaborarsi, articolarsi e instaurare quei dispositivi che assicurano la riuscita.
Nell’esperienza ormai cinquantennale della cifrematica, perché quest’anno ricorre il cinquantesimo anniversario da che l’esperienza cifrematica è sorta, abbiamo avuto modo di constatare che tutto ciò che è diffuso a livello generale non è per favorire la domanda nella sua particolarità e specificità, quindi nella sua direzione libera verso la qualità. Al contrario, constatiamo che sempre di più che l’epoca si dirige verso la standardizzazione, dunque verso l’omologazione, verso tutto ciò che contrasta le istanze che ciascuna domanda chiede.
Anche l’incontro di questa sera s’inscrive in questi dibattiti, in questo programma, in questa missione di promuovere l’arte, la scienza, la cultura della parola e non il luogo comune. Avendo letto e constatato i termini dell’esperienza della parola e della scrittura di qualità nel libro Odèo e altri racconti di Marco Muzzarelli, ci è parso cosa interessante e giusta invitarlo qui a Padova per dibattere intorno al libro, alla sua esperienza. Lo ringraziamo intanto di avere colto l’invito.
Marco Muzzarelli è da anni nell’esperienza cifrematica, vive a Modena e collabora con l’équipe che promuove attività culturali, scientifiche e artistiche nella città. In particolare, parte della sua esperienza è proprio rivolta all’arte. È anche presidente dell’Associazione Oniro, associazione che a Modena organizza mostre e attività culturali collegate, favorendo lo scambio fra artisti, fra persone che si rivolgono all’arte, alla cultura, in un’intersezione di arte, cultura e scienza. Ciò è molto bello e s’inscrive nel progetto del secondo rinascimento delle arti e delle scienze, che ha caratterizzato la cifrematica sin da quando è sorta.
Abbiamo istituito un dispositivo particolare questa sera con vari interventi in testimonianza della lettura del libro, per cogliere i contributi che sono sorti dalla lettura del libro. Abbiamo intitolato questo dibattito L’enigma dell’ascolto, titolo che combina la molteplicità degli spunti e degli interventi nel dispositivo di questa sera con vari aspetti che sono nel libro e di cui avremo modo di sentire le note dai vari interventi. Cominciamo con l’invito all’intervento Patrizia Ercolani.
Patrizia Ercolani Volevo dire, come introduzione che ho letto il libro e l’ho trovato bellissimo, interessante, per nulla banale.
Odèo: dal greco canto, eco. Lembo di luce. Intendere dettagli tra le righe, oltre il pettegolezzo, come può evocare l’immagine di copertina a prima vista, oltre la chiacchiera dall’uno all’altra, comportando la catena del sapere sull’Altro, senza ascolto.
Trovo, leggendo il libro di Marco Muzzarelli, canzoni dell’attraversamento dell’itinerario dell’autore, come: quadri, pitture, astrazioni, riflessioni intorno al colore, all’udire, all’incontro, al sogno, al reale, all’enigma, alla vita, al silenzio, la traversata dell’idea tra natura e cultura, tra ricordi e atti. Natura e cultura comunemente intese come due poli opposti. E altro ancora.
Per esempio, cito: Malinconia verso un periodo passato, in cui sono seppelliti ricordi ridipinti e a volte sbiaditi, ma che a noi sembrano molto più colorati dell’oggi, anche se in realtà non fanno altro che macchiare il colore.
È possibile “macchiare” il colore? Altro colore! Altra cromatura.
Una lamentela continua a circolare, forse più legata alla vita, o alla morte, e che non sembrava dare loro tregua. Cosa cercate, dunque?
Se c’è continuità non c’è il proseguimento, quindi, impossibile cercare e trovare. Dall’ambiguità, impossibile togliere la contraddizione e dividere la vita dalla morte e assegnargli il luogo. Così, anche per la cosiddetta natura e universo.
Quella materia astratta, implasmabile, non divina e nemmeno umana, che sembrava guidarlo su strade buie e invisibili, lo faceva dannare. Eppure, al contempo, quella stessa materia, in altre condizioni, quando non cercava di padroneggiarla, gli dava tanta soddisfazione e un senso d’incommensurabile libertà.
Con il contemporaneo si elude la simultaneità. La materia, irrappresentabile, non si lascia addomesticare e forgiare, ma, cercando, offre elementi, e, facendo, si presta alla combinazione.
Nel racconto Lo specchio, Muzzarelli scrive: Pensieri che avrei voluto scacciare come insetti e gettare fuori dal finestrino, lasciandomeli alle spalle. E invece nulla di tutto ciò è possibile con i pensieri, con le idee: arrivano, senza chiedere il permesso, e non si può eluderli.
L’idea opera alla scrittura, nonostante il tentativo di farli agire. Per cui, ricordi, tentennamenti, sospensioni o bruschi passaggi all’azione. Allora, bisogna controllare, moralizzare, legalizzare, classificare. Tuttavia, l’idea opera oltre l’idealismo, l’immaginazione e la credenza. Con il sogno e la dimenticanza, l’idea opera nel pragma, anche se il soggetto, con identità e il nome nominato e rappresentato non la conosce e non la guida.
E ancora: Silenzio. Il vociare provocato dalla mancanza di autorità che regnava nella stanza fino a qualche attimo prima svanisce improvvisamente, rimpiazzato da un silenzio scrosciante. Tutti gli studenti, che fino a allora ridevano e chiacchieravano di argomenti che poco avevano a che vedere con la lezione, si voltarono verso l’entrata dell’aula.
Nella libertà, con autorità, rigore e follia, il silenzio scrosciante. Trauma, forse. Ma con il punto vuoto l’Altro irrompe esigendo ascolto.
Un’altra citazione intorno al luogo comune: Parole prive di peso, utili soltanto a riempire i silenzi terrorizzanti caratteristici degli incontri tête-a-tête. Ma la sua verità, che aveva celato poco prima forse per non appesantire la conversazione, o semplicemente come difesa, ha trovato la via d’uscita proprio in quel viale deserto, qualche minuto prima di salutarci. Quando il rumore o il silenzio assorda, occorre trovare lo squarcio, l’apertura, il varco. E non c’è più difesa, ma occorrenza.
