I Beni Culturali. Testimonianza materiale di civiltà
- Balbinot Monica, Banzato Davide, Cappochin Giuseppe, Cecchi Roberto, Malara Pasquale Bruno, Monestier Omar, Verdiglione Armando
24 novembre 2006. Testo della conferenza con dibattito di Roberto Cecchi, direttore generale del Ministero per i beni e le attività culturali, dal titolo I Beni Culturali. Testimonianza materiale di civiltà, con interventi di Monica Balbinot, assessore alla cultura del Comune di Padova, Davide Banzato, direttore dei musei civici di Padova, Giuseppe Cappochin, architetto, Ruggero Chinaglia, cifrematico, Pasquale Bruno Malara, direttore regionale per i beni culturali e paesaggistici del Veneto, Omar Monestier, direttore del “Mattino di Padova”, Armando Verdiglione, editore, tenuta nella Sala degli Anziani di palazzo Moroni, a Padova, con il patrocinio della Regione del Veneto e del Comune di Padova.
ROBERTO CECCHI
I Beni Culturali. Testimonianza materiale di civiltà
intervengono
- Monica Balbinot, assessore alla cultura del Comune di Padova
- Davide Banzato, direttore dei Musei Civici di Padova
- Giuseppe Capocchin, architetto
- Ruggero Chinaglia, cifrematico
- Pasquale Bruno Malara, direttore regionale per i Beni culturali e paesaggistici del Veneto
- Omar Menestier, direttore del “Mattino di Padova”
- Armando Verdiglione, editore
Ruggero Chinaglia Signore e signori, amici, buonasera e benvenuti. Esattamente quattro mesi fa eravamo riuniti in questa sala per incontrare due scrittori cinesi, Shen Dali e Dong Chun, intorno ai loro libri che la casa editrice Spirali ha pubblicato, e questa sera è gradita la circostanza di presentare alle autorità e al pubblico di Padova, il libro di Roberto Cecchi, I Beni culturali. Testimonianza materiale di civiltà.
Ringrazio la Regione del Veneto per avere concesso il patrocinio a questo incontro e l’amministrazione comunale, in particolare l’assessorato alla cultura, per avere concesso la sala e il patrocinio; l’ordine degli architetti e paesaggisti di Padova per la collaborazione, così come pure l’Ance Veneto, e un particolare ringraziamento all’associazione Forum che ha contribuito alla manifestazione.
Il programma delle attività della nostra associazione e della casa editrice proseguirà nei prossimi mesi con gli avvenimenti in calendario, ossia Questione cancro, con Georges Mathé e Paolo Pontiggia; Il valore dell’impresa, con Roberto Ruozzi, presidente del Touring Club Italiano e già rettore dell’Università Bocconi; Sì, logo di Ferdinando Cionti, e con il seminario settimanale di Clinica della parola intorno al tema L’interlocutore, e poi con un avvenimento con Lorenzo Jurina, Vivere il monumento.
L’occasione di questa sera non poteva essere più opportuna per presentare, accanto al libro di Roberto Cecchi, anche il prossimo Forum della modernità, che si terrà a Milano la settimana prossima, alla Villa San Carlo Borromeo di Senago, intorno alla questione Il valore dell’Italia.
Per porre alcuni degli elementi editoriali per cui è sorto questo libro, per porre la combinazione tra questo libro e il festival che s’inaugura la settimana prossima, abbiamo qui questa sera l’editore, il professore Armando Verdiglione, a cui passo passo subito la parola, perché, per impegni che lo richiamano a Milano, dovrà lasciarci prima del termine della serata per rientrare, appunto, a Milano. Poi, proseguiamo con gli altri relatori e con il saluto degli ospiti. Allora passo subito la parola a Armando Verdiglione.
Armando Verdiglione Amici, buonasera. Sono felice di trovarmi qui, in questa città, dove vengo da trentadue anni e, in questa occasione, per rendere omaggio a Roberto Cecchi, che è un tecnico e si rivela qui, uno scrittore. Ha una lunga esperienza nelle sovraintendenze e al ministero, è un esperto del restauro e protagonista del Codice dei beni culturali. E quindi il nostro incontro è un incontro intellettuale, è un incontro felice e ho capito che, su questa materia, Roberto Cecchi è l’unico che potesse fare questo libro e assumere l’esperienza dei beni culturali e stabilire elementi, ipotesi, direttive per quanto riguarda l’avvenire in questo settore.
Non è un settore qualsiasi, è, diciamo, “l’Italia”. È il valore stesso dell’Italia, è il valore intellettuale. E non a caso noi avevamo stabilito nei nostri incontri proprio questo titolo: I beni culturali e i valori intellettuali dell’Italia. E proprio su questo, i valori dell’Italia, noi facciamo questo festival della modernità. Allora, questo processo di valorizzazione dei beni culturali, della memoria, dei monumenti è ciò che ha stabilito un dispositivo straordinario per la produzione di questo libro.
Noi abbiamo avviato dibattiti su questa materia a Roma, a Milano, a Ravenna, a Venezia la settimana scorsa, ieri a Pordenone, il 15 dicembre a Matera e lo faremo anche a Firenze e a Napoli. Però tutto il festival della settimana prossima è, in pratica, dedicato a questo libro, e abbiamo invitato personalità da tutto il mondo, da una ventina di paesi.
Quando noi interpelliamo uno scrittore, dalla Cina o dal Giappone, o un filosofo o un artista dai vari paesi, e gli diciamo “Il valore dell’Italia”, capiscono subito che intendiamo anzitutto i beni culturali. Anzitutto i beni culturali e poi un paese dove è nata la scienza a opera di un artista. E questo è una cosa che va sottolineata. Noi ribadiamo che non è stato un filosofo greco, in base a quella che era l’epistème, il discorso come tale, la scienza del discorso, ma è stato un artista, Leonardo da Vinci, a inventare la scienza. Come?
L’esperienza fino allora era qualcosa di fenomenico, qualcosa di secondario. L’esperienza per Leonardo da Vinci è originaria, è esperienza della parola. Ciascun elemento è elemento di valore. È questo che importa. Dunque non c’è una cosa più importante o meno importante, o maggiore o minore. Ciascun elemento, proprio perché rientra nell’esperienza, è elemento di valore.
È Leonardo a abolire la distinzione fra l’arte liberale e l’arte meccanica. E questa è una conseguenza enorme. Ci sono state ideologie che si sono contrapposte, nei secoli successivi – l’ideologia della riforma, l’ideologia illuministico-romantica -, al Rinascimento, alla modernità. Però è questa modernità che prevale, che è prevalsa nei vari paesi, e sicuramente prevarrà ancora in quei paesi dove ci sono dei sistemi mitologici, ideologici più forti. Noi abbiamo una mostra proprio in questo periodo a Milano, s’intitola Donne.
Ebbene, in questa mostra noi abbiamo messo opere degli ultimi due secoli in Europa. Avremmo potuto aggiungere in America, perché certamente ci siamo accorti che è un tema intellettuale, ma è un tema tabù in Cina, in India e nell’Islam. Quindi, diciamo che qualcosa c’è in questa civiltà e, soprattutto, dal Rinascimento in poi. È allora che il tempo interviene nel fare, nella vita. Il tempo non è più considerato a partire dall’idea della fine. Il tempo non finisce, cioè il tempo nella sua eternità e nel suo infinito. È un po’ questo, sono questi alcuni accenni, alcuni temi.
Ma l’apporto di Roberto Cecchi è essenziale, sia per coloro che si occupano di questa materia e sia per le altre istituzioni, per le scuole, le imprese, perché ciascuno può trarre vantaggio, profitto, anzitutto intellettuale, dal modo di affrontare questa questione, e cioè qual è il processo di valorizzazione della memoria.
La memoria non è il ricordo. Il ricordo non può stare al posto della memoria. Qual è il processo di valorizzazione? In che modo le cose tendono verso questo valore? Ciascuna impresa, ciascuna istituzione italiana, ciascun artista, ciascuno scrittore trae valore dal valore stesso dell’Italia, man mano che le cose che fa e proseguono, procedono per integrazione, verso il valore intellettuale. Allora questo è, ripeto, un accenno.
