Dio, la scrittura, internet
- Bottin Francesco, Busa Padre, Chinaglia Ruggero, Ciman Mario Padre, Pirola Giuseppe padre
18 maggio 2000, conferenza con padre Busa dal titolo Dio, la scrittura, internet, nella sala della Fornace Carotta, in via Siracusa 17, a Padova, con il patrocinio del Comune di Padova e della Regione del Veneto, in occasione dell’uscita del libro di padre Busa Quodlibet. Briciole del mio mulino, edito da Spirali. Intervengono Francesco Bottin, padre Mario Ciman, padre Giuseppe Pirola.
PADRE ROBERTO BUSA
Dio, la scrittura, internet
interventi di
- Francesco Bottin
- padre Mario Ciman
- padre Giuseppe Pirola
- Ruggero Chinaglia
Ruggero Chinaglia Qualcuno, poco fa, mi chiedeva quale fosse il significato del termine “cifrematica”, che indica appunto la scienza, la procedura e l’esperienza della parola originaria, cioè la parola che si rivolge alla sua qualità, alla sua cifra. Parola, quindi, che non è già contrassegnata da un valore, non ha già un significato predeterminato, ma parola che è libera di divenire cifra, libera di qualificarsi, libera dunque di entrare nella memoria, di scriversi e far sì che la memoria si scriva, l’esperienza si scriva.
È questa la questione che si pone come scrittura dell’esperienza: come le cose si dicono, si fanno, si scrivono, come divengono cifra e dove si scrivono. Quando, come. La questione, quindi, della procedura con cui le cose si dicono e si qualificano, la logica e l’esperienza della parola. Questa dell’esperienza della parola originaria è poi la questione della psicanalisi e anche un po’ la questione dell’itinerario cifrematico, psicanalitico. Quindi itinerario di formazione in cui ciascuno fa l’esperienza di come le cose si qualificano, come giunge a divenire cifra egli stesso. Non già secondo una predestinazione, secondo un’idea di soggetto predestinato, ma secondo i modi e la logica della parola.
Con questo libro, Quodlibet. Briciole del mio mulino, padre Busa ci dà una testimonianza del suo itinerario, della sua ricerca, soprattutto del messaggio che questa ricerca ha comportato e comporta. Come lui stesso nota nell’introduzione al suo libro, il mulino è lui stesso, è la sua vita, e le briciole sono ciò che si è andato scrivendo, sono le parole, le opere che nel suo itinerario ha incontrato e che rilascia con la scrittura. Queste briciole, sempre nell’introduzione, lui le chiama “fiorellini sbucati tra le fessure di una muraglia”.
E quindi insiste sulla questione della vita, del mulino, di cui importa non già la solidità dell’edificio e l’unicità di questi muri, ma le fessure, le crepe, le increspature quasi, le pieghe della parola che sono l’occasione delle sfumature che avvengono parlando, dunque della qualificazione delle parole e delle cose, di ciò che si fa e di ciò che si scrive. È un libro, questo, il cui testo sta nella traccia della parola originaria e dove trovano combinazione gli elementi costitutivi della ricerca e dell’itinerario intellettuale di padre Busa: Dio, la parola, la scienza, la tecnologia, l’informatica, dove ciascuna di queste cose trova l’integrazione con le altre. Trova quindi l’appartenenza a un intero e non già la contrapposizione con l’alternativa esclusiva che, invece, sembrano patrimonio del discorso occidentale con la sua logica binaria, logica appunto dell’alternativa esclusiva.
È un libro che io ho trovato di grande intensità e semplicità, dove l’apparente facilità del tono, qua e là confidenziale, inganna rispetto alla tensione linguistica che contrassegna ciascun termine, che si trova al suo posto non a caso, ma proprio per la precisione con cui viene impiegato e che indica anche la qualità della ricerca che padre Busa ha compiuto in questi anni. Nel libro interviene la questione della tecnologia, con cui, sicuramente, l’avventura intellettuale di padre Busa si è imbattuta.
