Il tempo dei lupi
- Chinaglia Ruggero, Curi Umberto, Francesco Amato, Palombarini Giovanni
4 febbraio 1996 Conferenza con dibattito a presentazione del libro dal titolo Il tempo dei lupi. Giustizia e informazione, edito da Spirali, di Francesco Amato, giudice di Corte d’Assise, con interventi di Ruggero Chinaglia, psicanalista, Umberto Curi, filosofo, Giovanni Palombarini, magistrato, nella Sala della Gran Guardia, a Padova
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FRANCESCO AMATO
Il tempo dei lupi
Relatori
- Francesco Amato – Il tempo dei lupi. Giustizia e informazione
- Ruggero Chinaglia – Quale città?
- Umberto Curi – Tra storia e poesia
- Giovanni Palombarini – Una testimonianza
Francesco Amato Per mestiere sono abituato a ascoltare senza annoiarmi. Non posso pretendere la cosa da voi, uditori volontari. Gli oratori si distinguono in due categorie: quelli che affascinano e quelli che annoiano. Io rientro in questa seconda categoria. Sì, perché, nonostante la buona volontà, l’attenzione degli ascoltatori scema e poi precipita nella noia, che, presto, diventa sofferenza. Conosco un drastico rimedio, l’uovo di Colombo: per non affliggere, rimanere in silenzio. Ma, poiché sono qui a Padova, qualcosa devo pur dire. Conosco un buon palliativo per annoiare poco: la brevità. Mi limiterò dunque ad alcuni flash, tra il serio e il faceto, prendendo spunto da quanto ho udito in occasione di precedenti presentazioni del romanzo.
Primo flash. Gli editori sono dei diavoli. Su questo non c’è dubbio. “Chi è Barabba?” si domandava un pensatore, per poi rispondere sbuffando: “Certamente un editore!” Alludeva ai gruppi monopolistici che gestiscono i mezzi di comunicazione e che impongono ai lettori, considerati alla stregua dei consumatori, cosa si deve acquistare, leggere o far finta di leggere. Non è il caso di Spirali, che, come vedete, dà spazio ai giovani, promettenti scrittori di 64 anni. Le difficoltà che un editore libero deve affrontare per sopravvivere sono enormi. È arduo navigare nel mare nostrum dell’editoria, solcato da quei micidiali siluri costituiti dai supplementi dei quotidiani. Altro che par condicio! Ecco perché i miei ringraziamenti vanno a voi, signori uditori e lettori per la vostra pazienza, e alla casa editrice Spirali per il suo coraggio.
Altro flash. Qualcuno ha detto che Il tempo dei lupi è un romanzo giallo. Leggo sulla quarta di copertina: “Giallo giudiziario che ha uno scenario tutto italiano. C’è la nota misteriosa di un ufficiale dei servizi di sicurezza – suicidio, omicidio, disgrazia – c’è una pistola dorata, una signora enigmatica, un commissario di polizia, c’è un’inchiesta, un delitto perfetto, forse, un delitto nella camera chiusa”. I migliori giallisti si sono cimentati sul tema della camera chiusa e i titoli sono invitanti, alcuni leggermente orientati al macabro: Le tre bare di John Dixon, La casa stregata di Carter Dixon, L’enigma dello spillo di Edgar Wallace. E sentite questi, inneggianti alla vita: Morte di un arlecchino di Agatha Christie, La canarina assassinata di Van Dine, e via dicendo. Ma i romanzi gialli, alla fine, di solito all’ultima pagina, contengono la soluzione dell’enigma.
Sherlock Holmes, applicando la scienza dell’osservazione e delle deduzioni, raggiunge sempre il bandolo delle questioni, con la presenza distensiva del dottor Watson. Il sostituto procuratore Vannini, protagonista della mia vicenda, è invece solo. Sherlock Holmes collabora con il primo ministro inglese, con il presidente della repubblica francese, con Sua Santità, con il ministro ottomano, con la dinastia danese e altri regnanti. Vannini non ha e non vuole avere amici potenti. Poirot, utilizzando il metodo dei confronti collettivi salottieri, ottiene sempre quello che una volta si chiamava “la prova principe”, la confessione del colpevole, un lungo e esotico viaggio sull’Orient Express, una lussuosa crociera sul Nilo, la disponibilità degli indiziati.
Dubito che in Italia possano verificarsi queste condizioni; sono scomodi i treni, non navigabili i fiumi. E poi, Vannini, i viaggi non li faceva. Maigret incastra con prove schiaccianti l’assassino. Che ingratitudine umana! Egli meritava di essere nominato prefetto di polizia. In Italia, dove il merito è ricompensato, avrebbe certamente ricevuto una carica parlamentare, ma almeno il commissario francese aveva il compenso della signora Maigret, Louise Maigret, l’ideale delle mogli: mite, paziente, servizievole, una cosa da raccomandare alle migliori famiglie. Nessuna donna, invece, aspetta a casa il mio Vannini, né una Louise né una Santippe. Come è stata ingiustamente malfamata la signora Santippe, che riusciva a sopportare la saggezza geniale di Socrate! L’avvocato Bruio, un personaggio dei romanzi di De Cataldo, arriva sempre a risolvere il caso con indagini para-processuali, senza collaborare con le autorità costituite, frequentando centinaia di persone. Il mio Vannini, al contrario, è oppresso dalla solitudine, frastornato dalle menzogne, schiacciato dal potere. Il vero potere! Quello che consiste nell’abuso del potere. Orbene, Il tempo dei lupi non dà un’esplicita risposta al problema che lo innerva, quindi non è un romanzo giallo.
Nella gamma offerta di diverse possibili soluzioni, spetta al lettore individuare quella più attendibile. Ahimè, in rerum natura tutto è difficile. Come afferrare la verità? Ha mille sfaccettature. E le incognite condizionano la comprensione perfino dei fatti cosiddetti accertati. Forse si deve pervenire all’amara conclusione di doverci accontentare di un surrogato della verità ignota, e a dirla con Pirandello, di un velo della verità. Altri hanno accostato Il tempo dei lupi alle spy stories. Apro qui uno spiraglio sul trapassato remoto, poiché le cose antiche non lambiscono le nostre coscienze.
