Trent’anni di poesia, radio, giornalismo
- Cabianca Alessandro, Cavalli Ennio, Rossella Maurizia, Segato Giorgio
12 novembre 2004 Conferenza con dibattito di Ennio Cavalli dal titolo Trent’anni di poesia, radio, giornalismo con Alessandro Cabianca, Ruggero Chinaglia, Maurizia Rossella, Giorgio Segato. Sala dei convegni della Fiera di Padova, Spazio cultura di Arte Padova, 2004.
ENNIO CAVALLI
Trent’anni di poesia, radio, giornalismo
intervengono
- Alessandro Cabianca, poeta
- Ruggero Chinaglia, cifrante, editore
- Maurizia Rossella, giornalista
- Giorgio Segato, critico d’arte
Giorgio Segato: Arte-Padova ha ormai per costume, per abitudine e per volontà progettuale, l’intento di presentare anche la poesia, di dare spazio alla poesia come forma artistica, come forma della parola, della parola particolarmente significativa e significante e legata al nostro tempo, un tempo che scorre rapidamente e che consente sempre più raramente, sempre più difficilmente, pause di riflessione, di risonanza, di riascolto della parola.
La poesia ha bisogno invece di questo, ma è importante anche quando si legge in maniera superficiale, purché si legga, perché la poesia è ricca di sollecitazioni sonore, verbali, di echi straordinari. Perciò è importante, in un tempo in cui si corre molto e si legge poco, si legge in fretta, ricordare che esiste la poesia e che la poesia va letta, va risentita. Naturalmente è molto bello quando qualcuno si dispone ad ascoltare la lettura della poesia.
Una cosa che mi ha insegnato la lettura di Hermann Hesse è che non c’è niente di più bello che seguire la lettura da parte di qualcuno che legge per noi e aggiungere a quello che sta leggendo i nostri sentimenti, le nostre emozioni. È un esercizio difficile da fare, quello di saper ascoltare e insieme ascoltarsi, ma è una cosa veramente straordinaria, che arricchisce moltissimo quello che si ascolta, e nello stesso momento, quello che si ascolta arricchisce quello che noi sentiamo.
Quindi, parlare di poesia, sentire e ascoltare la poesia, leggere a alta voce la poesia diventa un modo di stabilire e di raccordarsi anche a un ritmo esistenziale, di trovare un ritmo esistenziale. Io sono convinto, poi, che ciascuno scrive esattamente come respira e come cammina. Ci sono delle condizioni che fanno sì che la tipologia del verso, della lunghezza del verso o della musicalità del verso, siano in qualche modo legate al modo di respirare del poeta, al suo modo di camminare, anche al suo modo di guardare; e quindi sono legate a un’esperienza dello sguardo, del corpo, della emozione molto profonde. E la poesia tocca tutti questi momenti.
Ho fatto questa breve introduzione per il libro che presentiamo questa sera, Cose proprie. Poesie 1973-2003, edito da Spirali – molto interessante come titolo – a cui il personaggio Ennio Cavalli ci predispone con una prefazione in cui ci racconta più o meno tutto, ma anche ci dà delle indicazioni di lettura prendendole dalle più importanti recensioni che ha avuto. È abbastanza impressionante la sintesi critica che ci propone; nello stesso tempo, ci dà ragione del titolo del libro: quando c’erano ancora le dogane, il dazio, ecc. era necessario scrivere “cose proprie”, in modo che si capisse che uno non faceva il trasporto per conto di altri; però dice: “cose proprie, sì sono cose mie, ma anche di chi legge, cioè chi legge si appropria di esse”. Non dice cose mie e basta, dice cose proprie, di me che scrivo ma anche di chi legge. Quindi si stabilisce un ponte, una comunicazione tra chi scrive e chi legge.
E propone questo libro come alta selezione, un’antologia della sua storia. Dice nella prefazione: “La mia storia è racchiusa tra due libri: L’infinito quotidiano e Bambini e clandestini”, tra un senso della parola che è proprio della prima pubblicazione, che si espande, che “contamina” la parola, che si dilata all’esperienza quotidiana, fino a Bambini e clandestini, che diventa un gioco di parole, sempre però sull’esperienza esistenziale. E dice che bambini e clandestini sono due falsi diminutivi, che però hanno acquistato diritto alla loro esistenza proprio per il significato che acquisiscono, anche qua “contaminando” un po’ i bambini come clandestini e i clandestini come bambini. Ma dice: “La mia storia è compresa tra questi due libri e il percorso è questo”.
Quindi Cavalli ci propone in questo libro Cose proprie– sue e nostre – di noi che leggiamo un attraversamento della sua storia, che è però un attraversamento suo, della propria poesia, del proprio modo e senso di usare la parola, con una selezione fatta – mi è piaciuta molto l’immagine – come nel gioco dello Shangai che facevamo da bambini, cioè un gioco di precisione, di equilibrio, di attenzione, fatto con la mano ferma, che non doveva toccare nulla di quello che doveva restare, dove si toglieva tutto quello che era possibile, tutto quello che poteva essere sentito, vissuto in più di quello che restava. E restava alla fine l’essenza, fino alla possibilità di togliere tutti gli elementi. E è una operazione di cancellazione della parola.
E allora, se noi leggiamo le numerose raccolte di poesia che lui ci ha proposto, dobbiamo soffermarci sulla qualità della parola, del rapporto tra parola e realtà esistenziale, perché Ennio Cavalli è fortemente intrigato dal rapporto con la realtà, da una corporeità e sensorialità della parola molto forte: non si stacca dai fatti, dagli eventi. Probabilmente c’è anche il mestiere di giornalista che c’entra in questo, cioè un rapporto con il racconto che sempre deve esserci alla base della sua poesia. Diventano significativi anche i titoli, in questa maniera, perché sono come il punto di riferimento di un discorso e di un racconto che avviene immediatamente dopo.