In nessuna parte del libro, rispetto alla questione tecnologia o cervello umano, cervello artificiale, tecnologia o mente, mai si pone l’alternativa, anzi. Padre Busa indica come mai può porsi l’eventualità che il computer possa sostituire l’indagine, la ricerca, l’intellettualità. Il computer sollecita l’ingegno e l’intellettualità se non viene impiegato unicamente come qualcosa che serva a risparmiare, per esempio il tempo, come qualcosa cioè che possa velocizzare le cose. Questo comporta non già l’alternativa tra l’uomo e il computer, tra la parola e il computer, tra la ricerca intellettuale e la ricerca computazionale, ma, eventualmente, l’integrazione, perché la tecnologia fornisce l’hardware ma il software sta nell’intelligenza, sta nella parola, sta nella logica con cui la tecnologia può venire impiegata, e quindi in nessun caso può portare a una reciproca sostituzione o sostituibilità.
Anche la questione internet, quindi, non si pone come alternativa alla scrittura, come alternativa al libro, anzi. A mio parere la questione internet è un incremento della lettura. L’uso di internet è la promozione della scrittura. Chi si trova a usare anche la rete, come può farlo senza la scrittura, senza il testo? Che vi sia l’invio telematico del testo non toglie il testo, anzi lo esige. E l’uso di internet è l’uso della scrittura, è la produzione di scrittura, va verso l’incremento della scrittura, non già verso la sua sostituibilità, come dire che non c’è alternativa tra l’intelligenza artificiale, cioè il cervello umano in quanto artificiale nella sua infinita possibilità, e quella che viene chiamata, a torto, intelligenza artificiale che sarebbe l’intelligenza della macchina, ma che intelligenza non è.
Padre Mario Ciman SJ Mi trovo un po’ imbarazzato poiché non sono un cifrante e non sono neppure un filosofo. Però sono qui uno dei pochi discepoli, alunni di padre Busa, quindi darò una breve testimonianza di questo mio discepolato e poi farò qualche osservazione per dare una spiegazione di questa produzione, di questo libro. È una spiegazione assolutamente non condivisibile, però la presento lo stesso.
Padre Busa è stato per un anno il mio professore di metafisica a Gallarate, dove c’è il nostro filosofato. Non manco di esprimere la mia sorpresa, sbagliata, per gli articoli veramente avvincenti pubblicati nel libro che oggi è presentato. Quello che mi ha sorpreso non è la grazia, l’intelligenza e la novità dello scritto di padre Busa. Me l’aspettavo. Ricordavo le sue lezioni che erano deliziose. Mi hanno sorpreso le date di questi scritti; uno solo è precedente al 1993. Sono comunicazioni fatte da padre Busa nella sua piena maturità.
Forse ho trovato nella Bibbia qualcosa di illuminante che mi ha permesso di capire quest’opera: è la vita di Mosè tracciata nel capitolo VII degli atti del diacono martire Stefano; è la vita di Mosè che si divide in tre parti, ognuna di quarant’anni. Mosè è educato in tutta la sapienza degli egiziani, era potente in parole e opere. A quarant’anni volle liberare il suo popolo, ma deve fuggire. I particolari credo che li conosciate. I primi quarant’anni non sono perduti, sono dedicati alla filosofia. I secondi quarant’anni li passa come pecoraio nel deserto – parlo di Mosè – o li passa sui computer. Ma quando scattano gli 80 anni ha la grande rivelazione e ora, con l’aiuto di Dio, libererà il suo popolo, lo condurrà alla terra promessa. Sono altri quarant’anni di lavoro fruttuoso, il più significativo, per il quale i primi due periodi non sono che una preparazione.
Padre Busa è in questa fase. Dispiace dire che gli restano solo altri 33 anni di attività, ma certamente è entrato nel suo vero ruolo. Un ulteriore conforto per questo lavoro che lo attende ci viene da una citazione di Isaia, capitolo LXV, versetto 20, riferita ai tempi messianici in cui noi siamo. “Non ci sarà più un bimbo che viva solo pochi giorni né un vecchio che non giunga alla pienezza dei suoi giorni, poiché il più giovane morirà a cent’anni e chi non raggiunge i cento anni sarà considerato maledetto”. Naturalmente io mi auguro che padre Busa arrivi all’età di Mosè che è stata 120 anni, e forse qualcosa di più.
Padre Giuseppe Pirola SJ Abbiamo deciso che padre Busa è sicuramente giovane e, nonostante io abbia settant’anni, sono stato suo studente a cominciare dagli anni ‘51 e ‘52. Naturalmente a quei tempi eravamo occupati sulla prima metà del titolo del libro, sul quodlibet, una specie di torneo intellettuale. C’erano i cavalieri che facevano le loro gare a scavalcarsi, cioè a buttare giù uno da cavallo, e invece i teologi facevano dibattiti intellettuali, quindi siamo nel pieno medioevo, San Tommaso.
