Esperienza e clinica della psicosi in Svizzera
- Chinaglia Ruggero, Keller François, Sautaux Eveline, Schindelholz Ariane
30 aprile 2009 Conferenza di François Keller, Eveline Sautaux, Ariane Schindelholz, Esperienza e clinica della psicosi in Svizzera, svoltasi nella serie di dibattiti La scienza e la crisi, in presentazione del sesto numero della collana “La cifrematica” dal titolo La follia, la pazzia, la clinica. Padova, Sala Polivalente di Via Diego Valeri 17. Con il Patrocinio di Regione del Veneto, Provincia di Padova, Comune di Padova.
FRANÇOIS KELLER, EVELINE SAUTAUX, ARIANE SCHINDELHOLZ
Esperienza e clinica della psicosi in Svizzera
Ruggero Chinaglia Buonasera a ciascuno. Ringrazio ciascun amico presente che ha accolto questo appuntamento, nonostante la distrazione in cui la città è incorsa sia per questo weekend di fine aprile e inizio di maggio, sia per via dell’appuntamento elettorale che è in corso, che sembra coinvolgere molti. Siamo qui con questi ospiti che vengono dalla Svizzera. Ospiti molto graditi e che daranno questa sera una testimonianza dell’esperienza in corso in Svizzera da oltre trent’anni, sorta all’inizio come esperienza formativa intorno alla psicanalisi e alla pedagogia e poi articolatasi attraverso varie fasi. In esperienza, più precisamente clinica, rivolta in particolare alla questione della psicosi, alla materia della parola, alla questione intellettuale, fino a oggi, in cui si tratta anche della direzione dell’impresa, della formazione dell’imprenditore, dei dispositivi intellettuali per l’articolazione del progetto e del programma di vita in ciascuno.
E ci racconteranno le varie fasi, le lotte, i sacrifici, le acquisizioni di questa esperienza che si è trovata a fianco all’esperienza dell’associazione cifrematica internazionale e di cui questa esperienza in Svizzera costituisce uno degli aspetti internazionali, e anche di grande rilievo. Accanto a questo presentiamo un numero della collana “La cifrematica”, una collana giovane, giunta al suo sesto numero, che ha per titolo, La Follia,la pazzia, la clinica, quindi siamo proprio nel contesto di cui si tratta. La questione intellettuale, è essenziale per un’articolazione della follia e per cogliere ciò che ruota attorno a questi termini, follia, pazzia, considerati sinonimi nel discorso comune, ma che non possono in nessun caso essere considerati tali.
E sin dall’inizio dell’esperienza del movimento cifrematico, dell’Associazione psicanalitica italiana, del Movimento freudiano internazionale, molti degli avvenimenti, anche internazionali, hanno ruotato intorno a questa distinzione, a un’articolazione del termine follia che spesso viene imbrigliato in un’accezione onnicomprensiva che fa riferimento alla pazzia, alla malattia mentale, al disagio. Vari termini con cui si vorrebbe comprendere un po’ tutto, senza tuttavia, giungere alla specificazione.
Follia e pazzia meritano, invece, una distinzione, la qualificazione. Questi due termini indicano che nulla nella parola è casuale, nulla nella parola è attribuibile alla persona, al soggetto, a qualcuno, e in ciascun caso si tratta di capire e di intendere quello che si enuncia con vari pretesti, con il pretesto del disagio, del male, di un’esigenza, in vari modi. La domanda non è mai diretta, è sempre formulata in modo da esigere l’ascolto. Allora di questo si tratta: dell’ascolto. Intendere qual è la lingua con cui si formula una richiesta d’aiuto, che però non è da soddisfare in termini di altruismo, ma è da rilanciare in modo che trovi la via per giungere alla sua cifra, alla sua qualità, per capire qual è il progetto che nella domanda magari si enuncia in maniera vaga, imprecisa, ma che esige di giungere a compimento.
Allora è in particolare intorno a questo che ruota la questione intellettuale, in termini di ricerca e d’impresa, è attorno a questo che ruota l’esperienza che è in corso in Svizzera, a Losanna, a Ginevra. È attorno a questo che ciascuno è convocato, nelle proprie sedi, dove qualcosa si enuncia, perché la domanda che si formula in varie sedi, in vari modi, in varie circostanze, trovi l’ascolto e non l’indifferenza, e non il convenzionalismo, non la risposta standard.
La questione della parola è la questione della particolarità e della specificità; è una questione complessa. La parola propone la complessità, una complessità che non può mai essere semplificata. Chiaro che questo esige una formazione particolare, esige particolari qualità, particolari virtù, soprattutto esige di non essere sbrigativi e di non appellarsi al senso comune, al luogo comune, al gergo comune. Quello che noi possiamo constatare in varie sedi, in varie circostanze è che l’epoca tende a standardizzare le risposte. Noi ci rechiamo, per esempio, in ospedale e sentiamo che per i vari casi ci sono i protocolli di cura. Ci rechiamo in altre sedi e sentiamo che per aspetti amministrativi, giuridici, di varia natura, ci sono protocolli, cioè appelli al modo standard, modi che possano andar bene per la ‘maggior parte’ dei casi.
La cifrematica non si accontenta di questo e si occupa di ciascun caso. L’importanza sta in ciascun caso e ciascun caso è differente, esige una particolare cura che non può mai essere svolta sbrigativamente verso una standardizzazione. Il caso della follia, della pazzia di ciò che investe la parola, l’esigenza intellettuale di ciascuno non fa eccezione a questo, anzi, in modo particolare esige questa cura, questa particolarità, questa attenzione al dettaglio, alla sfumatura. Qui si tratta proprio sull’accento posto sulle quisquilie e dell’ascolto che ciascuna quisquilia esige. Perché è dalla formalizzazione di queste quisquilie, di ciò che nella domanda si coglie man mano, che avviene quella restituzione in qualità del viaggio che ciascuno compie e che comporta la qualità stessa.
Sembra che ciò che maggiormente non viene tollerato dall’epoca, dagli apparati, anche dalle istituzioni che mirano alla velocità, alla velocizzazione delle cose sia il disturbo, quello che viene chiamato “il disturbo”. E quindi anziché mirare a cogliere cosa ciascun disturbo proponga, per lo più viene fatto un catalogo dei disturbi per poterli trattare, per poter quindi togliere il disturbo. Ma di che cosa si tratta in ciò che viene chiamato il disturbo? Perché qualcosa infastidisce? Perché qualcosa ‘dà problemi’? L’ipotesi è che proprio ciò che viene chiamato disturbo sia la materia intellettuale, ciò che si pone come eccezione, ciò che si pone come particolarità, come qualcosa che esige un’attenzione supplementare, che non può essere riassunta in una modalità.