Diventa importante l’interessantissimo dialogo col figlio, anche se non c’è la sua parola, ma è un dialogo intimo con lui: una riscoperta della parola assumendo la parola del figlio, le parole inventate o che suonano in maniera diversa dei bambini e che acquistano nella sua poesia un significato diverso, perché diventano acquisizione del mondo del figlio, della fantasia, dell’immaginazione, della musicalità. Ecco, questa ricerca continua di significato reale collegato all’esperienza esistenziale. Per esempio,Naja tripudians, che è una sorta di indagine critico-gnomica, però abbastanza pesante, sull’esperienza militare, sui rapporti a livello militare.
Anche qua diventa racconto, diventa modo di rapportarsi, probabilmente anche di digerire un’esperienza abbastanza indigesta, che aveva una sua irrazionalità. C’è chi trova veramente inconcepibili i rapporti militari tra soldati e marescialli, sergenti, caporali, specie durante i primi giorni della naia. Io ho sentito esperienze di amici, che arrivati al militare da laureati, in medicina, in ingegneria, dopo i primi tre mesi andavano fuori di testa, perché non capivano come si potesse instaurare un rapporto del genere. Uno ha sparato anche al capitano da un metro di distanza, perché non ne poteva più, poi è andato via, è stato in manicomio diverso tempo; sarà stato fragile lui, ma è vero che era un’esperienza terribile, per alcuni drammatica.
L’unica cosa che aveva di interessante, e alcune cose emergono anche qua, erano le amicizie che nascevano tra commilitoni. Ecco, questa è un’altra delle esperienze vive che racconta e che diventa poesia, che si collega un po’ alla cronaca di un’esperienza personale e diventa la sublimazione, l’essenza di questa esperienza, con forte ironia e anche durezza linguistica, con versi lunghi, molto pesanti, calibrati. Poi lentamente, nelle esperienze successive, specialmente anche nel libro pubblicato da Campanotto, Libro di storie e di grilli, questa musicalità viene fuori come un fermento interno: i grilli, la sonorità che cambia, il verso diventa più breve, più ricco di immagini rapportate a un’emozione della realtà e non soltanto alla descrizione della realtà, sempre però molto preciso, scolpito, deciso anche come verso.
La cosa che trovo interessante è il proporsi intanto con questa antologia, un’antologia scelta da lui, calibrata come percorso linguistico e poetico, come un percorso anche intellettuale, di crescita, di maturazione, che diventa evidente anche attraverso la prefazione e la citazione dei vari autori; è una serie interessantissima. Parte da Pampaloni che proprio aveva, mi pare, recensito il primo dei suoi libri, L’infinito quotidiano, il quotidiano e l’infinito; poi Ripellino, Luciano Anceschi, una citazione di amicizia per Federico Fellini anche, e una bella citazione del film “La strada” che non c’entra con i suoi libri, ma che richiama appunto questo camioncino di Zampanò che portava cose proprie in giro per il mondo, cose semplici per fare lo spettacolo di strada.
E poi il poeta Dario Bellezza, Giacinto Spagnoletti, Giorgio Bassani, Antonio Porta, Ruffilli, Fo (naturalmente non Dario), Zanzotto, Erri De Luca. Poi, sulla recensione di Erri De Luca si sofferma più a lungo. E che cosa ci dice anche? Ci dice anche che cosa intende per poesia. La poesia, che cos’è la poesia? È una domanda che tanti si fanno. La risposta è che la poesia è un albero di cacao; un albero di cacao, perché? Perché un albero di cacao, per crescere bene, ha bisogno di un albero di banano e l’albero di banano aiuta l’albero di cacao a crescere, e gli dà quella disponibilità di ombra di cui necessita. Per lui l’albero di cacao è la poesia, l’albero di banano è la prosa. Quindi le due cose si sostengono insieme.
Poi un’altra domanda è: a cosa serve la poesia? E lui anche a questo risponde: in sostanza non serve a niente. Come l’arte. Nella sostanza non serve a niente, però poesia e arte sono tra le cose più importanti che abbiamo, tra le cose che più significano nella nostra vita. È qualche cosa, la poesia, che ci evita di morderci, di “mangiarci le unghie”, come qualsiasi altra cosa, come qualsiasi altro impegno. Che cosa vorrei che fosse la poesia? Vorrei “una scrittura robusta e trasparente”, dice; robusta e trasparente, è proprio questa qualità che riesce ad ottenere man mano che procede nelle sue raccolte, nella sua selezione, in questo caso. Poi c’è un altro aspetto: non ci sono le date in cui ha composto queste poesie, ma esse hanno sempre un carattere diaristico, cioè toccano la storia, toccano i personaggi sparsi nella esperienza di lettura, di conoscenza personale, di rapporto anche con la cronaca, gli eventi, le esperienze dirette, i luoghi delle esperienze. Questo torna sempre nella sua poesia come riferimento continuo.
E poi la ricerca non solo della trasparenza e della forza, quindi della robustezza del verso e della parola, ma anche la possibilità che questa parola diventi colore e che questo colore diventi luce, che questo colore diventi una sorta di arcobaleno che si apre, polisensoriale, sinestetico – come si dice oggi – cioè che la parola riesca a sollecitare una partecipazione che non è solo intellettuale, non è solo letteraria, ma è un’adesione, una partecipazione fisica, corporea, così come è la sua parola. Questa forza, questa ricerca di forza nel verso e nella parola, mi sembra una delle caratteristiche fondamentali di questa antologia poetica come percorso, come attraversamento della propria storia nei versi e come attraversamento del senso della musicalità, del ritmo che è nella parola.