La prima spy story documentalmente registrata rimonta al XIII secolo a.C. e ebbe un cronista di eccezione, conteso anche oggi dalle case editrici, l’autore del libro di Giosuè, dove si parla di fatti sublimi e di misfatti atroci. Due agenti segreti israeliani, i fondatori del Mossad suppongo, entrano clandestinamente a Gerico e agganciano una bella donna chiamata Raab, di mestiere prostituta. Con minacce di morte e promesse di vantaggi ottengono la collaborazione di Raab, la quale li informa della situazione socio-politico-militare dei suoi connazionali. I guerrieri israeliani, favoriti dalla meretrice e protetti dal dio dell’esercito, muovono all’attacco di Gerico, la conquistano e vi portano lo sterminio. Narra l’illustrissimo cronista: “Con niente affatto celato compiacimento, passarono a fil di spada ogni essere che era nella città, dall’uomo alla donna, dal bambino al vecchio; e eziandio i buoi, le pecore, gli asini”. Furono risparmiati soltanto la fortunata antenata di Mata Hari, i suoi familiari e i loro beni. Il ricatto della paura e i vantaggi economici sono i consueti mezzi usati dai servizi cosiddetti di sicurezza.
Ben lo sapeva Napoleone, che probabilmente ignorava la Bibbia, ma aveva studiato il trattato cinese sulla guerra e sullo spionaggio, compilato nel VI secolo a.C. da Sun Tzu. Al traditore, ex giacobino, ex repubblicano, ex terrorista Fouchet, che in un raro slancio di idealismo gli aveva proposto di insignire della legione d’onore un agente segreto, l’imperatore ordinò: “Mandategli un mucchietto di monete d’oro, è la sola ricompensa che meritano le spie”. A proposito del mandarino Sun Tzu, costui classificò gli agenti segreti in cinque categorie: spie locali, spie interne, spie convertite, spie condannate, spie sopravvissute. Non è presa in considerazione, nel trattato, la classe delle spie mosse dall’ideologia, neppure viene prevista quella categoria di rompiballe che scrivono sulle spie e sui delitti in camera sigillata.
Ritorniamo così al presente. Il tempo dei lupi, spy story? Il menù sarebbe quello tipico della fiction in genere, inserita nella nostra cronaca più recente: servizi stranieri interessati a una grossa fornitura di armi, comportamenti equivoci del servizio italiano, giudici integerrimi, funzionari di polizia bloccati nelle indagini, superiori infingardi, campagne di stampa denigratorie e pilotate. Queste cose accadevano nel 1968. Ma la spy story si muove su ampi spazi. Il protagonista trasvola mari, percorre deserti, alloggia in un albergo a 4 o a 5 stelle, fa l’amore con donne ovviamente bellissime ed esperte nell’ars amatoria.
Purtroppo, nulla di tutto questo avviene nel mio romanzo. “Mettici una scena sexy – si raccomandava un amico mentre lo scrivevo – è il genere che va di moda”. Ho resistito alla tentazione. La scena sexy non rientrava nell’economia dell’opera. E ancora: nella spy story i personaggi positivi si contrappongono a quelli negativi tout court in dinamiche e complicate, mirabolanti avventure mozzafiato. Nel mio libro, invece, i fatti sono ridotti al minimo e i personaggi non sono né spregevoli né eroici. Ne Il Tempo dei lupi non ci sono uomini buoni o cattivi, o da odiare o da disprezzare; ci sono soltanto uomini con le loro miserie e le loro ricchezze, con le loro azioni, queste sì, buone o cattive, c’è l’intrigo, il timore, il coraggio, la solitudine, pure l’amore. È che io, con l’inesperienza della mia età, non ho ancora capito cosa significhi l’uomo buono. Riconosco i miei limiti. Non ho la penna di Manzoni per dipingere un Don Rodrigo sempre malvagio o un Fra’ Cristoforo sempre eccelso, a parte il noto giovanile incidente di percorso.
Dicevo, cosa significa essere buono? Vorrei fare un esempio, non empio, piuttosto poco conformistico. Ricordate Dante, quando canta San Francesco che, …per la sete del martiro, / nella presenza del soldan superba / predicò Cristo e gli altri che il seguiro. Il poeta canta con l’aspetto della verità. Ma c’era un altro aspetto trascurato della medesima verità. Il poveretto d’Assisi, il buono, il santo, definito da Tolstoj “il secondo cristiano dopo Cristo”, partecipò alla quinta crociata e benedì vessilli ed invasori. Fu azione di uomo buono o è tutto relativo? I nostri pensieri, le nostre verità, le nostre certezze? Al contrario, fu buona l’azione del sultano Malek Al Kamil che lo accolse con raffinata ospitalità e lo voleva riempire di doni. Francesco rifiutò: “Sei un infedele!”, gli disse. Il sultano insisteva: “Prendili lo stesso, prendili per i tuoi poveri”. E l’ostinato santo: “No! Prima ti devi convertire!”. In definitiva, i poveri di San Francesco rimasero poveri.
Altro flash. Nando Dalla Chiesa ha scorto ne Il Tempo dei lupi una finalità pedagogica, e con il suo forbito eloquio, quasi mi convinceva, quando ho pensato a Charlot, ai suoi film dal contenuto rivoluzionario – vere e proprie denunce per la società capitalistica e corrotta provenienti da un poeta generoso – ho pensato a Charlie Chaplin, che negli ultimi anni della sua vita confessò di aver prodotto i film per guadagnare, per arricchirsi in altre parole. Mentre il richiamo all’aspetto economico non sarebbe confacente, ma addirittura comico per uno scrittore oggi in Italia, lo scopo pedagogico di cui parla Dalla Chiesa era l’ultimo dei miei pensieri e il più soffocato dall’inconscio. Volevo soltanto nello scrivere il libro, descrivere uno spicchio della storia di un uomo che seguiva i precetti di vita, i precetti sociali e religiosi dei dieci comandamenti, o meglio i precetti laici espressi concisamente e mirabilmente dai romani con le massime Neminem ledere, Suum cuique tribuere, Honeste vivere.
Qualcuno mi potrebbe chiedere: “Se non perseguivi alcuno scopo, qual è stato il movente che ti ha spinto all’opera?”. Rispondo: “Non lo so”. Scrivere è un assurdo vizio, e ciò che è assurdo non può trovare razionale spiegazione, quia absurdum est. Chissà, assurdo come angoscia, incoerenza, come forma di evasione o di finzione, ma assurdo anche come inutilità di tutte le cose, vanità di ogni vanità. Cito un dialogo di Nietzsche: “Tutto ciò che è scrivere mi riempie di sdegno e di vergogna”. “Allora perché scrivi?” “Per liberarmi dai miei pensieri”. “Perché te ne vuoi liberare?”. “Me ne voglio liberare, lo voglio proprio”. “Basta, basta così!”. Un dialogo assurdo. Certo! “Ma io non voglio andare tra i matti” – replicherebbe Alice – “Non hai altra scelta – direbbe il gatto – qui siamo tutti matti”. Il riferimento agli scrittori o presunti tali è d’obbligo.