Il nostro incontro è un incontro intellettuale, è un incontro felice. E io ritengo che possa interessare anche agli imprenditori, anche agli artisti. In fin dei conti qual è la questione principale? Può interessare anche ai medici! Qual è la questione principale? Il restauro non è una restitutio in pristino, è una restitutio, possiamo dire, in qualità, è una restituzione in qualità.
Certamente, si tratta di salvaguardare quello che è il bene culturale nel contesto storico in cui si trova e poi di utilizzarlo con tutte le innovazioni tecnologiche che non abbiano per nulla a intaccare, a deturpare, anzi, che possano meglio conservare. La tecnologia può contribuire meglio a conservare il bene. Questo è un po’ come accenno.
Certamente c’è un’ideologia. Per esempio, a un certo punto, si tendeva alla demolizione dei monumenti; e è avvenuto in altri paesi. Quei pochi che sono rimasti in altri paesi, adesso, sono tenuti in grande considerazione. Da noi ci sono molti monumenti, vanno conservati. Ciascuno non va conservato e basta, non va imbalsamato. Come le opere d’arte, non vanno tenute negli scantinati. Bisogna che ci sia un processo di valorizzazione, una art banking dei beni culturali, come delle opere d’arte, come della nostra vita.
Io ringrazio davvero, per questo contributo essenziale, per questo libro, Roberto Cecchi. E sono sicuro che questa tournée di dibattiti, di interventi molto qualificati, produrrà un altro libro altrettanto interessante, e quindi faccio gli auguri a Roberto Cecchi, a ciascuno di voi e ringrazio i relatori, ringrazio il direttore e ciascuno di essere venuto qui questa sera. Grazie.
R.C. Ringraziamo Armando Verdiglione che, nonostante gli impegni a Milano, ha tenuto a essere qui questa sera con noi, per porgere il suo saluto, il suo augurio a Roberto Cecchi e, proseguendo, porgo il saluto, a ciascuno dei presenti e a Roberto Cecchi, da parte dell’Assessore Regionale all’Urbanistica Renzo Marangon, che teneva a esserci questa sera, però il protrarsi dei lavori del Consiglio Regionale per la questione della chimica a Venezia, l’ha trattenuto, appunto, a Venezia. Passo ora la parola alla dottoressa Alessandra De Lucia, responsabile del Settore cultura del comune, che ci trasmette i saluti dell’assessore alla cultura del Comune di Padova, Monica Balbinot.
Alessandra De Lucia Come diceva il dottor Chinaglia, mi trovo qui solo per portarvi un saluto. Anche l’assessore Balbinot, e il sindaco sono molto dispiaciuti di non essere presenti, ma impegni concomitanti li hanno “catturati” in altri luoghi, in altre sedi. Naturalmente è stato un grande piacere accogliere la proposta del dottor Chinaglia e dell’editore di Spirali per la presentazione di questo libro di Roberto Cecchi, che salutiamo con molto piacere, io dico anche con affetto, visto che ci conosciamo sin da ragazzi. E la serata è un ottimo spunto per parlare. Gli spunti non sono mai abbastanza per parlare di beni culturali, per parlare di Italia, ma anche della nostra città, che sicuramente ha bisogno di molte voci e di molte opinioni. Grazie, buonasera.
R.C. Grazie a Lei. Per restare nella città, visto che siamo nell’ambito del comune, dei suoi esponenti e delle sue autorità, passo la parola per il suo intervento a Davide Banzato, direttore dei Musei civici di Padova.
Davide Banzato Grazie. Buonasera a tutti. Ringrazio Ruggero Chinaglia per avermi dato questa opportunità di salutare Roberto Cecchi, in occasione dell’uscita di questo suo libro, che ho letto con grandissimo interesse, anche se non si può certo definire un libro comodo. Contiene una serie di considerazioni, molto amare anche, che, purtroppo, in un periodo più o meno analogo al tempo passato da Roberto Cecchi nell’amministrazione dei beni culturali, mi trovo a condividere.
Non dico che mal comune sia mezzo gaudio, però trovo un senso di comunanza nello scovare osservazioni espresse, che mi trovo anch’io a condividere. È un libro nel quale vi è un’analisi molto lucida di quelli che avrebbero dovuto essere dei fondamenti del nostro modo di procedere e del nostro modo di lavorare. Cioè, le considerazioni espresse nell’analisi del documento uscito dalla commissione Franceschini nel 1967, e la Carta del restauro del 1972, vengono confrontate dall’autore con quella che è l’esperienza personale. La quale si collega, anche, a un’esperienza di studio e di analisi, certo non superficiale, precedente gli interventi di carattere di eccellenza, che ha avuto modo di svolgere nel corso della sua carriera. Perché è chiaro, ci troviamo di fronte a una figura che ha condotto interventi di eccellenza e è arrivata ai massimi vertici dell’amministrazione dei beni culturali.
Più che del tema legato al paesaggio, per il quale ci sono persone molto più competenti di me a questo tavolo, vorrei concentrarmi su due episodi, nei quali si legge l’esperienza su scala nazionale confrontata con quella locale. Esperienze che l’architetto Cecchi ha condotto, nel campo del restauro o della valorizzazione dei beni culturali, con quelle che sono le esperienze padovane. Il volume, infatti, si apre con una storia molto interessante, avvincente, e che rende questo libro non solo per addetti ai lavori. Si legge con passione, è una lettura agile, leggera, leggera nel senso buono della parola.
Nell’analizzare le vicende del Cenacolo, e sempre alla luce del documento della commissione Franceschini, che avrebbe dovuto stabilire tutta una serie di elementi di contesto e essere imprescindibili nelle scelte, negli indirizzi e nell’individuazione delle priorità, appunto, dicevo, nel parlare del Cenacolo c’imbattiamo in una serie di interventi nella storia del monumento, fino all’intervento ultimo, che ci ha condotti all’attuale situazione. Sono stati una lunga scia d’interventi condotti più su di un’onda emotiva che su di una ragionata analisi di quelle che erano le necessità del monumento. Ci si è trovati molto spesso a intervenire senza tenere conto di quali erano i fattori di degrado.
Io ricordo ancora una delle esperienze più interessanti nel mio approccio al restauro, ma devo dire scioccanti. È l’essere salito sulle impalcature del cantiere di restauro (non era cominciato da molto, l’architettura era circa a un quarto con la signora Brambilla), e vedere quanti strati di pitture erano stati tolti e quali erano le difficoltà tecniche — non mi metto a descriverle perché sono spaventose — che il restauratore si trovava a dovere affrontare!
In sostanza, una mancata programmazione e una mancata analisi di quella che era la realtà materiale del monumento, aveva creato la summa delle difficoltà che un restauratore incontrava nel suo lavoro. Questo, già, è un dato piuttosto scioccante. Dopo mi è venuto immediatamente da confrontarlo con quello che è avvenuto a Padova con la Cappella degli Scrovegni. La quantità degli interventi non è stata così formidabile, fino a arrivare ai dieci strati di ridipintura del Cenacolo.
Peraltro, già dall’epoca dei restauri con Bertoldi, fino all’ultimo restauro di Leonido Tintori, anche a Padova il dibattito è stato condotto sul restaurare, prima dell’intervenire sui fattori di degrado. E, nello stesso tempo in cui venivano individuati i fattori di degrado, dovuti principalmente a problemi dell’edificio (ma sopra tutto anche a problemi di gestione vera e propria del monumento), fino a quando non si è intervenuti, e sono passati vent’anni da quando era uscito il volume dell’ICR che analizzava i fattori di degrado della Cappella degli Scrovegni, non si è potuto intervenire senza eliminare questi fattori di degrado.
Ancora oggi, purtroppo, per il fatto di dovere osservare – per la gestione del monumento e per la fruizione da parte del pubblico – tutta una serie di cautele tendenti a salvare un’opera nata per pochi e che si vuole fare vedere a molti, mi vengono in mente le analoghe condizioni di visita del Cenacolo. Molte cose, come lo studio del corpo d’ingresso, gli stessi elementi d’illuminazione, sono i medesimi. I due monumenti hanno delle problematiche molto vicine, anche se il Cenacolo è molto più delicato.
Però questi sistemi cui siamo costretti per cercare di rallentare, perché fermare non si può, il degrado dell’opera d’arte, continuano a creare polemica, continuano a creare, talora, anche sulle pagine dei giornali, la presenza di interventi non sufficientemente documentati; ciò è stato, appunto, il primo interessante paragone. Il secondo, e mi avvio alla conclusione, è legato all’esperienza di valutazione dei beni culturali contenuti nei musei.
