Dio e la poesia
- Battocchio Riccardo, Bloch John, Damiani Rolando, Locci Aharon Adolfo
24 aprile 2005, conferenza Dio e la poesia di John Bloch, scrittore, fiscalista, biblista. Interventi di Riccardo Battocchio, direttore della Biblioteca del Seminario arcivescovile di Padova, Ruggero Chinaglia, cifrematico, editore, Rolando Damiani, docente di letteratura all’Università di Padova, Aharon Adolfo Locci, rabbino capo della comunità ebraica di Padova. La conferenza si tiene nella Sala degli Anziani di Palazzo Moroni, a Padova, con il Patrocinio della Regione del Veneto e del Comune di Padova.
JOHN BLOCH
Dio e la poesia
coordina
- Ruggero Chinaglia
relatori
- Rolando Damiani, docente di letteratura all’Università di Padova
- Aharon Adolfo Locci, rabbino capo della comunità ebraica di Padova
- Don Riccardo Battocchio, direttore della Biblioteca del Seminario arcivescovile di Padova
- John Bloch, fiscalista, biblista
Ruggero Chinaglia Buonasera. Dibattiamo questa sera sul libro di John Bloch, Dio e la poesia, che è il frutto di un laboratorio editoriale. Dio e la poesia è un titolo – e un tema – sicuramente impegnativo, che attraversa varie questioni, non già di questa o quella religione, ma questioni della civiltà stessa, questioni che sorgono dalla logica della parola, dalla logica della parola originaria e che interpellano ciascuno nel suo statuto di lettore, di intellettuale, di scrittore; di “non credente” rispetto a una verità ultima, ma di intellettuale perché in viaggio, come lo è ciascuna cosa, e nel suo statuto di ricercatore.
A aiutarci, questa sera, nell’esplorare il libro c’è Rolando Damiani, docente di letteratura all’Università di Padova, il rabbino capo della comunità ebraica di Padova, Aharon Adolfo Locci e don Riccardo Battocchio, direttore della biblioteca del Seminario arcivescovile di Padova. Invito allora all’intervento Rolando Damiani.
Rolando Damiani Grazie. Penso che il rabbino e il professore di teologia sarebbero certissimamente più adatti di me a introdurre, comunque io mi limiterò a una schedula e cederò immediatamente la parola agli studiosi, che credo abbiano effettivamente una particolare competenza per intervenire su questo volume. Il professor Chinaglia giustamente notava la “densità” di quest’opera, cioè il tema impervio: Dio e la poesia. Io credo che il titolo – e qui l’autore ce lo spiegherà meglio – vada interpretato nel senso del Dio come l’orizzonte originario, la figura originaria da cui proviene il senso, senso con la S maiuscola, cui la poesia può alludere, dalla quale essa può discendere, oppure anche allontanarsi.
Io non ho letto questo libro in una prospettiva, diciamo così, “religiosa e teologica”, benché di teologia, di religione, di sapienza antica, di tradizioni il libro sia continuamente attraversato. L’ho letto anche – e questa può essere anche una lettura limitativa – come un saggio su alcuni aspetti essenziali: non solo dell’idea, del concetto proprio di poesia dalle origini della civiltà, nei due versanti di Atene e di Gerusalemme, che sono i nostri due poli, ma anche di una considerazione sulla poesia, sulla scorta anche del pensiero moderno e contemporaneo, nel senso che la questione della poesia a partire dalla Roma antica diventa una questione conoscitiva, profondamente collegata anche a una dottrina e a un sapere. Su questo ci si può anche interrogare molto, però il grande rilancio attorno alla questione della poesia ha origine nell”800 attraverso la speculazione romantica, su cui si innesta anche una ripresa di concetti propri della classicità e anche del cristianesimo, perché noi sappiamo che il romanticismo ha anche questa dimensione.
Mi pare che questo libro affronti la grande questione della stabilità dell’ineffabile. In fondo, è questo il grande problema: poesia che è forma di conoscenza, è via conoscitiva, filosofica per accedere a un senso o per denotarne la perdita. In effetti, nel volume troviamo delle presenze rilevanti di poeti contemporanei: troviamo Montale, Luzi, Betocchi, anche con delle belle citazioni che ho molto ammirato. E, in questo, Bloch rivela una sensibilità notevole non solo d’interprete, ma anche di lettore, che quindi sta attento ai valori estetici, che sono sempre valori conoscitivi. Poi, una presenza che mi pare molto significativa è quella di Jabès, il quale penso sia l’autore attorno a cui ruota la questione proposta del libro, cioè il problema della traccia, della perdita della traccia, del deserto e la grande questione sul soggetto che scrive, chi scrive, chi legge; insomma, grandi questioni del pensare, oltre che del poetare, che vengono riproposte.
Da questo punto di vista, il libro veramente si qualifica proprio per questa messa a punto sui fondamentali risvolti speculativi dell’attività poetica: la poesia è poesia dotta, essenzialmente, nel senso che la poesia ha sempre un suo entroterra, un suo “nascondimento” da cui emerge, e direi che in particolare – come giustamente fa notare Bloch – questo per il poeta moderno è una condizione basilare della ricerca di tipo speculativo. Chiaramente vi sono moltissime questioni intorno a questo discorso; il libro si dà una propria linea e direi che la percorre con grande perspicacia, a volte per forza di cose, per la sua forma saggistica, attraverso anche delle scorciatoie logiche che l’autore domina, ma che il lettore fa un po’ difficoltà a intendere, perché sono come delle sintesi, talvolta anche vertiginose, di pensiero.
Dicevo prima, che una questione che forse poteva essere posta, e che è quella poi di tanti poeti sommi della modernità, da Leopardi a Mallarmè fino ai nostri, ai grandi russi e fino ai più recenti, è se la letteratura non sia il sapere che alla fine ingloba tutto. Questo è un grande argomento, ma, in un certo senso, un libro come Dio e la poesia lo può proporre: se la letteratura non sia il sapere, la forma, l’attività espressiva rivelatrice del soggetto, dell’anima che, in un certo senso, eredita anche gli antichi saperi. Certo, è un discorso – e me ne rendo conto – molto azzardato e che io non oso fare per sommo rispetto dinanzi a due rappresentanti di grandiosi saperi e pensieri religiosi, che sono il nostro patrimonio fondamentale, però ci sarebbe anche questo argomento. Io mi fermerei qui, se permettete.