Dunque, Il tempo dei lupi non è un romanzo giallo, non è una spy story, non ha contenuto pedagogico e non è neppure un libro di storia. Ma allora cos’è? È un romanzo atipico, un romanzo che ha per cuore la narrazione emotiva di un’inchiesta giudiziaria che avrebbe voluto penetrare nei settori proibiti dei poteri occulti; è l’ansia della ricerca infruttuosa, è la descrizione dell’attività di un giudice – fatti e pensieri – che si incrociano con le storie – fatti e pensieri – di altri uomini, il tutto compreso in un breve arco di tempo. È una storia che si dipana in spazi ridotti: corridoi, ambulacri, uffici sono i luoghi dove le burocrazie manipolano i fatti che diventano presto memorie o scompaiono nel nulla, o, sedimentandosi in infinite distorsioni, si fanno cronaca maligna, strumento di ricatto, potere occulto. Dedicata a Ottorino Pesce, un collega dimenticato. Alla sua figura mi sono ispirato nel tratteggiare la personalità di Vannini.
Epoca 1968: la guerra fredda s’insanguina, carri armati sovietici a Praga, orrore nel Vietnam, palestinesi senza più patria, manifestazioni studentesche, disoccupazioni, lotte operaie, scioperi. Antefatto: l’opinione pubblica vorrebbe sapere se il piano Solo, elaborato dal generale Di Lorenzo, già capo del Sifar e, dopo, comandante dell’Arma, era o no finalizzato a un golpe. La collettività vorrebbe sapere anche di certe vicende connesse alla erogazione di pubblico denaro in favore di gruppi e persone. Trapelano notizie di occulti reclutamenti paramilitari che vengono collegati, a torto o a ragione, al piano Solo. Non si sa ancora nulla su Gladio, struttura super segreta, tenuta ermetica, su cui incombeva la CIA, che in parte la finanziava. Come dirà in seguito un affiliato: “La superficialità dilagante, il sensazionalismo della stampa diventano i migliori alleati per fare in modo che non se ne capisca nulla”.
E poi ci sono gli “anticorpi”. Siamo alla vigilia della strategia della tensione e della strage di piazza Fontana. Un pomeriggio di quella afosa estate 1968 un colonnello del Servizio segreto, che aveva rivestito un importantissimo incarico, viene trovato morto nel suo studio romano: un proiettile gli ha trapassato il cranio. Sotto la mano destra, una graziosa piccola pistola dal calcio dorato.Tutti dicono: “Suicidio!” Si apre però un’inchiesta. Il pubblico ministero ha dei sospetti, si imbatte in reticenze, menzogne, ostilità. In nome di un segreto di stato può essere sacrificata la verità? E quale verità? Quali gli interessi coinvolti? Quelli dei mercanti di armi o quelli che nascono da intese o intrighi politici ed economici, o quelli veri della collettività?
Nella storia si muovono vari personaggi, alcuni inseriti nelle strutture statali, altri no, ciascuno di loro in possesso di una tessera del mosaico, ma per sfortunate circostanze o calcolate decisioni, il mosaico sebbene sia massimo l’impegno del valoroso magistrato che ritiene di essere a un passo dalla verità, non si compatta, l’istruttoria si arena nelle secche del palazzaccio; sul fatto cala il sipario del silenzio.“L’ insoddisfazione colora il romanzo”, è stato un commento.
Vero! Insoddisfatto è il vecchio lupo, il generale Bernardi, consapevole del suo cinismo; insoddisfatto è il maresciallo Di Lernia, l’anziano, mesto sottufficiale dei Servizi su cui cadono improvvisamente i pezzi infranti delle sue certezze, tutta una vita per nulla; insoddisfatto è il giovane giornalista Sebastiano, che vorrebbe, con le sue poesie, comunicare l’incomunicabile; insoddisfatto è infine il sostituto procuratore Vannini per i risultati non appaganti della sua professione, per la verità che non riesce a raggiungere, per la solitudine che lo accompagna.
Ma questo stato d’animo non contrasta, bensì coesiste in lui con l’entusiasmo, con l’impegno civico, con la fede negli ideali, e, anzi, li alimenta. A ben riflettere, l’insoddisfazione costituisce l’essenza dell’intelligenza umana. L’insoddisfazione è anche la forza che spinge l’uomo a guardare l’orizzonte, che porta l’uomo, quando è spenta ogni speranza, malgrado tutto, a sperare.
RUGGERO CHINAGLIA
Quale città?
Di che cosa si tratta nella città? Di quale città si tratta di trovare i termini? La città in questione, la città intorno a cui ci interroghiamo è non già la città normalizzante, la città segregativa, la città inquinata, la città malata, la città minacciata da ogni male che si tratta quindi di eliminare o di purgare, o di bonificare, non già la città necrofila dominata dal pericolo di morte o di carcere, su cui molti mestieri e professioni si organizzano in un programma di morte, né la città della calma, la città dello psicofarmaco dove tutto deve essere gestito in nome dell’omogeneità, né la città dove l’assenza dell’Altro distribuisce i sudditi tra amici a nemici, tra il bene e il male.
Questa sarebbe una città e una società senza tempo, senza occorrenza, senza contingente, dove non accadrebbe nulla, una città dunque senza miracolo. Sarebbe una città dove il fare passerebbe attraverso le categorie della possibilità, del dovere, del sapere, del potere. Si tratta invece di istituire, di vivere in un’altra città, in un’altra società: nella città e nella società del tempo. Da quando la parola originaria si è instaurata, quindi, almeno a partire dalle questioni poste da Leonardo e da Machiavelli, si tratta della città dove essenziale è il dispositivo: dispositivo artificiale, artistico, culturale, per l’impresa e per la comunicazione, per la scrittura; cose che non hanno nulla di naturale, perché esigono lo sforzo quale sforzo intellettuale.
Dunque, su cosa poggia questa città se non sulla libertà di arte, di cultura, d’impresa? Dove si costituisce? Si costituisce a partire dall’originarietà del due, poggia quindi sull’ossimoro, che è il modo del due. È a partire dall’ossimoro, che trovano modo di esistere l’indulgenza, la tolleranza, l’intelligenza, la generosità, che sono proprietà del diritto quale diritto dell’Altro. Procedendo dal due, anche la giustizia non è più prerogativa umana, da amministrare e somministrare, ma è giustizia del sembiante, giustizia come modo in cui l’oggetto interviene nella parola, nella vita di ciascuno.