Non so come abbia fatto padre Busa, che a quei tempi ci parlava quando tornava dagli Stati Uniti, a congiungere insieme il quodlibet medioevale con la misteriosissima cosa di cui ci parlava, che poi, in qualche modo, abbiamo cominciato a vedere, le schede perforate. 500 tonnellate di carta! La muraglia di cui parlava l’abbiamo vista. Vedevamo i camion della Borghi che per trasportare robe simili esigevano dei camion piuttosto grossi. Capire padre Busa, per noi, è stato inizialmente la sorpresa. Come può fare uno che vuole interpretare San Tommaso?
Di solito uno dice: “Devo andare indietro per interpretare San Tommaso”, e invece dice: “No, ho bisogno di uno strumento operativo che dev’essere il non plus ultra”. Questa fu la partenza. La seconda cosa che ci lasciò allora convinti è quando dice: “Devo trovare la maniera, uno strumento che mi permetta di fare un’analisi delle opere di San Tommaso in maniera tale che dopo potrò finalmente avere il metodo, lo strumento, il criterio operativo e potrò dare un’interpretazione di San Tommaso che sia al di fuori di tutta questa competizione di interpretazioni”.
Nel periodo che va dagli ultimi vent’anni del secolo scorso a quelli di questo secolo ne abbiamo avute tre e, quando avete tre interpretazioni di un autore, vi domandate qual è quella vera, perché è un po’ difficile che siano vere tutte e tre, visto che non vanno d’accordo tra di loro. Naturalmente, anche fraternamente con padre Busa, stavamo aspettando che venisse fuori questa interpretazione di San Tommaso, ma invece è venuto fuori esattamente l’elaborazione sempre più raffinata dello strumento.
E probabilmente dalla tesi, dal concetto di presenza in San Tommaso, che è un concetto filosofico di quelli abbastanza robusti e raffinati (per carità, denigrati! Concepire l’essere come presente è oggetto di denigrazione. Quindi stiamo attenti a quello che diciamo in filosofia!), per approfondire bene, l’intuizione che lo portò verso internet ce l’aveva già, perché invece disse: “Presenza. Andiamo a vedere la parola presenza quante volte viene fuori. Viene fuori poco, 2°) è anche laterale, 3°) non è rilevante.
È un po’ come i Preambula fidei che divennero famosissimi, ma nella Summa di San Tommaso vengono fuori non di più di 15-20 volte. Quindi è un po’ difficile dire che sia il nucleo portante della dottrina, quella che in 8.000.000 di parole, per essere precisi, viene fuori un po’ di rado. Ebbene, andò a studiare “in”. Capite perché ci vuole una macchina per studiare “in”, perché provate a pensare nel discorso quante volte diciamo “in”. E allora, partito dal quodlibet, che cosa andava cercando? Uno strumento che gli permettesse di fare un’indagine, che però era mirata e completamente rivoluzionaria.
Rivoluzionaria non solo dal punto di vista di uno che voleva capire il testo di un autore, perché allora questo è un problema interpretativo normale, per chiunque legge un autore, di trovarsi anche una regola, un metodo per interpretare, se non altro per superare il conflitto delle interpretazioni che vi ho accennato. La domanda era di avere bisogno di uno strumento per identificare i punti di forza, che non sono quelli apparenti o appariscenti, attraverso i quali riuscire a toccare il nucleo fondamentale del pensiero di un uomo. Vi ho fatto l’esempio del concetto di presenza.
Si vada a cercare “in”. Provate a pensare che tipo di passaggio è stato operato mentalmente. Perché uno dice “in”, ma che cosa c’entra “in”? “La mela era sul tavolo”. Dico: per capire questa frase, andrò mica a studiare “sul”! E invece no, lo strumento era necessario per studiare quei nuclei fondamentali del pensiero che sono nuclei che non sono quelli apparentemente rilevanti o di prima forza: che cosa vuol dire questo, che cosa vuol dire quello. No! Gli snodi fondamentali del pensiero di un uomo non passano attraverso facili sostantivi, ma passano attraverso avverbi, preposizioni, passano attraverso le parti quasi insignificanti del linguaggio. La struttura di un testo: quali sono i nodi rilevanti? Sono quelli semanticamente appariscenti? No! Internet.
