La maschera, la donna, lo specchio a Vicenza
- Bachisio Bandinu, Chinaglia Ruggero, Mario Bagnara, Masala Gian Vittorio, Sedda Remigio, Viero Maria Antonietta
Martedì 26 gennaio 2005, alle ore 20,30, nella Sala degli Stucchi, a Palazzo Trissino, in Corso Palladio, a Vicenza, con il Patrocinio della Regione Veneto e del Comune di Vicenza, organizzato dall’Associazione culturale dei sardi residenti a Vicenza Grazia Deledda e dall’Associazione europea dei brainworkers ONLUS , in occasione dell’uscita del libro La maschera, la donna, lo specchio, edito da Spirali, si tiene la conferenza con dibattito di Bachisio Bandinu, antropologo, giornalista, scrittore, dal titolo, La maschera, la donna, lo specchio
BACHISIO BANDINU
La maschera, la donna, lo specchio
dibattito coordinato da
- Maria Antonietta Viero, brainworker
con interventi di
- Remigio Sedda, presidente associazione culturale Grazia Deledda
- Gianvittorio Màsala, coordinatore Fasi del nord-est
- Mario Bagnara, presidente della commissione culturale di Vicenza
- Ruggero Chinaglia, cifrante, editore
Maria Antonietta Viero. Allora, possiamo cominciare. Intanto, buonasera a ciascuno di voi che è qua a ospitare, a accogliere questo nostro illustre ospite, e anche amico, che è Bachisio Bandinu. È uno scrittore, viene “in continente”, – lo chiama proprio così -, viene dalla Sardegna, e è stato, si è formato, ha una particolarità con la città di Vicenza, perché nel 1965 il professore si è laureato con una tesi su Antonio Fogazzaro, quindi è particolarmente vicino a questa città. È qui per un tour di presentazioni del suo ultimo libro La maschera, la donna, lo specchio, edito da Spirali. E ringraziamo innanzitutto il Comune di Vicenza e il sindaco di Vicenza per averci ospitato qui, in questa bellissima sala.
Ringrazio naturalmente ciascuno dei relatori che è qui presente: alla mia sinistra c’è il professor Mario Bagnara, che credo non abbia molto bisogno di essere presentato, perché è presidente della Commissione Cultura del Comune di Vicenza e lo ringrazio in maniera particolare, perché con lui c’è un dispositivo di collaborazione e di generosità intellettuale. Abbiamo poi l’ingegner Màsala, che è il coordinatore della FASI del nord-est, che è la Federazione Italiana, Associazione dei Sardi, dei circoli sardi; alla mia destra c’è il professor Bachisio Bandinu, che quindi è l’autore di questo libro e, più a destra ancora, c’è il dottor Ruggero Chinaglia, presidente dell’associazione cifrematica di Padova, nonché scrittore e cifrante di un’esperienza, che è la nostra, che si chiama cifrematica. E poi, più a destra ancora, c’è il presidente dell’associazione culturale Grazia Deledda, che è appunto un’associazione dei circoli sardi che ringrazio, e ringrazio il circolo per la collaborazione che ha e per gli inviti che ha proposto qui. Questa sala ci ha già visto come associazione dei brainworkers ONLUS, che io rappresento qui.
E che cos’è l’associazione dei brainworkers? È una associazione dove vige la combinazione tra cultura e industria e impresa. Riguarda quindi, la formazione dell’imprenditore, ma attraverso questa speciale esperienza che si chiama esperienza cifrematica. È un’esperienza di parola in atto, un’esperienza che attraversa le varie arti, riguarda una reinvenzione delle arti e delle scienze, interviene proponendo un’altra lettura dell’accadimento. E poi avremo modo di parlarne ulteriormente perché prossimamente, nel mese di giugno, faremo questa introduzione alla cifrematica, proprio qui a Vicenza.
Non ho detto chi è Bachisio Bandinu: è un giornalista, antropologo, scrittore, e un eccellente oratore. Comincerei questa sera con il presidente dell’associazione culturale Grazia Deledda, che dà un saluto e un benvenuto a questo nostro ospite. Ringrazio ancora ciascuno di voi.
Remigio Sedda. Buonasera a tutti. Benvenuti a questa riunione. Il professore lo ha già presentato la signora, quindi ho poco da aggiungere. Volevo soltanto parlare un po’ dei circoli dei sardi di Vicenza. Ho preso qualche appunto e vi leggo qua. Noi sardi residenti nel vicentino ci siamo organizzati in associazione e ne abbiamo costituite tre, che elenco in ordine alfabetico: “Civiltà Nuragica”, con sede a Schio, “Grazia Deledda” con sede a Vicenza, “Sardegna Nostra” sita in Bassano del Grappa. Preciso che solo l’associazione “Grazia Deledda” è stata ufficialmente riconosciuta dalla Regione sarda. Le altre sono in fase di istruttoria.
Queste associazioni si tengono in collegamento epistolare con periodici incontri tra i presidenti e altri associati, soprattutto quando si tratta di decidere manifestazioni o di organizzare manifestazioni folcloristiche e culturali. Esse hanno lo scopo precipuo di facilitare incontri amichevoli tra i sardi e le loro famiglie, e per consolidare i buoni rapporti già esistenti con gli amici vicentini. Le esibizioni dei gruppi da ballo di un costume sardo sono state sempre gradite ed applaudite calorosamente. Ritengo quindi, di poter affermare che i sardi sono ben inseriti nell’ambiente locale, grazie al loro serio e leale comportamento, salvo eventuali eccezioni che non conosco. Ecco, tutto qua. Ho promesso di parlare poco.
M.A.V. Grazie a questo, come lo chiamo io, giovanissimo giovanotto che è molto attivo nella città in tutti i sensi. Lo ringrazio di questo accoglimento e passo la parola all’ingegner Màsala.
R.S. Sono veramente il più giovane di tutti, qua.
Gianvittorio Màsala. Faccio seguito all’amico Remigio Senta. Io sono il coordinatore dei venti circoli dei sardi riconosciuti dalla regione Sardegna, che esistono nell’Italia continentale nord-orientale, quindi nelle quattro regioni dell’Emilia Romagna e Triveneto. Non mi voglio dilungare più di tanto sulla struttura. Mi limito a dire che la regione Sardegna, con lungimiranza, è divenuta regione autonoma; aveva pensato bene di affiancare i propri immigrati in Italia e nel mondo, creando, favorendo la loro aggregazione in circoli, favorendo l’aggregazione dei circoli in federazioni, e demandando una legge sull’emigrazione che regolava, che forniva i titoli perché i circoli fossero riconosciuti, e stabiliva i rapporti reciproci fra i sardi residenti fuori dalla Sardegna e la regione madre. Esiste una federazione italiana con sessantacinque circoli da Roma in su, e la federazione italiana è divisa in quattro circoscrizioni. Io sono il coordinatore di una delle quattro circoscrizioni.
Ma veniamo a questa nostra riunione, e veniamo a Bachisio Bandinu. Sono qui, ovviamente, perché Bachisio Bandinu, non solamente per questo ma anche e soprattutto, perché Bachisio Bandinu è un sardo. Io, Bachisio Bandinu sono venuto a conoscerlo per gradi, perché sono sardo come lui, ma sono andato via dalla Sardegna che ero ancora un adolescente. E quindi ciò che è successo in Sardegna, le dinamiche, la politica, eccetera, eccetera, le seguo, ma le seguo come un osservatore interessato, ma lontano. Così, di Bachisio Bandinu, la prima cosa che io ho saputo è che era stato presidente del circolo dei sardi di Varese.