Essenziale questa originarietà del due, con il suo modo, l’ossimoro, perché ciascuna ideologia, se ci riflettete, poggia invece sulla presunta originarietà dell’uno, sull’uno a partire da cui tutto procederebbe per divisione algebrica. A partire da questo, allora, la linea diviene la demarcazione tra l’amico e il nemico, tra il bene e il male, col conseguente scontro frontale come inevitabile. È ciò cui stiamo assistendo anche sulla scena politica nazionale, dove a dispetto di ogni tentativo di accordo, di trattativa rimane poi lo scontro, la frontalità degli opposti schieramenti, senza un’integrazione fra le idee, i programmi che ciascuna parte propone.
Senza questo due, infatti, non può instaurarsi quella che Machiavelli chiamava la lingua diplomatica, e viene mantenuta, invece, la lingua dei litiganti, quella lingua ritenuta personale che è la lingua di pertinenza della rissa politica. Tutto ciò, entra nel libro di Francesco Amato, Il tempo dei lupi, perché, c’è nella tessitura del romanzo, nella trama, negli avvenimenti che vi si svolgono e nel modo del racconto, c’è un’immagine, una proposta di città, di scenario dove le cose accadono, senza la prevalenza del bene sul male o dell’amico sul nemico, ma in un modo dove l’ossimoro fa da base.
Il libro stesso è ossimorico, nel senso che al ritmo incalzante, anche se non vertiginoso – perché si tratta di un’indagine condotta da un magistrato e non già da un detective, quindi non segue il ritmo del romanzo d’azione, ma di ricerca – a questo ritmo incalzante si affianca la pacatezza del tono, la leggerezza con cui vengono affrontate le varie circostanze. È un libro che, nel corso del procedere della storia, non svela ma allude, senza nessuna rivelazione clamorosa, nessuna denuncia, nessun grido di allarme, ma con una sfilata di dettagli di cui l’autore lascia al lettore cogliere la combinazione e la cifra.
Un altro aspetto molto importante, proprio per questa caratteristica ossimorica del libro è che, pur essendo la caratterizzazione dei personaggi qua e là contraddistinta da una certa ideologia, il libro non è ideologico. Ciascuna caratterizzazione, ciascun appello a questa o a quella ideologia che traspare poi come un contrappunto, quasi come un intervento del coro, in ciò che ciascun giornale, lungo lo snodarsi dell’indagine che viene raccontata, cerca di connotare, ebbene, tutto ciò resta come ammesso nella differenza, senza che una parte prevalga sull’altra parte, ma quasi nell’integrazione, dove sta al lettore cogliere il messaggio, cogliere la lezione che il racconto propone.
In questo senso entra anche la questione dell’informazione, del modo in cui questo coro allude talvolta a una disinformazione, a una notizia, talora vera, talora falsa, perché è questa la questione che si pone oggi nella cosiddetta “società della comunicazione globale”, che in nessun caso può porsi, proprio per la moltiplicazione delle fonti dell’informazione, che qualcosa sia o tutto vero o tutto falso, ma si tratta del vero-falso. Non c’è da sperare in una società tutta bianca, dove sia tutto vero, contro una società tutta nera, dove è tutto falso, ma è essenziale la questione dell’ossimoro, del vero-falso che non forma una coppia oppositiva, ma svolge nell’integrazione qualcosa di costitutivo che riguarda questo due originario.
Un altro aspetto è che questo romanzo costituisce, a suo modo, un libro di giornalismo clinico, indica cioè, per il modo con cui propone questa funzione dell’informazione nella scena della vita civile, come il giornalista non debba accontentarsi di informare intorno all’accaduto, intorno al cosiddetto “fatto”, ma non possa non considerare quello che sta accadendo, quel che sta intorno al “fatto”, la sua logica, la sua struttura per giungere, all’evento, alla qualità delle cose, alla qualità di quel che avviene. E a questo è rivolta l’indagine, l’indagine stessa che costituisce l’ossatura del libro. Non tanto all’individuazione della colpa per la somministrazione della pena, che in fin dei conti resta sospesa, ma piuttosto a intendere, nell’integrazione, quel che sta accadendo, quel che segue, quel che accade ancora, nella combinazione degli avvenimenti; indica l’importanza della lettura di ciò che accade, senza accontentarsi di localizzare “il fatto”.
L’indicazione intorno alla verità che emerge dal libro è che la verità è effetto dell’indagine, senza che l’indagine giunga a una verità ultima, definitiva. Qua e là, il personaggio protagonista del libro si pone la questione: “Ma dov’è la verità?”, “Cos’è la verità?”, “Qual è la verità?”, e mai viene posta una risposta frettolosa che dovrebbe acquietare la curiosità, la ricerca – istanze della verità – ma è lasciata lavorare, lasciata al proseguire della ricerca.
La proposta, in qualche modo, è che, la via della verità sta nella sua ricerca, non già nelle formule rassicuranti che la possano definire o localizzare, quindi è una questione che resta aperta. In questo lasciare aperte le questioni mi sembra porsi anche la delicatezza di questo libro e un suo insegnamento. Ne risulta non già una scrittura accademica, ma una scrittura dell’esperienza, per Francesco Amato; infatti si situa lungo le questioni che ha incontrato in anni e anni di lavoro, e si svolge come scenario nell’ambiente della giustizia. Questa è sicuramente la qualità della scrittura, quella scrittura che, dunque, segue all’esperienza, si avvale dell’esperienza e giunge alla qualità proprio per la via della ricerca intorno a quel che l’esperienza propone. In qualche modo, c’è un aspetto che riguarda proprio questa distinzione tra storia e poesia, che proprio in questa integrazione emerge la scrittura dell’esperienza di Francesco Amato nel libro.
In qualche modo, in questa mancanza di storicità, di verità storica del libro c’è però la riuscita di quella funzione come giornalista storico e giornalista clinico, cioè il libro riesce a provocare nel lettore un’ulteriore istanza di indagine e di ricerca, che è a mio parere una funzione di quello che chiamo “il giornalista clinico”, che sta non nel rilasciare la verità, ma nell’istigare, nel provocare a che ciascuno segua, con la ricerca, l’istanza della verità.
UMBERTO CURI
Tra storia e poesia
Credo che sia comprensibile che ciascuno di noi riferisca le sue impressioni di lettura di questo libro; credo che sia anche comprensibile che ciascuna di queste impressioni di lettura risentano molto della personalità di ciascuno di noi e anche del lavoro che facciamo, di quella che abitualmente si chiama deformazione professionale. La mia impressione di lettura, filtrata attraverso la deformazione professionale del filosofo, è abbastanza strana, forse perfino eccentrica rispetto al tema della nostra discussione. Ed è un’impressione di lettura che è sostanzialmente ambivalente.