R.C. Bene. Abbiamo già un primo contributo, che indica il varco in cui questo libro si situa, ossia tra Gerusalemme e Atene. Varco che comporta per un verso la questione ebraica, la questione del nome, la questione del testo, da cui anche quello cristiano procede, per l’altro verso la questione della gnosi come questione ateniese, quindi la questione di una conoscenza come possibile. Una sorta di confronto, dunque, tra la questione dell’originario, che con Gerusalemme si avvia, e la questione ontologica che, invece, Atene vorrebbe contrapporre a questa originarietà della parola. Annotiamo questo primo contributo, e invito a prendere la parola il rabbino Locci.
Aharon Adolfo Locci Mi sono stati fatti dei complimenti che non merito, nel senso che non nascondo una sorta di stupore nell’aver letto alcune pagine di questo libro. Lo stupore viene da chi assolutamente non è esperto di poesia e, come religioso, forse non posso dire neanche di essere esperto di Dio. Quindi, probabilmente è necessaria un’analisi al di sopra di queste due parti che vengono in qualche maniera relazionate. Riflettevo, mentre parlava il professore, e guardavo il titolo del libro, Dio e la poesia.
E allora ci possono essere due lenti focali nel guardare questo titolo: la lente focale religiosa, cioè della relazione con Dio del gerosolimitano, che può dire “Dio è poesia”, e quella dello gnostico che dice “La poesia è Dio”; e questa espressione è comprensibile, o questo pensiero modesto, mio, personale è comprensibile, se analizziamo semplicemente un dizionario che abbiamo in casa alla voce “poesia”, come ho fatto io oggi pomeriggio. Vediamo nel nostro dizionario della lingua italiana che cosa si dice alla voce “poesia” e alla voce “dio”. Alla voce “dio” dice: “Secondo la religione cristiana e altre monoteiste – quindi prende anche una posizione personale – principio trascendente. Dio creatore del cielo e della terra e di tutto ciò che esiste”, ecc. Comunque, principio trascendente. Alla voce “poesia”, invece, troviamo questi termini: “L’espressione metaforica di contenuti umani in corrispondenza di peculiari schemi ritmici e stilistici” e in contrapposizione, eventualmente, anche alla prosa.
Poi abbiamo una definizione particolareggiata di che cos’è la poesia: “Il momento in cui si realizzano individualmente, e si rendono intelligibili le possibilità creatrici e suggestive delle intuizioni e della fantasia”. In altri termini, quando una persona scrive un componimento, può definire una di queste pagine una pagina ricca di poesia. Una estensione figurata ci dice che “la poesia è motivo di ispirazione, di idealizzazione, di illusione variamente sentito nell’ambito della vita e dell’esperienza”. Quindi, come vedete, in queste voci troviamo sempre il punto d’origine della poesia, cioè un qualcosa che parte dal basso e va verso l’alto, o perlomeno tende ad andare verso l’alto.
La poesia nell’ebraismo. Nella letteratura classica – e per letteratura classica nell’ebraismo s’intende la Bibbia- quindi nella prima parte della Bibbia ebraica, che è il Pentateuco, troviamo pochissime parti definite dagli studiosi “parti a ritmo poetico”: il capitolo XV dell’Esodo, la Cantica del mare. Nel libro dei Numeri, dopo il famoso episodio della roccia dove Mosè, invece di parlare alla roccia, la colpisce per far scaturire l’acqua per il popolo assetato, c’è una frase che recita “…allora cantò Mosè”, e a seguire le frasi poetiche di una sua preghiera. Andando avanti nella Bibbia, nel Libro dei Giudici, c’è la Cantica di Debora, definita dai critici biblici addirittura il testo più antico della Bibbia, cioè la composizione letteraria biblica più antica.
Perfino uno dei più famosi critici biblici teorizza la composizione del testo biblico non dall’unione di varie parti composte in tante epoche, ma in stili letterari, tra cui quello poetico. Davide è il poeta biblico per eccellenza: la tradizione ebraica gli attribuisce 150 composizioni poetiche, i salmi, ma non solo. Nel Libro dei Re, c’è la Cantica di Davide, una cantica che è lode a Dio, è preghiera a Dio, è inno a Dio per la sua salvezza. E poi troviamo il testo più difficile di tutta la Bibbia: il libro di Giobbe. Il libro di Giobbe in ebraico è tutta pura poesia, a parte il capitolo introduttivo e il capitolo finale. Il capitolo introduttivo ci dice chi era Giobbe, che cosa faceva, la volontà dell’angelo accusatore che, nella sua posizione di pubblico ministero del tribunale celeste, deve mettere davanti a Dio le negatività dell’uomo, e incita Dio a colpire questo uomo, nella presunzione che se non fosse ricco, se non avesse una buona famiglia e se non fosse sano, non sarebbe così devoto a Dio, come era. Quindi, Dio mette alla prova Giobbe, e Giobbe, in forma poetica, discute con Dio, cerca Dio, cerca la risposta da Dio: “…Vieni qui e dimmi il perché”.
C’è una differenza sostanziale in questa ricerca del perché dell’esistenza del male. Ebraicamente non si cerca il perché, o perlomeno non poeticamente. Filosoficamente si ricerca il “come mai” del male, non il perché. Nel pensiero ebraico cercare il perché del male vuol dire attribuire la responsabilità del male al di fuori dell’essere umano. Cercare la risposta al male con la domanda “come mai?” equivale, in una lettura punteggiata, cioè vocalizzata dello stesso termine in un’altra maniera, alla domanda “dove sei?”, cioè “qual è la tua responsabilità?”. La poesia si colloca allora nella posizione di strumento per la ricerca di Dio, non da un punto di vista comportamentale, ma come elevazione della nostra parola e del nostro pensiero a un livello superiore.