Io diventavo presidente del circolo dei sardi di Padova. Dico: un collega. Poi, di Bachisio Bandinu sono venuto a sapere che, proprio per questa sua conoscenza, anche per questa sua conoscenza del mondo e delle problematiche dell’emigrazione, Bachisio Bandinu era stato richiesto dalla regione Sardegna perché si occupasse del fenomeno dei problemi dell’emigrazione. Mi era capitato poi fra le mani un suo libro, Lettera a un giovane sardo, se non ricordo male il titolo, e l’avevo letto con molto interesse.
Poi dopo, l’ammirazione e l’amicizia per Bachisio sono nate quando mi è capitato di assistere ad uno spettacolo di parole e musica chiamato Sossinos. In questo spettacolo di parole e musica, Bachisio Bandinu recitava il prologo, e lo recitava con una passione, con una capacità fabulatoria, con una grinta tale da creare un grande coinvolgimento. Dopo questa prima esibizione ne ho seguite altre. Le ho anche segnate: il 29 maggio del 2003, presso l’associazione di sardi di Sebastiano Sata di Verona. Questo il 29 maggio. Io, il 1° giugno, sono andato a Parma a sentirmelo di nuovo. Dopo di che mi sono incuriosito e ho voluto conoscere meglio il personaggio.
E quindi di Bachisio Bandinu ho imparato che è laureato in lettere, ha insegnato e ha scritto opere di storia e di antropologia e di linguistica, si è diplomato in giornalismo alla scuola delle comunicazioni sociali della Università Cattolica di Milano. È stato per molti anni collaboratore del “Corriere della Sera”; è stato direttore dell’Unione Sarda, che è uno dei due quotidiani, – perché ne esistono anche di altri – , ma dei due quotidiani importanti in Sardegna. È tuttora un editorialista dell’Unione Sarda, che con Gaspare Barbiellini Amidei ha scritto Il re è feticcio, edito da Rizzoli, riedito da Ellisso, una casa editrice sarda molto importante.
Ha scritto Costa Smeralda, edito da Rizzoli, che poi è stato aggiornato in Narciso in vacanza, edito da Aenedi nel ‘94; ha scritto, – ma questo l’avevo già visto- , Lettera ad un giovane sardo, edito da Della Torre; ha scritto Identità cultura scuola. Infine, adesso, ha pubblicato La maschera, la donna, lo specchio. Come socio del circolo di Padova, ho già assistito alla presentazione di questo La maschera, la donna e lo specchio e al dibattito che ne è seguito e l’ho trovato veramente avvincente, interessante.
Diciamo che, per volere usare uno slogan, la Sardegna viene considerata in questo libro fra mito e realtà. Ecco, è un libro per certi versi complesso. Non sono un critico letterario, quindi mi limito a dire questo: è un libro per certi versi complesso, ma è un libro molto, ma molto interessante. Non bisogna fermarsi alla superficie perché, fermandosi alla superficie, magari si prende qualche abbaglio.
Io ho sentito qualche amico sardo che diceva: “Se uno legge questo libro, magari si fa l’idea che noi sardi siamo dei parricidi, oppure che abbiamo l’abitudine di avvalerci delle arti di Accabbadora, che sarebbe una specie di megera, cioè no, una brava signora anziana che si occupa di soffocare gli ultimi respiri di chi è ormai il malato terminale, oppure che le nostre donne siano particolarmente esibizioniste”.
No, calma. Bisogna approfondire l’argomento, distinguere quelli che sono i segni da quelli che sono i contenuti, quelle che sono le immagini da quelli che sono i riferimenti storici, il mito e la realtà. Non aggiungo altro. Sono contento di essere qui di nuovo vicino all’amico Bandinu, vicino agli amici di Spirali. Spero che la collaborazione abbia modo di svilupparsi sempre di più e sempre meglio.
M.A.V. Ringrazio moltissimo l’ingegner Màsala, che ha dato oltretutto le note così particolareggiate del nostro autore e ora passo la parola al professor Mario Bagnara.
M.A.V. Aggiungo una cosa. Ieri, sul giornale di Vicenza, è uscito l’articolo del professor Bagnara, che è un bellissimo articolo, e anche di questo lo ringraziamo.
M.B. Grazie e complimenti, invece, alla signora Maria Antonietta Viero, che è la coordinatrice di questo incontro, ma possiamo dire che è insieme con il marito, Ruggero Chinaglia, il motore primo, motore immobile che trascina. E, se qualcuno fa resistenza, rischia di travolgerlo. E è effettivamente piena di entusiasmo, è coinvolgente, e quindi evidentemente riesce a raggiungere gli obiettivi. Io devo anzitutto complimentarmi con lei, perché ero un po’ scettico sull’orario di questo incontro. Temevo di trovarmi con pochissime persone e, invece, devo dire che è una bella presenza, ma soprattutto è una presenza molto qualificata.
Stasera sentiamo la Sardegna veramente vicina, la Sardegna ospitata in questa sala degli Stucchi, nel palazzo di rappresentanza comunale, il più importante, il più significativo. E, siccome faceva un cenno alle donne, è una sala che in qualche maniera mitizza le donne nel vero senso della parola. E sappiamo che la figura della donna, la figura della madre in modo particolare, è ben presente nel libro che stiamo per presentare, per conoscere.
E allora, da parte mia, visto che abbiamo un amico di Vicenza attraverso l’esperienza e la conoscenza che ha fatto del nostro concittadino illustre Antonio Fogazzaro, da parte mia in rappresentanza dell’amministrazione, un cordialissimo benvenuto anzitutto a Bachisio Bandinu, circondato da persone che hanno già avuto modo di conoscerlo, e quindi sarà indubbiamente anche per lui una opportunità interessante di approfondire, al di là di quello che abbiamo avuto modo di fare finora, la competenza, la professionalità, e soprattutto la passione di uno che tutto sommato continua a sposare la causa della cultura sarda, perché è un testimone, oltre che uno studioso , veramente autorevole.
Permettetemi però di esprimere i miei complimenti anche all’organizzazione, a questa associazione europea dei brainworkes, di cui è validissima interprete la signora Maria Antonietta e all’associazione cifrematica di Padova, che appunto viene ospitata qui, credo, per la terza volta. Io ricordo degli incontri. Terza o quarta, sì, perché ci sono stati i passaggi. Comunque, almeno in sala degli Stucchi, in occasione dei libri, sempre editi da Spirali, di Fausto Tapergi, La conoscenza in modo particolare, e La filosofia, un altro tema che sta molto a cuore al nostro caro concittadino.
Nell’autunno ero qui presente al tavolo, anch’io partecipe sicuramente, entusiasta, e ho fatto qualche collegamento, proprio in questo ultimo periodo, al tema che presentava Aurelio Misìti con il suo libro particolarmente attuale e importante, Il viaggio dell’avvenire. Dicevo: lo ricordo con particolare simpatia, perché certi discorsi che abbiamo anche fatto insieme con lui circa i terremoti, le possibilità di prevedere le opportunità di fare degli interventi, naturalmente per proteggere dal pericolo, dai danni, eccetera, eccetera, sono discorsi interessantissimi che evidentemente sono di grandissima attualità, dopo la vicenda dello tsunami di cui oggi ricorre il primo anniversario mensile.
E quindi il nostro pensiero, riuniti qui simpaticamente, va anche a quelle povere popolazioni che sono state decimate e duramente provate nelle loro condizioni attuali, e naturalmente hanno bisogno del nostro aiuto per pensare al futuro immediato, al futuro prossimo. E ora Aurelio Misìti dava delle indicazioni molto precise anche a questo proposito, non solamente sullo stretto di Messina, su tante grandi opere, che evidentemente hanno fatto anche dei passi avanti. Lui era tra l’altro il presidente del consiglio superiore dei lavori pubblici, quindi era una persona, e è, rimane, tuttora, Aurelio Misìti, una persona esperta; comunque è stato portato qui, da queste due associazioni.
