
INTELLIGENZA ARTIFICIALE, SCIENZA, ARTE, CULTURA. L’IMPRESA NUOVA a Padova
- Chinaglia Ruggero, D'Amico Anna, Dalla Val Sergio, Toffanin Roberta
Giovedì 11 luglio 2024, alle ore 18, nella Sala Livio Paladin di Palazzo Moroni, a Padova.
TESTO del dibattito su
INTELLIGENZA ARTIFICIALE, SCIENZA, ARTE, CULTURA. L’IMPRESA NUOVA.
In presentazione del libro di Sergio Dalla Val, In direzione della cifra. La scienza della parola, l’impresa, la clinica, edito da Spirali.
Con Sergio Dalla Val, brainworker, imprenditore, analista, presidente dell’Associazione Progetto Emilia Romagna, sono intervenuti: Ruggero Chinaglia, brainworker, presidente dell’Associazione cifrematica di Padova, Anna D’Amico, presidente dei giovani imprenditori di Confcommercio di Padova, Roberta Toffanin, esperta del Ministero dell’ambiente e della sicurezza energetica.
L’incontro è stato organizzato dall’Associazione cifrematica di Padova con il patrocinio di Confcommercio Padova.
Ruggero Chinaglia Questo dibattito è propiziato dalla seconda edizione di un libro, edito per la prima volta qualche anno fa, che si ripropone come una lettura utile, informativa, narrativa, di testimonianza di Sergio Dalla Val, che ne è l’autore. Nel libro, che s’intitola In direzione della cifra. La scienza della parola, l’impresa, la clinica, edito da Spirali, ci sono tante cose, tanti elementi, tanti dettagli che fanno parte dell’esperienza di Sergio Dalla Val, psicanalista, brainworker, scrittore, imprenditore. Dirige a Bologna la rivista “La città del secondo rinascimento”, dirige la Libreria galleria Il secondo rinascimento che, oltre a ospitare eventi culturali e a svolgere attività di libreria, è anche sede di esposizione di opere d’arte e quindi è meta di artisti, di scrittori, d’intellettuali che s’incontrano e incontrano la città. In questo libro ci sono anche elementi che vengono dall’esperienza imprenditoriale, in quanto intellettuale e intellettuale in quanto imprenditoriale.
Dagli elementi del libro e del titolo, ne abbiamo presi due. Uno è “in direzione della cifra”, che ci propone la questione della direzione rivolta alla qualità, alla cifra intesa come valore e della valorizzazione che la direzione comporta; l’altro è “l’impresa”, con ciò che le sta attorno in termini d’intraprendenza, d’intrapresa, di rischio d’impresa. In queste prime cose che si annunciano c’è già la questione, che è esplorata e testimoniata, del progetto e del programma, della domanda e della scommessa, nel cui corso avvengono con costanza la ricerca e l’impresa. C’è l’integrazione. Dire “impresa” sembra una cosa settoriale, che indica un ambito ristretto, invece l’impresa integra aspetti diversi, molteplici, questioni di ampia portata.
Dal titolo del libro e da queste due questioni, abbiamo tratto il tema del dibattito, cioè la direzione dell’impresa e qual è per l’imprenditore il modo della direzione dell’impresa in cui si trova. Non si tratta della direzione dell’impresa intesa come qualcosa di collettivo, come direzione di tutte le imprese, ma di come individuare, per quello che attiene all’impresa in atto, quali sono i termini e gli strumenti della direzione. Ciò esige per l’imprenditore uno statuto particolare e specifico, che non si basa sul sapere, su ciò che può avere imparato, perché l’impresa ciascun giorno espone a qualcosa di nuovo. Per l’imprenditore, quindi, c’è la necessità di essere accogliente verso la novità, di non affrontare la novità che si annuncia pensando che sia quella del giorno prima, o del mese prima o dell’anno prima. C’è, pertanto, un processo di elaborazione, di esplorazione che nell’impresa è essenziale. Sta anche nel “modo” la questione che caratterizza l’impresa nel suo rischio: non c’è impresa senza rischio, il rischio caratterizza l’impresa.