Siamo qui questa sera per discutere di questo, perché di questo è ciò di cui si occupano nelle loro sedi, con François Keller che è presidente dell’Istitute Suisse du brainworking, Eveline Sautaux, responsabile della formazione dell’istituto e Ariane Schindelholz, che invece è direttrice editoriale dell’Istituto. L’Istituto però è l’ultima fase di questa esperienza, quella più recente. Perché questa loro esperienza è incominciata negli anni settanta, in particolare ad opera di Claire-Lise Grandpierre e poi è proseguita con la costituzione dell’associazione psicanalitica “Le cifre de la parole” che ha avuto un riconoscimento anche istituzionale da parte dello stato svizzero, come centro di cura per l’articolazione della psicosi e che è approdato alla fondazione dell’Istitute Suisse du brainworking, che combina e integra questa esperienza clinica con la direzione dell’impresa. I termini più precisi saranno forniti dagli stessi esponenti e per questo invito al suo intervento François Keller.
Francois Keller Buonasera. Questa sera è un’occasione di scrittura per la nostra esperienza che, come l’ha presentata Ruggero Chinaglia, è iniziata negli anni settanta. In quegli anni, a Ginevra, ho iniziato uno stage che riguardava l’educazione attiva, una specie di approccio educativo che mette in gioco la creatività, l’ascolto e anche una proposta diversa rispetto a un’educazione classica. In seguito mi sono formato prima in un istituto di studi socio-educativi, poi lavorando, ho proseguito studi e ricerche nelle scienze dell’educazione presso l’università dove mi sono laureato.
All’inizio degli anni ottanta a Ginevra c’erano circa quarantamila emigrati italiani, famiglie che sono venute in Svizzera dopo la guerra, e ho incontrato lungo il mio percorso sempre una specie di collegamento con l’Italia, nelle scuole, nelle famiglie, nel mio quartiere. Lungo questo percorso, nel 1983, ho incontrato per la prima volta Armando Verdiglione a Losanna, su invito del Collettivo di ricerca pedagogica e psicanalitica fondato da Claire-Lise Grandpierre. Enrica Ferri, che era nella stessa scuola di formazione di educatori, faceva un tirocinio che è stato, tra l’altro, un approccio dell’esperienza tra la Svizzera e l’Italia.
Il professor Verdiglione ha fatto un intervento molto strano, per me, molto lontano dalle cose che avevo imparato nella scuola per educatore. Apparentemente non avevo capito niente, c’era un’estraneità rispetto a quello che avevo sentito. Nel 1986 l’esperienza a Losanna intraprendeva un’attività editoriale, con la rivista “Clinica”, di cui Grandpierre era tra i fondatori. Erano laboratori internazionali che abbordavano la questione educativa, clinica, psicanalitica, imprenditoriale, culturale. Man mano mi sono accorto che qualcosa mi riguardava, che la mia curiosità intellettuale era provocata in modo differente.
Nel 1986 sono andato a ascoltare Jean Oury alla Villa San Carlo Borromeo, dove teneva un intervento a proposito della nozione di collettivo. A Losanna c’era il “Collettivo di ricerca pedagogica e psicanalitica”, in Francia l’elaborazione di collettivo di Oury, e in quell’occasione ho incontrato l’editore Verdiglione che pubblicava testi molto importanti per la nostra ricerca e molto stimolanti per me, che trattavano temi quale l’educazione, la linguistica e le psicanalisi, e autori come Fernand Deligny, Octave Mannoni, Serge Leclaire, Jean Oury e altri. Questo incontro alla Villa Borromeo era un punto di riferimento per me rispetto all’approccio con la psicosi. Jean Oury aveva elaborato il termine soggiacenza.
Nell’intervento di Verdiglione avevo ascoltato una sua elaborazione attorno all’adiacenza, che apriva un’altra via per instaurare un altro terreno alla pratica. Con la nostra esperienza clinica proviamo a distinguere tra la psicosi e il discorso psicotico come pretesto di un progetto, di una scommessa, di una formulazione d’ipotesi pragmatiche e istituzionali. Con il programma scientifico, artistico e editoriale della “Fondazione di cultura internazionale Armando Verdiglione”, e con i dispositivi dell’Associazione di cifrematica dove sono in gioco oltre al lavoro l’analisi, il racconto e la lettura come aspetti strutturali del transfert, poi con l’esigenza di divenire caso di qualità, si è strutturato un nuovo processo di scrittura della mia pratica. Questo ha portato uno spostamento dell’idea che avevo dell’educazione: cos’è veramente l’educazione? Che cosa educa se non sono io l’educatore? Qual è il dispositivo di educazione? E se l’altro non è il soggetto destinatario dell’azione educativa, qual è il dispositivo da instaurare?
Nel 1992, la nostra equipe ha organizzato e ha partecipato al congresso di San Pietroburgo dal titolo Il cielo d’Europa, cultura e finanza, un congresso internazionale molto impegnativo, che ci ha dato l’opportunità di incontrare imprenditori, artisti e intellettuali che lavorano in Russia. La sfida era stata quella di dare un contributo culturale per i diritti umani e la libertà di scrittura nell’ex-Unione Sovietica. Questo congresso ha dato un nuovo impulso allo sviluppo della clinica della parola in Svizzera, come clinica che trova i suoi modi e i suoi dispositivi grazie all’esigenza d’ascolto e di salute. Nel 1992, abbiamo cominciato la promozione di un film dal titolo Nell’avventura del non la parola.
Questo film è diventato una testimonianza dell’esperienza del collettivo negli anni ottanta, che ha dato un contributo anche al lavoro istituzionale, non solo nel nostro paese, ma anche in Germania, in Polonia, in Russia, in Francia e in Italia. È un documento per la formazione degli educatori, come i film di Mannoni, di Deligny, di Bettelheim e altri. Questi film sono documenti molto importanti per la formazione continua, per la scrittura delle pratiche, per l’enunciazione delle idee e la formulazione delle proposte, per l’ascolto procedendo della questione aperta. Oggi, nella formazione di base degli educatori, con la normalizzazione dell’insegnamento, mi sembra che non esistano più questi esempi che provocano una riflessione, un dibattito, una testimonianza non solo storica, ma anche politica. Questo è nostro compito.