Poi, recentemente, novembre scorso, Domenico Zucchetti, un altro personaggio nella attività imprenditoriale italiana, è stato scoperto, almeno a Vicenza, in una delle sale della camera del commercio, con la presentazione del suo volume L’impresa nuova, una saga avvincente per imprenditori, manager e curiosi. E quindi, evidentemente, l’attività continua con grande efficacia.
Questa sera siamo qui, appunto, a scoprire, è proprio il caso di dirlo, a scoprire questo volume, che non è un volume di lettura immediata, spontanea, un racconto, un romanzo, come magari siamo abituati a fare, è un libro che ci porta a meditare profondamente. È la sesta opera consistente vera e propria, almeno da quanto sono riuscito a scoprire, della produzione editoriale di Bachisio Bandinu.
Il nostro presidente della federazione del nord-est ha stilato puntualmente l’elenco delle opere precedenti. Mi permetto di ricordarle che ha dimenticato solamente un’opera del ‘98 che è Visiones, i sogni dei pastori, che poi, in questo contesto, relativamente a questo volume, presenta dei legami molto profondi. Ora, vi dicevo, è senz’altro un rappresentante che, pur essendo vissuto per motivi professionali lontano dalla sua Sardegna, ha sempre portato avanti la sua missione di far conoscere la sua Sardegna e, soprattutto, di salvare i valori della cultura sarda.
Questo volume, credo, sia una summa particolarmente ricca, particolarmente profonda e anche, devo dire, molto affascinante dal punto di vista culturale: sono 340 pagine, un saggio, si potrebbe definire, che riesce a comporre insieme elementi culturali di una provenienza veramente eccezionale. Io ho tentato di fare anche qualche semplificazione, però, mi è risultato e mi risulta piuttosto difficile, perché in questo volume ci sono elementi di antropologia, di sociologia, di etnologia. Tant’è vero che nel suo curriculum compare subito il termine la qualifica di antropologo, quindi studioso dell’uomo, del comportamento umano attraverso ovviamente i secoli, ma c’è anche una presenza molto qualificata, come dirò fra poco, di elementi di psicologia, di psicanalisi, di filosofia; secondo blocco, quindi, molto consistente.
C’è un terzo blocco che ha dei riferimenti con la religione e con la magia, ma ci sono soprattutto di particolarmente interessanti, almeno per la mia, chiamiamola deformazione professionale, una serie di considerazioni, di osservazioni, di apporti per quanto riguarda la semeiotica, la linguistica e anche la letteratura con puntuali, numerosi e qualificati riferimenti e citazioni di specialisti naturalmente delle discipline scientifiche e letterarie.
Solo qualche nome: l’ungherese Carol Careni — i francesi, poi, sono ben presenti, come Jaques Lacan, Serge Leclaire, Maurice Blanchot, Claude Levi Strauss, Gilles Deleuze — per arrivare poi anche agli amici sardi: Michelangelo Pira, per non dimenticare Grazia Deledda, era ricordata per le sue opere e soprattutto per le sue figure femminili, abbastanza ripetutamente, e poi Emilio Lusso.
Dobbiamo scoprire che è un sardo anche Antonio Gramsci, probabilmente qualcuno non lo sa, perché è nato ad Ales in provincia di Oristano; poi Giuseppe Dessy, Salvatore Satta, un romanziere, Il giorno del giudizio. Per non dimenticare poi il trasferimento anche in terra siciliana Luigi Pirandello, perché, quando parla della identità, soprattutto nel capitolo della identità, evidentemente il Fu Mattia Pascal diventa un punto di riferimento. Quindi, c’è un panorama culturale veramente ampio.
Per questo, ritengo quasi impossibile tentare di fare una sintesi dei contenuti di questo volume; in effetti sono diversi, possiamo dire anche talvolta contraddittori, i tagli di lettura e di interpretazione che si possono imboccare per presentare e parlare di questo libro. Però non sfugge il tema conduttore che è quello della maschera rituale, la visera in sardo, quindi di questa maschera che l’autore si preoccupa subito di precisare nella sua differenza rispetto al concetto di maschera alla quale noi siamo abituati. Siamo abituati alla maschera tragica del teatro greco e la maschera in generale nella storia del teatro, la maschera della commedia dell’arte. Nulla di tutto questo per quanto riguarda la maschera sarda.
La maschera sarda non ha alcun rapporto con questa concezione di maschera, perché nel teatro che noi conosciamo c’è un rapporto tra il volto vero, chiamiamolo dell’interprete, e la maschera. Nella maschera sarda il volto scompare. L’importanza del volto, chiamiamola sottostante, evidentemente non deve assolutamente essere presa in considerazione. Io procedo anche con qualche provocazione, perché, poi, vorrei sentire naturalmente l’autore anche su tali questioni.
Ora, la maschera domina, vi dicevo, dall’inizio alla fine e, in effetti, come la sovra-coperta del libro ci fa capire immediatamente, questo è un boe, una delle maschere principali della Sardegna centro-settentrionale. L’ho capito anche perché la scelta di queste maschere appartiene alla sua terra d’origine, che è Bitti, se non ricordo male, provincia di Nuoro, quindi le tre località a cui fanno riferimento queste maschere, che sono: Mamoiada, Onimamutones, Lieimerdules di Ottona.
Bachisio Bandinu. Ottana.
M.B. Ottana, scusate. E i Turpos di Orotelli. Quindi, sono tre località, appunto, in provincia di Nuoro, che sono espressione e caratteristica, appunto, di una cultura molto chiara, molto specifica. E naturalmente il libro è corredato anche di foto artistiche di particolare pregio, credo di un fotografo sardo di nome Salvatore Ligios, se lo pronuncio correttamente, salvo una di un altro autore, di un altro fotografo.
Il saggio parte dall’analisi storico culturale di queste maschere e procede naturalmente per una serie di sezioni e di capitoli. Ora, il concetto di maschera, è presente anche quando viene negato. A proposito, per esempio della donna, egli precisa che la maschera non si addice alla donna e, proprio nella prima battuta della seconda sezione, è molto chiaro, molto esplicito. “La maschera — dice — non si addice alla donna.”
Non so se pronuncio bene il sardo: “Non dechet a sta femina; non può essere mamutone, boe, turpu, è esclusa dal rito. La donna è già animale, dio, estecapra, bestia dal salto da una sponda all’altra, da una rupe all’altra”. Aggiunge, poi: “La donna è maschera per sé stessa, senza vestizione, senza rito.” Quindi, uno rimane un po’ disorientato: sta parlando della maschera, poi precisa subito, a scanso di equivoci, nel secondo capitolo del volume, che per la donna, assolutamente, non si può parlare di maschera.
Alla donna, poi, dedica un capitolo particolarmente lungo. In una definizione anche apparentemente contraddittoria, perché si parla della società matricentrica, di un presunto matriarcato della cultura sarda, e quindi la donna in una posizione particolarmente importante, analizza il rapporto tra madre e figlio, magari ragazzo cresciuto, che a un certo punto deve staccarsi, deve tagliare appunto il cordone ombelicale dalla madre e andare naturalmente a fare il pastore e, quindi, avvicinarsi all’esperienza del padre e, quindi, allontanarsi dalla famiglia.