Altro elemento che ho colto nel libro è il riferimento biblico all'”accettazione”della Torah, dell’insegnamento di Dio, e alla famosa frase che il popolo ebraico, ai piedi del monte Sinai, pronuncia: “Faremo e ascolteremo”. Un divertente racconto talmudico parla di un rabbino babilonese, che una volta decise di salire in terra d’Israele e, non potendo aspettare che tornasse il traghettatore dall’altra sponda, per la fretta di guadare il fiume Eufrate e fare il percorso di Abramo, quando torna verso la terra della promessa, si getta nell’acqua e, nuotando, va da solo sull’altra sponda, senza aspettare il traghettatore. Un caldeo, vedendo questa scena, disse una frase di due parole – e il Talmud è famoso per il suo ermetismo – parole che esprimono un concetto che, in aramaico, vuol dire “popolo frettoloso”. E il racconto talmudico si conclude con questa frase: “Antepongono la bocca alle orecchie”. Il riferimento di questo abitante della terra tra i due fiumi è proprio a quella famosa frase: “Faremo e ascolteremo”.
Che cosa vuol dire “Faremo e ascolteremo”? C’è un concetto che viene alluso da questa frase, cioè che soltanto quando metteremo in pratica gli insegnamenti ricevuti da Dio, mettendo da parte dubbi e resistenze, potremo capire, cioè ascoltare il messaggio più profondo dell’azione. Questo era il presupposto di quel popolo che ha vissuto, secondo il racconto biblico, l’esperienza della manifestazione di Dio, un popolo che ha “visto” Dio, cioè che ha visto come si era manifestato in Egitto: la sua potenza, il passaggio del mar Rosso, la teofania sul Sinai e dove c’è un’altra frase interessantissima; si legge infatti che, in quel luogo, il popolo “vide le voci”, voci intese come le parole di Dio.
Che cosa vuol dire “vedere le voci”? Le voci si ascoltano… Oggi viviamo nell’epoca del nascondimento di Dio, cioè questa nostra ricerca di Dio non è nel sovrumano, ma nel quotidiano. La ricerca di Dio è nella natura, intorno a noi, nell’uomo, nel nostro prossimo. Viviamo questa realtà che ci dà la possibilità di invertire la situazione vissuta dal popolo ebraico in quei tempi. Oggi, si può dire che si vive l’era dell'”Ascolteremo e faremo”, cioè della ricerca dell’analisi del comportamento per avvalorarla, perché soltanto con la ricerca approfondita, anche della parte più misteriosa di questa cultura, noi entriamo nella sfera ultima, che è quella che riguarda proprio Dio. Una sfera che comunque ha una linea di demarcazione ben definita, non oltrepassabile, è avvicinabile ma non oltrepassabile.
La poesia è, a mio avviso, quello strumento letterario – a prescindere dalla prassi religiosa – che, da un punto di vista intellettuale, aiuta a tradurre in parole concetti mistici. C’è anche da aggiungere un’altra piccola questione, e cioè se la poesia sia un qualcosa da adoperare separatamente, se possa vivere separatamente rispetto a una prassi religiosa, in quanto la poesia ebraica è pura espressione della preghiera a Dio, lode a Dio, ricerca di Dio, del perdono di Dio se abbiamo peccato, come si legge in gran parte della poesia ebraica, specialmente in quella di origine spagnola, durante la famosa epoca d’oro della Spagna, dove autori come Yehudah Ha-Levi hanno dato un grandissimo contributo letterario e poetico, che è tutto inserito nei formulari di liturgia ebraica.
R.C. Ringrazio il rabbino Locci per questo suo intervento molto ricco, che indubbiamente aggiunge elementi di riflessione intorno alla questione della poesia, sia come genere letterario, ma anche come produzione o pragmatica; qualcosa che, dunque, riguarda non solo la letteratura, ma anche il programma e quel che si fa. Mi pare molto interessante questa notazione sul “Faremo e ascolteremo”, rispetto a quella che è, invece, una sorta di modalità più accredita da un’epoca, cioè “Ascolteremo e poi faremo”, che vuol dire “prima occorre sapere come fare, poi faremo”, che è quasi un’istanza gnostica.
A.A.L. Per il fare bene…
R.C. Perché c’è sempre questa storia del male da scongiurare. Allora, qui c’è proprio un elemento di dibattito: se questo “faremo e ascolteremo” non ponga un’istanza della procedura originaria della parola, che non sottostà, non teme il pericolo del male, perché il male non sta dinanzi come eventualità, ma sta alle spalle come questione dell’apertura, come bene-male. Bene-male inscindibile e non come bene-male scisso nell’eventualità di far bene o di far male. Questo è un elemento che mi pare molto interessante per il dibattito; poi vediamo di raccoglierlo. Quindi, ora invito don Riccardo Battocchio al suo intervento.
Don Riccardo Battocchio Per leggere un libro come questo, occorre una certa disponibilità a lottare con le parole o con la parola, o con gli spazi bianchi tra una parola, o una lettera, e l’altra. Vi confesso che non è stata una lettura riposante; eppure, lottare con la parola e con i segni dovrebbe essere il destino, una scelta del teologo, di chiunque si trovi a dover passare un guado, ossia vivere come è capitato a Giacobbe. Una lotta con la parola da cui si esce benedetti, ma non indenni. Nel libro compare più volte Montale; viene citata anche una sua poesia, onorata qui come “la più ardita, stupefacente, vertiginosamente metafisica tra le poesie di poesia”: Antico, sono ubriacato dalla voce.