Nel 1993 è deceduta Claire-Lise Grandpierre e ha lasciato un’equipe, un dispositivo con molta forza, con un impulso molto forte per proseguire l’esperienza. Questa esperienza era presente anche nel 1992 con conferenze di cifrematica che abbiamo sentito per la prima volta in francese all’Università di Ginevra, tenute dal professor Verdiglione, con otto lezioni, dove la sua elaborazione era comunicata in un modo nuovo, e anche molto impegnativo per noi, perché implicava la lettura di vari testi, non solo del testo di Verdiglione ma anche di altri di filosofia, di linguistica, di semiotica e di psicanalisi. L’incrocio tra l’Italia e la Svizzera ha trovato un rilancio specifico nel 1993. L’equipe faceva spesso viaggi a Milano e altri membri del movimento venivano in Svizzera per scambi culturali, artistici, anche per l’aspetto della scrittura di ciascuno.
Nel 1988 il collettivo era diventato Association Le chiffre de la parole, che integrava l’aspetto psicanalitico e la clinica integrava l’elaborazione che proponeva la cifrematica, anzitutto la tripartizione del segno; che significa che le cose non sono in una sola significazione, tra l’educatore e il destinatario dell’azione, ma ciascun elemento deve trovare una modalità di scrittura nel compimento. Anche in una giornata di accoglienza e di conversazioni, gli elementi non sono mai nel corso normale delle cose; se ascoltiamo dell’estraneità e qualcosa che non è familiare per noi, allora c’è l’opportunità di un salto di qualità. Anche se all’inizio non sapevamo come fare ciò non ci ha impedito di fare, e di imparare facendo, di fare qualche “trouvailles intellectuelles” attraverso la quantità delle cose che si fanno e che esigono che qualcosa resta dell’esperienza, che sia un capitale di salute in formazione.
Nel 1996 ho iniziato a lavorare, sul terreno dell’intervento clinico, con “L’Association Le chiffre de la parole”, prima diventandone membro, poi facendo la promozioni di eventi culturali, a San Pietroburgo, manifestazioni con artisti e conferenze. Abbiamo fondato un’equipe anche su questo lato dell’attività culturale. Nel 1996 mi sono impiegato come sul terreno dell’accoglienza, dell’ospitalità con dispositivi con circa 15 persone che erano accolte come residenti, alcuni solo per la giornata, altri non avendo né famiglia né casa né altre risorse se non quelle fornite dall’associazione, e con ciascuno abbiamo elaborato un progetto, un programma specifico, senza seguire un modello precostituito.
Nel 2002, con i frutti dell’itinerario — mai sufficienti — mi sono occupato della direzione delle assemblee del dipartimento di clinica. Queste assemblee sono un appuntamento settimanale con ciascun protagonista della nostra esperienza, chi segue un tirocinio, chi dà la direzione di un progetto, chi fa l’accoglienza. Questo dispositivo è un dispositivo di conversazione, di parola, di scrittura, di edizione, anche, nell’oralità. Nel programma di ciascuno verifichiamo le cose che sono in atto, anche quello che io chiamo gli ostacoli che sono rappresentati, questioni che dobbiamo affrontare ciascun giorno con ciascuno. È un tempo di testimonianza e di strutturazione della proposta di ciascuno e con ciascuno.
Il “ciascuno” è un tema moto importante nella nostra elaborazione clinica. Mi trovo con questo dispositivo sia nella solitudine dell’intervento dello psicanalista, sia del clinico, sia del cifrante. Mi trovo in un dispositivo di solidarietà perché questa parola fa parte dell’incontro, nel senso che l’incontro non è mai già previsto, è imprevedibile questo incontro, ma occorre che vi sia appuntamento come ipotesi di un effetto dell’intervento. Quando diciamo parola non intendiamo per questo la verbalizzazione, perché abbiamo un’esperienza con le istituzioni, abbiamo vari scambi con professionisti delle istituzioni e spesso si capisce che la parola è scambiata con la verbalizzazione, quale espressione del disagio o espressione del conflitto con Tizio o con Caio. No. Quando noi diciamo parola diciamo che è qualcosa che interviene e che non appartiene a qualcuno, ma che fa parte di un dispositivo che si inventa nell’istante. Il corso di un’assemblea è anche corso di improvvisazione nel senso nobile di improvvisazione.
Nel 2006 c’è stata la formalizzazione dell’Istituto svizzero di brainworking, che è una modalità per dare un contributo, nuovo, alla nostra elaborazione che riguarda sia l’educazione, sia l’economia che l’impresa. Questa esperienza dal 1974 a oggi è anche una vera impresa culturale, scientifica, clinica. Abbiamo sottoscritto alcuni accordi con lo Stato svizzero per l’accoglienza; per altre attività, invece, non abbiamo sovvenzioni dallo stato, dobbiamo procurarceli da noi, ad esempio quando organizziamo una manifestazione, proposte per quanto riguarda la ricerca o altre interventi che hanno bisogno di dispositivi, ad esempio la vendita di servizi di brainworking, per la direzione.
Quando parliamo di direzione siamo sempre nella questione dell’educazione: a che cosa si indirizzano le cose che facciamo? Che cosa possiamo dare come contributo per la scrittura dell’esperienza di un imprenditore? Quali sono i dispositivi in un’impresa anche produttiva di beni o di servizi? Un’impresa ha sempre bisogno di elaborare l’altro profitto, che non è traducibile in un avere o non avere, ma come un profitto di vita, un guadagno di vita. La connessione tra la nostra esperienza per la direzione di un progetto di vita e un programma di salute intellettuale, e l’intervento con un’impresa, hanno quasi le stesse modalità, nell’ascolto, nell’intervento, nella proposta e nella vendita. Ci troviamo in un’esperienza che dà prova della combinazione tra il privato e il pubblico, e è molto difficile farlo, ma fino a oggi ha dato un certo numero di risultati di cui siamo abbastanza fieri. Grazie.
R.C. Bene. Già in questa prima, breve testimonianza emergono alcuni elementi importanti. Innanzitutto la questione dell’internazionalismo, dispositivi pragmatici che intervengono nell’esperienza, quindi dispositivi del fare, ma che si integrano in un altro per cogliere qual è la direzione del progetto e del programma di vita. Ma soprattutto quello che mi pare emergesse dall’intervento di François Keller, è che si tratta in ciascun atto del rischio. Lo psicanalista, il cifrante, il brainworking, l’educatore assume un rischio nell’intervento. Non adotta un intervento sulla base del principio di competenza, in quanto competente di quell’aspetto applica ciò che quella competenza suggerisce. C’è un azzardo che emerge nell’incontro, c’è un’ipotesi d’intervento che emerge nello specifico dell’incontro. C’è una serie di dispositivi che vengono proposti e attuati, che non fanno parte di un protocollo ma di un’ipotesi che è da verificare, quindi di una scommessa.