Ecco, qui a parlare per l’autore c’è lo stesso Ennio Cavalli, che penso vorrà leggere alcune cose, anche perché a me piace che ci sia la voce dell’autore. C’è Ruggero Chinaglia, psicanalista, che ha promosso questa bella riunione, questa bella presentazione; un altro poeta, Alessandro Cabianca, un’altra poeta e giornalista, Maurizia Rossella, che mi ha detto che farà delle domande particolari all’autore. Allora, io direi che sarebbe bene far leggere qualcosa a Ennio Cavalli, fargli dire qualcosa e poi sentire gli interventi di Ruggero Chinaglia, Alessandro Cabianca e Maurizia Rossella. Grazie.
Ennio Cavalli Sì, per avvalorare delle cose che ha detto Giorgio Segato, mi sento in vena di leggervi almeno una poesia. Lui ha detto alcune cose alte sulla poesia, io vorrei dirne alcune più basse. Mi ha molto colpito un mito scandinavo che racconta, inventa, cerca di dare una spiegazione a come possa essere nata la poesia, fin dall’antichità. E lo fa con gli strumenti del mito: ci fu una guerra sacrosanta tra due schieramenti di dei, in palio l’egoismo, in palio il mondo; finì pari e patta, naturalmente; siglarono l’accordo sputando, tutti gli dei, in un bacile d’oro.
Questo insieme schiumoso generò una creatura che si chiamava Kvasir e era un essere pieno di saggezza; invidiarono la saggezza di Kvasir i nani, lo invitarono a cena e, al momento della frutta, lo uccisero; scolarono il suo sangue in un altro bacile, vi aggiunsero del miele e quello fu l’idromele; chi lo beveva diventava poeta. Allora, astraendo da questo mito alcuni elementi di base, anzi da questo cocktail gli ingredienti principali, che cosa possiamo dedurre? Che la poesia è sputo di dei e sangue di saggio. Ecco, fate un po’ i conti: è comunque qualcosa di marginale, è qualcosa di difficile e è anche qualcosa di cui c’è chi abusa, perché questo idromele – continua il mito – è stato bevuto da un po’ troppe persone.
La mia idea di poesia è quindi un po’ sospettosa sull’uso della P maiuscola e penso che la poesia con la p minuscola stia alla poesia con la maiuscola, come una bella donna sta alla bellezza. Vedi una bella donna, mica è l’unica, mica è la bellezza con la B maiuscola. Così la poesia di tutti i giorni circola per le strade come le belle donne, ma anche come le brutte. Il bello è che ogni donna, come ogni poesia che viene dalla realtà, che viene dalla consapevolezza che ci sia un risvolto ulteriore a quello che succede e a quello che viviamo, contiene sempre un po’ di B e di P maiuscola. I momenti in cui nasce tutto ciò sono infiniti, ma di questo parleremo dopo, di quello che io considero come poesia, come accadimento poetico che vale per tutti e che ci coinvolge; basta accorgersene.
Ecco, le “cose poetiche” è la sostituzione che io faccio; sostituisco poesia con “cosa poetica”, sono episodi che si possono raccontare anche come barzellette. Comunque, una cosa che mi ha colpito è l’origine dell’aggettivo. E adesso io vi leggo la poesia che racconta questo, perché ho immaginato come in un momento nativo, primitivo, anche violento, disarmato di tante finezze intellettuali, l’uomo abbia potuto inventare questa miscela incredibile che snatura le cose e che dà lievito a quello che si vuole dire, cioè non solo il verbo, ma l’aggettivo. Ho immaginato una storia che è questa:
AGGETTIVO pag. 265
L’uomo inseguiva la sconosciuta
con modi imperativi e verbi.
Ma lei volava con gambe di ginestra
per chine e solchi.
All’improvviso un complimento
nell’aria filante,
forse l’aggettivo bella,
pennellò un passo più morbido,
adatto ai pensieri.
L’uomo si fermò,
la dolce spina in gola.
La sconosciuta, voltandosi,
descrisse per prima un sorriso.
Quindi la seduzione della parola, l’invenzione che va al di là di quel minimo che ci sarebbe da dire. Ecco, questa è la mia auto presentazione fino a adesso. Passo la parola a Ruggero Chinaglia.
Ruggero Chinaglia Grazie. Innanzitutto, ringrazio sentitamente Giorgio Segato per averci ospitato in questo spazio culturale, all’interno di questa manifestazione; uno spazio che Segato, ormai da anni, coordina e dirige e che, in questo caso, propone l’abbinamento poesia e pittura, che è quanto mai azzeccato con Ennio Cavalli, poiché nelle sue poesie troviamo pennellate che ci portano in una galleria di immagini, di quadri.
Ciascuno, leggendo, può far sì che, appunto, ciascuna cosa diventi propria. Questo titolo infatti, Cose proprie, può alludere sì, alle cose proprie come alle proprie cose, le cose che ciascuno ritiene di avere e che ha, ma soprattutto a quelle cose senza possesso che divengono proprie, nel percorso di qualificazione che ciascuno fa nella sua vita e che Ennio Cavalli compie in questo libro, che è la rassegna e la testimonianza di trent’anni di poesia, di scrittura, di pratica giornalistica e intellettuale.