Provate a sostenere che anche il lavoro è un gioco! L’ho fatto varie volte e ciascuna volta la stessa risposta, che era poi una domanda: Hai mai lavorato?
Non l’ho mai sostenuto, ma sempre praticato, suscitando l’invidia sorda e insinuosa di vari personaggi che, volendo e non volendo, s’adeguavano al canone sociale.
Per Walter esisteva soltanto una superficie bianca e una matita. Il foglio era l’unico luogo che gli permetteva di dare sfogo non solo alla sua fantasia, ma anche alla fantasia degli altri. I suoi disegni erano come cibo. Un cibo invisibile, ma necessario.
Scrittura e lettura le trovo nell’astrazione. Disegnavo quasi tutto: dal disegno geometrico al disegno libero. Oltre che per la scuola, per Nessuno. Irata, a volte li stracciavo. Chissà chi ci vedevo nel disegno e come lo traducevo! Di sicuro li leggevo. Allora, li davo ai miei amici, per sottrarli alla distruzione. Magari, li distruggevano loro. Non importava. Disegnavo altro ancora. E proprio così, intesi che l’arte non è ferma, né stantia né convenzionale, né ideale né reale. In modo particolare quando disegnai il volto della Venere di Botticelli. Gli occhi non erano in asse: uno su e l’altro lievemente giù. Cancellavo e rifacevo. Ma niente. Gli occhi non erano allineati. Al professore, che passava tra i banchi, dissi che non era quello che volevo io; gli occhi non erano come nella foto, ma niente da fare. Lui rispose che andava bene lo stesso. Mica doveva essere la Venere di Botticelli! Ciascuna cosa si può leggere. Ciascuna cosa si scrive. Ciascuna cosa s’integra per una nota, una canzone, un racconto. Occorre formazione, e molto fare.
In conclusione, una nota a me speciale. Cito dal testo: “Tania, però non c’eravamo accordati in questo modo”, replicai, non credendo alle mie parole: mentre le pronunciavo, già mi provocavano un senso di colpa.
Senso di colpa al posto del parricidio o al crimen, comportando la ricerca del colpevole o qualcosa che non va affatto, togliendo la particolarità, il controsenso e altro. Chi è esente dal senso di colpa? Chi pone la questione? Chi la esplora nei suoi giri e raggiri? Per me è stata una, tra le tante domande, posta e svolta infinite volte, con innumerevoli variazioni, in analisi. Per tanto tempo, a me pare, quando il tempo è cronologico. In verità, intesa in ciascun istante secondo l’occorrenza. A volte, in un lampo.
Un’altra citazione per me interessantissima: Grazie alla preziosissima Biblioteca, riuscii a intuire qualcosa a riguardo all’impossibilità di scrivere due libri identici, anche se ho dovuto leggere la sua esperienza più e più volte prima di riuscire a afferrare il messaggio, che mi parve una prova sbiadita, fuorviante, enigmatica. “La certezza che tutto sia già scritto ci annulla o ci rende fantasmi”, aveva scritto quel viaggiatore.
Il messaggio giunge sempre a destinazione all’interessato anche quando, per me, non sapevo e non so chi a chi, rilevando che l’interlocutore, il lettore e lo scrittore è ignoto e ignaro. Ecco, sono delle note semplici che mi sono giunte leggendo il libro.
R.C. Bene. Grazie. Interviene adesso Stefano Fior. Prego.
Stefano Fior Leggendo Odèo e altri racconti, ho notato è che in ciascun racconto c’è conclusione senza idea di fine. L’autore non lascia mai che la questione si chiuda, s’interrompa, ma con estrema abilità lascia sempre intendere un proseguo, un’ulteriore analisi, che spetta al lettore. E ciò è già una prima instaurazione dell’infinito, della gamma, delle sfumature, dell’invenzione, per quello che potrebbe essere il seguito. Ciò non è cosa per niente semplice e scontata, dove spesso, in molti famosi romanzi, viene proposta la fine in maniera più o meno diretta e sentenziata, dove, ovviamente, è sempre il bene a trionfare sul male.
Invece, Odèo e altri racconti trasgredisce a questa regola. E ciò lo rende un libro anomalo, con testi che si rivolgono all’avvenire, alla scommessa di vita, senza distinzione tra bene e male, tra buono e cattivo. Ciascun racconto, quindi, fornisce un contributo alla vita. Il valore, che magistralmente si coglie tra le righe, rende la lettura non solo piacevole, ma di arricchimento. Tra i vari racconti, Folate d’estate mi ha particolarmente interessato. Un racconto in cui, con precisione, vengono elaborate questioni quali la lingua specifica, la lingua senza codifica e significazione, la lingua che non può essere valida per tutti, comune ai più, compresa tra gli uni e gli altri. Marco Muzzarelli specifica che proprio il gioco delle lingue, l’incomprensione, lo scarto tra quanto s’intende dire, quanto di Altro si dice, quanto si ascolta e quanto s’intende, instauri l’invenzione, l’elaborazione, la proposta, per poi porre delle domande che, per provenire da un granello di sabbia, sono promettenti. Come capire perché ci sia da parte dell’uomo il tentativo continuo di controllare la propria vita, gestire il tempo, dovere sapere cosa volere, senza invece lasciare che, facendo, il progetto di vita si strutturi. Quindi, non per conoscere in partenza qual è, ma perché questo s’integri incessantemente.
Riporto di seguito un estratto del testo: Quando vi ho conosciuto non vi chiamavate neanche “umani”: semplicemente esistevate, come tante altre cose, incluso me, e non vi preoccupavate di dover essere. Oggi invece vi percepisco sconfitti da una battaglia che neanche avete combattuto. Come si è arrivati a questo punto? Vi sento stanchi e date la colpa a tutto ciò che vi circonda, sebbene in altre situazioni ne prendiate la difesa in maniera alquanto contraddittoria, e non cercate di fermarvi un attimo a pensare, a fare, a raccontare, a inventare. In questo modo vi perdete il miracolo della vita, che è l’enigma. L’enigma della vita […]. Poi, il resto è da leggere, perché ovviamente non finisce qui, non finisce mai nel libro Odèo e altri racconti.