Il rischio non è da confondere con qualcosa di negativo, non è l’equivalente di un pericolo che mina la sicurezza, ma riguarda la natura dell’impresa e si rivolge alla riuscita, però trovando di volta in volta il modo. Occorre, dunque, inventare. Occorre l’invenzione, la variazione e qui, da un lato c’è la questione culturale e da un altro lato la questione artistica. Nel rischio, che è rischio di riuscire, è rischio di vita e non il pericolo che le cose vadano male, c’è anche la questione della scienza, perché non si tratta di applicare ciò che si è imparato, ma di accogliere, di ascoltare, d’intendere ciò che sta accadendo. È qui si gioca la scommessa dell’imprenditore, il quale gioca le sue carte che non sono mai le stesse. Questo è specifico dell’impresa.
Da quando si è posta la questione dell’impresa, che anticamente era connessa alla fama da acquisire, poi alla padronanza, poi all’imperio, poi al guadagno, poi ai soldi, la questione del rischio è stata anche intesa come qualcosa da ridurre per avere le certezze. In nome delle certezze da acquisire con la diminuzione del rischio, si dovrebbe avere la possibilità di scegliere la cosa giusta; ecco perché c’è una propaganda fallace che propone di abolire l’azzardo, di abolire l’audacia e il rischio stesso, con una serie di stratagemmi da attuare. Anticamente c’era il vaticinio, c’erano i sacerdoti che esploravano a loro modo il volere degli dei e verificavano se era propizio fare in un modo o nell’altro, in un momento o in un altro e poi c’era chi esplorava le viscere degli animali, chi interrogava l’oracolo, sempre mirando alla certezza, alla conferma di un sapere senza dovere esporsi al rischio. In tempi moderni, il compito della presunta riduzione dell’alea, l’ha assunto in qualche modo l’informatica, con il suo derivato più moderno, che è chiamato l’intelligenza artificiale, cioè un modo sempre più rapido di raccogliere dati, informazioni e di attuare, attraverso algoritmi, un calcolo che possa dire qual è la possibilità migliore. Un calcolo che possa dire qual è la probabilità migliore per fare qualcosa, per decidere in una direzione o nell’altra, sempre mantenendo il metodo binario, cioè sempre mantenendo l’idea che si tratta di un’alternativa, che noi ci troviamo sempre esposti a un’alternativa tra il bene e il male. Questo metodo binario, che l’informatica applica, sempre più si va affermando in ogni ambiente, in ogni ambito, in ogni circostanza perché per ognuno si tratta, nell’idealità, di dovere scegliere tra il bene e il male e di stare sempre dalla parte del bene. È l’applicazione di una credenza religiosa.
La riuscita non sta né dalla parte del bene né dalla parte del male, sta nell’integrazione dei dati e di ciò che si fa verso la qualità, che non è già certificata: occorre “andare” in direzione della qualità e quindi, verso la riuscita. Questo comporta che c’è un cammino, un percorso, un itinerario da fare, un processo da affrontare: è il processo della parola, è il processo linguistico, cioè riguarda la comunicazione, l’informazione, l’organizzazione.
Come avviene che nell’impresa, quindi nell’azienda, ci sia l’approntamento di dispositivi che, senza dovere applicare lo standard e la media presunta tra il bene e il male, forniscano le indicazioni in direzione della riuscita? Qui è lo statuto dell’imprenditore, statuto che esige che non ci siano preconcetti, pregiudizi, idealità, superstizioni, ma l’accoglimento della ricerca e delle indicazioni di quale sia il modo per fare opportunamente.