La madre rimane sempre un punto di riferimento. E gioca molto, gioca molto sulle due figure della donna madre e della donna in generale. E è proprio relativamente alla donna che io ho colto una efficacia, direi quasi, una violenza espressiva eccezionale, cioè alcune espressioni che l’autore adopera per cercare di cogliere la donna, evidentemente sarda in particolare, ma probabilmente non solo sarda, perché il libro va letto anche tenendo presente la realtà che circonda il mondo sardo, e quindi è anche un libro attuale, quindi ci può riguardare anche direttamente da vicino. Però quando parla della donna, già dalle prime pagine, evidentemente le sue espressioni sono, oserei dire, taglienti, efficacissime. Qualche battuta:
Il suo corpo è ciclico, un perenne moto di marea, corpo fluido in continuo mutamento; ha un’esperienza organica, del flusso del sangue, del ritmo del tempo, ha un taglio non ricomponibile, un vuoto non colmabile. Il tempo ritmico del mese lunare fa da controcampo al calendario solare.
E potrei continuare: La malignità della donna sta nel corpo, non nell’animo come per l’uomo. L’animo della donna è istintualità inscritta nel corpo stesso. E poi ancora: Si dice che la donna sia esposta alla possessione, volendo credere che uno spirito entra in lei e la possiede. E invece è proprio la donna a creare il demoniaco, così come è assunto dal simbolismo maschile; è lei il serpente. L’astuzia femminile — procedo naturalmente saltando come una capra, visto che ha ricordato appunto la capra all’inizio — l’astuzia femminile è, per così dire, naturale e artificiale inscindibilmente. Il corpo della donna è animal..
E potrei continuare con queste espressioni che, come vedete, sono fortissime. E a un certo punto fa anche una sintesi con una serie di aggettivi: Sta femmina est magnatica, sta femmina est iscandalosa. Non credo di pronunciare correttamente, ma mi perdonerete voi sardi. Sta femmina est iscassata; sta femmina est volata; sta femmina est iscappata; sta femmina putit, cioè emana cattivi odori. E avanti di questo passo. In un confronto, poi, con l’uomo dice ad un certo punto: L’uomo è un animale domestico: casa, patria, legge. La donna è indomestica, apertura, abisso, caos. Mi fermo qui.
È una provocazione su questa figura femminile, che personalmente mi lascia, direi, sorpreso. Sarò curioso di sentire qualche spiegazione. Potrei continuare con questi esempi. Il titolo coglie i tre capitoli fondamentali, appunto la maschera, la donna, lo specchio. Ma la maschera è presente anche quando parla in maniera sorprendente, per chi non conosce il mondo sardo o non vive in Sardegna, cioè quando parla del sequestro e quando parla della faida.
Il sequestro
Il sequestro, due allusioni semplicemente: “un’esperienza traumatizzante” la definisce, per cui dopo, il rientro nella casa domestica diventa pressoché difficile, addirittura è impossibile il nuovo adattamento alla casa domestica. Ma questo passi, è comprensibile. Mentre invece parla di identità parentale con i rapitori che “gli hanno salvato la vita”. E quindi ecco la vita in grotta, ecco la vita del sequestrato, ecco il potenziamento delle sue capacità sensoriali: impara a conoscere i suoni e i rumori, riesce a calcolare il passare del tempo.
È un’analisi, ripeto, di tipo psicanalitico, io credo, molto importante, molto significativa. Sono pagine evidentemente da leggere e rileggere, come ho anche puntualizzato ieri, perché una lettura non fa capire moltissimo del libro. È un libro che va letto e riletto, ritornando magari su alcune pagine in modo particolare. Ma la cosa che sorprende ancor di più è la descrizione del rapporto fra il sequestrato e il carceriere. A me è venuto in mente il carceriere Schiller delle Prigioni, Silvio Pellico, il rapporto naturalmente fra il prigioniero e il suo carceriere.
Anche qui dice che il carceriere è uno che gli sta vicino, lo salva dalla disperazione, e si trova smarrito quando non ha il carceriere vicino e, quando ritorna il carceriere, è come se arrivasse, che ne so, un familiare. Ecco il rapporto parentale. E quindi adesso capiamo anche di più certi fenomeni sorprendenti di scoperte, magari improvvise e inaspettate, di rapporti affettivi che si sono verificati durante queste esperienze dei sequestrati. Non ho il tempo di proseguire.
La faida
Sarebbe interessante analizzare anche la parte relativa alla faida: il concetto di vendetta necessaria (bisogna vendicarsi per poter continuare a vivere), il concetto di verità (mai dire la verità, altrimenti si rompe evidentemente un certo ritmo) — ma adesso sto semplificando, evidentemente molto banalizzando — e c’è l’attualità presente.
Chi vuol fare delle maschere uno scoop consumistico turistico, rischia di rimanere profondamente deluso. Ho citato un passo di un’esperienza, di una manifestazione delle maschere che urlano, che ringhiano, eccetera, quindi spettacolo affascinante, apparentemente, ripresa televisiva, e lui dice alla fine: “Un fallimento totale. Guai a cercare di sfruttare turisticamente e consumisticamente questa cultura sarda, in modo particolare toccare le maschere. Le maschere devono essere salvate di per sé.”.
E anche l’amico Anghelu che, su sua iniziativa o consiglio, addirittura aveva accettato, qualche decennio fa, di fare un po’ da comparsa di una maschera, credo di aver capito, e quando si è visto poi nello sceneggiato televisivo, è inorridito, si è scandalizzato e ha protestato naturalmente contro l’amico, perché lo aveva in qualche maniera abbindolato, cioè lo aveva ingannato. Guai assolutamente a toccare le maschere.
E poi il turismo sardo: ci sono poi dei passaggi nella parte finale, la cura del corpo, la cura della bellezza, questa imbalsamazione — uso questo termine che a me è piaciuto tanto — l’imbalsamazione di chi si mette al sole, di chi in pratica vorrebbe evidentemente assumere una bellezza assoluta e rischia invece di snaturare se stesso. Potrei continuare, ma permettetemi di terminare questo primo passaggio soltanto con un altro riferimento che non posso approfondire. Mi dispiace. È un manuale di dialetto sardo. Se lo leggete anche solo cogliendo la bellezza delle espressioni sarde, dalla prima pagina fino all’ultima, avrete una soddisfazione veramente squisita. Io mi fermo qui. Eventualmente intervengo dopo ancora. Grazie.
M.A.V. Ringrazio moltissimo Mario Bagnara e passo la parola al dottor Ruggero Chinaglia, quindi, diciamo così, allo psicanalista, cifrante, presidente dell’associazione cifrematica di Padova, nonché editore.
Ruggero Chinaglia. Molti dei meriti di questo libro sono stati illustrati da chi mi ha preceduto; tuttavia, siccome ritengo che ne abbia molti, provo a indicarne qualcun’altro. Uno dei meriti principali è che rende un servizio al lettore, dato che lo impegna nella lettura, ossia non annacqua nulla, non banalizza alcunché, non concede niente a immagini trite, ritrite, a luoghi comuni. Eppure, partendo da pretesti che sono nella tradizione, quindi nella storia e anche nei luoghi comuni della Sardegna, della sua cultura, introduce, pagina dopo pagina, squarci di assoluta novità.
Già dalle prime pagine per esempio, introduce la questione del parricidio, del parricidio quasi reale, dico nella sua versione apparentemente mitologica e quindi quasi scandalosamente, apparentemente partecipe del fatto che il figlio deve ammazzare il padre per vivere. Questa è la mitologia greca, questa è la mitologia del parricidio.
Ebbene, lì dove sembra concedere la sua condiscendenza a questa mitologia, improvvisamente, illustrando questa immagine rituale del padre che viene scagliato giù dalla rupe dal figlio, padre agonizzante che dunque viene aiutato a morire, apparentemente una accondiscendenza, una legalizzazione dell’eutanasia, improvvisamente, immediatamente dopo, dice: “Ebbene, si è trattato di un sogno; nulla è accaduto”. Non c’è il fatto. Non c’è l’assassinio, dunque.