Di una scommessa che viene giocata sia da chi propone sia da chi accoglie la proposta, poi si tratta di fare il percorso, di procedere. Non c’è, mi pare, nessun automatismo, non c’è nemmeno l’uso di psicofarmaci, che è un aspetto essenziale. C’è una questione di generosità intellettuale, di domanda, di ricerca, di rischio e allora, la salute, non prima la salute e poi tutto il resto. No. C’è un dispositivo che diviene dispositivo di salute perché alcune cose accadono, procedono, c’è un rischio, si tratta di correre questo rischio. E non è garantito da un risultato già scontato, questo mi pare un elemento importante. Allora, uno degli aspetti dei dispositivi pragmatici è il dispositivo editoriale. Allora Ariane Schindelholz, che è responsabile di questo dispositivo, può darci qualche elemento. Prego.
Ariane Schindelholz Per fare onore alla vostra ospitalità in Italia, parlerò in italiano. La distinzione che ha fatto Ruggero Chinaglia e che è molto valorizzata in questo libro edito da Spirali, La follia, la pazzia, la clinica, questa distinzione tra follia e pazzia non esiste in francese. In francese c’è la folie; la derivazione del termine ha uno scivolamento un po’ speciale, c’è questa significazione di qualcosa che si ferma con la pazzia, in italiano, come se la storia potesse fermarsi, con la significazione già data per la sintomatologia. Non ci sarebbe bisogno di raccontare la storia, perché la storia sarebbe già codificata per certi professionisti, che pensano di sapere a partire dei segni di malattie e quindi si tratterebbe di applicare questo sapere.
Nell’esperienza che facciamo in Svizzera c’è invece la valorizzazione della follia, del rigore, del fare, delle cose che si fanno e che si dicono, piuttosto che la cosiddetta pazzia, piuttosto che la cosiddetta malattia mentale. C’è questa valorizzazione del disagio, in termine di una domanda specifica, una domanda originaria, una domanda che non è già saputa. Allora sì, c’è la disposizione di ascoltare qualcosa intorno alla domanda. Queste persone che accogliamo in Svizzera, che presentano molte questioni che non significano automaticamente problemi, ma che devono, invece, restare questioni aperte, quindi non essere ridotte a problemi di cui dobbiamo trovare la soluzione. Questo è il modo convenzionale: “c’è un problema e dobbiamo trovare la soluzione”.
Piuttosto che ‘trovare la soluzione’ si tratta d’instaurare dispositivi intorno al fare e al dire, perché forse queste ragazze che accogliamo in Svizzera, sono anche professioniste nel credere che c’è la malattia mentale. Qualcuna di loro fino a oggi ha trovato persone che dicono che hanno un problema che è localizzato nel cervello, che è localizzato in un trauma e che questo trauma dà questo sintomo, e allora sono anche professioniste in un certo modo, e è difficile che non abbiano dubbi su questa credenza.
Se qualcosa non va in loro, dentro loro, dentro la famiglia, piuttosto che significare cosa non va nella storia della persona, noi puntiamo a valorizzare questa cosa che è specifica di questa persona, che era abituata a credere che la sua questione fosse un problema. Si tratta allora d’inventare dispositivi per intendere che questa idea di avere dei problemi è una questione d’ignoranza, questioni in ordine alla sessualità; però qui c’è una questione intellettuale da intendere, una questione di desiderio di vita, di desiderio di dire qualcosa di specifico.
Allora, a questo punto, c’è il fare che si pone per offrire un dispositivo perché questa questione divenga qualcosa intorno alla produzione, in termine di ragionamento e di prodotti. S’impone questo dispositivo intorno al fare, però anche noi siamo implicati in questo dispositivo, nella questione della famiglia, dell’impresa, e di come le due questioni fanno giuntura. Allora, per esempio, poniamo come cosa principale la valorizzazione della storia, l’ascolto della storia, la questione della biografia di queste persone, senza soggetto.
Non è un soggetto che deve raccontare la sua vita per avere gli elementi per fare un rapporto, sarebbe un modo psichiatrico, nel senso professionale del termine. Si tratta, invece, della biografia senza soggetto che implica di ascoltare gli ostacoli e anche il compimento di alcuni elementi della vita. E allora raccogliamo queste biografie delle persone che accogliamo.
E siamo anche andati a incontrare in Svizzera, per ascoltare qualcosa della particolarità, persone che hanno imprese culturali, economiche o finanziarie, per fare questo libro: Le goût de l’hospitalitè. Ci sono 25 persone più o meno conosciute, tra i quali un giornalista, un direttore di teatro, un politico, un banchiere, uno scrittore per intendere come in ciascuna attività si mette in pratica l’accoglienza, l’ospitalità. Ora stiamo facendo la stessa operazione attorno al tema della salute, per intendere qual è il suo compimento, per intendere quali sono gli ostacoli in questi percorsi. E poi di questo materiale faremo un libro, dove accogliamo dei giovani che partecipano a questo progetto, anche per intendere che qualcosa è arrivato alla qualità, che qualcosa è arrivato al compimento.
Questi giovani ascoltando queste testimonianze, lavorano anche alla trascrizione di queste testimonianze, e poi alla preparazione delle presentazione pubbliche del libro, che significa occuparsi della preparazione del buffet per ricevere le persone, che significa vendere libri, farne la promozione, fare le fotografie, il video e altre cose. Queste ragazze, come tutti noi, hanno bisogno di qualcosa di interessante per la questione del narcisismo.
Ciascuno di noi ha bisogno di fare belle cose per la fierezza, per la riuscita, per la soddisfazione, per il piacere di fare. C’è anche l’identificazione che funziona, essendo loro coinvolti in problemi più grandi di loro, coinvolti in grandi eventi con le manifestazioni culturali che facciamo, dove delle cose specifiche si dicono, perché viene posta la questione del giornalista clinico, che dà un’altra direzione alla biografia, attraverso il modo di raccontare la loro storia, gli aneddoti.
C’è un modo che pone la questione specifica, dove la questione del disagio non è significata con la diagnosi del sintomo. Questo disagio è piuttosto valorizzato, perché indica che c’è una breccia in questi termini un po’ standardizzati che ascoltiamo ciascun giorno, come la depressione, che forse non vogliono più dire niente di particolare. Questa combinazione tra il dire e il fare introduce uno squarcio, si inventa qualcosa in queste vite che non sono destinate a qualcosa di già detto, di già scritto. Ogni caso non è già scritto nei rapporti psichiatrici, questo è importante da precisare con loro, partecipando con ciascuno.