Questo è l’ambito del dibattito che s’intitola, appunto, Intelligenza artificiale, scienza, arte, cultura. L’impresa nuova. L’impresa nuova, cioè l’impresa che si attua nella modernità. Quali sono, dunque, i termini, i mezzi, gli strumenti della modernità di cui l’impresa possa avvalersi senza ricalcare metodi antichi, obsoleti, standard.
Le questioni sono ampie, notevoli, rilevanti ma abbiamo qui, per darci alcune testimonianze della loro esperienza, due intellettuali, imprenditrici esperte, che ringrazio di avere sfidato il caldo torrido di questa giornata, come ringrazio ciascuno di voi, perché effettivamente oggi sembra che si raggiungano picchi elevati di temperatura. Si tratta di Anna D’Amico, che è presidente dei Giovani Imprenditori di Confcommercio di Padova, essa stessa imprenditrice, perché è fondatrice di Extension Lifestyle di Padova e cofondatrice di HT Plasma, un’altra società del Padovano. E, accanto a me, c’è Roberta Toffanin, esperta del MASE, Ministero dell’Ambiente e per la Sicurezza Energetica, essa stessa imprenditrice, che è stata anche senatrice della repubblica. Si è sempre occupata di questioni inerenti l’imprenditorialità e questioni finanziarie e economiche. Abbiamo due fonti autorevolissime per darci testimonianza e elementi per arricchire il dibattito, per arricchire anche i termini della formazione, di cui l’imprenditore ha bisogno per non cedere a determinate tentazioni basate sulla media oggettiva delle cose, senza tenere conto, invece, dello specifico.
Noi come Associazione cifrematica di Padova, quindi come associazione culturale, riteniamo importante occuparci di questi temi, perché riteniamo che la questione dell’impresa sia una questione civile, una questione essenziale per la civiltà, e che proprio dall’impresa e dal suo statuto inventivo possono giungere indicazioni e contributi per il modo con cui s’instaura l’avvenire per ciascuno.
A questo punto, invito al suo intervento Anna D’Amico che, come dicevo, è presidente dei Giovani Imprenditori di Confcommercio. Prego.
Anna D’Amico Grazie. Innanzi tutto, volevo ringraziare il dottor Chinaglia per l’invito che ho gradito e accolto con grande interesse, anche perché il tema dell’intelligenza artificiale è un tema estremamente importante, un volano importante per l’impresa in generale e quindi anche per il comparto delle imprese giovanili. Noi come Gruppo, infatti, organizziamo delle attività proprio su questo tema per i giovani imprenditori. In qualità di presidente del Gruppo Giovani di Confcommercio, non posso che iniziare con quello che è un po’ uno spaccato della situazione delle imprese giovanili in Italia. Quando parliamo d’imprese giovanili, parliamo d’imprese che hanno una compagine societaria con una maggioranza under 35. Negli ultimi dieci anni stiamo assistendo in realtà a un calo estremamente importante delle imprese giovanili, si parla addirittura, dati InfoCamere, del 25%. Sono dati importanti. Le regioni più coinvolte sono quelle del centro e sud Italia, ma anche quelle settentrionali risentono di questo calo che è costante nel corso degli anni. Il settore più colpito è quello del terziario, del commercio, sia per questioni legate alla competizione internazionale di altri mercati e anche alla presenza di grandi player della vendita on line, che tutti noi conosciamo molto bene. Ovviamente concorrono a questo calo sicuramente l’invecchiamento della popolazione, anche questo un tema a conoscenza di tutti, così come la difficoltà del successo del passaggio generazionale nelle imprese famigliari. Questi due fattori sono determinanti per la situazione di calo, anche perché poi le imprese giovanili sono determinate da un intervallo temporale ben definito, perché nel momento in cui l’impresa ha una compagine societaria che supera i 35 anni di età, esce dalla qualificazione come impresa giovanile, e non c’è poi una nuova impresa che entra. Questa è un po’ la situazione.