Introduce la scena di un parricidio senza assassinio, un parricidio simbolico senza cadavere, senza spargimento di sangue, senza la necessità che l’uno debba far fuori l’altro per la sua esistenza. E questa immagine di questo parricidio senza fatto, parricidio quindi di sogno, si stempera immediatamente nella sua analisi della lingua, della lingua sarda, una lingua che dice è costituita dal faveddare insuspu, dal parlare per nascondimento, dunque da un modo di parlare onirico in cui intervengono metafore, metonimie, ossimori, sineddoche, ironia, dunque una lingua che costringe l’uditore, l’ascoltatore, l’interlocutore, a uno sforzo per capire, una lingua, dunque, che comporta una comunicazione mai diretta.
Ora, questo, nell’era della presunta epoca della comunicazione diretta, dei mezzi di comunicazione, dove da tutte le parti giunge una sorta di bombardamento a dire che la comunicazione dev’essere facile, dev’essere diretta, dev’essere senza scantonamenti, perché tutti si devono comprendere quasi senza neanche dovere aprire bocca, ebbene un giornalista, un intellettuale, uno scrittore dice no: impossibile la trasparenza della lingua.
La comunicazione non è mai diretta. E sembra quasi riprendere Machiavelli quando distingue tra la lingua dei litiganti, la lingua personale di ognuno, e invece la lingua diplomatica, la lingua che nessuno può credere di padroneggiare, lingua che esige un dispositivo intellettuale.
Ora, la questione è che Bandinu ci dice semplicemente, ma in maniera sorprendente, che questa lingua diplomatica è la lingua dei pastori sardi, che mai potrebbero parlare direttamente perché la lingua della comunicazione diretta è la lingua che fa danni, è la lingua che fa tirar fuori il coltello. E dunque la lingua del pastore è la lingua del faveddare insuspu, la lingua dove interviene la metafora, la metonimia, la catacresi, l’ossimoro, insomma dove ciascuna figura retorica è imprescindibile.
E già questo è qualcosa di assolutamente sorprendente. “Lingua sarda — dice — come lingua della particolarità e del parlare specifico”, quindi lingua che esige l’ascolto, esige il dispositivo di ascolto, non è la lingua della comprensione reciproca; anzi, è lingua senza comprensione. Non c’è più comprensione. Quindi è un libro che attraverso i pretesti facili, apparentemente banali, dà un messaggio forte, fortissimo, un messaggio intellettuale straordinario, un libro che, pur partendo dalla nomea di antropologo che ha Bandinu per i suoi studi, per la sua formazione letteraria, per le sue ricerche, eccetera, non ha nulla di antropologico nel senso della disciplina antropologica: non si rifà a un sapere già dato, esige una continua produzione di sapere che dunque va in direzione della novità.
Questo anche quando parla della donna. Pur elencando le varie mitologie che compaiono nella cultura sarda a proposito della donna, la donna maga, la donna vampiro, la donna mosca bianca, la donna strega, ebbene indica come proprietà della donna sarda, ma quindi della stirpe delle donne, la verginità, la verginità in cui è inclusa anche la maternità, quindi propone questa immagine della donna vergine, madre. È uno squarcio straordinario, perché rompe con ogni mitologia greca, accoglie il mito di Maria, ma in maniera non religiosa, in maniera culturale.
Non c’è macchia possibile, perché questa donna, come ciascuna cosa, come la lingua, come ciascun elemento della vita, procede dall’integrità, dall’intero; intero che mai può venir tolto, non c’è modo di abolire l’intero. Ed è questa la globalizzazione di cui parla e in cui si inscrive anche la Sardegna con il suo mito, la sua cultura, quindi Sardegna non estranea al continente, non estranea all’Europa, ma anzi integrante, integrante con la sua cultura, con le sue tradizioni.
E della madre pone così distrattamente un’indicazione, dove non si tratta per nulla della tanto sbandierata relazione madre-bambino; no, nessuna relazione, nessuna simbiosi, anzi distanziamento madre-bambino, perché per il bambino si tratta dello svezzamento linguistico. Ciò che importa è lo svezzamento linguistico, cioè l’introduzione del bambino nel dispositivo intellettuale, nel dispositivo di questa lingua che non comporta la facile comunicazione, non comporta l’accomunamento, non comporta la comunità, ma la singolarità e la specificità.
Ora, sono elementi di assoluta novità, assolutamente non disciplinari, assolutamente non facilmente reperibili nella produzione letteraria, giornalistica, scritturale, romanzesca di questi giorni; è un contributo assoluto alla civiltà attuale. Altri elementi che ciascuno di voi potrà trovare leggendo il libro, dice: “Non c’è più predestinazione, non c’è più psicologia, non c’è più psicosomatica.” Sono formulazioni impegnative che aprono uno squarcio nuovo nella vita di ciascuno.
È per questo che leggere questo libro è essenziale; è essenziale oggi per chi si sente sardo, per chi è sardo, ma soprattutto per chi ritiene di essere cittadino di questa altra terra, che è la terra della parola, la terra dunque non terrestre, dove si tratta dell’humanitas come altra regione del cielo. Ecco, il quadro che emerge della Sardegna è di questa altra regione del cielo in cui si tratta della parola, della sua logica e della sua civiltà.
M.A.V. Ringrazio moltissimo il dottor Ruggero Chinaglia, ma adesso prima di passare la parola al professor Bachisio Bandinu, mi prendo il mio tempo, che non ho avuto Padova nelle altre conferenze e quindi leggo la mia lettura, pur parziale, perché effettivamente è un libro molto impegnativo. Allora, è un libro bellissimo, pungente e dolce, che va dalla fabula al saggio, e anche un libro difficile: enuncia la difficoltà insormontabile che è quella difficoltà senza cui però non ci sarebbe vita, l’ostacolo insuperabile che trae a pensare, che trae a riflettere, che chiama il fare.
Radici infinite muovono e questionano la sua isola, la Sardegna, e trovano bivi, trivi e incroci, amplessi per nuove produzioni come di talea, certi fiori, inedite combinazioni che, arbitrarie nel racconto, tessono un’altra storia narrando la parola stile, il mito: da dove vengono le cose? E raccontando, incontra la scena: dove vanno le cose? C’è bisogno di questo viaggio, viaggio di qualifica della vita, e Bandinu indaga il corpo e inscena, e indaga maschere.
Ascolta la voce del vento, che come scrive l’autore, crea sul fantasma, il fantasma. “Non ascoltare la voce mascherata del vento, ti perderesti”. Visione falsata, ascolto ambiguo, intoglibile malinteso, perché qualcosa, nell’onda che il vento riporta, si ascolti e si oda” o ancora, e quindi ricorda il mio paese, io vengo da Breganze, “dietro casa, lì, sul ponte del torrente Ciorm, una pietra per lavatoio, la voce dal ponte scimbeggiava(?) messaggi …———–
E, allora, passo la parola a lui. Passo la parola allora a Bachisio Bandinu.
Bachisio Bandinu. Per ringraziare ciascuno di voi per la presenza e per questa occasione di dibattito, per ringraziare l’organizzatrice, la conduttrice, per una serata così indovinata, Maria Antonietta Viero, e le belle relazioni, quella di Mario Bagnara, che ha toccato i punti fondamentali e con uno stile che proprio coglieva le inquietudini del libro, l’inquietudine di chi lo ha scritto, e Ruggero Chinaglia con questa interpretazione osservata da un’angolatura particolare che è la cifrematica e che segue le orme, sormina, per vedere da dove vengono e dove vanno le cose.