Nel testo Marco Muzzarelli sottolinea che al cammino della vita non vanno trovati escamotage per facilitarselo, eludere lo sforzo, l’invenzione, l’arte, altrimenti si perderebbe il senso dell’esistenza. E non può esserci esistenza senza narrazione, racconto e, in modo differente, viene posta la morte come interruzione del racconto. Senza parola non c’è vita. Concludendo, da questo libro si possono cogliere indizi dell’infinito e della vita intellettuale che, scrivendosi, non muore mai. Un testo non banale, ma intellettuale e rivolto alla qualità. I miei complimenti a Marco Muzzarelli per questo testo.
R.C. Bene. Grazie. Interviene Fabrizio Moda. Prego.
Fabrizio Moda “La presenza dell’ombra, negata l’ombra originaria”, lettura del racconto Ombra.
L’ombra, l’inconciliabile del due, della relazione. Il chiaro-scuro anche, la non tutta luce e il non tutto tenebra. Ombra come modo della relazione originaria, logica singolare-duale. Ciò da cui le cose procedono. Ma, l’ombra posta soggettivamente davanti, presentificata la relazione e dicotomizzata, per esempio, tra buoni e cattivi, tra bene e male, tra alto e basso, tra maschi e femmine, provoca paura; e così il soggetto si ritrova con la paura della propria ombra.
Il soggetto, che nel testo l’autore lascia senza nome, è il soggetto che ritiene che il suo nome valga un altro, Denise o Nicole, al termine di una giornata agostana assolata, giostrata su un incontro al buio, pesantemente trascorsa in un tour di locali e cocktails, non senza che lei sfoggi una frizzante e sorda loquacità mentre lui si cela dietro un malcelato e paziente mutismo. Entrambi romanticamente disposti a sopportarsi, a farsi l’uno ombra dell’altra come pena auto inflitta ma necessaria, i due soggetti per arrivare alla conclusione della serata, i due soggetti trovano una chance in un bacio che lei stampa sulla guancia di lui sulla porta della sua abitazione. Bacio di un commiato che il “senza nome” ritiene anticipato. Sbaragliati i preamboli propiziatori per conoscere l’Altro, che nel luogo comune giustificherebbero l’erotismo anziché determinarlo, ecco che il soggetto, con un nome che vale un altro, trova la forza del cambio di un programma che sembrava predeterminato, mentre per il soggetto senza nome, come baciato dalla fortuna, per via di una sensazione di persecuzione, inizia un viaggio con… una particolare presenza che incombe.
La pesantezza dei preamboli aveva già fatto diventare mostri oscuri dei murales senza arte e reso spettrali degli odori sgradevoli. Il buio si era risvegliato tenebra, il mendicante era inopportuno e già due occhi argentei, forse nemmeno umani, luccicavano nel buio. Come perdere l’orientamento nella vita e trovarsi in balia degli eventi, è, per così dire, presto detto: basta seguire le indicazioni del luogo comune, del così fan tutti, del piacere preso direttamente e tranquillamente, in quanto giustificato dal modo politicamente corretto, senza fare male a nessuno, facendo finta di condividere i propri pensieri giulivi.
Ma, a un passo dalla prospettata dirittura d’arrivo, un contropiede, e il bacio spariglia le carte ritenute viste, per cui non si realizza l’erotismo, l’accontentamento, il finalismo delle cose: l’atout è Altro dal previsto. Giocare al gatto e alla volpe non regge nemmeno per una serata. Nessun fiat è possibile facendosi compagnia. Un bacio sulla guancia, e per lo straniamento si avvia una vicissitudine. La via non è diritta come ritenuto, ma labirintica, e una ricerca non voluta porta all’elaborazione. Generoso il bacio di colei che riteneva che un nome valesse un altro. Di valore l’elaborazione di chi riteneva di non avere un nome.
Le ombre colorate dell’impressionismo romanticizzano la natura, la “bellezza” della sopravvivenza con i suoi cicli e conseguenze, dando una mano di bianco alla pesantezza della vita, alla sua feralità. Rendono in questo modo, dicono, sopportabile la vita. La tinteggiatura dell’anima ritenuta moritura. La sottolineatura dell’ombra di piombo. Loro epigono, John Ford pensava “bene” che le sue ombre fossero tutte e solo rosse. Mentre per i veneti, oltre che rosse sono anche bianche. Un’ombra per scacciare le ombre della vita. E anche gli attuali spritz e cocktails non ne cambiano l’aspetto esorcistico, ipnotico. Quale ascolto l’epoca fa dell’ombra leonardesca? Di ciò che dà rilievo alla vita?
Ma cosa sostantifica l’ombra originaria? Come si concretizza? Perché l’ombra sembra pararsi davanti a impedire la via? Cosa la rende realistica se “siamo fatti della stessa materia di cui è fatto il sogno”?
Il tentativo di padroneggiare la parola, il tempo, l’Altro, con il mutismo il “senza nome” e con la loquacità, quella il cui nome vale un altro, sono modalità che tolgono la parola e i suoi effetti, tolgono il piacere della parola, la sua rivoluzione alla qualità, all’aumento, alla ricchezza che dalla parola procede; tolgono la sessualità.
Tolta variazione e differenza, non resta che il piombo della talità, del luogo comune e, come nel caso narrato, non resta nemmeno l’agognato “rapporto sessuale”. Sennonché, la generosità della parola offre a entrambi la chance dell’imprevisto, e, fallita la genitalità, l’opportunità è quella della ricerca e dell’indagine, per ciascuno.