E anche questa combinazione di trent’anni mi è particolarmente gradita, perché questi trent’anni che sono, per Cavalli, di poesia, radio e giornalismo – infatti, come voi sapete, Ennio Cavalli cura i servizi culturali del Giornale Radio RAI – sono anche i trent’anni dell’esistenza del Movimento cifrematico internazionale e dell’esperienza del Secondo rinascimento, che reperiamo anche qua e là in queste poesie. Una fra tutte, la poesia in cui Ennio Cavalli descrive l’esperienza di essersi trovato a tavola col grande poeta Luis Borges nella Villa San Carlo Borromeo, dove Borges è stato ospitato a lungo, in particolare negli ultimi tre mesi della sua vita. E quindi mi è particolarmente caro il poeta Cavalli perché è anche cronista, testimone di questa esperienza, dei suoi interventi.
Io ho potuto apprezzarli in questi anni, anche lungo i vari congressi che sono stati organizzati a Tokio, New York, Parigi, a Milano, dove ciascuna cosa che Cavalli inseriva nel suo intervento dava al congresso un particolare colore, perché combinava una particolare arguzia, una particolare proprietà di ciò che andava dicendo. E quindi, quello che io dico questa sera in poche parole è una testimonianza della lettura di queste poesie, sul perché leggere questo libro, perché lo proponiamo alla vostra lettura.
Innanzitutto per trovare risposta alle domande che inquietano il poeta e che sono i chiarimenti cui ciascuno si rivolge per la sua tranquillità. Chiarimenti più che risposte, perché il poeta testimonia, con la sua scrittura, dell’assenza di nesso universale. E per questo interviene la musica nella sua poesia, quale arte della luce, dove la combinazione inedita si rivolge appunto alla qualità della sua parola. E un altro intendimento quindi dispone le cose con la sorpresa. Il poeta, nella scrittura di Cavalli, è la figura del “perdigiorno”, per esempio nella poesia a pag. 133, poeta che “nel silenzio delle cornacchie fece dei graffi sull’argilla e sognò che altri capissero la sua scrittura”.
Non si tratta qui della scrittura poetica in generale, intesa come una certa modalità della scrittura, e dove le variazioni sintattiche e frastiche costituirebbero una deroga all’usualità del dire o del parlare, ma si tratta della poesia come condizione della scrittura, quindi condizione della scrittura sia in prosa sia in versi. E il poeta è costituito dall’infinito delle combinazioni delle cose e non cessa perciò di interrogarsi per dare la notizia di ciò che ha acquisito, di ciò che si è precisato nel suo viaggio, e quindi non cessa di interrogarsi, per esempio, intorno a: chi comanda i ritmi interni del corpo? Chi eroga l’ossigeno ogni mattina? A cosa è dovuto il sopravvivere? Chi mimetizza il visibile, l’attimo che non si può rivivere che tutti sanno? Cosa frantuma strade, volti e sesto senso? Come sarà da uomo il mio biondino? – a pag. 91 – Quante volte morì il pollo prima di questa fricassea? Quanti cerchi stanno in un compasso? Quante onde in una corsa a riva? Quante volte il desiderio generò lune vuote? Quante volte la luna battuta dal vento emise suoni celestiali? Chi ha consumato i nostri libri antichi? Perché il mare non annega? Lo sapevi che i cassetti sono la memoria dei bambini? Domande che per il poeta sono senza banalità, sono…
E. C. Eh, ma dillo che hai messo assieme quesiti vari, sennò sembra un furore interrogatorio…
R. C. Sono domande che reperiamo in varie poesie e in vari momenti della sua produzione….
E. C. Mi ha fatto un certo effetto sentirle così, tutte insieme…
G. S. Brechtiano…
R. C. Sono domande che, leggendo la produzione di questi trent’anni, emergono appunto a indicare i pretesti narrativi, i pretesti di scrittura, i pretesti della ricerca; quindi anche domande apparentemente banali, ma che appunto per il poeta banali non sono, perché aprono continuamente squarci alla ricerca e alle acquisizioni, domande disumane nella loro novità, metafisiche. E le risposte, mai definitive, inducono a cercare e a tenere allenata l’intelligenza, che mai ha bisogno di riposo.
Quindi un interrogativo percorre queste domande, un interrogativo intorno al dove delle cose, da dove vengono e dove vanno le cose, che non sono mai le stesse e che mai vanno a finire; così come non hanno origine dato che sono originarie, proprie nel viaggio di ciascuno. È vano, dunque, lo sforzo enciclopedico rivolto a ciò che chiama “l’inafferrabile matrice, prima che il tempo scioperi”; così, la morte non è più dinanzi al viaggio della vita, non è più il comune epilogo di ogni storia, perché, come nota a pag. 57, “siamo già stati morti nel ventre dell’attesa” e “di cinque in cinque dita la vita dura oltre la spanna che la misura”.
Poeta e giornalista, dunque, Ennio Cavalli. Ma chi viene prima, il poeta o il giornalista? Se il giornalista ci informa con la notizia sulla natura delle cose, il poeta gli dà la materia, l’immagine e il modo dell’annuncio, con la sorprendente novità dell’adiacenza e della combinazione. “Ciò che evapora si condensa” – dice a pag. 58 – “lo sa il poeta che imita l’impresa delle nubi. È l’acqua sulla cui gronda nidifica la siccità perenne”; siccità perenne: quasi una figura dell’inesauribile domanda di sapere che mai trova rifugio nella conoscenza.
Glossario e dizionario sono gli strumenti del giornalista, da cui il poeta esige una lingua sempre altra, per la chiarezza e la semplicità del messaggio, per la proprietà della parola, perché di tante cose che il poeta trova – e quante ne cerca! – solo qualcuna resta propria.
QUALCUNA pag. 275
Superlativo di adesso è mai più.
Di acceso, arso vivo.
Più che vicino significa dentro, oppure
denso, fiato, fede.