E un ringraziamento affettuoso per Remigio Sedda, per Gian Vittorio Màsala, perché ho avuto vent’anni di esperienza di emigrazione. Ed è stato del tutto casuale quel mio ritorno in Sardegna. Sono stato appunto presidente di circolo; a Varese ho vissuto sempre questa esperienza di emigrazione come esperienza nostra, al di là dei motivi dell’emigrare, ma come l’emigrato vive tra nuova esperienza del posto di lavoro dove si integra, dove si adatta e dove dà testimonianza di sé e, allo stesso tempo, questo rapporto profondo con la terra che ha lasciato.
Giudisterro, questo sentimento che non tramonta e che si elabora, e che viene vissuto, così, in una duplice esperienza di appartenenza e di abbandono.
Parlare del libro a voi. Ero a Mamuiada il 17 a presentare il libro e a parlare del calendario che Mamuiada fa ogni anno, calendario delle maschere, e ho riosservato le maschere. Ecco, per capire il momento della vestizione, non è una mascherina che voi mettete “E io sono Zorro”, o un’altra mascherina e dite: “Io sono Arlecchino”. Così, d’incanto, sto giocando, dietro c’è il mio volto. Io ho coscienza che sto mettendo una maschera, e posso toglierla, e voi potete dirmi: “Chi sei mascherina?” E potete osare di togliermi la maschera, per riconoscermi, e dire: “È Giovanni, è Andrea, è Carlo”. Nella vestizione a Mamuiada, riosservavo, dopo averla vista tanti anni, dopo aver girato un documentario, che mi piacerebbe far rivedere, col regista Sanna che ha girato quel film, poi, interessante della destinazione, della storia del carabiniere, abbiamo girato con Sanna, vent’anni fa, un documentario sulle maschere, per interrogarci, per dire della diversità di questa maschera rispetto a tutte le altre maschere.
E, nel vestirsi, c’è una contrazione del corpo: le cintole si stringono, deve espellere l’aria, perché sta venendo una trasformazione. La mastucca viene messa a rovescio, per dire di una inversione. Un uomo sta cambiando, non è più uomo tra poco. E, quando la maschera scende sul volto, nei boes di Ottana, un uomo è diventato animale dio, il bue, il toro, il Minotauro. Quindi, vedete che questo processo di vestizione è una metamorfosi, somine non est prosomine, mentre nella maschera normale c’è un io, c’è un’identità che si nasconde, che si svela, gioca a nascondino. Nella maschera dei turpos di Orotelli, dei boes e merdures di Ottana e dei mamutones di Mamuiada non c’è nessun gioco di nascondimento. C’è una radicale mutazione. E questo inquieta, inquieta perché dice che questa identità sarda è disidentità, che questa paura e questo desiderio che hanno i sardi di mascherarsi da dove viene? Paura e desiderio.
Voi osservate il parlare nei nostri paesi. Seguite un gruppo di pastori nel giro dei bar, in paese, e osservate come producono, come conducono i discorsi o come vengono condotti dalla parola, dal modo di parlare. C’è una frase inquietante: Tue deves cumprennere prima de tilanarrere (tu devi capire prima che io te la dica). È terribile questa frase: vuole dire che, mentre io ti parlo, tu sei impegnato a decifrare, a tentare di decifrare, sei portato a inseguire parola, frase, per vedere nelle deviazioni, per vedere dove va a parare, in questo continuo movimento. Compresa las. Non ha compreso cus. Non disemus, la scasticato. Non disemus, cioè non sei capace di seguire il labirinto del linguaggio. Bi la mannata a narrere, gliel’ha mandata a dire, ha fatto carambola, ha fatto eco la parola, rimbalza. Tu sei capace di seguirla? A bisese ci sei? Sesabistu? Ha bistu? Non solo ha veduto: indica uno stare allerta perché la parola percorre un cammino, e tu non la domini mai interamente, compresa lasa. Bi lannata o non bi lannata, gliela detta o non gliela detta, ma ha percorso uno spazio di senso, senza apparente chiarezza. A te spetta intuire, seguire il cammino della parola, vedere quali percorsi essa faccia. Oh, guardate la maschera della vergogna.
In Sardegna si amministra bene il complesso di colpa: este gurpa mea, è gurpa tua, la faida, unumor tu nostru, unumor tu ostru, e c’è un’economia dell’andata e ritorno. Como toccata a noisis, poi toccata a voisis. Vedete, il gioco della corrispondenza mortale. Unumor tin domo mea e unumor tin domo tua. Questo gioco è mortale, perché è fondato sulla morte. Non si parlano le due famiglie avversarie, non c’è parola, non c’è relazione. Zon torrato zappezin el minores (sono tornati come bambini), come cioè incapaci della parola, incapaci di comunicare. Ora, se voi guardate, la colpa è ben gestita, la vergogna no. Il sardo ha fortissimo questo complesso di vergogna, lo sguardo dell’altro.
Insostenibile lo sguardo, indecifrabile, da individuare ogni volta, qua e là nella sua traiettoria. Ma cosa voleva dire quello sguardo? Non è chiaro cosa voleva dire. Lo sguardo è obliquo, ha l’occhio storto, il malocchio, l’occhio malo. Non hai lo sguardo, così, ad occhi aperti, spalancati, allampanati. Con gli occhi aperti così, non vedi, non vedi nulla. Va l’occhio, perché sia sguardo e non sia occhio, va presa un’apertura e una chiusura particolare, è la messa a fuoco dello sguardo obliquo, mettere a fuoco per vedere bene. È uno sguardo che in qualche modo sorprende.
No me ne so bisat (non me ne sono accorto). È uno sguardo a cui bisogna rispondere con altri sguardi, è un gioco sottile di sguardi. Si ha paura dello sguardo della gente. Guardate che in sardo diventano tutti verbi sadici persecutori, persecutivi. Zoco che balla, l’occhio è una pallottola che colpisce, ferisce, penetra, attraversa le carni. Mincallessi saspetteristi de soco. La lettura più difficile è quella delle ciglia e delle sopracciglia. Tentare di indovinare la traiettoria dello sguardo è tentare di porti in relazione con la parola, osservando le ciglia, le sopracciglia, sa pipirista de soco. Ed ecco il complesso di vergogna, zasente mi critica. Matta riduittu a visera (mi ha ridotto a maschera lo sguardo della gente). Za critica mi spiniti, minnudata (mi denuda).
La critica della gente è insostenibile nei nostri paesi, era insostenibile, e ancora in parte lo è. È impossibile gestire lo sguardo. O tante altre. Da noi esiste zu ballo zoppo. Il ballo sardo, che è così austero e a un tempo ritmato, a un certo punto atolo so pimine (il verso zoppo, il ballo zoppo), è il saltello del mamuthone che è un saltello impastoiato, iuca sa tropea. Ma che cos’è questa tropea? Cos’è questa pastoia che ci rende, noi sardi, ci rende chincustanneu, anneu? Chiudi, ennoitis, pliin sannneo, questo tarlo roditore e questa inquietudine, per cui c’è sempre una maschera che si frappone nel linguaggio, nei comportamenti. E testu stanneu, cheste intro insucoro e so sardo. Da dove proviene questa capacità resistenziale di cui parla niil (?), questa resistenza, questo resistere, questo essere indomabili, questo essere testardi. Da dove proviene? Quali sono le inquietudini più profonde del sardo?
E ancora: questo capitolo sulla donna porta dei fraintendimenti. Il 20 è stato presentato a Cagliari questo capitolo dalle donne dell’IFOLD, istituto formazione donne, ed stato molto interessante, perché la relatrice, la filosofa Maria Giovanna Piano ha colto davvero che questo capitolo è un inno alla donna, è una rivoluzione operata dalla donna, cioè femina este capra. Quando io ho portato mia moglie, la mia fidanzata a Vitti – mia moglie è marchigiana – babbo ha chiesto a mia sorella: “Ma este persona seria o este una capra?” Ecco, il concetto di capra è un concetto negativo in Sardegna, anche spesso, nel linguaggio comune. Este una capra vuol dire este una donna di poca serietà e, soprattutto sul versante della sessualità, la coseria, una putita, puzzinosa, putinica.