Studiamo internet per capire internet? O dobbiamo fare una lunga navigazione, una seconda, una più ampia e andiamo a identificare determinati punti che non sono affatto così palesemente chiari, palesemente rilevanti? Andate a studiare congiunzioni, andate a studiare rapporti, andate a studiare relazioni, andate a studiare nessi e andate a finire al computer e a cercare internet. Ma perché? Perché il computer deve servire a quel progetto che interessava a me, che è un altro progetto di interpretazione e di lettura, e di interpretazione di un testo di un altro uomo, quello che mi dice quali sono gli itinerari del pensiero della mente di qualcuno, che non son le tappe, gli itinerari: da dove entra, da dove esce, da dove passa e dove effettivamente maschera esattamente la cosa che gli interessa di più.
Così da quodlibet siamo arrivati alle “briciole del mio mulino”, perché evidentemente noi abbiamo fatto a tempo a assistere quando padre Busa cominciò a andare e venire, perché ormai finalmente era passato dalle schede perforate con scritto dietro un contesto di dodici righe, e, naturalmente, c’erano i buchi da evitare nel trascrivere dietro le righe. Poi c’erano altri problemini molto interessanti, per cui si doveva sempre tornare alla mente umana, intellectus, sostantivo, participio, andate avanti fin che volete.
Le grammatiche resistono, offrono chiavi sufficienti per far l’analisi grammaticale del discorso. Tutte robe che son venute fuori e ci siamo divertiti. Dopo le schede perforate son venute le cassette, i nastri magnetici, e anche lì erano chilometri. Attraverso questo piccolo lavoro, ebbi anche la fortuna di trovarmi a Bulder, da un’altra parte insieme a padre Busa, il quale divenne in quel tempo un onesto lavoratore della I.B.M.. Aveva la sua casetta, pigliava la sua macchina, fu lì che imparò anche a guidare l’auto, quelle americane che non hanno bisogno del cambio perché anche il cambio è automatico, e andava a lavorare alla I.B.M.
Il lungo cammino, per riuscire a capire l’opera e il senso, di chi è riuscito a partire dal quodlibet, i tornei del medioevo, a quello che invece sono i grossi problemi di riuscire a capire il senso di un testo e soprattutto identificare i nodi fondamentali, le chiavi che permettono di comprendere un testo e naturalmente di compiere un itinerario. Quindi più si va indietro e più, per capire, si è dovuti andare avanti, rimanendo giovani.
Ruggero Chinaglia Si pone l’accento, in particolare, anche sulla questione del pensiero e dello strumento operativo, quindi sulla questione della logica della parola, la logica del pensiero, che arriva quasi a qualificare soprattutto qual è la logica di Dio, qual è la logica per cui c’è un programma delle cose, un programma per cui c’è, avviene l’operazione. L’operazione, che poi è operazione linguistica, operazione di scrittura, operazione di ricerca, operazione che non ha mai fine, quindi che mai approda a un presunto, se pur pensato, nucleo fondamentale; quindi mai approda al fondamento, perché sempre si tratta della materia della parola, della materia della ricerca, della materia del pensiero, della materia delle cose e mai della sostanza.
C’è in particolare un passo di padre Busa, a pag. 119, che, in qualche modo, rilancia questa questione, dice: “Non è che manchino i computer nel tentativo di arrivare a una formalizzazione del pensiero umano o alla sintesi dei processi intellettuali. Sintesi impossibile. Sempre cercata ma mai trovata, perché mai sarà possibile trovare, perché si tratta dell’analisi”. Come padre Busa precisa in ogni sua pagina, si tratta qui dell’analisi, mai della sintesi; dell’analisi che è essenziale alla ricerca. In questo suo viaggio lungo le parole, lungo la parola, si è trattato sempre dell’analisi, analisi di milioni e milioni di parole nella loro combinazione, mai approdabile a una sintesi perché sempre si tratta dell’analisi.
Non è che manchino i computer, siete voi che non avete abbastanza informazioni sul linguaggio umano da potere inserire nelle istruzioni dei vostri programmi. Le informazioni sul linguaggio umano non saranno mai abbastanza, perché mai troverà fine quell’ipertesto di cui si tratta nel pensiero, nel ragionamento. Padre Busa potrà forse smentirmi, ma lui che è stato tra gli inventori dell’ipertesto, cioè della modalità d’instaurare collegamenti fra le parole nell’ambito di un testo o di più testi, può dirci se questa modalità di collegamento può mai trovare fine.