Al culmine dell’allegria, il disinnesco.
Superlativo di inoltre è un bel nulla,
ovvia ripetizione o viceversa.
Se guardi le parole in controluce,
qualcuna è vera.
E. C. Qualcuna è vera. Ho fatto un libro, come diceva Segato, Bambini e clandestini, che racconta delle storie minute, anche di grandi, ma che conservano quel fondo di timidezza, di candore o di leggera follia che li può accomunare ai bambini anche nel mestiere che fanno. Il venditore di fiammiferi, a esempio – ecco come a volte mi piace coniugare storia, più che cronaca, e invenzione – nasce da una notizia che ho letto su un giornale e che riguardava uno dei primi ambulanti che andava in giro per le montagne a mostrare la meraviglia di questi zolfanelli, da cui scaturiva qualcosa di inesplicabile. Erano proprio i primi fiammiferi, e alla fine ci fu qualcosa di tragico nella sua storia: fu trovato morto. Allora, io ho immaginato tutto quello che poteva esserci dietro questa storia in pochi versi.
IL VENDITORE DI FIAMMIFERI (pag. 245)
Portò tra i monti, in Lunigiana,
l’inspiegabile ardore del fiammifero
incendi strappati a virgole di fosforo.
Forse di Genova o anche francese,
scuro di pelle, spirito faustiano.
Sconfinava a cavallo in paesi remoti,
accendeva dimostrazioni e femmine,
vaso di luce le mani.
Fuggì con la più bella delle mogli.
Fu ritrovato in una gola, ai Balzi Rossi,
trafitto da un pugnale e dato in pasto
alla sua scorta tenebrosa di scintille.
Ecco il corpo bruciato di quest’uomo, che si era capito che faceva il venditore di fiammiferi, è riconsegnato a una storia. Poi c’è un’altra cosa quasi scherzosa. Ma va bene, non ve la racconto, ve la leggo. Non so neanche se dirvi il titolo. No, non ve lo dico (pag. 251):
La scimunita pensava
che per avere un figlio
servissero molti amori e letti:
uno per fare le braccia,
uno le gambe,
uno gli occhietti furbi.
Così diventò puttana.
Di queste poesie, diciamo brevi, un’altra ancora, ecco, questa: Via Lattea.
Io, da bambino, una delle paure più angoscianti che ancora ricordo era quando aprivo l’atlante e mi perdevo davanti alla nozione di galassia, di Via Lattea, pur configurata dentro una pagina come le altre; ma si diceva e si sapeva che di quelle ce ne sono a bizzeffe, che noi siamo un puntino perso in una congerie di altri meccanismi. Insomma, questa verità scientifica mi metteva una certa paura addosso e l’ho ricordata in questa poesia, trovando anche una spiegazione.
VIA LATTEA (pag. 241)
Chiude la gola aprire l’atlante
pozza della Via Lattea
sapendo che l’infinita Hollywood di luci
altro non è che fiato di universo,
atlante di se stesso, cantina per comete
e che le praterie, le case,
uomini e partenze
sono una tasca sfonda.
A meno che le stelle, tutte assieme,
anche se soffocate nella culla
o disegnate dai bambini,
fin dove non c’è sguardo,
in ordine innocente
formino ardentemente
lo scheletro di Dio.
Alessandro Cabianca Quando c’è un poeta è bello ascoltare le sue poesie, e magari è meno bello ascoltare chi ne parla sopra, quindi cercherò di essere brevissimo. Sottolineo due cose soltanto: una è il fatto che una auto-antologia è sempre un passaggio fondamentale per un poeta, anche perché permette ovviamente una autoanalisi, uno studio del proprio percorso, del proprio lavoro. E quindi io esprimo una sensazione che ho avuto alla lettura di questa auto-antologia di Ennio Cavalli, relativamente ai movimenti poetici del Novecento, e ormai siamo nel secolo successivo, quindi di questo secolo.
A fronte delle complicazioni, delle involuzioni di tanto sperimentalismo- giusto per fare un riferimento ad una delle linee fondamentali, o della debolezza di pensiero di vario minimalismo- io sottolineerei che le complicazioni, le involuzioni dello sperimentalismo si potrebbero chiamare il “pensare intermittente”, che fa pensare al gruviera, cioè magari qualche splendido spunto e poi i buchi neri che ogni tanto capitano, mentre magari per il minimalismo questo pensiero è minore, cioè un tipo di pensiero piccolo piccolo, se vogliamo dirlo in un altro modo.
Io mi sono trovato in questo caso, invece, di fronte ad un pensiero fluente e qualche volta viene da dire un pensiero felice, proprio perché ci sono questi aspetti concreti, la concretezza di questo pensiero, che sorreggono in continuazione il fare poesia. Non a caso il titolo stesso, Cose proprie, parla di qualcosa di estremamente preciso, di estremamente concreto; e questa concretezza è sostanzialmente natura, ambiente, paesaggio, esseri: esseri animati e esseri inanimati.
Io credo che sarebbe bello e sarà bello ascoltare le sue poesie, perché siamo di fronte ad una serie di ritratti che non sono poi solo i ritratti di persone, ma sono anche ritratti di animali, ritratti di cose; c’è un ritratto di una formica, per esempio, che è un ritratto splendido; c’è un ritratto di un elefante. Spero poi Ennio Cavalli li voglia leggere, senza che appunto eventualmente li leggiamo noi. E pensando a questi ritratti, se poi appunto saranno letti, non pensavo di certo a ritratti alla Rembrandt.