Dunque, sembra dirci l’autore, la chance è l’imprevisto. La chance che s’instauri la vita è l’imprevisto! Con l’imprevisto nulla è più noto e gestibile, nulla è più facile e scontato, nulla va secondo i canoni sociali, e la difficoltà, intoglibile, non è più da esecrare a favore della facilità, cioè della vita standard, della stabilità della vita, del centro di gravità permanente, direbbe il poeta. L’imprevisto porta la difficoltà della vivenza, difficoltà strutturale, insostituibile con il clic della facilità. Nessun appello all’esperto è più sufficiente, in quanto il caso è unico, particolare. Se l’imprevisto si struttura per l’insostenibilità e l’impossibilità della vita come routine, come può l’esperto trovare la riuscita se la sua preparazione e il suo compito consistono nel rimettere le cose al loro posto fisso e predeterminato? Quale l’ascolto del caso se l’obiettivo dell’esperto è la normalità?
Così, per il “senza nome” la sicura e diritta via diviene tortuosa, dissestata, non nota. Ogni angolo è reputato ignoto, come in effetti ciascuna cosa è strutturalmente. Ma, nel luogo comune, ignoto sta per minaccioso. E persino la città stessa sembra un’altra, mai vista, mai conosciuta e per ciò ritenuta pericolosa, inquietante, destabilizzante. Un labirinto! Come orientarsi nel labirinto della vita? Come orientarsi se la strada illuminata, la strada comune e sicura, non fa cessare ma, addirittura, aumenta la destabilizzazione? L’esplorazione, la ricerca, l’indagine, il progetto, il programma per la propria vita è per ciascuno. Come avvalersi dell’illuminazione? Vedo poco più avanti una viuzza totalmente buia, neanche una lanterna a illuminare il selciato. Una via che a quell’ora di notte, in altre circostanze, eviterei per la paura. Accelero come se fosse l’ultima occasione e la imbocco. La presenza, quella presenza, all’improvviso scompare.
La presenza scompare. Non c’è mai stata d’altronde. Era una fantasia, fantasia di padronanza sul piacere, sulla sessualità. Che, però, per la generosità della logica della parola, un sintomo ha avviato all’elaborazione per una via non convenzionale. “Il sintomo è un’attività sessuale” afferma Verdiglione nella Dissidenza freudiana. Sintomo senza patologia o psicopatologia, senza l’erotismo del discorso, ma che necessita dell’ascolto particolare per il suo rivolgimento alla qualità, al valore della vita di ciascuno.
R.C. Bene. Grazie. Interviene Fernanda Novaretti.
Fernanda Novaretti “Lo specchio”.
Il libro di Marco Muzzarelli offre numerosi spunti di riflessione e, in particolare, il racconto Lo specchio mi ha dato l’occasione per esplorare alcune delle credenze e dei pregiudizi più diffusi.
Alessandro Manfredi, il protagonista, si è svegliato dopo una notte tormentata in seguito a uno strano sogno in cui nessuno lo riconosce, nemmeno i genitori. Tutti lo ignorano come se per loro fosse invisibile. Si prepara per andare al lavoro, ma intervengono degli inconvenienti, delle così dette “sbadataggini”, o meglio degli atti mancati, che non lo fanno più sentire in sintonia con se stesso. Il sogno, con le sue immagini, ha sconvolto i riti mattutini e i gesti che Alessandro svolge in sequenza e sempre perfettamente uguali ogni giorno. Durante la giornata il protagonista pensa all’enigma posto dal sogno, e si fanno strada pensieri e idee che non può eludere, ma che rifiuta come suoi.
Il racconto si svolge nell’arco di un giorno dal risveglio fino al ritorno a casa dopo il lavoro, quando nello specchio del bagno vede la propria immagine riflessa, che non riconosce più. Prendono avvio dal sogno e dalla propria immagine riflessa nello specchio alcuni pensieri. “Chi sono? Sono proprio io quello nello specchio o l’idea che io ho di me? Mi vedo o credo di vedermi? “Come può uno specchio avere messo in questione l’idea che avevo del mio essere?”.
Nel corso del racconto interviene anche la questione del nome. Alessandro spesso viene chiamato dagli amici e conoscenti con diminutivi, nomignoli, soprannomi: Ale, Alle, Sandrino, Menny. Il soprannome: cioè sopra il nome, un nome sul nome, un nome che sembra annullare un altro nome, e succede a volte che di una persona si conosca solo il diminutivo o il soprannome. La giustificazione che il nome è troppo lungo non è plausibile, piuttosto è un espediente per instaurare una presunta famigliarità e una forma di conoscenza sull’altro, conoscenza destinata a fallire, come quando qualcuno dice: “Ah, non sei più la stessa persona che conoscevo!”.
Alessandro sostiene che non ha importanza il suo nome di battesimo, non l’ha scelto lui e lo accetta passivamente senza troppi problemi; quindi, forse, qualche problema c’è, anche se non viene indagato. In fondo – dice – ognuno lo chiama come vuole. Però, afferma che dietro a questi soprannomi nessuno, e nemmeno lui, sa realmente chi ci sia. Trascorrono le ore, il protagonista riflette, incomincia a cogliere alcune connessioni tra i pensieri. Inizia così una elaborazione, quasi un viaggio, che lo porterà a dire come l’immagine che noi vediamo è dettata dall’idea, illusoria, che abbiamo di noi e anche a rilevare come per le persone non siamo altro che l’immagine che esse hanno di noi”.
Le domande di Alessandro gravitano attorno alla questione dell’”essere”, al tentativo di definire la propria identità, il proprio autoritratto, la conoscenza di sé: Io sono fatto così, cosa ci vuoi fare? –dice il protagonista alla fidanzata. E questo è un luogo comune che interviene molto spesso nelle conversazioni: “Vorrei proprio fare, ma non posso, sono così, non dipende da me!”. Ecco, in questo modo è ribadita la credenza nel fatalismo, nella predestinazione, nell’idea di dovere “essere se stessi”, rappresentando il proprio personaggio. La persona, cioè la maschera come indica l’etimologia del lessema, dovrebbe restare immutata nel tempo.
La prescrizione dell’epoca è di dovere conoscere se stessi, perché ciò consentirebbe di potere gestire e padroneggiare le cose, ma questa idea di conoscenza presuppone l’immobilità, e nega il tempo che interviene come taglio, come differenza e variazione incessanti.