Questo mi ha fatto venire in mente un’altra poesia del Montale più tardo, apparentemente più disincantata, quando scrive: “… per me l’ago della bilancia sei sempre tu. Mi hanno chiesto chi sei; se lo sapessi, lo direi a gran voce e sarei chiuso tra quelle sbarre donde non si esce più”. C’è chi accetta di rimanere chiuso tra quelle sbarre, c’è chi accetta di nominare Dio e magari di rivolgersi a lui con la preghiera, lo chiama “Padre nostro” e si ritrova così avvinto tra le sbarre, avvinto come San Paolo dice di sé, “avvinto dallo spirito” e, pare, in questa condizione estremamente libero. E la parola che lega colui che nomina Dio, e lo nomina come padre, può essere liberante a una condizione: a condizione che a quel padre non si arrivi per via di concetti, ma attraverso la carne.
E nel testo, nella tradizione cristiana, la carne è quella di Gesù Cristo; è quello che dà accesso al padre, la possibilità di nominare Dio rimanendo liberi. E qui si affaccia la questione, già ripresa più volte, e che attraversa tutto il nostro libro: il confronto con la gnosi, con un sapere che si propone come salvifico in quanto sapere. E qui non entro nel dibattito sulla gnosi e sulle sue origini, anzi: oggi, sembra meno urgente la questione delle origini della gnosi, se la si considera come forma religiosa autonoma, che recupera elementi delle più diverse religioni antiche, dando loro una forma di fronte all’interrogativo del male.
La gnosi, nelle sue diverse forme, ha posto il cristianesimo antico di fronte all’alternativa più radicale e, per via di contrasto, ha contribuito all’imporsi delle linee dominanti della teologia della grande chiesa, quella che viene definita con la formula ampia dell’ortodossia. Se c’è un merito della gnosi, è quello di aver costretto l’ortodossia a far valere, come discriminante per la confessione cristiana di Dio, la memoria della carne di Gesù, la memoria della storia di Gesù, individuando proprio nella carne, nella storia, nel racconto della storia di Gesù il dispositivo che permette di non fare della fede una spiritualità del sapere. E questo dispositivo, un vero e proprio operatore antignostico, è quello indicato da Paolo di Tarso, da Giovanni: è la carne di Gesù, la storia di Gesù. Ciò che era fin da principio il logos, la vita, si è fatto visibile, toccabile, nella carne, in maniera insuperabile.
Nel libro si fa riferimento più volte al dogma di Atanasio, l’unità di natura umana e divina nella persona del verbo di Dio incarnato. Ma penso, anche prima di Atanasio, a Ireneo di Lione, o a Tertulliano, per il quale la carne è il cardine della salvezza e è lì che Dio si nasconde e si rivela. La carne sono le opere e i giorni di Gesù, è la parola della scrittura; lo sono, allora –ripeto- anche i dogmi, lo sono i sacramenti della Chiesa, la cura di sé e dell’altro, l’unico comandamento in base al quale si verifica la qualità dell’amore verso Dio. La carne è la creazione, di cui l’autore della lettera ai Colossesi dichiara Cristo essere. Come questo operatore antignostico, che è antimanicheo, antispiritualista, possa funzionare anche nella poesia, lo mostra il testo di uno dei più grandi poeti dell”800 inglese, Gerard Hopkins; lo leggo perché non è molto lungo … Il titolo è La bellezza cangiante:
Gloria a Dio per le cose che ha spruzzate:
i cieli bicolori, pezzati come vacche,
la striscia roseo-biliottata della
trota in acqua, il tonfar delle castagne
– crollo di tizzi giovani nel fuoco –
e l’ali del fringuello; per le toppe
dei campi arati e dissodati, e tutti
i traffici e gli arnesi, e tutto ch’è
fuor di squadra, difforme. Impari e strambo,
tutto che muta, punto da lentiggini
(chissà come?) di fretta o di lentezza,
di dolce o d’aspro, di lucore o buio.
Quegli le esprime – lode a Lui – ch’è sola
bellezza non mutabile
(traduzione di Eugenio Montale)
Nella tradizione cristiana compare qualche volta un’istanza di de-creazione. John Bloch menziona Jacopone da Todi, Tauler, ma andrebbe segnalata in quella direzione anche un’immagine di Dio pensata indipendentemente dalla storia, come principio trascendente, il Dio della definizione del dizionario, oppure anche una mistica desiderosa di raggiungere la visione di Dio mediante progressiva astrazione dal materiale al sensitivo, al corporeo, al fantastico, magari anche dal concetto, una tendenza a prendere le distanze dalla creazione. Anche nei confronti di queste tendenze, di queste istanze, va fatto valere l’operatore antignostico, che non consente di disprezzare la carne, le cose contrarie, l’originale, l’impari, lo strambo che hanno corpo nella poesia.
R.C. Ringrazio don Riccardo Battocchio, perché ha introdotto una questione essenziale rispetto al dibattito, la questione della parola che si fa carne, dunque dell’assenza di sostanza, dell’assenza di fondamento della parola, che è condizione di una fede senza conoscenza. Questo è l’aspetto essenziale: fede che non esige la conoscenza, anzi è senza conoscenza. Allora, la domanda che viene dall’intervento di don Riccardo Battocchio è se non sia proprio Dio questo operatore in assenza di conoscenza, cioè antignostico. Questa è una prima evocazione che poniamo al dibattito.
Adesso ascoltiamo l’intervento dello scrittore.
John Bloch viene da Milano, ma in realtà è uno scrittore europeo: il suo nome viene, infatti, da molto più lontano, dall’Inghilterra, ma nel suo viaggio c’è anche la Polonia. Quindi, è uno scrittore che attraversa varie istanze culturali dell’Europa. E questo aspetto, cioè la sua internazionalità, forse non è estraneo anche al modo, agli elementi, ai temi della sua ricerca, perché, pur occupandosi in modo non religioso della letteratura del testo ebraico, del testo cristiano, la sua formazione è giuridica, è economica. La sua attività non è quella del filosofo, almeno apparentemente, ma è quella del fiscalista; quindi, si occupa propriamente dell’economia e della finanza nel loro atto. Proprio questa combinazione è ancora più interessante: questa combinazione di Dio e poesia, economia e finanza. Allora, volentieri lo invito al suo intervento.