Mi veniva in mente, per esempio, soprattutto a proposito di questo discorso della formica, un ritratto alla Brueghel, cioè questo formicaio di uomini oltre che formiche, “formiche” insomma. Oppure, se vogliamo, in altro ambito, altri tipi di pittura, pittura concreta che può portare comunque a dare l’idea del ritratto. Quindi, dicevo, una letteratura più del riconoscimento che dello straniamento. Ecco, questa era la sottolineatura che mi interessava fare, per dire che a mio parere c’è altro alle spalle di questa poesia, proprio oltre alla musicalità e a tutte le cose già dette, sulle quali quindi non mi ripeto.
C’è, per esempio, anche un bellissimo ritratto storico, “Ludwig II”, che è a pag. 170, così facilito la ricerca di Ennio Cavalli, è un riappropriarsi delle cose, che è poi, attraverso la parola, un riappropriarsi della parola, una qualificazione e anche insieme un divertimento.
Proprio a proposito di quell’avvenimento che hai citato in premessa, e che è stato già riportato da Ruggero Chinaglia sull’incontro con Borges, Borges stesso diceva che la poesia è allegria, anche quando l’allegria non c’è, anche nell’incubo.
E credo che questo sia uno degli aspetti che riesce a spiegare questo divertirsi anche quando non sembra poi essere un divertimento, e è questo infinito che si mescola al quotidiano, come è già stato detto, oppure “il filo d’olio che smuove i meccanismi”. Quindi sottolineavo la chiarezza e la luminosità, a parere mio – e forse qui magari non siamo sempre d’accordo con altre interpretazioni critiche – che può anche incontrarsi o scontrarsi con un mondo di astrazioni; però sono sempre racconti leggeri che affrontano la gravità delle cose che accadono. E lo vediamo in Naja tripudians, per esempio, di cui cito proprio l’inizio di uno di questi ritratti (pag. 49):
Massimo Klagevich studente modello
biondo rampollo d’ultrabisnonno austriaco fine impero
e poi perennemente fuso in generazioni romane
oggi di leva, stirato dentro la divisa estiva,
entusiasta del posto di guardia, dei materassi sporchi
e dei suoi occhi gonfi, sacrificato al rancio tifoideo,
volontario nei servizi antincendio
sognando una medaglia tra le vampe.
Credo che questa concretezza si possa attribuire, appunto, a un affabulatore del concreto, che spesso è, come dicevo, un ritrattista, dai ritratti fantastici fino ai ritratti di questo “Bestiario minimo” che spero Ennio Cavalli voglia leggere. Grazie.
E. C. Sì, mi piace questo che ha detto Cabianca sul riappropriarsi delle cose, che comunque vale per tutti, perché le cose stanno sempre lì vogliose di sfuggire, oltre alla notazione, diciamo così, degli accadimenti letterari, dove lo sperimentalismo lasciava dei buchi, per riempirli con dei riempitivi a volte sbilanciati.
Questa poesia sulla formica, che sono andato a ricercare, è inserita in Libro di scienza e di nani, è il secondo di una trilogia che, incominciata con Libro di storia e di grilli, si completerà con un libro che ho già finito e che uscirà presto. L’ho intitolato Libro di sillabe, con questo termine “libro” che è un po’ bambinesco, un po’ fanciullesco. Un bambino se fa un disegno, lo chiama subito per quello che è, se è la mamma è la mamma, non ci sono simbologie, un libro è un libro, e diventa un po’ un sussidiario, una guida per capire la storia che ci ha fatti quello che siamo. Ci sono tanti esempi di personaggi di cui io ho un po’ reinventato la storia.
E la scienza anche ha una sua magia, a parte che la fisica ha sempre dentro la metafisica. Dovrei farvi degli esempi, ma insomma, per la storia, mi ha sempre colpito quello che è successo ad Annibale. Annibale a sette anni ha visto il padre, generale, umiliato dai romani; a sette anni ha fatto il giuramento davanti ai suoi dei che l’avrebbe vendicato; a ventuno, appena ha potuto, è andato a Sagunto, ha bardato gli elefanti e ha incominciato una rincorsa incredibile da laggiù per arrivare addosso ai romani. Ditemi voi se quello non era lo stesso sogno fatto da un bambino: arrivare addosso ai nemici del padre con la potenza più esagerata e incongrua che poteva immaginare un bambino, gli elefanti. E da adulto l’ha fatto.
Ecco, questo è il tipo di storia che mi affascina, come il tipo di scienza che mi affascina è quella di cui non ci rendiamo forse conto tutti i giorni, ma quando andiamo a fare le analisi del sangue, e guai se non c’è tutto il ferro che ci deve essere, quel ferro che ci inchioda a determinate relazioni, che ci crocifigge lì alla nostra natura d’origine. Qual è la nostra natura d’origine? Il ferro, perché ce l’abbiamo? E il calcio poi? Perché siamo parenti, anzi io dico “cugini” dei sassi? Perché veniamo tutti da quella stella primordiale che è esplosa e ha lasciato i suoi averi sparsi per l’universo e poi da lì, siccome non erano sterili, è nata la vita.
Ma questa, e lo dice pure Margherita Hack, è la verità: siamo polvere di stelle e dentro c’è tutta la configurazione che ci riporta là. E, quindi, come si può ignorare la scienza come fonte di poesia, cioè di mistero, cioè come voglia di spiegarsi e di capire con i mezzi massimi, che sono quelli di immaginare altre cose? Perché una spiegazione vera e propria non c’è e anche se ci fosse non porterebbe a granché. E allora, in una piccola pagina c’è la formica, ma la formica c’è perché, a un certo punto, c’erano gli “insetti” e le loro metamorfosi. Ecco, va bene, seguiamo questa traccia della formica; è molto breve.