Il protagonista giunge alla constatazione che l’idea che ha di sé si è formata già da bambino, attenendosi alle attese e alle prescrizioni del dovere “essere” e quest’idea lo ha ingabbiato nella sua soggettività, impedendogli anche di potere intraprendere e azzardare un progetto e un programma di vita differente dall’attuale.
Il sorriso, che interviene al termine del racconto, ci indica che il viaggio di Alessandro proseguirà con l’analisi, quindi verso l’intendimento delle questioni che esigono ancora la ricerca.
R.C. Bene. Grazie. Interviene adesso Sabrina Resoli.
Sabrina Resoli Odèo mi ha sorpreso inizialmente per il suo andamento da romanzo di fantascienza, di quella fantascienza senza astronavi o robot, senza tecnologie futuribili, ma che, come le Cronache marziane, conduce in un altrove, avendo come pretesto narrativo lo straniamento: “Cosa ci faccio io qui?”, in cui spesso s’imbattono i protagonisti dei vari racconti. Dallo straniamento procede la narrazione, consentendo di indagare le questioni, cui ciascun racconto fa da pretesto, senza più riferimento al luogo comune. Per questo, proseguendo la lettura, Odèo si è precisato come testo scientifico nel quale, dissipato il realismo, in modo diverso e vario è esplorata la natura insostanziale della realtà e l’impossibile unità di luogo, tempo e azione che ciascuno sperimenta vivendo, con buona pace di Aristotele.
Così, viaggiando, accade di trovarsi simultaneamente tra le colline modenesi e il Wyoming. Credendo di volere ascoltare l’amico ritrovato, qualcosa interviene a distogliere irrimediabilmente da questa intenzione, mettendo in scacco l’idea di controllo e di volontà. I protagonisti dei racconti si trovano alle prese con “dubbi inaspettati e indesiderati” nel Il labirinto dei pensieri o con idee e pensieri che arrivano senza chiedere il permesso, e non si può eluderli (pag. 142, Lo specchio).
In questi racconti c’è la constatazione che io non è il soggetto; anzi, il soggetto non esiste e l’identità è un abbaglio. Anche Nessuno non è Nessuno e i luoghi non hanno luogo. Eppure, in questa dissoluzione delle superstizioni e delle credenze su cui si regge la vita dei mortali, qualcosa resta.
Ciò che resta è il punto del cosmo da cui procedono la storia e la sua narrazione, nella La favola del cosmo, il granello indistruttibile che viaggia spinto dal vento della vita, in Folate d’estate, e le sue volute tracciano racconti solcati dal tempo, che introduce infinite e imprevedibili variazioni. Racconti che non concludono e, anche, quando sembra giungere il “colpo di scena”, c’è lo scarto a marcare l’impossibile chiusura delle cose in un cerchio. Forse è la prima volta che incontro una scrittura che tenta di narrare l’infinito che si avverte talvolta nelle pieghe della luce o nei varchi del silenzio o nelle briciole del sogno. E, per dirla con Odèo, C’è qualcosa di più reale del sogno?
Ciò che resta dalla lettura di questo libro è – citando pagina 169 – tanto altro che non riuscivo a afferrare, come un racconto che non conclude. In Odèo si trovano molteplici racconti, perché forse il molteplice meglio si presta a rappresentare la complessità della materia della vita. E ciò che di questa rimane come enigma, non impedisce l’ascolto della favola del cosmo.
R.C. Bene. Adesso interviene Maria Antonietta Viero, che con Spirali ha pubblicato il libro La ballata del Moro Canossa e recentemente altri due libri: Viaggio di una foglia e La padrona delle oche. Prego.
Maria Antonietta Viero “M’incammino”.
M’incammino tra gli incanti murales che incantonano la via. Si assemblano i pensieri, premono sulla materia del dire, immagini sfuggono alle forme e ingannano il vedere. E al vedere chiede: “Ciò che vedo è reale? Ciò che vedo è proprio ciò che vedo?”. E immagine insiste. E al suono chiede: “Sono forse io? Chi sono io? Chi è questo io che pare emergere da chissà quale posto nascosto, che pare avulso da struttura singolare triale: io tu lui?”. Aspetti dell’oggetto, causa del dire a cui togliere o dare volontà, padronanza e potere? Nascosto e protetto, come il piccolo alberello del giardino incantato, da quale tentazione? L’ignoto sapere in paura che il vedere accechi lo sguardo? O divenga zimbello dello specchio? O afono di voce in grido d’aiuto? Si colorano gli asterischi del vento dell’arcobaleno e una tela affretta il pittore e un foglio sul banco sorride alla fiaba, che della domanda si va tessendo: la storia che narra l’esperienza della parola originaria nel suo dispositivo di atto linguistico, l’atto che sfata il fatto di essere stato e fatto. E alla mente viene la lezione del nonno: non fidarti mai di ciò che vedi.
M’incammino.
M’incammino urtando i lati del labirinto, dove l’orientamento sembra venire meno per l’idea che ho della presenza assenza. Come minaccia il seguirmi e il battito accelera. Inseguito da chi? Un mostro verde, fantasma di idea di morte: verrai divorato dalla tua ombra.
M’incammino.
M’incammino con l’ombra che non ristora, che non sta dinanzi a oscurare l’inciampo del passo e oscura il paesaggio. Ma luce dal chiaro scuro della traccia, sfumatura essenziale al caso specifico, al procedere delle cose verso la qualità, al crepuscolo, alla penombra della colomba. Chiaro scuro. Sul tavolo la mensa si fa d’indici: ricordi sbiaditi, vissuti, immaginati, sogni, desideri, rimpianti, disposti alla fiaba, alla favola, alla saga. Si narra nel dispositivo di ascolto, occasione di dissoluzione della fantasia che li incatena all’instaurazione dello stato di pena, per colpa che sempre c’è da pagare.
M’incammino.