Ritengo che il tema dell’intelligenza artificiale si inserisca in questo contesto, in questo trend, se vogliamo, negativo, perché di fatto è una delle innovazioni più importanti che riguardano il nostro mondo in questo momento e rappresenta anche delle grandi opportunità. I giovani imprenditori molto spesso sono anche le persone più propense a intraprendere percorsi nuovi, a sfidare le nuove opportunità. Effettivamente, l’intelligenza artificiale può essere un volano che può cambiare questo trend purtroppo negativo, legato alle imprese giovanili. Quando parliamo d’intelligenza artificiale, ne parliamo veramente a trecentosessanta gradi: coinvolge tutti i comparti delle attività produttive. Basti pensare all’assistenza virtuale con chatbot, piuttosto che con il supporto all’acquisto on line; a qualsiasi ora del giorno e della notte e in qualsiasi lingua con chatbot rispondono, grazie all’intelligenza artificiale, a qualsiasi problematica, contrariamente all’automatizzazione dei processi produttivi con l’introduzione dei robot all’interno delle aziende. Inoltre, l’intelligenza artificiale ha la capacità di raccogliere e elaborare grandissime quantità di dati e, in moltissimi casi, può restituire delle analisi che sono di fatto predittive, quindi con l’intelligenza artificiale, le imprese possono di fatto predire i mercati, capire quali sono i trend, capire quali sono le aree geografiche dove è più interessante fare business per accrescere i propri mercati. Il potenziale è enorme, oltre al fatto che viene delegata tutta una parte di attività operativa a una macchina e, quindi, l’imprenditore e anche i collaboratori hanno del tempo da dedicare a attività decisamente più strategiche per il business.
È ovvio che poi c’è l’altra faccia della medaglia, come per tutte le cose, quindi se da una parte è un importante volano per lo sviluppo dell’impresa, dall’altra ci sono diverse criticità che stanno già emergendo e in futuro ce ne saranno sicuramente di nuove: molto spesso quando si parla d’intelligenza artificiale che sta trasformando il mondo del lavoro, le professioni del futuro, si parla anche di diseguaglianza tecnologica e, quindi, ci s’interroga su che cosa faranno i nostri lavoratori che sono addetti a determinate mansioni che non ci saranno più. È un tema che diventa molto importante, cioè bisogna capire come non lasciare indietro i nostri lavoratori che hanno delle mansioni che saranno sostituite dalle macchine. Quello che è richiesto alle imprese, ma anche in generale anche a livello delle istituzioni, è sicuramente favorire la qualificazione del proprio personale, quindi persone, lavoratori, che affiancheranno le macchine e che ovviamente dovranno avere una capacità di comprendere i dati e un’alfabetizzazione digitale che è fondamentale. Quando parliamo di formazione, a mio avviso, bisogna anche rivolgerla verso le nuove generazioni; pertanto, è una formazione che guarda sì la riqualificazione, ma anche le nuove generazioni, e perciò occorre parlare apertamente di quelli che sono i vantaggi da una parte e le criticità dall’altra dell’intelligenza artificiale, affinché l’innovazione tecnologica venga utilizzata in modo etico e responsabile. Questo è estremamente importante.
Quando parliamo di criticità dell’intelligenza artificiale, parliamo innanzi tutto del tema della privacy, dell’importanza che le aziende abbiano un atteggiamento trasparente nella gestione dei nostri dati personali, nella conservazione, piuttosto che del tema della sicurezza informatica, la cyber security. Per me, è un tema estremamente importante, quando si parla d’intelligenza artificiale, anche la responsabilità, perché nel momento in cui ci saranno dei sistemi d’intelligenza artificiale che faranno degli errori, che genereranno dei problemi, la domanda è: chi sarà il responsabile? Allora credo che sarà importante avere dei framework normativi tali per cui, dietro all’intelligenza artificiale, la responsabilità sia sempre riconducibile a un’entità umana, che sia in grado di prendersi queste responsabilità. Anche perché questo vuole dire garantire la sicurezza dei cittadini, vuole dire portare le aziende a avere atteggiamenti trasparenti, responsabili nei confronti delle azioni che fanno, quindi degli sviluppi tecnologici.