LA FORMICA (pag. 229)
La formica soave ritorna
sotto un parasole smeraldo
nella sequela dei cicli e dei doni,
processione di morsi la foglia.
Sì, è un flash in cui c’è questo momento di vitalità dentro la natura, dentro tutto il resto, dentro i suoi colori. Ecco, una delle cose poetiche che mi sono capitate, di cui sono stato protagonista al di là delle mie antenne, è stato che una poesia, che adesso vorrei leggervi, sempre dal Libro di scienze e di nani, è stata scelta a mia insaputa dallo stilista Romeo Gigli, che l’ha messa nella brochure a “spiegare”- diciamo così – la linea estate-primavera femminile, che ha chiamato “La rosa del deserto”.
A un certo punto, lui ha fatto una linea di abiti da donna e gli andava bene questa poesia. Premetto che non lo conosco, che ho avuto questa sorpresa di vedermi la poesia tradotta in inglese, in francese, assieme a una poesia di Ottavio Paz, premio Nobel. Ecco, la meraviglia delle cose. Lui si è procurato il libro e ha trovato questa cosa che gli funzionava. Per me è il massimo.
LA ROSA DEL DESERTO (pag. 213)
Dal cespuglio perenne
nella ruota del vento
gemma uno sgorbio di sabbia,
principio della duna.
Un vento di roccia
e il becco di un uccello denutrito
spingono petali di gesso
nel ventre sordo della duna.
Covato dalle stelle, il gesso
arrotonda le sue lamine.
Ricalca al buio, rugiada rovente,
la rosa algerina dei bazar.
(Dentro una duna ce n’è sempre un’altra.
Rosa del deserto, fiore aggiogato).
Sì, perché la rosa del deserto si forma attraverso tutte queste piccole sovrapposizioni, dove sono complici il vento, l’umidità, il caso e gemma. E cresce proprio come un essere vivente, come un fiore vero.
Maurizia Rossella Quando mi ha telefonato Chinaglia, che non conoscevo e mi ha chiesto se volevo occuparmi di questo libro di Ennio Cavalli, io subito non ho risposto di sì, perché non ero sicura, non volevo impegnarmi per qualcosa di cui non ero sicura. Allora ho detto: devo pensarci, perché magari non mi piace e non riesco a fare una presentazione di qualcosa di cui non sono convinta. Poi, prima ancora di avere in mano il libro, mi è venuto in mente che io Ennio Cavalli l’avevo già conosciuto, non di persona, ma attraverso il libro. Sono andata a cercare nella mia libreria, che per fortuna è molto ordinata, e ho trovato il libro del ‘76 Naja tripudians, che ricordavo di avere letto allora, e che mi era piaciuto tanto.
Allora ho detto: be’, la premessa per accettare c’è; e appunto poi ho verificato che era il caso di accettare questo incarico. E con gioia e curiosità ho letto questo libro, che poi oltre a Cose proprie, come dice Ennio nell’introduzione, dovrebbe chiamarsi Libro grosso; infatti sono quasi trecento pagine. Ero anche spaventata all’inizio, proprio per la mole del lavoro e poi ho detto: mamma mia, speriamo che non venga meno alle aspettative; e infatti ha mantenuto un po’ la promessa che fa nell’introduzione.
Tra l’altro, l’introduzione già sarebbe sufficiente come lettura perché è talmente densa di spunti, di punti, di citazioni, di nomi di persone, di letterati, di poeti, di critici; fa dei percorsi di lettura molto originali che già danno la cifra di quello che sarà lo stile delle poesie. Ciò che colpisce della lettura di queste poesie è l’apparente mancanza di nessi. Quando noi leggiamo, a volte siamo spiazzati proprio perché da un verso all’altro, o anche, in certi momenti, da una parola all’altra. C’è un cambio di dimensione velocissimo che porta dal piano del reale al piano del fantastico, ma anche morale, ma anche metafisico.
Dopo ti dirò quali poesie, secondo me, interpretano quello che sto per dire e quindi le leggerai. E quindi è un’avventura che, come ha già detto qualcuno stasera, vale la pena di affrontare, perché l’intelletto in questo modo resta sempre sveglio. Resta sveglio perché non ha tregua, è una sollecitazione continua, sono continui cambi di dimensione e funambolismi verbali che fanno fare continue capriole al cervello; il che non è male come gioco.
Tu stesso, poi, nell’introduzione parli di giochi verbali, parli anche dell’esperienza che hai avuto con tuo figlio quando è nato – non so a quando si riferisse questo, perché qui non sono riuscita ad arrivare, anche perché mancando le date è difficile collocare l’evento, ma si può intuire qualcosa – ecco, anche le poesie che parlano di questo rapporto col figlio e della sua crescita, per esempio. Sono sempre molto pericolosi temi del genere a mio avviso in poesia, perché è facile cadere nella trappola del melenso, del già sentito; è un tema che bisogna sempre prendere con le pinze, secondo me.
E qui ho visto che non c’è in nessuna maniera questa caduta, anzi addirittura le lallazioni della lingua sono riportate in maniera molto, molto di effetto, ma nello stesso tempo riportano a una grande profondità, pur parlando di argomenti infantili. E questo aspetto ludico, la ludicità nulla tolgono alla lucidità di pensiero, anche se sembra un anagramma, e quindi il gioco nulla toglie alla profondità del pensiero. Io non ho adesso la domanda per passarti il microfono, ma ti chiederei di leggere quella poesia del bambino che dice “Tatalli …”, così ci dai un’idea.