Qui, si parla di testimonianza. Il titolo della serata è: I beni culturali, testimonianza materiale di civiltà. Io, più che di testimonianza, sono abituato a parlare di identità materiale, perché ciò che conservano i nostri musei, è una piccola isola d’identità materiale, la quale si oppone al dilagare della omogeneizzazione globalizzante.
Roberto Cecchi racconta la sua esperienza dei grandi musei dello stato, in particolare degli Uffizi, Brera e Venezia; Brera e Venezia che, tra l’altro, rappresentano il modello del museo napoleonico, il museo che voleva esprimersi per grandi serie esemplari, del quale noi, Museo civico, siamo il momento successivo e in qualche modo di completamento. Cioè, il museo civico nasce, almeno nel Veneto, nel momento della restaurazione subito dopo il museo napoleonico, e nasce come istituto di ricovero e conservazione, proprio, di memorie materiali legate ai luoghi d’origine.
Roberto Cecchi, nel descrivere le sue situazioni di lavoro per Brera e Venezia, in particolare lamenta, ancora una volta, questa generale mancanza di programmazione, che ha portato a interventi sopra tutto di compromesso e parziali. Devo dire che, per certi versi, a Padova, invece, questa situazione per un museo civico è stata quasi la soluzione, perché in un quarto di secolo siamo passati da una situazione di disagio materiale delle collezioni a avere un sistema, senza una programmazione d’indirizzo politico vero e proprio, ma semplicemente con una serie di piccole aggregazioni continue che sono state proposte alle diverse amministrazioni, le quali pian piano le hanno accolte. Infatti non si tratta più solo di un museo, ma di un sistema museale ordinato, vasto, dotato quanto meno di cataloghi, di guide, con opere restaurate, con percorsi di visita didattici importanti e con un flusso di pubblico cresciuto in modo esponenziale. Direi che per i musei di Padova è stato un salto generazionale.
Noi lo abbiamo compiuto nel tempo un po’ inferiore a quello di una generazione, però abbiamo dovuto rifarci di parecchio tempo in cui le cose erano rimaste ferme, perché, anche qui, il dibattito, più che sui contenuti del museo, era stato incentrato su qual era il contenitore, su come doveva essere questo contenitore, su dove si doveva posizionare, e nel frattempo quello che era il contenuto languiva in condizioni penose. Peraltro il contenuto è importante e è sotto gli occhi di tutti.
Vorrei concludere con un’osservazione dell’ultima amarissima frase che trovo a conclusione di questo volume. Roberto Cecchi scrive in conclusione: “La cultura non rappresenta più il senso dell’identità sociale”. La domanda che vorrei porre all’autore è fino a che punto sia vera questa sua affermazione e quali siano le vie che si possono individuare per uscire da una situazione del genere, davvero preoccupante.
Un’ultima considerazione. Quello che ha fatto risorgere i musei nel Veneto è stata una legge illuminata, la Legge 50, risalente al 1984. Era una legge che diceva come dovevano essere i musei, come la regione contribuiva per il sostegno di questi musei, come avveniva il piano di riparto. Era una legge chiara, con contenuti e risultati chiari e molto precisi. Adesso stiamo andando verso una legge – come quella che era stata presentata – che a fronte di tutta una serie di affermazioni di carattere generale demanda la gestione vera e propria, non a elementi contenuti nella legge stessa, ma a atti d’indirizzo. Quali siano i rischi insiti in una situazione del genere è facile immaginarlo. Grazie.
R.C. Ringrazio Davide Banzato per la sua testimonianza sia di lettura del libro sia della sua pratica e esperienza nel settore museale. Sicuramente troverà rilancio alla questione che ha posto l’intervento di Roberto Cecchi. Così, diciamo, comincia anche il libro, con la questione delle opere d’arte, con la questione del contesto rispetto all’oggetto, nel primo capitolo del libro. Però altre sono le questioni che vengono esplorate, tra cui quella del paesaggio, dell’ambiente. A questo riguardo, forse, l’architetto Giuseppe Cappochin può dire qualcosa. Giuseppe Cappochin è presidente dell’Ordine degli architetti paesaggisti della Provincia di Padova. Prego.
Giuseppe Cappochin Buonasera a tutti. Intanto ringrazio il dottor Chinaglia per l’invito di questa sera e mi complimento con lui per questa iniziativa, ma anche per il modo in cui l’ha condotta, perché devo dire che difficilmente ho trovato un organizzatore che venisse a trovarci per spiegarci l’iniziativa. Veramente ho visto la passione del dottor Chinaglia e mi complimento per questo.
Anch’io, come il dottor Banzato, sono riuscito a leggere il libro. L’ho fatto questa settimana andando e tornando da Roma, confermando quello che diceva il dottor Banzato, e cioè che è un libro da leggere veramente d’un fiato. L’ho letto in due volte tra andata e ritorno. Quattro ore di andata e quattro ore al ritorno. Pur non essendo io uno specialista di questa materia specifica, l’ho letto con vivo interesse, a partire dal tema del restauro del Cenacolo. Ho visto anche le stroncature fate dall’architetto Cecchi nei confronti del Barizzi, di cui parla in modo veramente molto pesante. A dimostrazione che, quando sono da evidenziare fatti concreti, lo fa.
Ma mi è piaciuto, nei vari passaggi, vedere l’entusiasmo dell’architetto Cecchi nei suoi primi anni di sovraintendenza, quando, alla Certosa di Milano, era andato per l’inizio dei lavori e, di fronte anche un po’ all’insofferenza, sia del parroco sia delle maestranze e degli scalpellini che erano lì pronti a sostituire le facciate, lui invece, con un impegno di vari mesi, è riuscito a mandare via gli scalpellini e a fare arrivare i restauratori senza cambiare niente della parete. Con questo, denota già nei primi anni il carattere e la forte volontà, e naturalmente anche la grande competenza.
Mi sono soffermato di più, naturalmente, sul tema ambientale e paesaggistico, perché è un tema dove forse sono un po’ meno esperto rispetto agli altri. Io ho visto un segno di dolore, ma anche un po’ di polemica da parte dell’architetto Cecchi. Dolore perché la materia paesaggistica — lui era entrato, se non ricordo male, nell’’80 — era già da quattro anni praticamente passato dal Ministero alle Regioni. E questo aveva già comportato – e poi c’era stato un passaggio fatto in maniera abbastanza incompleta, con molta documentazione probabilmente rimasta al Ministero – che di fatto non esisteva un controllo.
Poi, nel 1985 con la Legge 431, la Galasso, la materia è ritornata al Ministero. Però, nel ritorno della materia, pur avendo la Galasso contribuito in qualche modo a rallentare questi tipi di interventi, ritengo sia una legge più che altro tampone, perché, in pratica, fissa delle fasce indistinte, da 300-350 metri a seconda delle tipologie. Quindi, di fatto, intervenendo a valle, cioè a valle della pianificazione generale, comportava che questo non impediva la costruzione, ma sottoponeva soltanto a un parere di una commissione integrata.
Poi le deleghe della Regione sono passate alle Province, da queste le sub-deleghe ai Comuni e così via, sempre con una commissione integrata di due esperti, che non sempre esperti erano. Quindi, il passaggio della pratica alla sovraintendenza, la quale aveva sessanta giorni di tempo per esprimere le proprie valutazioni; in caso contrario c’era il silenzio assenso. Tutto ciò, secondo me, ha comportato una serie di problemi.
Primo, l’enorme quantità di pratiche che arrivavano in sovraintendenza. Ricordo nel testo, quando era in Lombardia, le 2400 pratiche in un anno per persona e circa un migliaio di beni vincolati, per una macchina di otto persone, senza nessun supporto legale e quindi l’impossibilità di questo tipo di verifica. In molti casi, venivano depositate le pratiche per fare passare i fatidici sessanta giorni e ottenere il silenzio assenso. Tutto ciò è un problema importante poiché, secondo me, andrebbe risolto a monte, cioè nelle scelte pianificatorie che dovrebbero essere abbinate ai piani paesaggistici.
Mi ha colpito un passaggio del suo intervento — non pensavo fosse così — quando lei dice che siete stati costretti a fare il “lavoro sporco”, in pratica. L’ultimo a dire di no, anche di quel reparto, quindi costretti a dire di no a queste iniziative. Mi ha colpito nel testo, quando dice che in pratica il vostro tipo di controllo non era sulla qualità architettonica, ma era sul rispetto delle norme!