Sempre accezioni di sporcizia legate al femminile, alla colpa, al peccato. Invece voi provate a vedere l’altra faccia della luna donna. Capra vuol dire che non è pecora. La pecora è gregge, pascola sulla tanca ai confini, a Samandra, a Murghere, brucare per terra. La capra salta i muri, è libera, va nei precipizi e non cade. Ci ha il piede maleito che pede capra, astuto come il piede della capra. La capra non è mai addomesticabile del tutto, anche le capre dell’ovile, è sempre in qualche modo indomita: non la domano mai. L’uomo in sostanza ha cercato sempre di chiudere la donna dentro uno spazio, uno spazio di senso, uno spazio morale. Per l’uomo, conoscere donne è scoprire mondi, ma la donna, no, non deve scoprire uomini. Per l’uomo, è un arricchimento il conoscere donne, per la donna no. Chissà perché. Chissà perché. Perché?
Allora, l’uomo ha sempre tentato di chiudere la donna isadomo esafamiglia. Mere de domo, mere eferacapa, è schiava, padrona e schiava, perché l’uomo ha paura della libertà della donna, e quindi ne delimita un perimetro che consacra con simboli fallici, con i bètili, e dice: “Tu sei regina, ma dentro questo spazio. Leiros, non devi uscire dal circolo familiare. Invece la donna non è mai domabile. Estibentera, cioè inventa. Ma sapete cosa vuol dire? Quale bellezza ha questa parola, zaen estibentera, inventa, perché la donna è creatrice, creatrice di vita: inventa la vita. Este cuentera, cuentera su cuentu, la chiacchiera, ma nel senso di cuentera che dice sempre delle novità, che porta l’indizio a che diventi in traiettoria di una prova. Esti scappata, cioè senza capio, unebba, una cavalla selvaggia. Beh, tutte queste caratterizzazioni della donna dicono che la donna in Sardegna è davvero la figura dominante.
La professoressa Nerei Derrudas, la grande psichiatra, è presidente della psichiatria criminale in Italia, ha scritto questo bellissimo libro L’isola dei coralli, dove analizza la società sarda come società matricentica che ha al centro la donna; ma non a livello sociologico dell’importanza nell’educazione dei figli, nelle relazioni sociali — è lei che ha fatto tutto, la dimensione del dono — si può dire che lei è la conduttrice, l’educatrice, ma non è solo in quel senso.
È nel senso che a lei appartengono tratti distintivi, caratteri che non appartengono alla dimensione maschile. È questa differenza che conta. Quando analizza la donna in Grazia Deledda, Nerei Nerrudas osserva che è la donna il personaggio fondamentale di tutti i personaggi della Deledda: è la madre, la madre che dà la vita, perché il figlio viva, nel romanzo Cenere, la madre che vuole salvare il figlio prete dalla tentazione di un’altra donna, perché ha giurato fedeltà alla donna, a Maria. E così fa un’analisi di tutte queste donne. Mette in rilievo la grandezza della figura della madre.
È interessante la etnologia sarda, zamama esu zole, zamama esu vento, zamama esu spussoso dell’acqua, le panas che lavano i panni sporchi dei figlioletti morti in parto. Sasurbile che va a succhiare il sangue e il midollo di bambini piccoli, perché a lei è negata la maternità. Tutta l’etnologia sarda è piena di mamme, e di mamme cattive. È interessante questo discorso della mamma cattiva, resa cattiva da una psicologia del conformismo, da una psicologia maschile, da una psicologia del dover essere, e invece è questa ambivalenza della madre, della donna fata e della donna strega.
Nello stesso tempo la donna è fata e strega, capace di dare la vita al figlio e di negare il latte; è questa ricchezza, questo ossimoro, questa ambivalenza che la rende nell’intelligere, zaemina cunprennete deleta: comprende subito per sue traiettorie di perlustrazione labirintiche, al di là e ben superiore alla presunta razionalità maschile. Ecco allora che femina, zafemina este capra, riacquista tutto il suo significato positivo dell’intelligere, dell’intuire, del cogliere i percorsi labirintici, del capire prima del bilunarrere, prima di dirglielo.
E ancora lo specchio. Ma non vorrei dilungarmi troppo, perché altrimenti metto in crisi la vostra cena. Ma lo specchio nella società tradizionale sarda era vietato. Mia nonna era la donna del telaio. Lo specchio è il telaio, non ha riflesso. Lo specchio è il battito del pedale del telaio e della tessitura, quello è lo specchio. Mia sorella, la nipote, negli anni ‘60, ecco, si guarda allo specchio.
Mia nonna sta, col fuso e con occhia, con occhio, sta facendo un paio di calze di lana, le uresi, e mia sorella si sta preparando per andare nel paese, in piazza, isucur sa passizzata, la passeggiata, e si guarda allo specchio, e guarda il viso, petto, poi la schiena, si gira, avanza, torna indietro, non è contenta di sé; ogni tanto si dà colpetti, poi s’acconsasa, sauneddala, ravvardetta, se và bene, non va bene, poi s’abbrusa, poi la cipolla, nosocorcuddo, è inquieta col proprio corpo. Non le risponde bene su corpo sisispecu. Mia nonna la guarda per un momento e le dice: “Ma perché stai combattendo col tuo corpo? Guarda che il tuo corpo è intero.”
Invece mia sorella sa che il suo corpo nel corso dei bitti non è più intero, perché i ragazzi suoi coetanei l’hanno spezzato il corpo, e guardano il seno, e guardano i fianchi, e guardano il volto, guardano le gambe e hanno frantumato l’unità del corpo per come lo immaginava nonna. Lo specchio crede di restituire l’immagine, e dice: “Io sono io”. E, nonostante questo, inquieta, si conosce e non si conosce. Tenta di riconoscersi, vuonna bene. Ecco, voi como hanna soccorso e vizi, e brago a bragare.
Però, allo stesso tempo, è inquieta, non si riconosce del tutto. Questo è il capovolgimento, questa è la mutazione antropologica della Sardegna negli anni ‘60, quando mia sorella ha buttato i mobili antichi di nonna, portandoli in cantina, i sunnacro nel fondaco, e ha comprato il buffè e il controbuffè, e i riflettenti con gli specchi lucidi. E mia nonna, quando ha visto il mobiliere arrivare con il controbuffè che teneva così in mano, è impallidita, perché i mobili suoi invece erano pesanti, fatti dal falegname, ed erano pesanti nel senso della durata del tempo.
E invece questo che sta portando, esto noiucheto, un giocattolo, il lucore, il lucidore, non c’è sostanza, non c’è tempo, non ce n’è tempo, non c’è peso, non c’è consistenza. Oisa soven tutte le oie. La gioventù di oggi. Questi sono gli anni ‘60, gli anni ’70. Ora c’ è stato un ripensamento. E allora, ecco, i mobili dal fondaco sono ritornati, son mobile es anticos. La cassapanca è ridiventata centrale, zottomana fondamentale, zocumò, zocomò, la credenza, la credenzì estorrà. Nel 1990, il mobili del fondaco sono ritornati ad ammobiliare una stanza. Questi percorsi del tempo, queste trasformazioni.