R.C. Ringrazio Ariane Schindelholz per il suo intervento che ha fornito ulteriori elementi per capire la specificità di questa esperienza. Importante mi sembra quello che diceva intorno al cosiddetto paziente professionista. Cioè, nel modo con cui interviene l’ascolto, nel modo con cui interviene la sospensione della diagnosi, la sospensione del riferimento automatico alla malattia mentale, alla cosiddetta psicopatologia, c’è anche la sospensione del ruolo di malato. C’è chi, talvolta, si presenta dal medico, dallo psicanalista, dallo psichiatra dicendo: “Io ho questo”, ha già la diagnosi perché gliela hanno già fatta altre volte, per cui ha già la sua diagnosi, sa “cos’è”, sa “chi è”, sa da quale malattia è affetto, è un paziente professionista, è un vero malato professionista. Anzi, discute la terapia, discute l’eventuale metodo di cura. Cioè, è un vero professionista, iscritto nel ruolo di malato permanente, e la variazione può essere intorno alla dose, alla quantità, però quello che resta indiscutibile è la diagnosi, è il ruolo, è il professionismo del malato.
In questa esperienza viene sospesa, innanzitutto, la certezza della malattia, questa certezza del ruolo di paziente professionista, è non è cosa facile, questa, esige la formazione specifica per non cadere nel tranello della risposta automatica rispetto alla richiesta di essere riconosciuto come paziente professionista. È chiaro che qui si gioca la partita, la partita della psicanalisi, della cifrematica, si gioca la partita di questa esperienza in Svizzera. E poi, un’altra cosa importante da sottolineare, è la specificità dei dispositivi pragmatici che non bisogna confondere con quanto in passato è sorto nel campo della psichiatria.
Qui si tratta di dispositivi pragmatici in cui non c’è il paziente che lavora e l’operatore che osserva e dirige. No. C’è un dispositivo pragmatico in cui ciascuno fa, perché il progetto è un progetto globale, dove ciascuno è in gioco. È in gioco in uno statuto che si precisa man mano, non è già dato, per cui c’è un rischio da correre. Non c’è, quindi, quello che sa, quello che sa qual è la cura, qual è la durata, e quello che sa qual è la sua malattia, il suo problema e la sua soluzione, e quindi ognuno conserva il proprio sapere applicato.
In questa dissipazione della certezza del sapere, sorge il viaggio, sorge l’itinerario, sorge l’esperienza, e sorgono effetti di cura, di terapia, dunque si instaura la salute. Questo mi sembra l’aspetto straordinario che emerge da queste prime brevi testimonianze che danno la misura di ciò che è in gioco in queste sedi in Svizzera. E l’importanza del dispositivo di accoglienza, di cui magari riprenderemo alcune cose dopo. Emerge da queste prime testimonianze che c’è una questione di generosità, di generosità assoluta, di generosità estrema, che sta nel prendere sul serio quel che si dice. Non si può scherzare su quel che si dice, e nessuno può dire una cosa e farne un’altra, questo è fare il pazzo, e lasciar fare per bontà, questo è altrettanto fare il pazzo. Qui c’è una questione di generosità che è quella di prendere sul serio quel che si dice e far sì che quel che si dice si faccia. Questa è generosità e questa generosità non si instaura a caso. Esige la formazione, il percorso, il cammino, l’itinerario intellettuale. Invito ora a parlare Eveline Sautaux.
Eveline Sautaux Buonasera. Oggi accade un paradosso. Di solito sono sempre io che faccio il debutto, oggi invece tocca a me di concludere. Questa è una scommessa, perché nella mia esperienza ho sempre avuto l’impressione di cominciare le cose, però, la conclusione è sempre stata per me una questione di equipe. Io ho una prima formazione di architetto. Nei miei studi m’interrogavo sulla modalità di vita, come vivere, come si vive in una casa, ma anche in un mestiere. Facendo architettura c’era già un disagio, concludendo la scuola non volevo fare l’architetto, però « il mio titolo » era architetto. Cosa fare?
Poi, via via, ho deciso, dopo i miei studi, di partire per l’Italia. Mi sono fermata a Firenze e ho incontrato un’altra lingua, l’italiano. Da lì, ho cominciato a scrivere. Prima, a scuola, mi dicevano: “Tu non sai scrivere, non hai sintassi, fai errori ortografici, non vai bene a scuola”. Ma a scrivere in un’altra lingua c’era l’altra cosa. In un’altra lingua sembra che non ci fosse più questo giudizio. Non ci si rappresenta, perché non c’è il ricordo del vissuto. Dopo un anno e mezzo a Firenze sono ritornata in Svizzera e mi chiedevo che cosa fare.
Ho lavorato con delle persone anziane legate alla questione della morte. Come queste persone che sono verso la fine della vita, cosa hanno fatto, quale valore danno al loro percorso? Con loro mi sono accorta che erano persone che non volevano partire, e avevano una speranza di vita. Una signora aveva un figlio. Veniva a trovarla ciascuna settimana. Un giorno questo figlio mi chiede: “Sei giovane, che cosa fai qua?” Gli ho detto che ero laureata in architettura. Lui mi ha risposto: “Facciamo una scommessa. Io sono architetto e ho un ufficio, vieni a lavorare con me.” Proviamo. Sono andata a lavorare da lui come architetto. Lavorando come architetto mi sono accorta che altro era il sogno. Dell’architettura la cosa che mi piaceva non era di costruire le case e neanche la questione dell’estetica e non solo. Ma era la struttura, che cosa si struttura nella civiltà.
Quando si parla una lingua e poi se ne parla un’altra c’è questa struttura che cambia, e allora mi sono permessa di cominciare altri studi che non pensavo di poter fare. La proiezione era di inventare una scuola, creare una scuola. Come trasmettere. Che cosa trasmettere? Ho cominciato a studiare in scienza dell’educazione nel dipartimento della formazione per gli adulti. Lungo questo ho smesso di lavorare come architetto e ho proseguito a lavorare negli ospedali psichiatrici e con le persone anziane. Lavoravo come assistente e mi sono trovata con questioni enormi di disagio, dove, quando una persona diceva una parola ritenuta «cattiva» dal luogo comune, dovevamo chiuderlo a chiave, quando aveva un potenziale di violenza troppo grande gli si toglieva i denti. E lì, per me, era scandaloso.