Qui sono rimasto un po’ stupito, perché leggendo la circolare 5000 e qualcosa dell’’89, mi sembrava che il ministero, invece, puntasse sulla verifica dal punto di vista della qualità architettonica. Ero convinto che fosse questo l’impegno della sovraintendenza, e non certo quello di andare a verificare la legittimità sotto il profilo edificatorio, perché questo sarebbe stato un lavoro impossibile, poiché ogni comune ha una normativa diversa, e quindi, fare un controllo di questo genere, mi sembrava assolutamente impossibile.
Ecco, lo stimolo che dà il libro è di fare delle considerazioni su questo punto, visto che oggi siamo in un momento in cui, a livello regionale, c’è una nuova legge urbanistica, la Legge 11. Essa prevede, nella formazione delle varie pianificazioni, sia a vasta scala sia a scala comunale, un quadro conoscitivo particolarmente puntuale e preciso. E credo che una delle maggiori difficoltà, per cui fino a oggi non sono stati avviati i piani paesaggistici, sia la mancanza di un quadro conoscitivo effettivamente puntuale, perché è un lavoro estremamente complesso, per l’esperienza che noi stiamo facendo in provincia di Padova.
La provincia di Padova ha suddiviso il territorio in ambiti abbastanza omogenei, cioè c’è l’area metropolitana (18 comuni, in pratica), sul quale stiamo facendo il piano d’assetto territoriale intercomunale. Però poi c’è tutta una serie di altre aree, nove complessivamente. E quasi tutti i comuni di Padova stanno erigendo la loro pianificazione di assetto territoriale in maniera coordinata con gli altri. Questa è una cosa molto importante, perché fino a oggi le pianificazioni avvenivano sopra tutto a livello dei singoli comuni, con un quadro conoscitivo, particolarmente puntuale.
Per fare un esempio. Per quanto riguarda la ricerca e la verifica dei beni architettonici, concordata con il sovraintendente Monti e, per quanto riguarda l’area metropolitana di Padova, i 18 comuni, assieme alla sovraintendenza abbiamo catalogato tutti i fabbricati con decreto di vincolo, ma l’abbiamo fatto con un GIS, e quindi abbiamo il fabbricato e il catasto dell’epoca. Infatti, molte volte quando si legge il decreto e ci sono i mappali, si fa fatica a individuarli, perché nel frattempo sono avvenuti i vari frazionamenti.
Quindi, abbiamo riportato questo nel testo. Aggiungeremo, adesso, anche la documentazione fotografica, inserendo il decreto di vincolo. Penso sia una cosa e un passo importante. Abbiamo inserito tutti quanti i vincoli, ex 1004-97, ma questo è un lavoro già stato fatto, a livello del ministero, che abbiamo trovato bello e confezionato. Quindi complimenti, perché è stato un ottimo lavoro.
Stiamo sviluppando, poi, il discorso delle ville venete. I cataloghi delle ville venete li abbiamo completati, perché alcune hanno il decreto di vincolo e molte altre no. E ciò è previsto dalla Legge 11. Adesso, poi, a livello dei singoli comuni, verrà completata tutta l’edilizia storica minore in modo puntuale. Lavoro che verrà svolto dai singoli comuni. Questo solo per quanto riguarda questo settore specifico. Di questo, adesso stiamo individuando quelli che sono i contesti, perché come per il Cenacolo era importante il contesto dove era inserito, e quindi anche la strada che c’era dietro, così per tutti questi monumenti è importante il contesto in cui si trovano.
Quindi non il vincolo generico dei duecento o dei cinquecento metri, ma in base alla realtà in cui questi sono inseriti. Per quanto questo sia un lavoro importante non ci fermiamo qua, perché poi c’è il tema ambientale e, quindi, tutte le zone, le ZPS, i SIC, i corridoi ecologici, le zone di compensazione. Tutto l’ambiente del territorio va in qualche modo tutelato. E lo stiamo facendo con un GIS, praticamente con un’informatizzazione in cui si possono poi integrare le informazioni.
Noi lo stiamo facendo per l’area metropolitana, però altri professionisti lo stanno facendo per altre aree della provincia. Io credo che questa sia la base fondamentale, poi, per la redazione dei piani paesaggistici e fare in modo che non sia come adesso, perché oggi, la ex-Galasso, in pratica non impedisce l’edificazione.
In zona Galasso ci possono essere tranquillamente delle zone residenziali all’interno delle zone produttive. E ci sono. Allora si tratta, anziché avere queste fasce generiche dei 150 metri, di verificare effettivamente l’interesse sul territorio per apporre questi vincoli, metterli in maniera reale e, poi, verificare le possibilità edificatorie, in modo tale che non ci siano più le duemila pratiche all’anno che arrivano, ma sia un discorso più contenuto.
Ma io andrei oltre, perché vedo che da parte dei professionisti della committenza – perché logicamente la sovraintendenza verifica ogni aspetto della salvaguardia – c’è la preoccupazione dei tempi lunghi della sovraintendenza, generati, come riportato anche dal libro, dalla mancanza di personale in relazione alla mole enorme di lavoro da svolgere. Allora, se arrivassimo a fare i piani paesaggistici, che la regione Veneto sta già portando avanti, tutto si snellirebbe, ma credo che ci voglia una spinta. E credo che oggi ci sia la possibilità di realizzarlo.
Ritengo importante, infine, realizzare dei master condotti e diretti dalla sovraintendenza, come quelli eseguiti dall’ordine di Como, in maniera tale che questi famosi esperti, che oggi esaminano i progetti, siano effettivamente dei tecnici esperti della materia, a cui poi demandare nei vari comuni a fare parte delle commissioni integrate. Evitando, quindi, che la pratica ritorni in sovraintendenza, per lo più sessanta giorni, con uno snellimento delle procedure garantite dalla specializzazione degli esperti e con il controllo a monte della sovraintendenza. Non so, è un’idea che butto là.
Leggendo il libro, penso che tanti stimoli possano venire. Credo che il dialogo che perlomeno noi, a Padova, da sempre, abbiamo con la sovraintendenza, possa portare a realizzare corsi di formazione sul tema del restauro. Ne inizieremo uno la prossima primavera con il sovraintendente Monti. Sono corsi molto frequentati, che creano un rapporto sinergico e di miglioramento delle conoscenze dei singoli professionisti sulla materia, e questo non può non aiutare a difendere la qualità del nostro patrimonio. Grazie.
R.C. Ringrazio Giuseppe Cappochin per il suo intervento, che indica che nel libro, accanto a elementi narrativi e di testimonianza, ci sono anche aspetti tecnici, soddisfacenti le curiosità più rilevanti della pratica e dell’esperienza di ciascuno. Quindi, a questo punto, invito al suo intervento l’architetto Pasquale Bruno Malara, direttore regionale per i beni culturali e paesaggistici del Veneto.
Pasquale Bruno Malara Grazie. Intanto sono lieto che l’Associazione cifrematica abbia dato, a me, quest’opportunità di fare delle considerazioni brevi. Noi pensiamo che, comunque, la brevità sulla grande quantità di temi, sopra tutto dopo aver sentito gli interventi di Banzato e di Cappochin, certamente ci sarà per Roberto materia di risposte e di considerazioni. Quindi materia per scrivere altri libri.
E sì, perché sono stati posti i temi, ma è chiaro che tu senti che c’è desiderio di iniziative, desiderio di chiarezza e indicazioni, sia da parte dell’amministrazione dei beni culturali, sia di tutti coloro che, a diverso titolo, si occupano di beni culturali: dalla conoscenza di questi beni, alla loro tutela, alla loro messa in valore, fino alla gestione. E le istituzioni sono tante! Io sono contento di potere incontrare in questa occasione, a Padova, il collega Roberto Cecchi, che vedo frequentemente al ministero, e potere, non tanto confrontare, ma scambiare, di fronte a voi tutti, delle considerazioni, sia quelle amare sia quelle ottimistiche. È una condizione particolare di favore.