Da un lato la lettura di questo testo mi ha suscitato compiacimento. Si tratta di un testo che si legge volentieri, la cui lettura riesce a essere al tempo stesso coinvolgente, senza in nessun caso essere troppo impegnativa per quanto riguarda il dispiegamento di categorie di interpretazioni, dall’altro, la lettura di questo libro mi ha anche suscitato o, se volete, ha accresciuto, una mia preoccupazione. Per arrivare a spiegare perché, farò una breve premessa anche un po’ stravagante, che però vedrete che serve per capire un po’ il percorso di lettura che ho seguito e che in parte propongo.
Vorrei partire da una distinzione che per altro è antichissima, oltre che essere nota a tutti, una distinzione che risale addirittura a un libro bellissimo di Aristotele. La distinzione che sussiste, secondo le parole di Aristotele, tra la poesia, dove per poesia Aristotele intende ogni forma di poiesis e cioè, per intendersi, ogni forma di imitazione di azioni. Da un lato, dunque, la poesia, la poiesis come qualunque forma di imitazione: la tragedia è poesia, l’etica è poesia, poesia è quella in versi, poesia è anche la narrativa; la poesia, dunque, da un lato e la storia dall’altro. Aristotele puntualizza anche in maniera molto precisa la distinzione che sussiste tra la poesia, le varie forme della poesia, e la storia, perché, dice Aristotele, la storia riferisce i fatti che sono avvenuti, e cioè li riferisce disponendoli secondo una successione cronologica, mentre la poesia in tutte le articolazioni non tratta dei fatti avvenuti, ma di quelli che potrebbero avvenire o sarebbero potuti avvenire.
E cioè, la poesia si riferisce ai possibili e non agli eventi che sono effettivamente avvenuti, e li racconta non come la storia, secondo un ordine cronologico, ma descrive questi fatti istituendo tra questi fatti un rapporto di verosimiglianza e di necessità. Insomma, tanto per capirsi, il resoconto che, a partire dagli stessi avvenimenti, fa il poeta è nettamente diverso da quello dello storico, perché lo storico si limita a riferire i fatti quali sono avvenuti, e li intende, li dispone in ordine cronologico; il poeta, invece, parla dei fatti possibili, a condizione che questi fatti possibili intrattengano tra loro un rapporto di verosimiglianza e di necessità.
Ma poi Aristotele non si ferma qui e fa un ulteriore passo, sul quale io invece mi soffermo, e cioè dice che non c’è solo questa distinzione, ce n’è un’altra che è connessa a quella che ho appena indicato, e cioè: mentre la storia parla dei fatti particolari, la poesia riferisce quello che Aristotele chiama l’universale. La poesia riferisce eventi possibili, verosimili, necessari e che hanno il carattere di universalità. Se noi, tanto per comodità, tanto per capire, se noi assumiamo questa distinzione che ormai è filtrata come una distinzione banale, non c’è nessun dubbio che il libro di Francesco Amato non è affatto e non vuole essere un libro di storia, e appartiene certamente, sotto il profilo tipologico, ad una delle forme di espressione della poiesis, o, se volete, se a qualcuno piace di più, ma fa male se gli piace usare un termine inglese invece che un termine greco, è una forma di fiction, che poi è l’esatto equivalente di poiesis.
C’è sempre il fare a fondamento di fiction. Che sia, dal punto di vista tipologico, questo libro, un romanzo, è non solo dichiarato perfino nella copertina, non solo è evidente dalla costruzione dell’intreccio, non solo è possibile rilevarlo, anche sotto il profilo stilistico, dal punto di vista del linguaggio, ma è evidentemente un romanzo proprio per il modo con il quale si riferisce agli avvenimenti dei quali prima parlavamo.
Non è un caso che il magistrato coraggioso, alla cui storia ci si riferisce in termini politici, non si chiama Vannini, ma appunto Ottorino Pesce, non è un caso che tutti i nomi sono codificati e che, mi pare anche in maniera particolarmente sintomatica, il romanzo, poiché di questo si tratta, si conclude con una storia d’amore. C’è questo congedo dalla vicenda strettamente connessa con i fatti di cronaca, e l’ultimo capitolo è questa storia d’amore tra due giovani che si conclude, tra l’altro, con una bella frase, una bella espressione che riguarda il tempo.
D’altra parte, se volessimo avere ulteriori elementi per capire che la tipologia a cui si riferisce questo testo è il romanzo, basti pensare che Francesco Amato non è alla sua prima prova narrativa; c’è un suo romanzo precedente che, se non sbaglio, è di quattro anni fa. Questo è la seconda tappa, il secondo esercizio di scrittura molto ben riuscito, molto efficace. Ma allora, se questo è vero, per tornare all’espressione di lettura da cui avevo preso le mosse, dobbiamo renderci conto che in termini poetici, cioè in termini narrativi o, se volete, in termini di fiction, sono trattati temi che sotto il profilo della loro classificazione potrebbero essere così descritti: il rapporto tra magistratura e potere politico, il ruolo dei servizi segreti – sia quelli nazionali che quelli stranieri – il rapporto che mi ha anche molto interessato, che percorre, pur restando di sfondo a tutto il libro, il rapporto che c’è tra poteri reali che compongono la morfologia, le strutture reali dei poteri del nostro paese, la difficoltà delle relazioni e le relazioni complesse che vi sono tra magistratura, organi dell’informazione, potere politico, potere economico.
E allora questo è il punto. Perdonate se faccio queste riflessioni assolutamente stravaganti. Ma questi fatti, questi problemi sono trattati, nel libro, attraverso questa forma di approccio, di genere letterario che è una forma di poesia. Il romanzo è una forma di poesia. Se è vero quello che dicevamo come premessa, la poesia, da un lato, ci restituisce la dimensione universale delle questioni, a differenza della storia che ci parla del particolare, ma, dall’altro, la poesia paga questa universalizzazione col fatto che ciò di cui parla non è ciò che veramente è accaduto, non ci restituisce un resoconto storicamente fondato.
Francesco Amato non fa lo storico di queste cose, sicché, e di qui l’ambivalenza della mia impressione di lettura, questo libro bello, piacevole, coinvolgente, finisce poi per produrre o per associarsi assieme ad altri per produrre una sorta di rimozione complessiva di quei temi. O, detto in un altro modo, per non far torto ad Amato, Amato ha fatto la sua scelta, ha fatto la sua opzione, ha fatto l’opzione di rivivere questi avvenimenti come scrittore.