John Bloch Sì, direi che il professore e il rabbino hanno sollevato quello che è il tema principale del libro, che forse è troppo ermetico – questo è un difetto imputabile sicuramente al libro – e cioè: può ritenersi la poesia, in quanto tale, ortodossa? L’attività poetica secondo le religioni monoteistiche – e si parla di ebraismo e cristianesimo – è in se stessa ortodossa? Può considerarsi ortodossa, secondo il monoteismo ebraico, solo una poesia che sia un inno di lode a Dio? Io ritengo di no. E questo per un motivo semplicissimo: perché la poesia – e questo per rispondere parzialmente al tema sollevato dal professore – non ha mai pretesa totalizzante.
La poesia si auto-delegittima da sola; la poesia ha sicuramente un ritmo allucinatorio, che richiama anche i processi di condensazione di Freud, nell’Interpretazione dei sogni: la condensazione e la metonimia. Pensiamo al verso, alla rima e all’assonanza che il poeta impiega: perché la poesia, oltre a usare la metafora, la metonimia, usa dei processi di condensazione che fanno leva sulla contiguità fonica, verbale, sul ritmo, sul verso, sull’euritmia? Perché fa leva su quello la poesia? Perché, intrinsecamente, la poesia è disordine. Noi conosciamo, dalla linguistica del ‘900, che l’essenza del componimento poetico è la diacronia, cioè il linguaggio umano risulta dalla combinazione di significanti che sono sempre differenziali uno rispetto all’altro; la presenza trascendentale del poeta è sempre differita fino all’ultimo verso. Il gioco dei significanti: ciascun significante si pone in modo differenziale rispetto a un altro significante, per costruire un sistema diacronico di senso interno, che è differito fino all’ultimo verso.
È la famosa diacronia, differenzialità, del significante; questa diacronia, questa differenzialità del significante, è drammatica, mozza il respiro fino alla fine. Proviamo a pensare anche alla teoria del gioco di Ricoeur: ogni componimento poetico è una topologia, è un gioco sistemico in cui il significato, che è auto-referenziale, è sempre differito attraverso la differenza dei significanti, fino alla fine. Questo gioco, che vedeva drammaticamente l’assenza di una presenza trascendentale, di una coscienza presente, trascendentale del poeta e del lettore, deve trovare un contrappeso nella poesia. Questo contrappeso è la finzione del presente; cioè, mentre la presenza del poeta e del lettore è differita fino alla fine, il ritmo, il verso deve fingere la contestualità, la contemporaneità; è un movimento allucinatorio, la poesia deve fingere la perfezione, l’entelechia.
Ciascuno di noi sa che la bellezza della poesia risulta, per esempio, dalla combinazione di un elemento elegantissimo, classicissimo, eufonico e di un contenuto drammatico, franto e rotto. Ora, non è proprio questa l’assenza di senso che emerge dalla poesia? Cioè, ogni componimento poetico non è forse una proposizione di mondo che si auto-delegittima? Ogni componimento poetico è esattamente una finzione, una proposizione di mondo che internamente si auto-delegittima. La bellezza della poesia risulta proprio da questo gioco drammatico, e cioè la poesia diacronica è sempre differenziale; per converso, la forma è organica, eufonica. Questa non è l’auto-delegittimazione della proposizione di mondo creato dal poeta? In modo troppo ermetico io sostengo questo nel testo.
La poesia non è ortodossa solo se è lode a Dio, ma è un esercizio di ortodossia; cioè, questa auto-delegittimazione, che è insita in ogni componimento poetico, non mira forse a creare una proposizione di mondo compiuta in sé, ma che denuncia l’assenza di un senso accessibile all’uomo? La poesia non contiene mai il senso. Questo non è, forse, il libro di Giobbe? All’uomo non è dato accedere al senso. Non è per questo che la poesia è sempre “un poco sciocca”, come diceva Vjazemskij a Puskin? È proprio questo il motivo per cui l’esercizio poetico, a mio parere, è sempre ortodosso. Ci si scontra con l’incapacità della poesia.
Naturalmente, la poesia è un componimento interamente umano; anzi, se ci si affrancasse dal concetto di creazione poetica, come aveva detto Ingarder, per esempio, sarebbe a mio parere molto meglio. Era lo “Ione” di Platone che sosteneva che il poeta fosse un divinatore posseduto da Dio. Com’è possibile?
Un discorso è certamente la pretesa totalizzante della poesia; questa pretesa totalizzante della poesia è poi tramontata. Mallarmè, Zanzotto sono stati gli ultimi totalizzatori della poesia; hanno propugnato l’autonomia del significante, salvo che, propugnando l’autonomia del significante – cioè l’auto-referenzialità del significante – la realtà ne esce disgregata. Ecco che la poesia, quando propone, quando dipinge una proposizione di mondo, la disgrega automaticamente. E siccome lo schema della poesia è uno schema veritativo e conoscitivo, la poesia sta dipingendo lo schema veritativo e conoscitivo del pensiero moderno.
Qui, nessuno equipara la poesia alla filosofia, certamente, però l’istanza auto-disgregativa è comune. Pensiamo alla concezione di Dio nella poesia; ho citato una poesia del Luzi, in cui Dio viene descritto come l’essere intero, inconsumato, ineguale. Ora, noi sappiamo dal pensiero moderno che l’essere è una categoria priva di senso. Se l’uomo possedesse l’essere, cosa avrebbe l’uomo secondo la filosofia moderna? Avrebbe una percezione immediata di sé, una percezione trascendentale di sé, sempre uguale. Questa a-percezione, questa parusìa di sé, non è forse la morte? Cioè, la presenza trascendentale dell’essere a sé stesso, non è forse la morte? La percezione fulminea, autoriflessiva dell’essere, che pensa sé stesso e si identifica con sé stesso, non è forse la morte? È esattamente la morte.