Io ho conosciuto Roberto Cecchi circa vent’anni fa. L’ho conosciuto perché ero incaricato del collaudo di alcuni lavori che si andavano facendo a Milano, a palazzo Citterio. Palazzo Citterio è l’omonimo di quello dei salumi, ma in realtà è un edificio vicino al museo dell’Accademia di Brera. Nel libro di Roberto si fa un paragone, ma questo lo diciamo dopo. Roberto Cecchi, dunque, è stato architetto funzionario di una sovraintendenza per i beni architettonici, quella di quasi tutta la Lombardia, tranne le provincie di Cremona, Mantova e Brescia.
È stato sovraintendente ai beni architettonici e storico artistici della Calabria, successivamente ispettore centrale del Ministero dei beni culturali e ambientali per quanto riguarda i beni architettonici, sovraintendenze ai beni architettonici per Venezia e laguna, direttore generale per i beni architettonici all’ufficio centrale al ministero, capo dipartimento per i beni culturali e paesaggistici, direttore generale per i beni architettonici e paesaggistici.
Credo di non aver sbagliato le tappe. Questo tanto per dire che è un funzionario di particolare livello della nostra amministrazione. È un collega che stimo per la sua conoscenza della materia, per la sua intelligenza, per la sua sagacia, anche per le sue capacità lavorative, perché è una persona che sta sempre in ufficio dalla mattina presto alla sera tardi. E questi sono dei fattori di grande qualità della nostra amministrazione.
Ora, è chiaro che già presentare una piccola frazione di casi esemplari, esemplari nel senso estremamente significativi che gli sono capitati, vista la sua permanenza in tanti luoghi e all’ufficio centrale, si ritorna, per esempio, al caso sintomatico dell’allargamento, dell’adeguamento della Galleria di Brera.
Il paragone con le Gallerie dell’Accademia di Venezia, è un paragone che mostra come a Venezia, sia pur con grande lavorio e con molti anni di lavoro, si è imboccata la strada giusta, che si sarebbe voluto imboccare per Milano, ma per questioni, così, di “faccia italiana”, sono andate quasi nel ridicolo. Il ridicolo è quello di acquisire uno spazio architettonico, uno spazio edilizio per potere ampliare un museo, acquisirlo, demolirlo per ricostruirlo e non avere più il permesso di ricostruirlo, perché i vicini avevano fatto un ricorso che hanno vinto.
Ancora questo edificio di Palazzo Citterio, per il museo di Brera, è lì. Fra l’altro, era stato prescelto il progetto di un architetto molto famoso, James Starling, nel frattempo morto. Oggi, a vederlo, non appare assolutamente rispondente alle attuali esigenze, e ancora siamo lì, con il palazzo di Brera, diviso fra museo e accademia, uno dei più grandi musei d’Italia, tra i primi in Europa.
Perché succede questo? Forse perché siamo pochi? Forse perché le leggi non esistono? Se si sfoglia il Codice dei beni culturali, rielaborazione con integrazioni importanti del Testo Unico dei beni culturali e, comunque, riprende importanti concetti e principi della legge fondamentale del 1939, molte cose sarebbero state possibili. È possibile l’esproprio, la demolizione, l’acquisizione, ma evidentemente c’è qualcosa che non funziona nelle procedure e non riguarda soltanto la nostra amministrazione.
Beni culturali, testimonianza materiale di civiltà. Beh, io preferisco questo titolo a quelli d’altra natura. C’è qualcuno, ma lo dico senza polemica, un altro direttore generale, che ha scritto I miei beni, volendo probabilmente calcare la mano su questo senso di parentela, su questo senso di familiarità, di affetto che noi tutti funzionari abbiamo nei confronti dei beni culturali, vicini e lontani, consegnati ai nostri uffici in qualche modo, dove noi svolgiamo la tutela. C’è chi ha scritto I mali culturali, con ironia, certo, perché noi sappiano che ci sono effettivamente tante cose che non funzionano. Nonostante ciò, non è nemmeno la frase conclusiva, citata da Davide Banzato, che sarà da interpretare.
Non so se i beni culturali sono mai stati, effettivamente, in questo paese considerati fattori d’identità. Probabilmente è una nozione che non è persa, ma forse non è stata mai ancora pienamente conseguita. Quello che m’è piaciuto delle varie citazioni è stata questa lunga di Indro Montanelli. Qui siamo ovviamente prima dell’istituzione del Ministero per i beni culturali ambientali del 1975, quando il suo mantenimento, dice Montanelli, è affidato alla Direzione generale delle antichità e belle arti, una delle dodici direzioni del Ministero della pubblica istruzione. Cioè, il Ministero della pubblica istruzione, con una sola direzione generale, ha pensato di occuparsi del settore vastissimo dei beni dell’archeologia, dell’architettura, dei musei e delle opere d’arte!
Questo ministero assorbe una delle più cospicue fette del bilancio statale. Ministero, non la Direzione antichità e belle arti! L’anno scorso ha superato i mille miliardi. Montanelli parla del ’64, e quindi dieci anni prima dell’istituzione del ministero di Spadolini. Ma alla Direzione antichità e belle arti, cui incombe la difesa e la conservazione di quel capitale valutato a venti o trentamila miliardi, ne vanno solo tredici e mezzo. Adesso, tredici miliardi nel ‘64 erano una miseria, cioè poco più dell’1%, di cui undici sono assorbiti dagli stipendi del personale. Ne rimangono due e mezzo per la conservazione del patrimonio vero e proprio. E poi salto, perché ovviamente il libro ve lo leggete bene. Pagina 124:
Non c’è da meravigliarsene… omissis …al sovraintendente si richiede una cultura da professore universitario in storia dell’arte o in archeologia o in architettura; gli si impone un difficile concorso, lo si seleziona con una lunga e lenta carriera – cose vere ancora oggi – e si pretende di compensarlo con uno stipendio di centosettantamila lire al mese, che diventano duecentoventottomila solo quando egli raggiunge il rango di prima classe. Raramente ha a disposizione una macchina per compiere le sue ispezioni e il regolamento gli vieta di servirsi di quella sua — no, oggi è possibile servirsi di quella propria, salvo se sono coperte dalle spese di funzionamento — ammesso che con quegli stipendi la possegga.
Il fatto che a queste persone così poco aiutate e a queste strutture si contrapponesse, in quegli anni come in questi, una potenza economica che vuole trasformare, vuole costruire, vuole inserirsi nei famosi contesti di cui si è parlato dei beni culturali, perché le forze economiche urgono, e naturalmente lo dice questo stesso articolo di Montanelli, ricorsi che l’amministrazione perde quasi sempre, perché ovviamente il mondo esterno ha molti mezzi, può ricorrere ai principi dei fori, ha la possibilità di fare le cose in tempo, mentre noi abbiamo una reazione molto lenta. Non è quindi possibile pensare che l’amministrazione per i beni culturali a livello periferico possa competere con queste forze.
Ricordo, per inciso, che Roberto Cecchi è stato uno dei pochi funzionari che ha fatto carriera in periferia, per poi diventare direttore generale o capo del compartimento al ministero. Forse anche Moraioli o De Angelis o Trozzacono, ma sono pochi casi, perché in genere si rimane in periferia, sopra tutto quando il vertice locale era la sovraintendenza. Oggi c’è questa istituzione che coordina e dirige le varie sovraintendenze con la Direzione regionale della quale, come si usa dire, mi onoro di fare parte.
Ecco, se non esiste una concordia istituzionale e una convinzione nei comuni, nelle regioni, nelle province, nelle grandi città, città metropolitane, è anche nella pubblica opinione che i beni culturali sono i “nostri beni”, sono quel fattore, non di identità, ma quel fattore di orgoglio, senza il quale saremmo un nulla, saremmo persone che viaggiano da un edificio che non ha speranza di futuro, a un museo dove si mette in mostra solo il presente caduco. Noi non spenderemmo mai né una parola né un centesimo per poterli recuperare. Una contrapposizione tra le istituzioni e la società civile è proprio quanto i detrattori dei beni culturali si aspettano oggi e domani.
Io vi ringrazio per l’attenzione. Credo di avere detto più di quanto volessi dire, ma il contenuto di questo volume dirà in modo ancora più sagace alcuni concetti. Non può dirli tutti, perché altrimenti dovrebbe, Roberto e altri, scrivere almeno la piccola Treccani. Grazie.