Si pone, per me, un problema, forse marginale, ma che io avverto molto, avendo provato anche assieme a Giovanni Palombarini tante volte a riflettere su questi temi, come problema eluso, inevaso. E cioè: quando riusciremo a trattare queste questioni in chiave storica? Quando riusciremo davvero a giungere ad una descrizione della morfologia reale dei poteri, del rapporto tra poteri visibili e poteri occulti, che non sia anch’esso un modo romanzesco di trattare le questioni? Quando si riuscirà a ricostruire una storia, soprattutto degli ultimi 30 anni del nostro paese, in una maniera che non sia o la ideologia più sfrenata, anch’essa in fondo una forma di rimozione, oppure la bella universalizzazione poetica che però alla fine si traduce in una sorta di rimozione?
Io credo che Francesco Amato abbia fatto la sua parte: ha un talento vero, genuino di narratore, lo dimostra soprattutto con uno stile freschissimo, vivace, molto spigliato, e si è riferito a questa vicenda con questo obiettivo, con questo scopo. Ma noi siamo, per così dire, al punto di prima. Io credo che questo libro possa essere indicato ai giovani perché capiscano che cosa è stato quel periodo, perché ricostruiscano il rapporto così controverso tra giustizia e informazione, perché si rendano conto di quali e quante trasformazioni vi sono state nel rapporto tra magistratura e potere politico. Lo hanno capito sentendo Giovanni Palombarini questa sera, il quale non ha fatto opera poetica, ma, a partire da un libro così suggestivo nella sua scrittura, ha cercato di ricostruire pezzi di storia.
Dico questo per spiegare per quale ragione questa lettura da un lato mi ha incantato, mi ha preso, dall’altro ha riaperto in me, e credo anche in molti presenti, una esigenza di carattere intellettuale, politico, civile, che è quella di riuscire a ricostruire, ripeto, in maniera non elusiva, ma documentata e storicamente fondata, un periodo così delicato, così nevralgico e così gravido di conseguenze della storia politica del nostro paese, quale è quello che fa semplicemente da sfondo al bel romanzo di Amato.
GIOVANNI PALOMBARINI
Una testimonianza
Ho letto volentieri e con interesse crescente questo libro di Francesco Amato, perché è un libro che, per quanto mi riguarda, ha suscitato la riflessione con riferimento a diverse questioni, sia sotto un profilo, se si può dire così, storico, con riferimento cioè a fatti che sono accaduti, ma neppure troppo lontani nel tempo, fatti e situazioni che molti ricordano, sia con riferimento all’attualità, perché questo romanzo, nel ricostruire in maniera così tranquilla, intrecciando probabilmente momenti di fantasia a fatti visti e percepiti direttamente, ricostruendo una vicenda che si colloca abbastanza lontana nel tempo – siamo alla fine degli anni ’60 – in realtà poi rimanda a una serie di questioni aperte che riguardano immediatamente la nostra vita presente, fra cui, sicuramente, i rapporti fra giustizia e informazione; rapporti molteplici, che possono essere esaminati da diversi punti di vista, ma che rimanda ad altre questioni aperte nella società in cui viviamo, e nella tendenza dentro la quale gli assetti sociali si vanno ricollocando faticosamente in questa stagione.
Ho letto con grande interesse questo libro, intanto perché mi ha fatto vedere di nuovo, mi ha ricordato, mi ha descritto – sia pure attraverso questo modo di scrivere tranquillo di Francesco Amato, che ricostruisce quasi con distacco delle storie viste e raccontate, senza esprimere, per altro, giudizi perentori – mi ha raccontato, mi fa fatto rivivere quale era la situazione della giustizia e dell’organizzazione della giustizia nel nostro paese alla fine degli anni ’60. Noi, oggi, abbiamo un dibattito aperto su questa situazione, un dibattito anche aspro; si confrontano posizioni e prospettive radicalmente diverse. Però è interessante, leggendo questo libro, vedere come eravamo, cioè da dove siamo partiti per arrivare alla situazione di oggi.
L’organizzazione della giustizia, alla fine degli anni ’60, era sostanzialmente, in particolare per quanto riguarda gli uffici del pubblico ministero, ma in generale per quanto riguarda l’intera magistratura, era un’organizzazione di tipo gerarchico, di tipo piramidale, nella quale tutta una serie di scelte erano funzionali e predisposte in corrispondenza di quelle che erano le aspettative e le attese delle forze di governo.
Per fare un esempio concreto e che riguarda anche personaggi di questo libro, le scelte dei procuratori della Repubblica delle grandi città, in particolare di Roma, le scelte dei procuratori generali, che, allora, diversamente da oggi avevano un grosso potere, erano scelte che passavano attraverso mediazioni politiche che sfuggivano largamente ai principi di indipendenza e di obbligatorietà dell’azione penale.
Il principio di obbligatorietà dell’azione penale, che è stato introdotto nella Costituzione del ’46 nel tentativo di far fare un passo in avanti in termini di effettività rispetto ai principi di uguaglianza, al principio di legalità, di fatto veniva continuamente messo in crisi, o addirittura dimenticato attraverso meccanismi molto puntuali. L’azione penale che partiva da grandi procure, in particolare quelle vicine al potere politico, in particolare quella di Roma, era un’azione penale condizionata largamente dai rapporti, dai debiti, dalle compromissioni che erano a monte di determinate scelte.
Era una stagione nella quale non c’erano conflitti; non c’era questa storia che, ormai da qualche anno, vediamo tutti i giorni sui giornali, negli organi di informazione, questo conflitto aspro fra giurisdizione e potere politico, e non c’era per la semplice ragione che non c’era nessuna ragione perché questi conflitti ci fossero. L’atteggiamento, i comportamenti di chi dirigeva determinati uffici, in particolari procure della Repubblica, corrispondevano ampiamente alle aspettative dei partiti di governo.
In questo libro si racconta la storia che riguarda questa indagine, questa ricerca di verità che faticosamente viene portata avanti da un magistrato, con riferimento a un determinato episodio: l’episodio è la morte del colonnello Rocca. Ovviamente nel libro non ha questo nome. Un ufficiale dei servizi trovato morto in una stanza di un appartamento di pertinenza dei servizi; la cosa viene immediatamente presentata, e verrà poi archiviata come suicidio. La ricerca di questo magistrato è finalizzata a vedere se davvero di suicidio si tratta.