In conclusione, quello che è estremamente importante quando si parla d’intelligenza artificiale è sicuramente il tema delle leggi, delle regolamentazioni a livello nazionale, a livello europeo, a livello internazionale, che siano in grado di fronteggiare quelle che sono le sfide, le difficoltà, le criticità che potranno verificarsi e in parte si stanno già verificando, senza d’altra parte essere un freno per l’innovazione. Si tratta di sfruttare, quindi, il volano dell’intelligenza artificiale e tutto il bene che può portare per le imprese, a trecentosessanta gradi. Se pensiamo ai settori più disparati, come quello della medicina, della ricerca e dello sviluppo, certamente l’importanza è veramente estrema. Però d’altra parte tutto va poi contenuto, e garantire la sicurezza e l’attenzione ai diritti dei cittadini credo siano due elementi che vanno a braccetto in questo contesto, tra le imprese e tra l’impresa e l’intelligenza artificiale. Grazie
R.C. Ringrazio Anna D’Amico per il suo intervento. Sicuramente ci sarà modo di riprendere anche altre questioni nel corso del pomeriggio e adesso invito a intervenire Roberta Toffanin, che è esperta del MASE, il Ministero per l’ambiente e per la sicurezza energetica.
Roberta Toffanin Grazie Ruggero, grazie per il graditissimo invito. Ringrazio anche il dottor Dalla Val di quest’opera. Io ho anche qui In direzione della cifra che ci ha aiutato a riflettere su tematiche che sono veramente di grande importanza. Saluto, e mi fa piacere conoscerla in questa occasione, Anna D’Amico, che ha dato un puntualissimo excursus su quello che è l’intelligenza artificiale rapportata al mondo del lavoro. Saluto tutti i presenti e arrivo subito alla questione. Sono tematiche veramente importanti e molto ampie da trattare.
Stiamo vivendo in un contesto storico di grandi cambiamenti, che hanno avuto un’accelerazione, secondo me, dalla pandemia, dal Covid 19, che ha segnato uno spartiacque tra ciò che c’era prima e ciò che c’è adesso. Se d’intelligenza artificiale si parla in maniera ampia in questo contesto, noi dobbiamo pensare che l’intelligenza artificiale, comunque, nasce molti anni fa, nasce addirittura negli anni ’50 del secolo scorso e è rimasta latente per tanti anni perché comunque di ricerca si trattava e si tratta. La ricerca, come voi ben sapete, non può essere consolidata in un solo decennio, ma necessita di grandi cambiamenti, evoluzioni, di grandi approfondimenti, di andare avanti per poi tornare indietro e, quindi, di riprendere. Diciamo che nell’ultimo decennio, anche quindici anni fa, si è concretizzata in quello che noi usiamo tutti i giorni: l’avete in mano in tanti in questo momento, è lo smartphone che riesce a interagire con noi, che ci risolve un sacco di problemi e, se non sappiamo una cosa, una strada, una via, un approfondimento, subito ci viene in aiuto, proprio attraverso questa tecnologia che, alla fine, è alla portata di tutti. È vero che un telefonino costa, però se pensate alla che tecnologia rappresenta, è una tecnologia di grande portata, alla portata di tutti. È questo che ha permesso all’intelligenza artificiale di avere sviluppo: grande tecnologia a portata di tutti, con una serie di dati importanti che vengono colti tutti i giorni. Noi, attraverso il telefonino, trasmettiamo le nostre preferenze, i nostri gusti, quello che facciamo, quello di cui ci occupiamo, per cui i telefonini recepiscono i nostri dati, vengono elaborati con algoritmi e ecco che l’intelligenza artificiale può dare anche delle risposte rispetto a quello che ha assorbito. In fondo si tratta come di un bambino, cui