R.C. Ringrazio l’architetto Malara che ha indicato alcuni ulteriori pregi di questo libro. Sicuramente però, nell’elencare le virtù di Roberto Cecchi, ne ha omessa una, che è quella di scrittore, almeno dopo la pubblicazione di questo libro. È un libro che presenta proprio la mano, la virtù dello scrittore, nonostante sia stato il frutto di un laboratorio editoriale di due giorni alla villa San Carlo Borromeo di Senago. Poi però Cecchi ha avuto modo di riscrivere il materiale raccolto da questo seminario e di presentarlo come opera di scrittura, scrittura della memoria, scrittura dell’esperienza, un’opera degna di uno scrittore. Adesso, invito al suo intervento Omar Monestier, che è direttore del “Mattino di Padova” e a cui passo la parola.
Omar Monestier Grazie, ma devo dire che l’ora e i continui richiami al nostro ospite mi impongono una necessità, quella di essere particolarmente breve perché penso che a questo punto vogliate tutti ascoltare l’architetto Cecchi. C’è però una cosa che mi sento di dire dopo avere letto da novizio, rispetto almeno ai beni culturali, questo libro.
Innanzi tutto trovo che è uno scritto di tipo molto giornalistico, molto breve, molto snello, in grado di catturare l’attenzione per uno come me che, confesso, non sa nulla di beni culturali, se non quello che può sapere normalmente un qualsiasi cittadino italiano che ha delle relazioni con i mass media e che magari legge per approfondire, per conoscere delle cose. E questo è indiscutibilmente un elemento di pregio, perché spesso capita di affrontare dei tomi particolarmente interessanti come tema, ma che poi sono effettivamente un po’ laboriosi da leggere, specie se uno lo fa a fine giornata quando magari arriva già un po’ carico di stanchezza; e questa è una digressione assolutamente banale.
Ma la cosa che mi ha colpito di più è che lo abbia scritto lui, perché mi sembra un libro di quelli che scrivono di solito i funzionari quando escono dal ciclo produttivo, quando cioè abbandonano la carriera, e quindi si possono togliere dei sassolini dalla scarpa, cioè possono dire anche chiaramente che cosa è capitato a loro di vedere durante il loro normale procedere nella professione.
Mi ha stupito molto che l’abbia scritto lui quando ho scoperto esattamente qual era il suo incarico e la sua funzione all’interno del Ministero, perché ho pensato che se tutti i funzionari dello stato, non soltanto di questo tipo di ministero, parlassero con così tanta chiarezza, metà dei problemi che noi abbiamo, anche in termini di comunicazione — vi assicuro, con la nostra classe dirigente non intesa come politica, ma intesa come alti funzionari dello stato — sarebbe largamente risolta e sarebbe un bene per il paese, perché molto spesso c’è un tecnicismo e un eccesso di difesa quasi corporativa da parte di chi ha dei ruoli così importanti all’interno delle strutture pubbliche, che ci rende difficile la conoscenza di alcuni elementi.
Letto questo libro, io mi sono sentito più ricco d’informazioni anche per il mio mestiere, però mi sono anche un po’… adirato è troppo, ma mi sono un po’ arrabbiato, perché ho pensato: se c’è questa lucida consapevolezza delle cose che non vanno – perché questo è un libro di eroica resistenza, secondo me, per uno che fa questo mestiere – se c’è questa grande consapevolezza che ci sono delle mancanze, che ci sono dei processi burocratici che sono corrosivi del lavoro del ministero e di chi ama il lavoro che fa per i beni culturali, allora perché non è più forte e più frequente la denuncia di ciò che non va?
E quindi perché continuiamo a dirci, dopo tanti anni, sostanzialmente sempre le stesse cose, cioè che i beni culturali sono negletti, che i finanziamenti sono insufficienti, dato che sono la principale ricchezza del nostro paese? Non a caso noi viviamo anche di turismo, largamente di turismo in alcune regioni. Lo diciamo qua che siamo nella regione con la più alta presenza turistica di tutto il paese.
Dico: se queste cose sono così evidenti a un funzionario che è nel pieno della sua carriera e che ha il coraggio di dirlo, di gridarlo al paese intero con un libro come questo, perché non riusciamo ad affrontarli con la stessa franchezza e con la stessa immediatezza tutti questi problemi? Ecco, devo dire da profano, questa cosa mi ha molto colpito, e mi chiedo: se uno ha una carriera così lunga e così celebrata, come faceva poc’anzi il suo collega come lei, non abbia commesso perfino un azzardo a dire queste cose così in pubblico. È una cosa che mi è passata per la mente leggendo alcuni passaggi in particolare in cui lei è veramente forte nell’esplorare le difficoltà del suo mestiere. Semplicemente questo.
Un’altra osservazione: il problema che voi avete come sovraintendenza, secondo me, non è soltanto quello di non avere la macchina, di non avere le penne, di comprarvi la carta per le fotocopie, magari, e di avere pochi soldi per le vostre attività, è che il procedere amministrativo burocratico che gira intorno alla sovraintendenza e alla sovraintendenza nei suoi rapporti con gli enti locali, trasforma gli occhi del fruitore dei vostri servizi, cioè il cittadino che deve fare una qualsiasi pratica, trasforma, dicevo, la sovraintendenza in una specie di matrigna, non in un’amica che aiuta a tutelare il territorio e a difendere i beni culturali come si dice in questo libro, ma viene vissuta come un ostacolo, come una fonte continua di problemi.
E mi chiedo se, su questo, anche le sovraintendenze non dovrebbero porsi qualche interrogativo rispetto a una loro riforma, anche dall’interno, non soltanto calata dall’alto dalla classe dirigente o dalla classe politica di qualunque colore essa sia. C’è una burocrazia oggettivamente smisurata all’interno della vostra organizzazione o è soltanto del qualunquismo che si ricava, come diceva Banzato? Non diceva esattamente questo, ma parlava della funzione della stampa e della superficialità con cui alcune informazioni vengono riportate. Ecco, quindi solo un’affermazione qualunquistica oppure c’è del vero nel fatto che voi siete anche, per certi aspetti, oggetto di farraginosità e di difficoltà per il cittadino, anche di chi ama poi i beni del nostro paese? Grazie architetto. Prego. Le lascio la parola.
R.C. Ringrazio il direttore che ha assolto brillantemente, con quella brevità che anche Leonardo elogiava, la sua funzione di provocazione da giornalista, e quindi adesso, dopo le varie notazioni che sono state poste da ciascuno dei relatori, ascoltiamo finalmente Roberto Cecchi, che è l’autore di questo libro e direttore generale del Ministero per i beni e le attività culturali. Prego!
Roberto Cecchi Grazie a tutti, grazie di questi interventi e dell’ospitalità in questo luogo veramente bello, interessante. Vorrei partire dall’ultimo intervento perché ha ragione. Non rispondo sulla prima parte di quello che mi è stato chiesto, e cioè perché mi sono a messo a scrivere queste cose. Credo che a un certo punto bisogna incominciare a dire le cose come stanno perché il paese non vive una stagione particolarmente felice. Continua a avere delle situazioni complesse che non riesce a affrontare, che non riesce a decidere.
C’è una serie di problemi che potrebbero essere risolti in un quarto d’ora, e invece si va avanti per anni, decenni. Non giorni, anni, decenni! E quello che osservava il direttore del giornale, che le sovraintendenze sono viste spesso come il luogo del “signor no”, il luogo della burocrazia, il luogo della difficoltà d’andare avanti, l’eccesso di burocrazia, sarebbe una cosa estremamente facile da risolvere: basterebbe evitare che l’amministrazione venisse messa in condizione di arrivare in fondo a un procedimento per dire sì o no.
Quando si forma lo strumento urbanistico, quando c’è un’autorizzazione paesaggistica, dovrebbe intervenire in quel momento la sovraintendenza insieme agli altri soggetti interessati. Invece no. Per effetto di una norma, che è il cosiddetto decreto Galasso, arriva il provvedimento in sovraintendenza — migliaia di provvedimenti! Sull’intero territorio nazionale devono essere esaminati 250/300.000 provvedimenti nell’arco di un anno — quando tutto il percorso è stato fatto. Perché non discutere prima, perché non lavorare e decidere tutti intorno a uno stesso tavolo le procedure, le modalità, che cosa è possibile fare?
Io parto, in qualche modo, dalla fine del ragionamento che avrei voluto fare. Ma quando insisto nel dire: “Qui è necessario fare i piani paesistici regionali”, dico esattamente questa cosa, decidiamo tutti insieme prima che cosa il territorio può sostenere.