All’università c’era una collega che mi parlava del suo lavoro e diceva che nella loro associazione non facevano ritenzione, e usavano pochissime medicine. Lei mi ha proposto di fare domanda per lavorare con l’”Associazione Le chiffre de la parole” e gli ho risposto che volevo andare lavorare e studiare in Africa, ma lei insistette e cominciai a scrivere una lettera dove raccontavo quello che stavo facendo e le questioni che ne emergevano.
Nel dicembre del 2002, Enrica Ferri, presidente dell’”Associazione Le chiffre de la parole” dal 1993, mi ha ricevuto nella sede di Losanna. Quando sono arrivata c’era un dispositivo di accoglienza. Nell’incontro, raccontai cosa volevo fare, però solo per sei mesi, poi partirò per l’Africa. Quando l’incontro si è concluso ho avuto l’intuizione che lì c’era la questione originaria e che sarebbe stato questo. Non era spiegabile. Ho incominciato a lavorare con l’equipe de l’”Association Le chiffre de la parole” il primo gennaio 2003. Comincio un viaggio.
Enrica Ferri nel libro Le goût de l’hospitalitè racconta che l’analisi, il dispositivo della conversazione, è introdurre il viaggio intellettuale. E io ho cominciato il mio itinerario con un viaggio intellettuale, e così non c’era più bisogno di partire per un luogo che si chiamava Africa. A partire da questo, c’è stato velocemente un investimento perché quando si arriva in questa pratica c’è una libertà, ma non è la libertà di fare quello che vogliamo, è la libertà perché c’è una struttura che rileva un metodo inapplicabile. Questo metodo Claire-Lise Grandpierre lo sottolinea dicendo: “Non si parte mai da quello che sappiamo ma da quello che ancora è sconosciuto”. Vi leggo la citazione che Enrica Ferri ha scritto in questo libro.
“Quello che la psicosi mette in rilievo, in quello che dice, è che c’è qualcosa che la civiltà ha dimenticato.” Parlavo prima dell’Africa e della questione di civiltà; abbiamo sempre l’idea che qui siamo in paesi “democratici” e che in altri ancora no, e dobbiamo aiutarli a esserlo. Si dice che avrebbero dimenticato qualcosa, che sono in ritardo di qualcosa. Ma la questione è ben diversa, è che abbiamo una pretesa, perché siamo a un certo punto della nostra elaborazione, e dobbiamo porci ancora altre domande. Queste altre domande che dobbiamo porci istituiscono una questione di struttura e su questo ho incominciato a indagare attorno all’architettura e la struttura attorno alla questione della clinica.
Nel modo di operare ho interrogato molti giovani su come si vive in una casa, perché nel discorso psicotico ci sarebbe una rappresentazione della negazione della casa. Ad esempio è il momento di andare a fare le spese o a preparare la cena. E per loro c’e un impossibilità di venire e ti dicono “Ma io non ho fame”. Se prendiamo per vero questo enunciato, non prepariamo nulla per questa persona? O le crediamo? Ma che cosa crediamo? E una questione linguistica. Se un racconto s’introduce la trama può intendersi, allora si può intendere che non c’è obbligo di andare fare le spese o di cucinare, però qual è il contributo perché non ci sia esclusione? Si trova che l’Altro è espunto perché le parole sono diventati significati. L’intervento è sempre sul filo, non c’e mai il filetto che fa protezione o parole che possiamo prendere alla lettera per assicurarci di togliere il malinteso.
Il modo di lavoro è stato elaborato per introdurre una questione di ritmo che non può corrispondere al funzionariato di chi arriva alle 8 e parte alle 18. Non è possibile lavorare otto ore e potere poi andare a casa, avendo un’altra vita, andare al cinema, a incontrare gli amici, stare nella propria famiglia, lasciandoli nella loro psicosi, nella loro professionalità di psicotici. C’è stata un’elaborazione di Claire-Lise Grandpierre, e anche di Maud Mannoni, dove occorre introdurre la vita, per questo lo hanno chiamato negli anni settanta “luogo di vita “. E lì, allora, partecipiamo e poniamo la questione della vita, e stiamo con loro 24, 36 ore, e dobbiamo integrare la questione anche di quello che facciamo a casa, impossibile toglierla, e questo introduce l’impossibilità del segreto, l’impossibilità di fare in due tempi le cose.
Su questo Enrica Ferri dice: “La questione che è all’opera dal 1974 nella nostra esperienza è: come prendere dalle rappresentazioni, dai debordamenti, dai deragliamenti le risorse per produrre un’impresa culturale per non vivere del o sopra il sintomo. Dal disagio noi abbiamo appreso gli strumenti per inventare altri modi di combinare, vita, lavoro, formazione, impresa, senza i due tempi: il tempo libero e il tempo del lavoro, il tempo della cura e il tempo dell’inserimento.”
Quando si arriva in una famiglia, c’è la questione del cibo, la cura della casa e c’è la “mamma” che se ne occupa. Anche nella mia famiglia è mia madre che è rimasta a casa a occuparsi di queste cose, dalla quale ho imparato come gestire la casa. Ma queste persone, invece, si sono trovate in una difficoltà estrema dove questo tipo di vita non c’era, o perché c’era un’istituzione da parecchio tempo o perché c’era un ricordo dell’infanzia che era difficilissimo.
Per esempio c’era una persona che diceva: “Se io devo lavare i piatti non mangio”. All’inizio pensavo che era indispensabile che lui lavasse i piatti, e un po’ alla volta, parlando con lui, mi sono accorta che era la morte per lui lavare i piatti, perché nella sua casa se lui lavava i piatti la mamma pensava che lui buttava via i bicchieri, rompeva i piatti, e allora non poteva lavare i piatti perché questo gesto era legato alla madre.
Come trovare dispositivi in modo che le varie cose s’integrassero? Un giorno ha chiesto: “Posso preparare la tavola?” Così si è introdotto un dispositivo di equipe. In una famiglia non c’è una persona che fa tutte le cose, ma ci sono dispositivi in atto. E questa riguarda la questione del matricidio e lo statuto del fare in una casa. Il vivere in una casa è già un’impresa, perché la questione nel discorso psicotico è che questionano le cose più vitali.