In fin dei conti, l’invenzione dell’ipertesto non è dovuta all’informatica. L’applicazione forse sì, ma l’invenzione forse, più che all’informatica, la dobbiamo a Freud con la sua prima formulazione e formalizzazione dell’analisi dei sogni, dove dice che mai l’analisi di un sogno è terminata, perché mai termineranno i collegamenti. Non è forse questo il primo accenno a un ipertesto, cioè a un testo che trova nei suoi collegamenti l’interminabile della sua analisi, l’interminabile della sua ricerca?
Perché, ribadisce padre Busa, questo vuol dire che questa forza, che noi chiamiamo intelligenza, sfugge alle leggi della termodinamica, sfugge alla sostantificazione possibile, sfugge alla possibilità umana di farne un insieme finito, quindi di chiuderla in una legiferazione; sfugge ai rapporti del “tanto mi dà tanto”, perché nell’intelligenza naturale non ci sono né entropia né entalpia.
Padre Busa SJ Quand’ero ragazzo, bambino, si giocava ai quattro cantoni. Vi erano quattro ragazzini ai quattro angoli del cortile, io ero in mezzo e gli altri si scambiavano di posto e quello che era in mezzo doveva cercare di infilarsi nel posto di uno dei quattro angoli. Il dottor Chinaglia, il professor Bottin, il padre Ciman, il padre Pirola sono i quattro angoli e io non so da che parte andare, perché vorrei riuscire almeno una volta a essere breve.
Il tema che mi è stato assegnato è: Dio, la scrittura e internet. Mi è stato chiesto alcune volte, perché un prete si occupa di computer e di queste cose. E ho risposto qui, a pagina 36, dicendo: “Quando uno si presenta per essere reverito francescano o sacerdote, si presenta come volontario. Ha capito che la felicità nella vita non sta nei soldi, non sta nel piacere, ma sta nel far del bene”. Come far del bene? Quando lui si è presentato volontario e è stato accettato, sono i superiori che glielo assegnano.
Se ben ricordo, cinque sono i servizi che si possono applicare a un giovane gesuita. Il primo è il servizio pastorale, il più ambito: la chiesa, le missioni, la liturgia, i sacramenti; il secondo è il servizio assistenziale: i bambini, i vecchi, i poveri, gli ammalati, i lebbrosi, i drogati, eccetera; il terzo è il sevizio educativo: professori di ginnasio e liceo; il quarto è il servizio gestionale, quello che nessuno dei gesuiti vorrebbe mai, cioè fare il superiore o, peggio ancora, l’economo, l’amministratore, dover avere a che fare coi soldi e col comperare e col pagare; il quinto è il servizio culturale.
Ve lo descrivo così: nell’estate del ‘41, ero prete da un anno, mi chiama il superiore provinciale il quale mi dice: “Padre Busa, lei accetterebbe di fare il professore?” Gli rispondo: “Se devo essere sincero, proprio no! Ne ho avuti abbastanza di superiori, di libri e di esami. Bisognava rifare il dizionario.” Allora m’ha fatto un bel sorriso che gli andava da un orecchio a un altro, e mi ha detto: “Ah, bene, lo farà lo stesso”. 60 anni dopo, 2 mesi fa, ho incontrato per caso il mio padre generale a Roma, e mi ha detto: “Padre Busa, come vanno i suoi progetti?” Gli ho detto che 60 anni fa io ero qui a Padova all’Antonianum come maestro, alla scuola di religione. Raccontavano questa invenzione, che nella caserma di fanteria un sergente dice alla recluta: “Attenti!” Quello si mette sull’attenti. “Quando dico: “Avanti marsc’!”, mettiti a camminare, a marciare e non fermarti fino al nuovo ordine”. “Avanti marsc’!”, quello si mette a marciare; era in dirittura della porta di uscita, è uscito. Il sergente se n’è dimenticato. Dopo 48 ore arriva un fonogramma al colonnello della caserma di fanteria che dice: “Pinco pallino, vostra recluta, numero di matricola tal dei tali, sta qui segnando il passo sulla riva del mare in attesa dei vostri pregiati ordini”. Allora ho detto al mio padre generale: “Paternità, io son quello. Il superiore m’ha detto: “Specializzati in San Tommaso”. Son partito, ho continuato, non ho più rinunciato e sono ancora qui”. Il Padre Generale mi ha guardato e mi ha detto: “Padre Busa, non speri che io le cambi gli ordini.”