Il pensiero novecentesco ha oramai distrutto l’opposizione binaria tra vita e morte: vita intesa come pienezza dell’essere, e morte intesa come assenza dell’essere. Pensiamo a Edgar Allan Poe; La verità sul caso Valdemar di Poe è un racconto assolutamente rivelatore: monsieur Valdemar, in punto di morte, viene sottoposto a ipnosi. Dopo sei mesi, al termine della cura ipnotica, monsieur Valdemar muove la lingua e pronuncia delle parole, e queste parole sono: “Io sono morto, stavo dormendo, ma sono morto”. La lezione di Poe è grandissima, cioè il contrario della vita non è la morte, ma è il linguaggio. Se noi assumiamo la vita come vita piena, come vita ontica, piena, trascendentale, questa concezione in realtà è identica alla concezione della morte: se l’uomo è essere, l’essere che ha la percezione trascendentale di sé è esattamente l’essere morto.
La vita differenziale, la vita che è fatta dal pensiero, dal linguaggio, dal significante, che è la vita non piena dell’essere, ma una sorta di vita intermedia, è l’unica vita che l’uomo conosce e può esprimere; questa vita, che è differenziale, che è una fuga varia, differenziale e semel-effettiva, l’unica vita che l’uomo può concepire; non può concepire né la pienezza ontica dell’essere a sé stesso, né la morte come contrapposta a questo, perché la morte sarebbe esattamente la pienezza ontica dell’essere sempre identico e autoriflessivo. Il cacciatore Gracco di Kafka non riusciva a morire. In punto di morte, se l’uomo con la morte potesse cancellare se stesso, raggiungerebbe la pienezza ontica dell’essere, perché l’uomo in vita è poco più di nulla; la personalità dell’uomo sempre differente, sempre carpente il pensiero dall’esterno, è poco più di nulla.
R.C. Non è questo differimento che è inconoscibile, in quanto mai può condurre alla conoscenza? Tutto ciò è di una portata straordinaria, perché introduce alla questione dell’infinito, introduce alla questione della vita che si rivolge alla qualità e non alla morte. Tutto ciò è di una portata straordinaria perché comporta che ciascuno, vivendo, si rivolge alla qualità, non alla morte; non alla fine, ma alla qualità della vita, al valore assoluto. Senza questa distanza dell’infinito, di questo differimento infinito, ebbene l’idea della fine è sempre dinanzi, l’idea del male è sempre dinanzi. Quindi, questo Dio che non può essere né presente né assente – dice Bloch – non è forse, allora, l’operatore del perché le cose si fanno? Non per evitare il male e inseguire il bene, ma per questa istanza di valore assoluto cui la vita tende e si rivolge.
Insomma, pare che tra le righe del libro di Bloch ci sia una domanda: che ne è di una religione senza la dicotomia fra il male e il bene? Una religione che non debba evitare il male né perseguire il bene e, dunque, che non si rappresenti Dio come agente del bene e del male, che non si rappresenti Dio come agente. La stessa questione della preghiera è proprio questa: una preghiera che si rivolge all’operatore del perché le cose si fanno, senza chiedere nulla in cambio; preghiera che non è richiesta dell’intervento di dio agente, ma una preghiera che è domanda di qualità della vita, domanda dell’istanza dell’infinito.
Sono solo le prime notazioni, ma siccome ciascuno dei relatori è stato chiamato in causa da Bloch, invito dunque ciascuno a una ripresa. Cominciamo con Rolando Damiani.
Rolando Damiani Ho ascoltato con grandissimo interesse questi tre notevoli interventi. Io volevo fare soltanto una minima osservazione in margine, qual è in effetti la mia presenza in questo caso. Io ho avuto modo molte volte di occuparmi di Leopardi, e credo di poter dire queste cose anche sulla scorta di una ricerca che è durata molti anni sull’opera di questo particolare poeta e filosofo. Ecco, l’idea di Dio è un’idea assolutamente prefilosofica, lo sappiamo perfettamente. L’idea di Dio nasce, come ci insegna anche la scienza contemporanea, in quel momento particolare fondativo della civiltà che è il momento religioso; all’inizio della cultura umana è l’elemento religioso, il fatto religioso, questa è la fondazione della cultura umana. Il processo di umanizzazione proviene dal fatto religioso, l’idea di Dio nasce da lì; cosa sia poi il fatto religioso, che cosa sia quell’istante, quel fatto sacrificale ecc., adesso forse non è il caso di discuterne, ma certamente questo è un punto capitale. E la poesia come parola, ritmo, musica tramite linguaggio, discende da quello stesso momento religioso fondativo della civiltà, e quindi rientra in tutto e per tutto in quel campo.
La filosofia, in quanto speculazione, è “al di sotto” completamente della poesia, come anche della religione. Leopardi dice che al culmine della filosofia c’è la poesia, e della stessa filosofia conta soltanto quella che, al suo vertice, da essa stessa filosofia ci libera e disinganna. È questo il punto: ci libera e disinganna. È un sapere, in un certo senso, stranamente relativo, certo che intorno al poetico rientra tutto quel campo del “che cos’è”. Non si chiamava una volta magia? Cos’è? Percezione dell’occulto? Un’infinità di cose. L’idea di Dio sondata dalla poesia è vicina alle religioni in certi casi, anzi spesso, anche perché la religione ha questa primitività; la religione “deve” avere questa sua primitività, poi può avere i suoi sviluppi, le sue definizioni, ma è un fatto assolutamente originario, da cui tutto, in un certo senso, discende.
La poesia si collega a tutto questo e, esattamente, anche a questo occulto. C’è quella meravigliosa poesia che dice: “Nasce un Dio su un altare, un altro muore … Fede è solo una parola” e alla fine dice “Tutto è occulto”. È così. Prima qualcuno ha parlato di poesia conoscitiva, ma io non intendevo assolutamente poesia filosofica; in un certo senso, la filosofia non ci porta da nessuna parte. La filosofia è, se vogliamo parafrasare espressioni di moda, il destino fallimentare di una certa nostra prospettiva, non ci porta assolutamente da nessuna parte. La poesia, invece, ha questa forza propositiva, anche creativa. Si diceva giustamente che forse la parola creazione non è proprio …, ma comunque si tratta di una sub-creazione, proprio perché è innestata agli elementi originari, che sono caotici, che sono naturalmente politeistici.