Questa storia si chiude bruscamente per il fatto che un procuratore generale avoca a sé il processo, cioè se lo prende, lo sottrae al magistrato che ne era il titolare, e lo avoca per insabbiarlo. Questa è una vicenda che è avvenuta molto spesso in quella stagione. Siamo vicini, tanto per ricordare un episodio, alla strage di piazza Fontana; un magistrato della procura di Milano aveva organizzato, un certo pomeriggio, un confronto per verificare, per vedere dal vivo in che cosa consisteva davvero il riconoscimento, da parte di un certo teste, di tale Valpreda come la persona vista avviarsi con una valigetta verso una banca, la Banca Nazionale dell’Agricoltura. La mattina successiva va in ufficio e non trova più sul suo tavolo quel fascicolo che il suo procuratore capo gli aveva preso e aveva mandato a Roma “per competenza”.
Era una stagione in cui, siamo all’inizio degli anni ’70, una sorte più o meno analoga era riservata alle prime parziali inchieste sui fatti di criminalità politica amministrativa. La corruzione non è un fatto che scoppia negli anni ’80: viene scoperta negli anni ’90, ma è un fatto ovviamente più antico. Già negli anni ’70 si erano aperte serie di inchieste che, attraverso una serie di meccanismi, sono poi arrivate alla conclusione che ho detto.
Ecco, questo libro l’ho letto molto volentieri, intanto per questo primo motivo, che in maniera molto pacata, distaccata, quasi affidando il racconto al succedersi di episodi di cronaca, costruisce però, e ricostruisce puntualmente, per chi ha ricordo, una stagione, una stagione sicuramente difficile per la giustizia, per un tipo di giustizia che doveva fare i conti tutti i giorni con gli assetti di potere, con gli assetti del potere politico e con gli assetti del potere economico-finanziario; una giustizia e una magistratura, diciamolo pure, a indipendenza limitata.
Era un’organizzazione fatta a un certo modo, che si basava anche su una serie di meccanismi istituzionali. A un certo punto anche nel libro c’è il riferimento a una questione aperta dei nostri giorni, ma che da tutt’altro punto di vista veniva vissuta a quel tempo: quando l’amico e collega del magistrato che sta indagando inutilmente, perché ormai il processo gli verrà tolto, e immagino che questo amico e collega sia l’autore del libro, gli dice: “Ma perché non ti rivolgi al Consiglio Superiore, perché non denunci, non chiedi al consiglio superiore di intervenire?” La risposta è: “Cosa vuoi fare! Il Consiglio Superiore è fatto in una determinata maniera, ha i suoi condizionamenti, servirebbe a poco”. Perché era un Consiglio Superiore eletto in un certo modo, era eletto attraverso un meccanismo che consentiva alla parte conservatrice della magistratura italiana di riempire tutti i posti; era un sistema, come si dice oggi, maggioritario puro, ed è durato fino al 1976.
Nel 1976 da molti fu salutato come una conquista democratica il fatto che questo meccanismo venisse cambiato per consentire alle diverse anime, alle diverse componenti della magistratura, di entrare in quell’organismo, in quell’organo di autogoverno. Oggi, come sapete, stiamo tornando, o forse torneremo, si vedrà, al come eravamo.
Questo libro l’ho letto con grande interesse, anche con riferimento a questa grande, difficile questione che è il rapporto fra giustizia e informazione. Fino a tutto il 1983 avevamo un diverso sistema processuale, un sistema processuale che privilegiava molto il cosiddetto segreto istruttorio. Nel vecchio processo c’era l’istruttoria, la faceva il giudice istruttore. La regola era che tutta la fase istruttoria, e a volte le istruttorie erano lunghissime, duravano tempi interminabili, fosse segreta. La regola era quella del segreto più rigido. Tutti gli attori del processo, non solo i giudici, non solo il pubblico ministero, ma anche gli imputati e il loro difensore, erano tenuti a un rigorosissimo segreto. I risultati di quel sistema, di quel regime erano pessimi, perché da un lato avveniva che il segreto fosse continuamente violato secondo criteri assolutamente strumentali, e dall’altro avveniva, che informazioni magari preziose tanto per l’opinione pubblica, tanto per la stampa venivano tenute segrete. L’opinione pubblica, la generosità dei cittadini ha diritto di sapere cosa avviene in questa vicenda così delicata, costosa; delicata perché riguarda beni fondamentali della persona, quali la libertà e la sorte delle persone. L’opinione pubblica, gli organi di stampa, che avrebbero dovuto essere i controllori delle correttezze di queste vicende, molto spesso non potevano conoscere che cosa davvero avveniva dentro le istruttorie.
E, infatti, anche allora quello che usciva era qualcosa di costantemente finalizzato a dei risultati, e l’atteggiamento della stampa, sia pure per quello che potete leggere in questo libro, era un atteggiamento esclusivamente dettato da logiche di parti, non da una spinta a informare. In linea di principio la situazione è cambiata, oggi, nel senso che il cosiddetto segreto istruttorio non c’è più; non c’è più l’istruttoria, né del pubblico ministero né del giudice, perché è scomparso il giudice istruttore. C’è la segretezza che dovrebbe coprire le indagini, perlomeno fino a un certo punto.
Dirò che, in linea di principio, la scelta di chi ha scritto il codice, la scelta del legislatore mi sembra abbastanza corretta, perché si dice che tendenzialmente viene mantenuto il segreto, fino a quando è necessario. Le indagini e la necessità della segretezza vengono a cessare nel momento in cui il diretto interessato, la persona, il cittadino che si trova al centro di questa vicenda, e cioè l’indagato, per qualche ragione viene a conoscenza – perché è stato chiamato, perché ha avuto un avviso di questo genere – che c’è questa indagine nei suoi confronti, però partecipa degli atti, viene sentito lui e il suo difensore, in questo momento una serie di atti non sono più segreti.
Tendenzialmente cioè il criterio è, e a me pare giusto, per la natura stessa del processo, quello della pubblicità, salvo qualche eccezione. Io credo che questa modifica avrebbe consentito, se le diverse professionalità in campo fossero state di consistenza elevata e fossero state caratterizzate da una consapevolezza profonda dei propri rispettivi compiti, un salto di qualità in tutte le direzioni, per tutti i protagonisti, un salto positivo. Invece, rispetto a questa potenzialità, a me pare che, sostanzialmente, le antiche abitudini siano rimaste abbastanza vive. Anche nelle fasi che dovrebbero essere coperte da segreto certe notizie passano; passano perché si ritiene che sia utile e conveniente che vengano pubblicizzate e, dall’altra parte, certe notizie vengono acquisite, vengono utilizzate “in funzione di”, cioè in funzione degli interesse di un soggetto politico, o in funzione di un soggetto economico più o meno forte, più o meno protagonista della nostra vita economica e sociale.