L’altra drammatica cosa è legata all’osservazione che ha fatto il presidente dell’Ordine degli architetti. È vero che nell’’85 c’è una circolare che ci dice “lavorate in termini di merito”, cioè dite se una cosa è bella o brutta in un’area tutelata paesaggisticamente. In realtà, giurisprudenza costante, dall’’85 in poi, è stato sancito che l’amministrazione dei Beni culturali, in quanto la materia è stata trasferita alle amministrazioni regionali, può esprimersi solo in termini di legittimità e non di merito. Cerco di spiegarmi. Le sovraintendenze, che sono degli organi tecnici dello stato, devono semplicemente verificare, stando a giurisprudenza costante, che, quegli interventi che si vogliono realizzare nelle aree tutelate, siano compatibili o meno con gli strumenti urbanistici.
Noi non possiamo dire se è bello o brutto qualcosa, cioè un organo tecnico dell’amministrazione non può dire, uno dei rari organi tecnici, non può dare un giudizio di merito tecnico. Queste cose le stiamo denunciando da vent’anni, e qui ci sono funzionari e dirigenti dell’amministrazione dei beni culturali che ovviamente conoscono benissimo come stanno le cose. Basterebbe chiedere, basterebbe che lo strumento di tutela fosse adeguato a quest’esigenza che mi sembra semplicissima. Le cose andrebbero de plano, si definiscono prima e poi si va come delle fucilate: si decide e si realizzano le opere che si devono realizzare.
Allora le cose vanno dette come stanno un’altra volta! Quando è stato fatto il Codice dei beni culturali del paesaggio, il cosiddetto Codice Urbani, il decreto legislativo 42, come lo vogliamo chiamare, del 2004, che abbiamo vissuto, perché abbiamo vissuto la stesura di quel dispositivo di legge, nel momento in cui c’è stata la conferenza stato-regioni per decidere se fosse o non fosse obbligatoria la redazione dei piani paesistici, le regioni si sono messe di traverso. Hanno detto: “No, decidiamo noi, se vogliamo”. Quindi, voi troverete nel dispositivo di legge, che le regioni possono redigere i piani paesistici regionali in collaborazione con i beni culturali, cioè è una posizione unilaterale.
Non possiamo decidere noi, come beni culturali, di fare i piani paesistici; non possiamo decidere noi, come beni culturali, di valutare un progetto in termini di merito tecnico, ma semplicemente di legittimità. Sono due passaggi, due, che giustamente sono stati osservati poco fa. Si risolverebbe in cinque minuti il grandissimo problema della cosiddetta burocrazia dell’amministrazione dei beni culturali. D’altra parte un sovraintendente, quando vede arrivare un progetto che non funziona, deve dire che non funziona anche se arriva in fondo a un percorso gigantesco: passaggio in comune, in regione, magari in provincia, arriva in sovraintendenza e il sovraintendente dice no.
Ma perché dovrebbe dire sì se non va? Ecco la ragione anche di questo volume. È un volume che, come è stato detto, mette in evidenza luci e ombre. È un contributo che non avrei mai scritto, ma sono stato preso per i capelli. Adesso, il collega Malara mi dava lo spunto per scrivere qualcos’altro. Dio ce ne scampi e liberi, perché non ho nessuna voglia di continuare a scrivere, anche se da scrivere ci sarebbe ancora moltissimo, perché tutto sommato ho detto cose quasi di superficie e che all’interno dei beni culturali sono chiarissime.
Poi c’è tutto un mondo che non è così evidente a nessuno, anche per gli aspetti troppo tecnici che lo caratterizzano, che meriterebbe sicuramente un’altra pubblicazione. Io sono voluto partire da lontano in questa riflessione, sono voluto partire da lontano perché non si capisce bene se questo patrimonio culturale è tenuto bene o è tenuto male.
Leggendo i critici nostrani, non voglio fare né nomi né cognomi, ma sono facilmente identificabili, noi leggiamo che il patrimonio è svenduto, mal tenuto, non tutelato e quant’altro. Poi, leggo un articolo dell'”Economist”, quel famoso articolo che ha creato tanto scalpore non per la questione dei beni culturali, ma perché ha messo in croce l’economia italiana nel precedente governo, l’incipit di questo articolo è che in Italia, se c’è una cosa ben fatta, è la tutela del patrimonio culturale del suo paesaggio.
A questo punto dico: “Non ci capisco più nulla”. Come sta la storia? Siamo bravi, non siamo bravi, tuteliamo il patrimonio culturale, non lo tuteliamo? E allora, per non entrare troppo all’interno delle polemiche, sono andato a riprendermi l’unica vera ricognizione che è stata fatta sull’intero territorio nazionale, quella ricognizione della commissione Franceschini del 1967 che fa una disamina — sono 2500 pagine se non ricordo male — così definita, dettagliata del nostro patrimonio e del suo stato di conservazione e della gestione della tutela, che non è mai più stata fatta.
Quello che è stato fatto dopo sono dei giochi, delle valutazioni un po’ così, come capita. E che cosa dice la commissione Franceschini alla fine delle 2500 pagine? Lo dice all’inizio, ma insomma sono le conclusioni in realtà. I problemi della tutela in Italia nascono da una questione molto semplice, da una questione di definizione. Non è un problema di soldi, non è un problema di finanziamento, non è un problema di personale, è un problema nominalistico, e cioè: l’oggetto della tutela non è e non deve essere il cosiddetto monumento, ma la testimonianza storica.
Dice esattamente questo la commissione Franceschini, cioè: l’oggetto della tutela non è il valore emergente, quello che noi consideriamo “il monumento”, ma l’oggetto della tutela è e deve essere la testimonianza storica, cioè quella testimonianza che non ha i caratteri, i connotati di monumentalità, quella testimonianza che è il tessuto stratificato che rappresenta il connettivo del borgo storico medioevale che caratterizza l’intero territorio nazionale, cioè il prescindere in sostanza dal giudizio di valore, perché è così di fatto.
Se voi fate una riflessione su uno degli esempi più rilevanti del nostro patrimonio culturale, come la città di Venezia, ci sono certamente tanti oggetti che possiamo classificare come monumenti. Ma il grande valore di una città come Venezia è l’insieme di tutto quel patrimonio minore, chiamiamolo così, che rappresenta un connettivo, che rappresenta un contesto, che rappresenta una testimonianza storica. Di fatto noi, oggi, quello tuteliamo.
Il risultato di tutto questo, che in qualche modo è stato seguito, è stato un punto di riferimento, magari non così esplicito come vorremmo, è che noi abbiamo un patrimonio culturale enorme, gigantesco, spropositato, assolutamente non confrontabile con quello degli altri paesi, addirittura semplicemente in termini numerici. Se la Francia vanta 50.000 monumenti, chiamati così, noi abbiamo almeno 500.000 beni immobili che possono essere definiti tali, a cui si deve aggiungere tutta la parte dei centri storici, a cui si deve aggiungere tutto il patrimonio che immobile non è, come quadri, sculture, eccetera, e di cui si parla addirittura di milioni di oggetti, milioni di pezzi.
Da questa lettura “Non è l’oggetto singolo la tutela, ma il contesto stratificato della testimonianza, la testimonianza storica”, discende l’impegno gigantesco per l’amministrazione dei beni culturali, l’impegno che nessun altro paese al mondo ha, pur avendo risorse completamente diverse dalle nostre. Le nostre risorse girano intorno allo 0,19/0,25 del bilancio. In Francia siamo oltre l’1%, per non parlare della Germania, per non parlare di altri. Ma, come dicevo prima, non è solo e soltanto un problema di risorse, è un problema anche di lettura del nominalismo di che cosa debba essere l’oggetto della tutela.
Poco fa è stato giustamente osservato che la Cappella degli Scrovegni e il Cenacolo Vinciano sono un problema molto simile da un punto di vista della conservazione. Non sono un problema di superficie, non lo era il Cenacolo, non lo era la Cappella degli Scrovegni, ma era un problema, anche in questo caso, di contesto. Quello che è stato fatto a Milano e quello che è stato fatto a Padova, è stato prima ricordato in quel volume splendido dell’Istituto centrale del restauro, con la presentazione di Urbani, il quale ha individuato, non nella sequenza degli interventi di restauro la garanzia della conservazione di quelle superfici dipinte, ma l’attenzione al contesto, cioè l’attenzione a un intorno che deve garantire la salvaguardia del bene.