Se queste persone non arrivano a pulirsi, non giungono a farsi da mangiare, non serve a nulla che loro facciano altre cose, perché non facendo le cose più facili come potrebbero imparare altre cose! Eh no! E su questo abbiamo fatto la scommessa; che se anche qualcuno non si pulisce per sei mesi, può esserci una produttività incredibile, può fare miracoli. Però occorre che questa difficoltà trovi modo anche di trovare il cammino per andare alla doccia entrando nella parola.
Armando Verdiglione sottolinea: “lasciare fare, senza lasciare passare”. Questo è essenziale. Siccome noi non applichiamo metodi restrittivi, né somministriamo farmaci, allora dobbiamo trovare il modo con la parola. Questa parola abbisogna che prenda un altro senso, perché noi non possiamo nella parola imporre il riscatto o il ricatto. Se noi poniamo il ricatto o il riscatto, il discorso psicotico afferma che vincerà sempre. E sullo scherzo con la morte non c’e nessun dubbio che vince, perché la follia si tramuta in pazzia.
Mai dobbiamo pensare di poter superare il discorso psicotico. Se introduciamo il modo binario, che toglie il malinteso, togliamo la parola a favore dello psicofarmaco, della contenzione. Occorre la velocità. E è con i dispositivi simbolici dove quello che si fa si scrive; e non c’è una persona come soggetto che può padroneggiare la distruzione. Vi ho parlato di questo come di un esempio di quello che facciamo.
R.C. Ringrazio Eveline Sautaux per questo suo intervento, che ha introdotto tra le altre cose la questione dell’altra lingua. “L’altra lingua e l’ascolto” è il titolo del prossimo avvenimento con Augusto Ponzio, in presentazione del suo ultimo libro La dissidenza cifrematica, per ascoltare la sua testimonianza che è quella di un docente universitario che si è cimentato con l’analisi del testo di vari autori, e quindi andando oltre il principio di competenza che è propria dei docenti universitari.
Augusto Ponzio si è cimentato, a un certo punto, da qualche anno con uno dei testi più difficili per lui, il testo di Armando Vermiglione. E che quindi ha cominciato a restituire in scrittura, con la sua scrittura, con la sua specificità, che è quella di semiotico, di filosofo del linguaggio, però senza ricorrere alle categorie proprie di queste discipline, cercando di dissipare la categorizzazione, e correndo il rischio di un’altra lingua, e quindi correndo il rischio di ascoltare qualcosa d’altro.
L’importanza dell’altra lingua, come notava Eveline Sautaux, è straordinaria. L’altra lingua per lei ha avuto come pretesto l’italiano, ma l’altra lingua non è un’altra lingua da cercare nell’ambito delle lingue nazionali, è l’altra lingua, cioè quella lingua in cui funziona l’Altro, cioè quella lingua in cui non c’è più la significazione, in cui quel che si dice non risponde a un gergo, a un significato già dato, si presta all’ascolto.
È così che può intendersi la cosa, il nuovo, con l’ascolto di ciò che di Altro si dice, perché non c’è più il riferimento alla lingua nota, alla lingua materna, alla lingua nazionale, alla lingua della significazione, ma si tratta dell’altra lingua, essenziale per l’articolazione della psicosi che, a questo punto, interviene in un’altra accezione rispetto alla terminologia psichiatrica.
Si tratta di psicosi, non tanto dove si rappresenta una situazione di gravità incontrollabile per chi dovrebbe gestirla, si tratta di psicosi dove viene opposto a quanto si dice la significazione, perché ancora quel che si dice risulta ignoto, e viene opposto un sapere già codificato. Allora questa è la psicotizzazione più massiccia, che è molto più dilagante di quanto la psicopatologia vorrebbe farci credere, perché ognuno che miri a conservare il proprio sapere, quindi a conservare i suoi pregiudizi, che miri a conservare le sue superstizioni, le sue abitudini, ecco, ognuno di questi si trova nel “discorso psicotico”, cioè quel discorso che tenta di introdurre una barriera per impedire che funzioni l’Altro.
Nell’articolazione di questo discorso, diceva Eveline, non c’è un andamento rettilineo, non c’è una possibile codificazione da fare. Occorre lasciare che le cose si svolgano, occorre che le rappresentazioni si dissipano, e questo esige il metodo analitico. E nessuno sa quale sia la rappresentazione che impedisce qualcosa, impossibile correggere, impossibile convincere, occorre fornire pretesti, occasioni, dispositivi, perché venga avvertito l’ostacolo, perché venga avvertito l’impossibile, perché venga avvertito il disagio, non per togliere tutto ciò, ma perché questo possa produrre, consentire l’articolazione, lo svolgimento. Quindi, dispositivi non di liberazione ma dispositivi pragmatici, in cui le cose avvengano senza protezione, senza rimedio, ma certamente in una struttura.
E questa è anche l’esperienza di associazione, nella nostra esperienza, l’esperienza di associazione propone questo: dispositivi intellettuali, pragmatici, organizzativi, di scrittura, di lettura, di cifra, di clinica, di conversazione, di narrazione perché ci sia modo d’incontrare ciascuna cosa nella sua struttura, nella sua particolarità senza che ci sia più modo di evitarla. Questo è ciò che rende la questione estrema, non si può parlare di difficoltà a questo punto. Si può parlare di complessità che non può essere semplificata. Occorre attraversarla, occorre capirla, occorre intendere che questa complessità non è il segno di un male, è qualcosa di strutturale che occorre attraversare, capire, intendere. Ci sono domande dal pubblico?
Sabina Resoli Volevo chiedere a François Keller qualcosa rispetto all’improvvisazione. Lei prima ha usato questo termine, allora la mia domanda è questa: quanto conta nell’educazione l’improvvisazione, se questa improvvisazione ha a che vedere con la clinica, con l’oggetto, con l’intervento dell’oggetto. Poi una cosa che mi è venuta in mente ascoltando l’intervento di Arianne Schindelholz, che diceva, “Siamo in una cosa più grande di noi”, e allora la contrapponevo al paziente professionista, è questa espressione che, invece, sembra l’espressione dell’altro professionismo, cioè un professionista non direbbe mai: “Sono in una cosa più grande di noi”, e mi chiedevo se chi si rivolge a voi, si accorge di non essere in relazione con il professionista e quanto questo chiami in causa ciascuno, proprio perché si è in una cosa più grande che non si sa già come fare. Mettevo vicino solo due frasi, il paziente e il professionista che si trovano in un dispositivo con chi dice: “Sono in una cosa più grande di me”, cioè con chi nega il professionismo, e quanto questo abbia effetti di cura.