Ogni poeta, in quanto poeta, è politeista: ciascun poeta, in quanto poeta, è politeista, perché deve percepire, sentire un’infinità di cose, presenze, di luminoso nelle cose, in natura. Deve esserci questa forma di antichità nella poesia, e anche quel particolare approccio. E in questo senso, è giusta, magnifica la citazione che faceva Bloch di Puskin, dove diceva che per essere poeti bisogna essere un po’ sciocchi; è un modo di dire, ma bisogna avere quella specie di naturalezza che possedevano gli antichi, la naturalezza dei greci, quella forma, così, anche pre-filosofica di percezione. Questo è un poeta, quando ha proprio questa particolare dote; in questo senso è, quando abbia questa disponibilità, uomo religioso, perché si pone in questo atteggiamento antico, arcaico. Io ho voluto solo, in margine, fare questa riflessione.
R.C. Proseguendo nella riflessione, invito alla sua ripresa il rabbino Locci.
A.A.L. Se qualcuno di voi può pensare che un rabbino possa rimanere offeso dall’intervento del dottor Bloch, vi stupisco: non è così. Ci sono alcuni punti che non sono un vero e proprio scontro di cultura e di pensiero. Ora non so se le citazioni talmudiche sono state prese dal testo originale, quindi da una lettura in aramaico inserita nel contesto del trattato. Bisogna dire, però, qualcosa di più, e cioè chi erano Rabbi Ohanan e Rabbi Levin. E qui entriamo nella letteratura cosiddetta “post-biblica”, cioè di tutta una cultura, una tradizione orale che per tradizione è discesa dall’alto, contemporaneamente alla tradizione scritta, rappresentata dalla Torah.
Per Torah si intende il Pentateuco, cioè i cinque libri della Bibbia: Genesi, Esodo, Levitico, Numeri e Deuteronomio, che erroneamente vengono chiamati il libro della Legge, perché in realtà Torah vuol dire Ola-ha, che in ebraico significa insegnamento. Quelle che sono state definite da Paolo di Tarso “nomos”, leggi, probabilmente erano frutto di un “vento profetico”, perché in realtà chi trasforma in leggi gli insegnamenti divini è l’uomo, che è colui che riceve il dono di questi insegnamenti e poi ne fa una norma. E il processo talmudico è un cammino nella trasformazione dell’insegnamento divino in una norma quotidiana di vita.
Rabbi Ohanan e Rabbi Levin andavano in giro sempre in coppia – a Roma diremmo che i rabbini talmudici sono come i carabinieri – perché c’è questa concezione di studiare sempre insieme a un altro, di elaborare il proprio pensiero insieme a un altro, per non dare al pensiero una forma autoritativa, ma dialettica, come scambio d’idea: “Io studio, quindi imparo, ma nel frattempo insegno. E questo è quello che ricevo dall’altro”. Fondamentalmente, il pensiero ebraico si fonda sullo studio e l’insegnamento; non esiste lo studio fine a se stesso; se lo studio non è finalizzato all’insegnamento, è uno studio vuoto, vano, non costruttivo, e in questo senso capiamo il pensiero di Rabbi Levin, cioè che lo studio serva per comprendere l’atto, l’azione, la prassi, e quindi per portarla a un livello superiore di teoria. Quindi, è un procedimento che comincia con l’aspetto teorico, passa attraverso la prassi, e poi torna nuovamente a un livello superiore di teoria.
R.C. Ma non c’è in questo proprio la gnosi, la rappresentazione gnostica?
A.A.L. No, non proprio. In questo senso, interessante è un pensiero di Maimonide. Maimonide, che è un scienziato, è un medico, tenta di spiegare in modo meraviglioso, attraverso la ragione, addirittura Dio. Lui inserisce tutto in un trattato su Dio, che non diventa norma, ma che lascia nel contesto del principio. Quello che, nella tradizione ebraica, è il primo comandamento e che, nella Bibbia cristiana, è diventata l’introduzione ai comandamenti è un assioma della definizione dell’essere nel pensiero ebraico; e qui entriamo nel discorso vita e morte: l’ebraismo pensa che la morte non è l’assenza dell’essere in quanto pensante, ma è l’assenza dell’uomo, dell’individuo, cioè l’assenza dell’azione dell’individuo; cioè, un uomo non compie azioni perché è morto e non esiste più perché non compie azioni.
Con questo si spiega anche il rito religioso della purificazione delle mani ogni mattina, quando ci si sveglia: prima di iniziare qualsiasi tipo di attività, anche quella della pulizia del fisico, simbolicamente si purificano le mani, cioè a dire che il sonno è 1/60 della morte, secondo l’espressione talmudica di quello che dormiva di notte sessanta respiri. Il nostro sonno è un momento in cui non siamo coscienti delle nostre azioni: il corpo cammina da solo, va da solo, agisce senza la nostra consapevolezza. Maimonide usa questo termine: non dice di credere in Dio, ma “di essere consapevoli di Dio”. E come si arriva a una consapevolezza assoluta? Attraverso la pratica, attraverso l’azione, la messa in atto dell’insegnamento di Dio, che però non è sufficiente. Molto spesso troviamo l’espressione “amore e timore di Dio”.
E Maimonide ci insegna un pensiero bellissimo, cioè che il nostro approccio con Dio è un approccio timoroso, e anche le manifestazioni dell’uomo primitivo o quelle manifestazioni della natura, che lui non sa spiegare, le attribuisce alla divinità, all’ira della divinità; quindi, il rapporto è un rapporto di timore. Ma quando l’uomo consapevole, l’uomo religioso, l’uomo credente entra nel meccanismo della realtà, questo timore si trasforma in amore.