M’incammino sul sentiero della notte e del giorno dove i nomi errano e i significanti sfuggono dividendosi da sé. Un busso alla porta. Nessuno apre. Nessuno che dice di sapere tutto, anche di sapere il nome: chi sono io? Nessuno. Nessuno di padre e figlio. Figlio di padre? Nessuno. Il caos resta. Vado con nessuno. Lambendo i bordi che orlano i sentieri di ricamo e merletti della scrittura della memoria di ciò che, accadendo, si narra ciascuna volta differente, nell’atto di parola. Vado con nessuno. Il nome resta ignoto e inconoscibile. E a nulla vale risalire il fiume del ritorno per trovare la sorgente, scavare addirittura con le mani. Il rivolo resta. E nessuno sa il dove nasce, che è qui che comincia; quel dove e da dove rimane ostacolo che trae a proseguire.
M’incammino. Cosa c’è più di reale di un sogno?
M’incammino, e a un tratto ho un grande splendido giardino dinanzi. Penso sia l’opera più perfetta che dio ha consegnato a natura; è un bosco folto stracolmo di aria, luce. I fiori, l’ erba, gli alberi sembrano esenti da ciò che si chiama “il tempo che passa”, seguono le stagioni e non invecchiano. Che tempo è? Che giardino è? È il giardino del tempo. Il tempo della bellezza, il tempo dell’albero senza doni di conoscenza, senza segni di fasi di crescita, senza eredi di tentazioni di eternità e di giovinezza. È il tempo dell’occorrenza dove le cose si fanno nella tentazione e nell’atto intellettuale.
M’incammino nel respiro di aria e vento che brezza le cose, e non sono più le stesse distratte da Altro, che sempre l’istante dell’imprevisto sorprende. L’ascolto, e felicità, sta nell’eternità dell’istante.
M’incammino incontro al padre, che come il grande tronco incontrato nel cammino pensavo gli dovesse la giovine vita avvinghiata, così, nel giardino del tempo per la fiaba che ancora si narra.
R.C. Bene. Dopo avere ascoltato le varie testimonianze che hanno colto varie sezioni e lezioni del testo Odèo, a questo punto non resta che ascoltare la testimonianza di Marco Muzzarelli che ci racconta come è sorto il libro, da quale percorso, cammino, itinerario e lungo quali vicende e vicissitudini si è svolto.
Marco Muzzarelli Innanzi tutto, buona serata a ciascuno di voi. Grazie per la partecipazione. Sono molto lieto di presentare la mia opera prima Odèo e altri racconti in questa meravigliosa sala di palazzo Moroni in una città speciale che è Padova, ricca d’invenzioni e di opere d’arte. Ci tengo a ringraziare in particolare modo il dottor Ruggero Chinaglia per l’invito, per l’opportunità e per il suo testo di estremo spessore e interesse. Ringrazio i relatori che hanno colto, non propriamente una lezione, ma qualcosa dei miei testi. Volevo ringraziare anche la casa editrice Spirali per l’edizione e l’opportunità e, sopra tutto, Armando Verdiglione e Cristina Frua De Angeli per il loro incommensurabile contributo alla vita e alla scrittura.
Il titolo della presentazione, L’enigma dell’ascolto, non poteva essere più azzeccato perché “enigma” e “ascolto” sono due elementi indispensabili per intendere qualcosa dell’opera. Nel racconto La favola del cosmo, sorto dal mio primo incontro con Armando Verdiglione, in esergo ho citato il seguente aforisma: Il nostro giardino è custodito dalla favola, dalla favola di ciò che facciamo, dalla favola nella sua catacresi, nella sua contingenza, nel suo silenzio. È la favola poetica nella linguistica del cosmo con cui essa si scrive. È la favola del cosmo nell’infinito e nell’eternità del tempo. Il mio interesse intorno all’enigma, direi una curiosità essa stessa enigmatica, c’è sempre stato e sempre ci sarà, proprio per le virtù stesse dell’enigma, ovvero l’impossibilità di spiegare. Spiegare risulta impossibile, in quanto il termine stesso avrebbe l’ambizione di togliere la piega. Quella piega impensabile che prendono, per così dire, le cose che si fanno, le cose che si dicono, le cose che si scrivono. La volontà di spiegare è solo una tentazione che ci permette di raccontare qualcosa d’altro. E così facendo, rilasciare un’altra piega, all’infinito. È così che sono sorti i miei racconti, come tentativo di spiegare l’inspiegabile. Avrei potuto dilungarmi all’infinito, scrivere migliaia di pagine per ciascun racconto e, nonostante tutto, sarei rimasto deluso, semplicemente perché l’enigma rimane. Quindi, mi sono abbandonato alla parola, alla narrazione, all’ascolto. E qui sorge una domanda essenziale: quale ascolto? Non sono assolutamente in grado di dare una risposta a questa domanda. Certo che vivendo, incontrando, esplorando, facendo, ovvero nel gerundio della vita, delle cose che facciamo, qualcosa, non tutto, si scrive. Impressioni che ci catturano, che ci colpiscono, spesso le anomalie, i lapsus, i malintesi che non sono errori da correggere in favore di una vita ideale, come molti sapienti tentano di dirci, ma opportunità. Nulla di negativo o di sbagliato, ma occasioni che ci offre la vita. Credo che siano queste anomalie che vanno ascoltate, seguite, scritte.
L’ascolto, dunque, è quanto di più enigmatico e inspiegabile ci possa essere o non essere. E di nuovo altri incontri, altri racconti, altri testi, altre poesie, altre opere, altre avventure perché l’ascolto, e da qui il fare, è ciò su cui sorge la civiltà. L’ascolto esige l’instaurazione dell’Altro, e l’umiltà è la condizione dell’ascolto, il terreno grazie al quale si possono cogliere gli elementi per la scrittura. Dico questo anche come chiave per chi vuole leggere il libro e per chi lo avesse già letto. Io stesso ho dovuto rileggerlo più volte e ciascuna volta ho colto novità perché il testo è infinito.