La cifra che sta dietro questo fatto, questa storia, è il mistero dell’obbedienza soprannaturale, è il mistero di Dio che guida gli uomini e affida a loro il servizio che devono rendere per gli altri. Cosa c’entra Iddio con internet? Me lo domandano varie volte, e mi dicono: “Ha trovato Iddio nel computer?” Io rispondo: “Senta, lei ha mai visto l’Aida, di Verdi, la Traviata? Ci ha mai trovato Verdi dentro lì, in uno dei personaggi, in una delle battute?”. Però resta vero che Verdi nelle sue opere è già perduto, perché ne è l’autore. E ne è l’autore perché, prima di tutto, le sue orchestrazioni sono state concepite nella sua mente, concepite e anche costruite virtualmente prima di venir esteriorizzate su carta, su spartiti e ripetute da strumenti.
Allora, a me il paragone che piace di più è quello del signore Iddio, che non è un Dio del triangolo e del compasso e della tavola dei logaritmi, è Dio della diffusione della libertà di fare quello che è bello, buono e giusto dappertutto, che è la libertà del voler bene. Peraltro, quest’altro paragone è un po’ più ingegneristico: Iddio lo penso come un programmatore. Allora tutto il cosmo con la sua storia è un programmone retto da un unico programmatore. Questa è un’idea vecchia, vi ricordate Virgilio: Mens agitat molem et magno se corpore miscet? È un’idea antica, non un unico programmone di logica incarnata nelle vicende di questo mondo. Questo programmone certamente ha avuto un programmatore.
Se qualcuno mi dice: “Sono fatti combinatoriali”, gli rispondo che, se questo è vero, è frutto di combinazione. Perché i programmatori si fanno pagare così cari e guai se non li paghi? E così cari, perché? Perché ogni programma è frutto d’ingegno. Frutto d’ingegno vuol dire che è nato nella mente, prima di venire fuori da lì e dalle dita delle mie mani. Allora il signore Iddio, nell’universo, non è il centro del mondo, ma, dico un ossimoro, è un centro diffuso, che vuol dire che è dappertutto, perché è la logica di quell’autore che lo ha programmato, e questa si chiama pazienza, verbo, logos o parola, etc. C’è ancora una cosa che vorrei dirvi adesso a proposito del rapporto dell’informatica.
Ho l’impressione che c’è in giro un po’ di confusione anche sull’internet. È la sbornia che ogni tanto viene come una valanga di certe parole. Nei primi anni ‘50 tutto era cibernetica; dopo dieci anni è venuta intelligenza artificiale, poi gli ipertesti. L’unico momento di trionfo e di gloria diventano le parole, così l’internet. A Gallarate, una delle donne che vengono a far le pulizie mi ha detto in dialetto: “Padre, mi, per me fiœl a go cumprà un bell’internet.” (Per mio figlio ho comprato un bellissimo internet), voleva dire un P.C. C’è confusione.
Allora volevo dire questo: bisogna che ci rendiamo conto che ci sono informatiche testuali, di grosse ce ne sono tre; due molto grosse, ingorde, voraci che sono scoppiate dappertutto, e una che resta una povera cenerentola. La prima è quella documentaria, una documentazione, una volta c’era la società di documentazione; la seconda è quella editoriale; la terza è quella che io chiamo ermeneutica. Quella documentaria è quella delle banche di dati ai quali si accede per aver in breve tempo le notizie, le informazioni che interessano. L’internet è la globalizzazione via rete di queste banche di dati, e è una infrastruttura di comunicazioni intersociali. È come una nuova rete stradale, una nuova rete ferroviaria, una nuova rete di linee aeree, con i suoi pro e i suoi contro. Quindi banche dati e internet. Poi vi dirò come si fa a conoscerle.
Quella editoriale è quella dei cd, cd rom, compresa la multimedialità che sono un nuovo tipo di libro elettronico in cui la semplice scrittura si avvicina alla oralità, perché c’è la presenzialità, la quasi presenzialità della realtà virtuale delle immagini e poi c’è anche la riproduzione dei suoni e dei movimenti. Questa è un fatto di diffusione del libro e quindi con tutte le sue caratteristiche commerciali. Che cosa hanno in comune questi due punti, questi due informatiche? Che sul supporto elettronico si mettono quasi soltanto lettere e interpunzioni. Niente più.