La preghiera è il secondo aspetto fondamentale della quotidianità nell’ebraismo. Non c’è solo lo studio, il dovere dello studio. L’ebraismo è una tradizione che è fondata sul dovere e non sul diritto: ognuno deve compiere il suo dovere e non deve accampare diritti. Probabilmente, il pensiero ebraico è scomodo per la civiltà occidentale, proprio perché questa si basa sul concetto dei diritto, cioè antepone il diritto al dovere. Fondamentalmente, se ognuno di noi fa il suo dovere non va mai a prevaricare la libertà altrui; quando uno non fa il proprio dovere, è il momento in cui si supera il limite della libertà, propria e di quella che ci sta vicino.
La preghiera, nell’espressione ebraica, è una parola che è dibattuta. Preghiera, in ebraico, si dice Tefillà, che per una convenzione di linguaggio viene tradotta in preghiera; in realtà, la radice Till-el è una radice che troviamo per la prima volta nella Bibbia, quando Giacobbe sa o riceve la notizia che Giuseppe, il suo amato figliolo, non era morto sbranato da un animale feroce ma era diventato viceré d’Egitto.
E quando lo incontra dice: “Ho creduto di vedere il tuo volto”. Ora, questo non vuol dire che preghiera – e Finlai, in ebraico vuol dire “credere di vedere il volto” – è un atto; tant’è che quando si vuol dire “Io prego”, nella declinazione ebraica il verbo è nella forma riflessiva, letteralmente “Io mi prego”; questo non vuol dire che prego me stesso piuttosto che pregare Dio, ma io prego me stesso di pormi a giudizio. Nel Libro dei Giudici, troviamo questa stessa espressione come “Imporsi davanti al giudizio”; quindi, nella preghiera, noi ci poniamo davanti al giudizio di Dio. Poi ci sono altre cose su cui si può tornare, ad esempio sull’aspetto mistico della lettera e del numero.
R.C. Avremo sicuramente modo di riprendere in altre occasioni. Adesso invito don Riccardo Battocchio al suo intervento.
d.R.B. Pensate se non ci sia una corrispondenza tra questo andare in coppia dei rabbini, che poi è anche l’andare in coppia dei discepoli di Gesù, perché li mandò a due a due, quindi in rapporto buono con la realtà, non procedendo per opposizioni; e quando prima sembrava che il discorso tendesse a procedere per via di opposizione tra l’essere e l’apparire, tra l’umano e il divino, o parlando della poesia, è parola dell’uomo o è parola di Dio, come se le cose andassero una esclusa dall’altra; ancora, tra l’agire e il patire, tra il vegliare e il dormire.
Anche il sonno può essere un luogo di rivelazione, non è solo l’immagine della morte. Paolo di Tarso ci dice che “Sia che vegliamo, sia che dormiamo, siamo del Signore”: vegliare, essere vivi, dormire, essere morti, non è così importante come essere del Signore, cioè è la relazione che ci fa quello che siamo.
Parlare di Dio come un operatore antignostico mi crea molto disagio: piuttosto è un’esperienza religiosa, l’esperienza di Dio, come s’impara a tenere assieme ciò che a prima vista sembra contrario. Pascal dice che l’ortodossia, e anche la questione cattolica, è quella che tiene insieme i due contrari, che fa professione dei due contrari: grazia e libertà, uomo e Dio.
R.C. Chiaramente, qui il dibattito questa sera è appena cominciato, non si esaurisce data la complessità delle questioni e la loro rilevanza, per cui si tratta, per ciascuno, sia della lettura sia del proprio viaggio. E noi avremo occasione di proseguire il dibattito partendo dagli elementi che sono emersi questa sera, negli incontri che si tengono settimanalmente il giovedì, presso la sala del Convento delle Zitelle, in via Ospedale, 26, a Padova, intorno alla questione L’inconscio e la qualità della vita. Quindi, avremo modo di riprendere molte delle questioni che sono qui emerse. Ora, per la sua conclusione, invito John Bloch a dare un ulteriore contributo alla lettura delle cose che ha ascoltato.
J.B. Desidero dire che, ovviamente, il rabbino ha ragione. Io mi rifacevo alla lettura di Lèvinas, presentata al congresso degli intellettuali ebrei in Francia; non era una lettura collettiva, quindi. Per quanto riguarda il fatto che la Torah sia l’ebreo, l’ebraismo non è una religione che conosca eterodossia, cioè non esiste l’eresia. La faccenda che la Torah sia l’ebreo è certamente una concezione mistica, e anche la concezione, secondo cui l’interpretazione della Torah dà a ciascuna generazione di Israele quello di cui abbisogna, è sicuramente una concezione mistica, non è certamente maggioritaria; però, a mio parere, si è inscritta in qualche modo nella coscienza.
Per esempio, il fatto che nell’ebraismo la donna non sia tenuta a studiare la Torah, perché la donna è messaggera naturale della Torah; questo dimostra comunque la concezione secondo cui la Torah è incarnata, è comunque penetrata in una certa misura nell’ebraismo. Mi rendo conto che ciò non esaurisce la tematica, perché l’interpretazione talmudica è in gran parte teorica, cioè è una concezione assolutamente teorica da cui si perviene poi quasi al nocciolo del testo. Era quindi una provocazione, la mia, per accendere il dibattito e non pretendevo certo di esaurire la tematica o imporre la mia opinione. Io, visto la complessità della tematica, non ho però più nulla da dire, a questo punto. Grazie a tutti.
R.C. Bene, allora ringraziamo don Riccardo Battocchio, il rabbino Aharon Adolfo Locci, John Bloch per essere stati qui con noi questa sera, e ciascuno di voi. Chiaramente, ciascuno è invitato a leggere questo libro, a trarne la lezione e le indicazioni che provengono da questo testo e dagli elementi che contiene. Chi volesse la propria copia del libro firmata dall’autore, può avvicinarsi al tavolo e lui sarà lieto di farlo. Grazie e buonasera.