Sotto questo aspetto direi che, nonostante il cambiamento del processo e il cambiamento delle regole sul segreto, non abbiamo avuto una grande avanzamento nel campo dei rapporti fra giustizia e informazione; io dico così perché penso che l’informazione dovrebbe avere un ruolo di vicinanza critica rispetto all’andamento delle cose della giustizia, anche per rispetto al diritto di informazione. Che non è il diritto di informare ma, da parte dei fruitori, da parte di chi legge i giornali e accende la televisione, è il diritto di essere informati. Ho letto questo libro con grande interesse per un’ultima ragione, che non è solo una ragione di carattere sentimentale, ma che rimanda ad altri discorsi, che si facevano allora e che si fanno oggi più o meno in termini, se non identici, abbastanza somiglianti sulla magistratura.
Ho letto molto volentieri questo libro, perché racconta la storia di un mio amico, il giudice Ettore Vannini, le cui vicende vengono descritte in questo libro; era un mio amico da tempo, e era un mio amico perché ci eravamo conosciuti in circostanze che oggi verrebbero considerate scandalose, e cioè di comune militanza politica. Non perché fossimo iscritti allo stesso partito – io non ero iscritto a nessun partito, mi pare che neppure lui fosse iscritto – ci eravamo conosciuti, frequentati, avevamo anche lavorato assieme in una di quelle sedi associative che a quel tempo erano durissimamente attaccate, perché erano espressione di politicizzazione dei magistrati, e che oggi sono nuovamente attaccate, anche se non con la virulenza di allora, più o meno per la stessa ragione.
Era un uomo coraggioso, di grande impegno politico, ma che dimostrava quotidianamente, con i fatti, che una cosa è l’impegno politico, anche di un magistrato, finalizzato alla costruzione di una giustizia diversa, tutt’altra cosa è la politicizzazione che non consente l’indipendenza della decisione nel caso concreto.
Quella era una stagione, la fine degli anni ’60, in cui una larga parte dei magistrati proclamavano con grande forza la propria indipendenza e il proprio scandalo di fronte al fatto che stessero nascendo delle aggregazioni di magistrati che a gran voce chiedevano il cambiamento. E io ricordo bene questi magistrati che a gran voce chiedevano la propria indipendenza e che si scandalizzavano. Erano gli stessi, più o meno, salvo eccezioni, che nelle diverse sedi giudiziarie sapevano, con opportunità diplomatica, venire quotidianamente a patti con i vari poteri.
La giurisprudenza di questi magistrati non era mai scandalosa, non suscitava mai rampogne, proteste, dissociazioni da parte dei pubblici amministratori e dei grandi potentati economici. Ecco, ripensando a Ottorino Pesce, perché questo era il nome del magistrato, a quello che avveniva allora attorno alla sua persona, alle polemiche che lo hanno investito…, voi ne troverete una traccia in questo libro: in un passaggio, alla fine, dopo avere riferito della sua morte, si racconta come alcuni giornali e gli ambienti giudiziari ebbero un grande scandalo, perché al funerale alcuni giovani salutarono la bara col pugno chiuso. Ricordo che ci fu un grandissimo scandalo, perché, al funerale, l’orazione funebre fu tenuta da Lelio Basso, uno di quelli che hanno scritto la Costituzione, l’autore, in particolare, del famoso capoverso dell’art. 3 della Costituzione ancora vigente, quello dove è scritto che è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli che di fatto impediscono l’uguaglianza formalmente proclamata per tutti nella norma precedente.
Ecco, se penso allo scandalo che investì allora la sua persona e le persone che si muovevano come lui, mi verrebbe da dire oggi, a chi lamenta e a chi teme, soprattutto a chi teme, in buona fede, la cosiddetta politicizzazione della magistratura, che bisognerebbe guardare le cose da vicino e bisognerebbe conoscere le cose e le persone da vicino, e vedere concretamente quali sono le diversità, che cosa vuol dire concretamente, al di là dei proclami, al di là della indipendenza vissuta come privilegio di casta – io sono giudice e sono indipendente perché nessuno mi deve disturbare – che cos’è l’indipendenza concretamente praticata tutti i giorni, nella difficoltà di realizzarla tutti i giorni, perché non è semplice fare i processi tutti i giorni, fare i processi, fare quei processi che in nome del principio di uguaglianza vanno a toccare soggetti forti, in un modo o nell’altro forti, che non vogliono sentire, che non vogliono saperne di controlli, di controlli in genere, di legalità e tanto meno di un controllo penale.
Ecco, ho letto volentieri questo libro, perché mi ha rimandato alle tematiche di quei tempi e, contemporaneamente, mi ha fatto inevitabilmente vedere l’attualità che una serie di tematiche di quei tempi ancora hanno. Ne vedrete altre, non mi soffermo, ma l’indagine incontrava una serie di difficoltà, perché, al di là di una serie di poteri forti, bisognava misurarsi anche con la presenza e con la presenza forte dei servizi, cioè di quegli organi di stato che dovrebbero essere messi a quel posto per difendere la Repubblica, per prevenire stragi, deviazioni istituzionali, tutte le altre nefandezze che abbiamo visto in questo ultimo quarto di secolo.
Questo problema, come voi avete visto anche in questi ultimi giorni, è ancora aperto. È anche questo un problema attuale, se è vero come è vero che pochi giorni fa, in televisione, un funzionario di questi servizi, o ex funzionario, non lo so, tranquillamente, come se niente fosse, raccontava ai giornalisti dell’informazione stampata e di quella visiva che lui era andato davanti alla commissione parlamentare, mi pare sulle stragi, a spiegare come ci fossero non so quanti fascicoli pubblici, cioè regolari, su una serie di personaggi politici, magistrati, giornalisti del nostro paese. Ma come? Aldilà di quel numero ufficiale di fascicoli catalogati, ovviamente – diceva lui, perché la cosa a lui sembrava la cosa più naturale del mondo – ovviamente, ce ne sono altri dei quali lui non ha riferito alla commissione parlamentare, ma che, prima o poi, immagina come occasione di non so che cosa, salteranno fuori per qualche storiaccia di ricatti, di condizionamenti, violenze, perché anche a questo sono servite queste storie.
È un libro che ho letto volentieri, credo che leggerlo sia particolarmente interessante e utile e sono contento che Francesco Amato lo abbia scritto.