Tanto per capirci, a Milano, intorno al Cenacolo Vinciano, è stato fatto un vincolo di rispetto, sopra tutto nella piazza di Santa Maria delle Grazie, nella quale si è impedita la sosta di macchine, autobus e compagnia bella. Quindi, se problema è, è un problema ancora di salvaguardia del contesto stratificato. Se a questo aggiungiamo la dimensione della difesa del paesaggio, voi vedete che la dimensione della tutela in Italia, diventa un problema gigantesco. Oltre il 50% del territorio nazionale è riconosciuto bellezza naturale. Questo anche per effetto di una serie di automatismi legati alla legge Galasso. Non c’è altro paese al mondo che possa vantare da una parte e essere preoccupato dall’altra, di avere una dimensione della tutela così ampia.
Ma che cosa significa difesa del paesaggio? Difesa del paesaggio non significa difesa dell’ambiente. Significa difesa di quell’insieme, così come si può definire paesaggio, di natura e storia. Paesaggio non è naturalità, paesaggio non è ambiente. Paesaggio è quell’insieme che è caratterizzato indubbiamente da una naturalità dovuta a fenomeni assolutamente naturali e all’opera dell’uomo. Ritornando all’esempio di prima di Venezia, uno dei più bei paesaggi che assolutamente siano conosciuti è proprio quella città. Ma non è un problema di naturalità di quel paesaggio, è un problema di un paesaggio che si è strutturato per effetto dell’opera dell’uomo, che in qualche modo, come ha detto qualche autore importante come Georg Simmel, col passare del tempo l’opera dell’uomo diventa, assume dei caratteri di naturalità che la riportano in un contesto che è quasi non è quasi più umano.
Il nostro compito, quindi, è quello di riuscire a contemperare esigenze di conservazione e anche di sviluppo. Se il paesaggio è natura e storia, anche la storia che noi siamo in grado di produrre fa parte, può far parte di quel paesaggio. Perché non deve accadere l’ipotesi di lavoro, che a Venezia si possa costruire qualche cosa che non sia ciò che è stato realizzato nel 1100-‘200-‘300 o qualche anno più avanti, così come per il paesaggio.
Cioè, avere tutela, immaginare tutela non significa pensare all’immobilità del territorio, significa pensare a una crescita del territorio in maniera armonica, e cioè in termini di compatibilità, guarda caso la stessa compatibilità di cui si parla quando si pensa a un intervento su un edificio di interesse, d’interesse storico artistico che deve essere oggetto di un intervento di restauro.
Io vorrei concludere con quella cosa che è stata sottolineata prima, e con un’espressione che non è esattamente la mia, perché poi sono andato a rivederla. Citazione letterale: mi mancava un va. Io ho scritto nell’ultimo passaggio: Della cultura ci si era già totalmente dimenticati, non rappresentata più il senso dell’identità sociale. Mi riferivo a un evento, mi riferivo a quell’evento che accadde a Milano nel ’45, quando La Scala viene bombardata.
La Scala viene bombardata come gran parte delle emergenze monumentali della città di Milano e, con quella, si è immaginato di indebolire in maniera forte la città di Milano, di indebolirla nei suoi centri vitali. Santa Maria delle Grazie e il Cenacolo furono bombardati, e le testimonianze ricordano che per una notte intera gli aerei inglesi girarono su Santa Maria delle Grazie per cercare di demolire integralmente l’intero complesso solariano. Ci riuscirono in parte, non riuscirono completamente, ma poi fu ricostruita.
Ma ciò che la città ricostruì dal 1945, la prima operazione fu quella di ricostruire la Scala. Perché? Perché era un simbolo, perché il patrimonio culturale rappresenta sicuramente un simbolo per chiunque di noi. Fu ricostruita tra tante critiche, perché prima si ricostruì la Scala e ci si dimenticò magari di lavorare sulla ricostruzione di alcune fabbriche, forse addirittura di alcuni ospedali, però quello fu il rilancio della città in quel momento, cioè il patrimonio culturale era il senso dell’identità sociale.
Ma nemmeno sette anni dopo, a Brera si dovette fare uno sciopero, perché all’interno della pinacoteca pioveva acqua dal cielo, dalle coperture. Non c’era una lira per mettere a posto le coperture di una delle più grandi pinacoteche del mondo. In quel momento ci si era già dimenticati che il patrimonio culturale era l’identità. Non era una mia valutazione quella che è stata riportata, era una valutazione del momento, cioè ci si interessa e si valuta il patrimonio culturale solo quando è funzionale a qualche cosa. Immediatamente dopo ci si dimentica e non è più in qualche modo l’identità del paese. Forse ho preso un po’ di troppo tempo. Grazie per l’attenzione.
R.C. Io ringrazio l’architetto Roberto Cecchi per il suo intervento che ha precisato alcune delle questioni che compaiono nel libro, questioni che inducono ciascuno, leggendolo, alla riflessione. È un libro che si rivolge tanto all’esperto dei beni culturali, tanto all’architetto, tanto al professionista che con il suo lavoro si trova ciascun istante a confrontarsi con questi elementi, ma anche con ciascuno che è testimone di civiltà.
Mi pare interessantissima l’articolazione che è sorta e su cui poneva l’accento anche l’architetto Malara, su questa locuzione, “testimonianza materiale di civiltà”, che investe tanto ciò che possiamo rappresentarci come bene culturale, quindi dal monumento all’opera d’arte a ciascuna opera d’ingegno, ma anche ciascuno nella restituzione del valore di questi beni, e in questo senso a me piace cogliere l’adiacenza, nella denominazione del ministero, tra i beni e le attività culturali.
E in queste attività culturali c’è già la questione della testimonianza di civiltà, che non può essere delegata al bene monumentale, al bene artistico, ma investe ciascuno nella lettura di questo bene, nella conservazione, nella tutela, nella restituzione, anche con il restauro. E questo è un elemento che percorre tutto il libro, nei vari capitoli, nelle varie questioni che affronta, che, appunto, come elencava l’architetto, riguardano il paesaggio nella sua distinzione con l’ambiente, la questione del restauro, la questione del restauro rispetto alla manutenzione, del monumento rispetto al documento. E sono distinzioni, precisazioni che lasciano riflettere, che rilanciano vari interrogativi e che riguardano ciascun cittadino, che investono proprio ciascuno nel suo statuto intellettuale, nel suo statuto civico.
Allora, questo libro è un’opera veramente interessante che integra l’aspetto tecnico con l’aspetto intellettuale, l’aspetto informativo e l’aspetto formativo, perché fornisce la definizione di bene culturale, fornisce la definizione di restauro e fornisce l’orientamento dell’architetto Cecchi rispetto al restauro, alla conservazione, alla combinazione con l’innovazione, laddove anche un bene antico lascia spazio per l’invenzione, per il nuovo che può integrarsi, come viene raccontato e descritto lungo il racconto del libro: è un libro che invito ciascuno a leggere.
Gli interventi di ciascun relatore, questa sera, hanno fornito ulteriori motivi e testimonianze a questo proposito e, in particolare, l’intervento molto bello di Roberto Cecchi. Ciascuno può trovare veramente il piacere, la soddisfazione della lettura in questo libro che invito a acquistare. Si trova nei tavoli in fondo alla sala, e Roberto Cecchi sarà veramente lieto di firmare le copie e di dedicare il libro a ciascuno di voi.
Allora io ringrazio ancora ciascuno dei relatori, Omar Monestier, direttore del “Mattino di Padova”, Giovanni Cappochin, presidente dell’Ordine degli architetti, Pasquale Bruno Malara, direttore regionale per i beni culturali, Davide Banzato, direttore dei musei civici di Padova, Alessandra De Lucia in rappresentanza dell’assessorato alla cultura. Ringrazio anche l’architetto Luigi Cerocchi che è qui presente questa sera e che porta i saluti del sovraintendente Guglielmo Monti che si trova all’estero e che quindi non è potuto intervenire di persona. Ringrazio anche ciascuno di voi che è rimasto qui, attento fino al termine della serata, e ancora un grazie veramente intenso all’architetto Cecchi per essere stato qui con noi questa sera e per avere dato una testimonianza di grande qualità. Grazie e a presto.