Simone Barison Volevo fare una domanda sulla pazienza, perché mi pare di capire che ciascuno di voi ha a che fare con dei matti, con persone che non si lavano, che non vogliono lavare i piatti. Cos’è che vi porta a cimentarvi con questi casi, qual è il profitto, perché capisco che il profitto per loro è estremo, ma per voi quale sia il profitto intellettuale, scientifico e artistico. E poi una domanda a Eveline Sautaux, in merito all’Africa, cioè se non ha avuto dei rimpianti per non esserci andata o se ha ancora questa idea, e se ha capito a che cosa puntasse quest’idea dell’Africa, se ha trovato una soddisfazione maggiore in ciò che sta facendo, anziché l’ipotesi di andare in Africa.
Lucio Panizzo Mi ha molto interessato sia la questione dell’accoglimento e sia la questione della struttura. Perché l’esempio dell’architetto che si trova a intendere che la questione della struttura non è solamente una struttura in calcestruzzo, ma giunge alla logica della parola. E quindi la cosiddetta professione di architetto che poteva essere un futuro per una persona, invece si volge verso un altro percorso, indica che non c’è nulla al di fuori della struttura della parola, e questo è interessantissimo. Per esempio, l’accoglimento del disagio indica che solamente con la parola e con la logica della parola si può procedere, con la questione della divisione, per cui un’impalcatura psicotica o una nevrosi, possono trovare un accoglimento e ristrutturazione, una nuova costruzione con la logica della parola. Questo mi sembra che effettivamente è una testimonianza interessantissima.
R.C. Ma c’è una precisazione da fare. Non è da credere che chi si trova in quello che lei chiamava “impalcatura psicotica”, sia fuori dalla parola e debba rientrarvi, è nella parola, è nella complessità della parola. Ma in un modo che non è affatto chiaro a altri e a se stesso. Si tratta non già di riportare alla norma, alla normalità, alla convenzione questa “impalcatura” che sarebbe fuori della parola, ma è capire come anche questo è nella parola. Effettivamente c’è un restauro da compiere, cioè una restituzione, una formalizzazione che non è giunta a compiersi e quindi esige un percorso. Non è da pensare che questo sia fuori, perché altrimenti proponiamo una contrapposizione, saremmo sempre nell’idea psichiatrica che c’è il male da una parte che è da riportare al bene.
Eveline Sautaux Claire-Lise Grandpierre diceva nel collettivo psicanalitico pedagogico: ” Quella che è psicotica sono io, loro sono piccoli psicotici”. Dunque non è una questione di essere o non essere, in quanto la questione è la materia del dire. Nell’elaborazione di Verdiglione rileva come le cose giungono al senso, perché la questione della psicosi che mi colpisce è che non fanno niente se non c’è un senso, c’è un immobilismo impressionante se non c’è senso. Occorre dare un senso anche a un piccolo sassolino, a un più piccolo gesto occorre dare un senso.
Leggendo gli scritti di Claire-Lise Grandpierre colpisce il fatto che per lei a ciascuna piccola cosa occorreva dare un senso per il suo itinerario, per lasciare la traccia. Perché la questione della psicosi è una cosa che è incredibile, che ci fa credere che non c’è traccia. Se veramente in un giorno non c’è la parola, non c’è l’appuntamento, ad esempio, andiamo a cena da qualche parte, se non c’è la parola, se non viene fissato un appuntamento c’è subito il deragliamento. E perché non ci sia questo occorre sempre fissare un qualcosa da fare dopo, è questo è il senso della giornata, e la conversazione come viaggio intellettuale.
Marianne Schindelholz La psicosi concerne ciascuno di noi come materia, come materia delle cose che hanno bisogno di dirsi e a farsi in modo specifico, per esempio la crisi. Forse c’è una grande questione da porci intorno alla materia, perché su quale materia si poggia la scommessa finanziaria, su quale materia? Non c’è da dimenticare la questione della materia, ciascuna cosa che facciamo per ciascun aspetto della vita. Per queste persone che accogliamo c’è sempre la materia da intendere, c’è sempre la questione un po’ disturbante che loro pongono. Se noi non ce la poniamo queste persone la ripresentano in modo molto accentuato, per farci capire che questa materia è importante, e che non è da dimenticare. Credo che la crisi nel sintomo è una cosa da non dimenticare.
R.C. Allora passo la parola a François Keller, per concludere.
François Keller Per quello che non accetta di lavare i piatti dobbiamo trovare uno sponsor chiamato “Indesit”, perché in una famiglia la questione si pone. Non abbiamo più tempo di fare alcuni gesti, abbiamo altre cose da fare; qual è l’essenziale, imparare a lavare i piatti o eventualmente comprare una lavastoviglie? Poi, per quanto riguarda la domanda sull’improvvisazione, il dispositivo dell’assemblea è lungo la settimana, e in questo dispositivo io ascolto gli elementi di scrittura dell’esperienza con ciascuno, anche nell’ascolto cosiddetto distratto, non un ascolto con l’attenzione, con la volontà di sentire le cose.
Facendo varie cose c’è una narrazione aperta con ciascuno e ci sono anche dispositivi di narrazione, di racconto specifici. E con questi elementi che ci vengono forniti da questi dispositivi, nella direzione dell’assemblea arrivo a anticipare, a un anticipazione delle questioni per provocare l’itinerario degli elementi, anche la scrittura degli elementi. E c’è questa altra parola, l’Altro tempo, che occorre instaurare con ciascuno. Questo è quello che io chiamo improvvisazione, nel senso che non sappiamo qual è la cosa di cui dobbiamo parlare, ma solo dicendo, ascoltando, verificando, l’improvvisazione è clinica. Grazie.
R.C. Questa testimonianza ci lascia riflettere su quanto di prezioso ciascun giorno accade e magari non viene accolto per avarizia intellettuale. Dal loro racconto emerge come la questione importante sia la generosità e come nel momento in cui la generosità si è instaurata, allora il valore, la gioia, la soddisfazione, la felicità non sono più cose da prevedere, da calcolare, ma sono effetti del tempo, della pratica, dell’esperienza che si aggiungono e che fanno sì che la cosa prosegua, senza rammarico, senza ripensamenti, senza guardarsi indietro, senza pensarsi, senza credersi, ma rivolgendosi all’avvenire. Ringrazio ciascuno e in particolare Eveline Sautaux, Arianne Schindelholz e François Keller. L’appuntamento è per la settimana prossima per incontrare Augusto Ponzio, Margherita de Michiel, Susan Petrilli e Maria Antonietta Viero, intorno al libro di Augusto Ponzio La dissidenza cifrematica. Arrivederci e grazie.