Il non finito, il non finibile è un altro grande tema sul quale mi sono soffermato molto. Non riuscivo a intendere, al di là dei luoghi comuni, cosa s’indicasse con il termine infinito. Perché un’opera non finisce? Perché il tempo non finisce? Perché la fine è un’idea meschina, infida, subdola, un fantasma che s’insinua e ci fa perdere lucidità. Ma se instauriamo l’ascolto, ecco l’infinito. Nell’atto, nelle cose che si scrivono, c’è qualcosa dell’infinito. E grazie alla lettura è possibile intendere l’infinito. Non come concetto, ma come constatazione, perché è nella lettura che si gioca la partita della scrittura. Una lettura altra che ci offre la chance per la libertà, non perché, come dicono in tanti, la lettura in quanto tale ci renda liberi, ma perché la lettura non è di ciò che è stato scritto, bensì è la lettura di ciò che ancora non è stato scritto che ci offre l’opportunità di scrittura. In questo senso la lettura esige l’ascolto e, grazie all’ascolto e alla restituzione dell’esperienza, l’infinito, la particolarità, la specificità. E qui approdiamo al protagonista della serata, Odèo.
Odeo e altri racconti è un libro che raccoglie sedici racconti e sorge dalla lettura di uno dei più grandi scrittori del XX secolo, Jorge Luis Borges, che ha influenzato migliaia di poeti, registi, pittori, scrittori, imprenditori. Non ricordo quando ho cominciato a scrivere, anche se oggi oserei dire che è da quando ho cominciato a vivere, come ciascuno di voi. Ciascuno scrive qualcosa e magari neanche se ne rende conto. La scrittura infatti non può essere rappresentata. L’episodio, che indicherei come punto d’incominciamento di questo percorso di scrittore, è di qualche anno fa, dopo il mio rientro da un soggiorno di sei mesi a Buenos Aires. Mi era stato regalato un libro per il compleanno. All’epoca non ero molto interessato alla lettura e, nonostante i miei famigliari lo sapessero, mi regalarono quel libro. Una sera prima di addormentarmi, vedendolo sulla mensola ancora intonso, lo presi e incominciai a leggerlo. Sulla copertina era scritto best seller e su internet vidi che ne avevano fatto una trasposizione cinematografica. Giunto al terzo capitolo, mi dissi: “Tutto qua?”. Basta scrivere in questo modo per fare successo? Anch’io ho una storia da raccontare. Mi alzai, presi una penna e un foglio bianco e incominciai a scrivere; le parole uscivano da sole, quasi spontaneamente. Io dovevo solo abbandonarmi alla loro stesura, alla combinazione delle parole senza badare neanche troppo alla punteggiatura, allo stile, alla forma. E non appoggiai la penna fino alle quattro di notte. Il giorno dopo mi alzai e vidi quei segni sulla carta e, come se fossi ancora avvolto nel sogno, mi sorpresi. Non ero sicuro che fosse successo davvero. Eppure avevo già cominciato un romanzo. Circa un anno più tardi l’ho terminato. L’ho fatto leggere ai miei interlocutori, che fecero un importante lavoro sul testo, per fare sì che giungesse alla pubblicazione. E decisi di non pubblicarlo. Non ero del tutto soddisfatto. Mi era parso un po’ troppo banale e intuivo che c’era qualcos’altro che mi interessava di più. Tutt’ora quel romanzo è inedito e mi auguro possa trovare la via di edizione. L’interessante, però, fu ciò che accadde in seguito, perché, non essendo contento, c’era qualcosa che m’interessava ben più di quel romanzo e la lettura di Borges mi evocò qualcosa di mitico, di fantastico, qualcosa che a mio modo avrei voluto imitare. Quei racconti brevi, finzioni, mi entusiasmarono, mi emozionarono. Anch’io voglio scrivere racconti brevi, mi dissi. E così avvenne. Ma le domande che sorsero mi parevano insormontabili. Da dove partire? Come incominciare? L’ideale mi bloccava. Non sapevo come fare. Finché, nelle settimane seguenti, mi venne un’idea. Presi la penna di nuovo, e nonostante il terrore cercasse in tutti i modi di insinuarsi per non farmelo fare, quasi fossi posseduto incominciai a scrivere qualcosa. L’inizio del secondo semestre era giunto alle porte; conclusa la lunga sessioni di esami, io e miei compagni di corso abbiamo avuto solo un paio di settimane per riprenderci dall’interminabile fatica e rimetterci in sesto per affrontare la seconda e ultima parte dell’anno accademico. Seduto alla scrivania, in solitudine, volavo. Le parole si combinavano in un intreccio che mi pareva dare luce a quell’idea che mi era venuta e mi stuzzicava l’ipotesi che, scrivendole, qualcun altro potesse leggerle e viverle, a suo modo, certo. Ma questa ipotesi mi dava forza. E così proseguii alla ricerca della soddisfazione.
Silenzio. Il vociare provocato dalla mancanza di autorità che regnava nella stanza fino a qualche attimo prima svanì improvvisamente, rimpiazzato da un silenzio scrosciante. Quella sensazione fu molto interessante, per non dire magica. L’idea che si stava scrivendo mi parve un miracolo e, forse, il vero miracolo è questo: non nego che il viaggio in cui mi trovavo, che è sempre il viaggio della parola, mi rendeva felice, leggero, libero. L’atto non era assolutamente pesante. Al contrario, ciò che fino a quel momento mi teneva lontano dalla scrittura era un’altra idea, una nobile menzogna, come direbbe Platone: l’idea di conoscenza. Questo è un altro tema importante del libro, che inaugura altri racconti, nello specifico, La voce e Odèo, che dà titolo al libro e meriterebbe una conferenza a parte.
Un racconto credo molto importante, che affronta temi cruciali del nostro tempo, e non solo, anche se in qualche modo potrebbe provocare l’ira degli dei, e nasce dall’acquisizione che non c’è più l’idea di conoscenza, e sono il fare, la ripetizione, l’automatismo, l’esercizio a sfatare quest’idea. Non c’è nessuno che può vantare il sapere perché il sapere è un effetto della parola. Non appartiene a nessuno, è della parola. Nessuno, appunto, è lui il grande protagonista e è a lui cui dedico il libro perché Nessuno è importante, anzi, importantissimo e ciascuno potrà intendere a suo modo ciò che voglio dire. E questa è l’intuizione e l’intenzione per la quale ho scritto questi racconti. Grazie.