Così la lingua l’abbiamo rifiutata negli anni ’60: parlare in italiano, ma parlare in sardo è rozzo. E oggi la lingua, in trecentoventicinque scuole della Sardegna, l’anno scorso, hanno presentato programmi in lingua sarda, teatro in lingua sarda, e canzoni in lingua sarda. Oggi, tutti voi osservate le canzoni moderne, anche in un rapporto lingua e rock, e jazz e rap, c’è, è la lingua sarda; sta tornando non contro l’italiano. L’italiano, il sardo e l’inglese, e l’arabo e il russo. Metalinbazzo su za disuria (molti linguaggi in sapienza).
Cos’è questo tornare? Nessuno come l’emigrato parla bene il sardo, molto più dei sardi residenti, perché hanno bloccato la lingua nel momento della partenza. Se vedu un sardo, oie vedata emigrato. Allora, per l’emigrato, oggi si pone questo: come riscoprire una Sardegna, come riscoprire sé stesso riscoprendo la Sardegna differente, diversa, e farci i conti; niente orgoglio di una cosiddetta Sardegna turistica, che tutti ammirano. La Sardegna è ben più profonda della faccia apparente del turismo. Inconcepibile il mamuthones nella piazzetta di Porto Cervo. Ecco, tutto questo.
Sequestro di persona. Ormai non c’è più sequestro di persona in Sardegna. Dal caso della Melis, a Tortolì, non c’è stato più un sequestro, perché quel sequestro non apparteneva, non apparteneva alla tradizione sarda: c’era implicata la massoneria, c’era implicata l’intellettualità, gli avvocati, l’editore dell’unione Sarda Gauso. C’era tutto un universo che non era più sardo: era il canto del cigno. Così la faida: è diversa la faida tradizionale dalla faida attuale. Ecco, com’è che sta avvenendo questo procedimento di maschere differenti?
Diceva bene Mario Bagnara. Io stavo facendo una ricerca per una pubblicazione sul sequestro di persona, me l’aveva chiesto il Rotari club di Nuoro, perché il presidente era uno che era stato sequestrato, dalle famiglie più potenti di Nuoro. Strano caso a recatare uno de sozo porcheddu de nuvolo i Sanna. E allora, lui ha raccolto e mi ha fatto parlare con dieci sequestrati, per raccontarmi le storie. Ma effettivamente un sequestrato, quando torna in famiglia, è mascherato.
Infatti Namus Loisi, canno tortumu seguetratu, un voi modulu, cioè ritorna con la maschera bovina, è imbovato; non si inserisce più nel contesto della normalità quotidiana, perché ha vissuto mesi di sequestro con una intensità al confine con la morte, col rischio della morte. E persino la voce del carceriere era una voce confortante, drammaticamente confortante. O quando nella faida si diceva: “Ormai non c’è più possibilità di riconciliazione, (zono mascheratos). E, una volta che si ha la maschera, non è più possibile conciliare le cose.
Vedete, di tutte queste cose, nel libro, io parlo, raccontando per molti aspetti racconti che voi conoscete, ma allo stesso tempo dentro un quadro di inquietudine che non è solo sarda, ma che riguarda comunque l’esperienza di vita di ciascuno, di un veneto, di un lombardo, di un tedesco, perché ci interroga quale rapporto c’è tra faccia, volto, e maschera. Grazie.
M.A.V. Ecco. C’è qualche domanda in sala, qualcuno che vuole fare una domanda al professor Bandinu? Altrimenti, non so, se il dottor Chinaglia è d’accordo, potrebbe leggere un pezzettino di un racconto che mi piace moltissimo riguardo Franziscu.
R.C. Va bene.
B.B. Franziscu è il matto del paese — ogni paese ha il suo matto — ma viveva nella società, era mio compagno di giochi. Non era espulso dalla società. Era diverso, strano, perturbante, aveva uno sguardo differente, era dentro la comunità. E invece, poi, fu portato in manicomio con i servizi sociali, espulso. L’abbiamo perduto, non era più con noi.
M.A.V. Sì, un pezzetto.
R.C. Allora, La maschera del folle. “Un mamuthone attraversa il tempo del paese: è Franziscu, il matto. Maschera sintomatica, figura straniante. Ogni comunità ha un folle che la salva dall’essere communitas, dal pensare e fare in comune e in accordo. Franziscu, il castigato, il destinato, sosta spesso a cavalcioni sulla sponda del muraglione che divide la campagna dal centro abitato. Intervallo separante. Funzione vuota della relazione campu-vidda (campagna-paese). Campu il regno dell’uomo pastore, villa (vidda) il luogo della donna massaia, limite che indica la differenza sessuale.
Il matto occupa questo tratto differenziale, come il ponte, come l’immondezzaio. Franziscu fissa la bocca del ponte, dove abita la Mamma del sole, un fantasma che emette luce e ombra, che accarezza e inghiotte i bambini. Con movimento cadenzato del mento, il folle ripete la sua nenia: Franziscu, su maccu de sa vidda (il matto del paese) per tre volte, poi un respiro e ancora per tre volte. Tra canto e silenzio sposta lo sguardo dall’imboccatura del ponte alla fuga della strada.
I pastori rientrano dall’ovile, gli lanciano battute umoristiche, ma non li degna neppure di uno sguardo. Appena intravede una persona sconosciuta, s’istranzu, un estraneo, gli corre incontro cantando la sua nenia: su maccu de sa vidda… su maccu… su maccu. L’ospite, imbarazzato, lo invita ad allontanarsi, perché non vuole avere a che fare col matto. Si trova a disagio per la presenza e per la canzone che non sa se prendere come invito all’entrata o come avvertimento.
Senza ottenere rimedio, cerca la via del dialogo e gli fa domande: figlia di chi sei, cuius es? Dov’è la tua dimora? Ma Franziscu prosegue il suo ritmo: su maccu de sa vidda… su maccu… su maccu. Davanti alla prima casa, il folle gli si para davanti con lo sguardo obliquo e lo mette in guardia: intra, intra, attentu mih (entra, entra, ma stai attento), semus totu maccos… maccos (siamo tutti matti). La gente del paese era divertita e disturbata che il matto facesse da nunzio di messaggi insensati agli estranei. Ma sopportava tra sarcasmo e disappunto, assistendo all’inversione del gioco.
Nella tradizione, l’ospitalità è sacra. S’istranzu è garantito libero da ogni responsabilità, è affrancato da qualsiasi obbligo, purché dichiari la sua identità, da dove viene e perché giunga in paese. Salvacondotto per un tempo di passaggio. Franziscu, il matto, non chiede nome, provenienza, motivazioni, semplicemente avvisa che l’entrata è non senza rischio e con esperienza d’imprevisti.
Con il poeta sembra dire “non t’inganni l’ampiezza dell’entrare”e pone il soggiorno come passaggio, come percorso del tempo. L’estraneo conservi la sua estraneità al luogo, non metta radici genealogiche e non si costruisca una dimora come specchio d’identità. Chi si fa sedurre dall’ospitalità e dall’affrancamento smarrisce il proprio itinerario e rinuncia alla follia dell’errare”. E poi prosegue. E per vedere come va, per così dire, a finire, ciascuno può leggere…
M.A.V. …comprando il libro che è nella sala. Magari, così, comincia la lettura già stasera, e poi può proseguire. In fondo alla sala ci sono i libri e, quindi, chi volesse acquistarlo, il professor Bandinu può fare la dedica, e il professore ringrazia, ma anche ciascuno di noi ringrazia veramente di cuore questo accoglimento. Si sente quasi come in Sardegna, o no?
B.B. E sì.
M.A.V. Allora, ringrazio ciascuno di voi, ringrazio naturalmente ciascuno dei relatori e chi volesse appunto approfittare della presenza del professore, può arrivare qui con il libro e si fa fare la dedica. Buonasera.