L’ermeneutica testuale è quella che invece vuole fare un’analisi dello scritto e anche parallelamente del parlato. Quella fonetica si sta svolgendo di più di quella scritta, oggi. Fa un’analisi dell’espressione umana per cercare di risalire dall’espressione al pensiero dell’autore, cercare di individuare qual è il pensiero proprio dell’autore nel dire queste cose. La differenza. Come si fa a conoscere quella ermeneutica? Che a ogni parola di un testo scritto sul supporto elettronico, vengono aggiunti tanti byte, tanti teng, tanti flep, tanti caratteri quante sono le categorie linguistiche che le vengono riconosciute. Mi spiego.
Fino a qualche anno fa c’era un detto informatico che diceva: Text in machine readable,testo in formato leggibile a macchina. Quel “leggibile a macchina” è ambiguo, perché dovrei fare due distinguo: leggibile a macchina dall’uomo o leggibile a macchina dalla macchina. Leggibile a macchina dall’uomo sono precisamente l’informatica documentaria e le informatiche editoriali; puntano a portare informazioni leggibili da occhio umano. Invece l’informatica ermeneutica è quella che deve puntare a giungere codici. Descrivo con un esempio e poi chiudo questo, e passo all’ultimo punto.
Mettiamo che io abbia scritto la parola “vanno”, v-a-n-n-o, scritta dal computer. Cosa sa il computer? Quello che sa il computer su questa parola è solo questo: sa che vuol dire che ha quelle certe entità fisiche, che sono certi byte, ossia una certa distribuzione di entità fisiche: 1°) collegato per convenzione alla lettera v, 2°) va per convenzione a attivare la lettera a, poi ci sono per convenzione altre due lettere n. Ma che sia voce del verbo andare, il computer sa che deve avere dei codici, dei byte, delle altre entità fisiche che gli dicono che questo è voce del verbo andare. Che sia la terza persona plurale dell’indicativo presente attivo, perché il computer lo sappia, la parola sapere vuol dire che deve possedere, qualcuno gli deve aver messo, caricato quei byte che per convenzione umana significano terza persona plurale dell’indicativo presente attivo.
E l’ermeneutica, quando questo è leggibile dalla macchina, se io voglio lavorare alla macchina su verbi o su nomi, o su presente indicativo, su queste categorie, devo mettere i codici. Nel mio Index tomisticus, quelle 11 milioni di parole, quasi 9 di San Tommaso e quasi di 2 di qualche autore, son diventate 11 milioni di righe in cui in ciascuna c’è la parola, una parola, una alla volta, una dietro l’altra. In 152 byte, di cui 22 erano riservati alla parola, tutti gli altri sono informazioni pertinenti a questa parola. Li chiamo oggi “ipertesti interni”, anche se la storia degli ipertesti è un po’ più precisa. Li cominciai a fare nel ‘49, ma la parola “ipertesti” non era ancora stata coniata, e è una parola non felice. Come tante parole del vocabolario informatico, non sono molto felici perché è una mescolanza di parole proprie e di parole metaforiche. Per esempio scrivere, leggere, capire e scegliere sono metafore, semplicemente metafore e non parole proprie.
R.C. Per concludere questo incontro non resta molto altro da dire dopo l’intervento di padre Busa e, certamente, elementi ulteriori e notevoli ciascuno li può trovare leggendo il libro che è in vendita, qui, anche nella sala e che padre Busa sarà lieto di firmare. Ma c’è qualcosa che tuttavia mi pare il caso di rilevare come effetto d’ascolto di quello che il Padre Busa ha detto.
Se noi pensiamo che questo suo itinerario, quanto ci ha detto questa sera, quanto ci ha testimoniato, quanto è testimoniato nel libro, è il frutto dell’obbedienza, e che quindi qui si tratta di un testimone dell’obbedienza, a me pare che questo debba far riflettere, soprattutto nell’epoca in cui ciascuno ritiene di dovere o potere fare quello che vuole, senza un dispositivo, senza una direzione, senza una via. Soprattutto riflettere per quanto attiene alla propria vita, al proprio programma di vita, ma anche per quanto attiene all’educazione. Mi pare che una lezione importantissima venga da padre Busa anche in questa direzione.