R.C. Ringrazio Marco Muzzarelli e ciascun altro che ha dato un’eco al libro. Anche ciò che Marco Muzzarelli ha scritto questa sera è un invito alla lettura del libro, perché rilancia molte delle questioni che vi sono contenute, ma non nel libro nella sua interezza, perché è scrittura dell’esperienza. Quindi, il libro è intero ma non completo. Questo aspetto si coglie, leggendo. E, forse, non avere pubblicato il primo romanzo ha consentito alla scrittura di spingersi, in questi racconti, a esplorare questioni che magari non sarebbero state esplorate, accontentandosi della prima scrittura.
C’è una cosa che colpisce leggendo questo libro di racconti, che è scrittura dell’esperienza di Marco Muzzarelli. Ci sono vari dettagli, vari episodi, varie sezioni e, in ciascuno di questi, i personaggi dei racconti non sono saccenti; non hanno da affermare un sapere sulle cose perché, avendole vissute, ne avrebbero conoscenza. Non c’è saccenza, e ciò è un pregio assoluto, nel senso che lascia al lettore di cogliere i vari aspetti, i vari contributi, i vari spunti e le varie indicazioni liberamente. Qui sta la leggerezza, a mio parere, del libro perché indica che la partita che ciascun personaggio gioca è una partita leggera. E perché questa leggerezza? Perché sia per l’autore, sia per lo scrittore e sia per il lettore ne deriva l’accettazione dell’enigma. C’è un atto di generosità assoluta nella scrittura del libro, perché c’è l’accettazione dell’enigma. A ben pensare, non c’è molto spesso questo lasciare che ciò che si dice e ciò che si fa rilasci un enigma, senza affrettarsi a chiuderlo nel quiz o nell’indovinello, cioè in un’alternativa, in un’alternanza fra positivo e negativo, fra bene e male, fra presenza e assenza, fra giusto e sbagliato. Ecco, qui non c’è la presa di una ideologia, di una morale che dovrebbe orientare l’interpretazione o la lettura o il senso di ciò che si legge.
A mio parere, ciò è un contributo importante, una qualità rara nella scrittura, sopra tutto di quei libri che spesso vengono premiati, perché sono ossequiosi della realtà come dev’essere. Quindi, varie opere, vari libri che sono esaltati, omaggiati, considerati importanti, in realtà lo sono perché confermano un’idea di realtà, un’ideologia della realtà, una sostanzialità della realtà “come dev’essere”, per partecipare a un luogo comune, a una communio, a una totalità, per dire che sì, ci comprendiamo, parliamo la stessa lingua, siamo simili. Qui, invece, è lasciata che l’anomalia abbia il suo corso fino all’enigma, instaurandosi l’ascolto. Ma dove e quando s’instaura l’ascolto? Non è possibile stabilire e definire l’ascolto, che s’instaura tra il tempo e la piega. Non ha un luogo, ma rilascia i suoi frutti, i doni, la novità, la qualità, il valore, il capitale della vita, e questo è veramente qualcosa di straordinario.
La questione dell’ascolto in questo libro c’è a iniziare dalla copertina, ma in una proposta ironica, perché quest’opera di Alfonso Frasnedi – artista straordinario, bolognese, autore di opere da decine d’anni, che ha attraversato la storia dell’arte italiana dal secolo scorso ai giorni nostri con la sua produzione – s’intitola Ascoltami. “Ascoltami” è la negazione dell’eventualità che s’instauri l’ascolto, perché l’ascolto non ha personaggi, non sorge da un accoppiamento di chi ascolta, di chi parla, di chi vuole essere ascoltato e di chi, invece, vuole ascoltare per spiegare che cosa si è detto, che cosa è stato detto, che cosa si è pensato. Questa non è nemmeno una parodia, ma una caricatura dell’ascolto, è il modello vigente, dove c’è chi si dispone all’atteggiamento dell’ascolto. Ma l’ascolto non è un atto di volontà, un’intenzionalità, l’ascolto è tra il tempo e la piega nel dispositivo della parola. Avviene se c’è il dispositivo in atto, se la domanda si rivolge alla qualità. Allora, l’ascolto interviene per cogliere i vari elementi, i contributi della ricerca e dell’impresa. Qui si colgono, c’è la testimonianza che nel dispositivo di scrittura di Marco Muzzarelli si colgono varie cose, tante cose, che vanno nella direzione della qualificazione e della qualità. Per cui il libro l’ho trovato bello perché, leggendolo, instaura il clima della parola, cioè la direzione verso la qualità, non dà nessuna prescrizione, nessuna idealità da confermare o da prescrivere a altri. Questa scrittura non è enigmatica, cioè c’è l’accettazione della lingua, ma la scrittura non è enigmatica, è semplice. Le varie citazioni che abbiamo ascoltato, le varie testimonianze indicano che ci sono enunciazioni semplici. È un libro che favorisce la lettura perché non è enigmatico, ma proprio perché questa scrittura lascia a ciascuno l’enigma dell’ascolto, dell’intendimento. Oggi, in quest’epoca, è un dono straordinario, è veramente un contributo di civiltà. Certamente non è per volontà, ma per il procedere dell’esperienza analitica, cifrematica, che Marco Muzzarelli ha intrapreso e ha in corso; e anche questo è una bella testimonianza, un bel contributo. È un libro che veramente consiglio a ciascuno di leggere, perché c’è l’aria, la leggerezza. Il libro procede dalla sospensione assoluta, cioè dalla sospensione delle proprie credenze, dall’arbitrio delle proprie idee. La sospensione che fa sì che non ci si debba conformare a nulla, lasciando che ciascuna cosa si rivolga alla qualità, si qualifichi e, quindi, approdi. E il piacere, cioè l’approdo alla qualità, leggendo, è qualcosa che il lettore avverte.
Per cui ringrazio Marco Muzzarelli per essere stato qui con noi questa sera, per avere scritto il libro. Attendiamo altri suoi scritti e invito ciascuno a munirsi del libro per leggerlo. Il libro è disponibile in fondo alla sala e Marco Muzzarelli volentieri firmerà le copie. Pertanto passiamo ora alla seconda fase del dibattito, la lettura del libro: ciascuno si munisca del libro e lo legga. Grazie e buona sera.
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