E. C. Dunque, le poesie che sono qui presenti vengono da un libro che si intitola “PoeSia”, dedicate – anche lì ho fatto una sostituzione – non a mio figlio, ma al senso del divenire. Ecco l’escamotage per cui forse sono riuscito a evitare certi tranelli. Allora, si chiama così: lì c’è la P maiuscola e la S maiuscola, perché Po e Sia sono due personaggi, con un raccontino iniziale che ho inventato e dal quale deriva che dalla loro unione viene fuori Poesia: Po non è solo politica, Sia non è solo fantasia, e così via.
Allora il figlio che incomincia a parlare, a balbettare ha a che fare con l’origine del mondo, l’origine delle cose, l’origine stessa della parola. E ce n’è un gruppo, sì, dove ho giocato, ma nel senso che era inevitabile giocare con la lingua, proprio perché lui aveva un linguaggio, come hanno tutti i bambini, da decifrare; e, siccome appunto si chiama Mattia, Mattia Cavalli o Cavalli Mattia, lui ecco diceva, veniva fuori un Tatalli ta; e, intorno a questo nome e cognome, mi sono identificato anch’io.
TATALLI TA (pag. 86)
Tatalli Ta.
Un pugno d’uomo si presenta,
cognome e nome.
Mi nutro di pane e di formaggio,
del paie, del badaggio
che cagli con traversa perizia,
dell’unica parola
che non avrà ritocchi,
l’ineccepibile patata.
Bo daga, il babbo guarda:
catturi in corsa mezzo metro di sole,
sconsigliato dalle nuvole.
E io parafrasando:
“Figlio mio, se anche tu non fossi il mio
figlio, se anche fossi a me un estraneo,
per te stesso egualmente ti amerei”.
Tatalli E.
Poi, va be’, questa forse è un po’ troppo lunga, ma anche nel mio stesso percorso – io come mestiere faccio l’inviato – ho immaginato di lasciare delle tracce a mio figlio in giro per il mondo.
GITANO ALTROVE (pag. 89)
Lascio segni impercettibili
briciole del mio pane:
qualche bottone perso per il mondo,
un foglio sotto la zampa del tavolo
che dondolava,
dei graffi sul tronco dell’eucalyptus,
coriandoli agli incroci che inghiottirono
donne fatali,
un verso per il pomodoro
ai profumi del Messico.
Sono un padre gitano,
torno con dei segreti
da un nuovo oceano, con altri orari.
Sentirai motivi familiari
da qui ai musicanti di Brema,
toccherai l’asino portafortuna
all’angolo col Municipio.
Vedrai New York lucente
e grattacieli l’uno nell’altro,
specchiato amore.
Dormirai su una nave
nella riga di mare senza ghiaccio
verso Helsinki.
A Parigi la meccanica dei tacchi a spillo.
A Leningrado una bambina,
figlia del custode del Museo,
educata alle meraviglie.
Il parco del barone d’Assia,
con gli uri già scomparsi, pallidi,
d’argento e polvere.
In qualche libro incontrerai
parole lievi sottolineate:
estratto di tante letture,
premio della lotteria.
Sei invitato a Natale
su nevi distanti,
coscia di renna l’amica svedese.
Solo, in quella trattoria
nella nebbia fuori Cremona:
la polenta nel piatto, maschera
senza sugo.
Ti ho pensato nei sopralluoghi,
ho lasciato dei segni.
Troviamoci nel mezzo del tuo viaggio.
Anche se sarò assente,
gitano altrove.
G. S. Se c’è qualche domanda, perché ci sono altri impegni, purtroppo.
E. C. Ecco, giustamente, è il momento, se volete chiedere qualcosa.
Pubblico Mi piacerebbe che rispondesse alla domanda che ha posto prima il dottor Chinaglia: prima il poeta o prima il giornalista? Grazie.
E. C. Faccio presto. C’è uno scrittore in mezzo, cioè io dico che il giornalista dà conto di quello che gli succede attorno, lo scrittore dà conto di quello che gli succede attorno e anche di quello che gli succede dentro. Magari ci sono dei giornalisti autori che vorrebbero anche dar conto un po’ di quello che gli succede dentro, ma non sempre possono, oppure li tagliano, oppure non è la sede adatta la testata dove lavorano. Comunque, io ho sempre fatto un tipo di giornalismo d’autore, diciamo così, con quell’identificazione a qualcosa che va al di là della semplice notizia. Per il resto, vado avanti come scrittore e, per questo, dico che la prosa è la sorella grassa della poesia, ma sono della stessa famiglia.
G. S. Allora, ringrazio Ennio Cavalli per questa presenza e, in particolare, anche Ruggero Chinaglia e la Spirali edizioni, che ci ha messo a disposizione i libri per questa serata, Maurizia Rossella per il suo intervento, e Alessandro Cabianca. Mi pare che sono venuti fuori moltissimi aspetti importanti di questa poesia, del poeta, della sua storia, della vicenda che ha voluto raccontare perché è una scelta importante, come ha detto anche Alessandro, questa dell’antologia scelta personalmente, una ricomposizione di percorso. E è una sorta di confessione nella sostanza, perché si espone in tutta la sua storia.
Rossella diceva che ci sono come dei salti; penso che ci sia un processo di cancellazione molto frequente nella costruzione, nella scrittura di Ennio Cavalli, cioè che ci sia un ripensamento sempre verso una maggiore sintesi del verso. Proprio per questo mi piaceva quell’immagine del gioco dello shangai che si faceva da ragazzini, in cui si toglieva non solo il bastoncino, ma anche il colore. E i colori tornano spesso nella sua poesia, il colore e la luce come forma di comunicazione – come è nella pittura – ma anche come forma di leggerezza della sostanza interiore. Ecco, questo mi pare di aver capito. Grazie a tutti voi.