quando è piccolo si trasmettono molte indicazioni, si dice ciò che è giusto, ciò che è sbagliato, quello che deve fare e quello che non deve fare e il bambino recepisce. L’importante è che i dati che vengono trasmessi, e che l’intelligenza artificiale assorbe, siano dati corretti, siano dati che rappresentano correttamente la nostra realtà. Questo è il punto focale del dibattito mondiale, che oggi s’innesta e scaturisce. Però, di questo, l’impresa non può fare a meno. Tutti i cambiamenti che ci sono stati, le novità, le introduzioni che negli anni si sono succedute nelle nostre attività, hanno suscitato delle perplessità iniziali, non sono sempre state accolte con tutto l’entusiasmo che adesso, senza rendercene conto, abbiamo verso cose che abitualmente usiamo. I primi PC erano un po’ visti come degli extraterrestri che s’impossessavano delle nostre attività, mentre ora sono strumenti che non possono non essere presenti nella nostra vita, così come prima era la calcolatrice. C’è stata tutta un’evoluzione e l’impresa in questo contesto ha subito cambiamenti che sono cambiamenti assolutamente colossali. Ripeto, sono cambiamenti che in molte circostanze hanno creato inizialmente anche dei problemi.
Io penso al nostro Veneto, che ha una tipologia d’impresa che è prevalentemente piccola e media impresa. Quindi, voi capite che in un contesto di piccola e media impresa è ancora più difficile portare le innovazioni, le novità. Vent’anni, trent’anni fa avevate le imprese piccole con un datore di lavoro e magari due lavoratori dipendenti, oppure collaboratori a livello famigliare, e tutto ciò è difficile da cambiare, perché manca un approccio culturale che possa, con molta facilità, portare avanti le innovazioni. Devo dire che il contesto storico che stiamo vivendo pone l’impresa anche di fronte a tanti altri cambiamenti, se pensiamo che sopra tutto dopo il Covid, il PNRR ci ha stimolati su trasformazioni importanti che riguardano innovazione e cambiamenti, anche per quanto riguarda il nostro vivere quotidiano, rispetto ai temi importanti dell’ambiente e dell’energia.
Il cambiamento che ormai tutti conosciamo e che stiamo subendo, e che subiamo perché è conseguenza delle nostre azioni, è il cambiamento climatico, che ci porta anche inevitabilmente a assumere delle scelte che devono avere come obiettivo salvaguardare e tutelare il nostro pianeta. Per farlo dobbiamo pensare a trovare sistemi di energia che siano diversi dalle fonti fossili e che, quindi, siano energie rinnovabili. In tutto questo l’impresa ha un ruolo molto importante, che è quello di fare parte dell’economia circolare, investire nell’efficientamento, nell’energia rinnovabile, in un contesto di riciclo. Abbiamo delle tematiche molto importanti che devono essere portate avanti, proprio per arrivare a degli obiettivi che non solo l’Europa ci chiede, perché abbiamo delle date, delle scadenze da rispettare, ma ce lo chiede il nostro sistema Paese, che ci chiede di coniugare sostenibilità economica – perché l’impresa giustamente deve tenerne conto – con sostenibilità sociale, ambientale. Io dico anche sostenibilità culturale, perché senza un approccio nuovo, una sensibilità nuova, un nuovo modo di vedere il nostro futuro, noi non sapremo cavalcare i tempi moderni e non sapremo gestire l’attività imprenditoriale rispetto a tutto quello che ci viene richiesto dal contesto. L’imprenditore è chiamato a attivarsi in questo senso e chi resta indietro purtroppo rimane fuori. Però, vi posso garantire che si cerca, visto anche il mio ruolo nel governo, di fare in modo perché tutti possano stare al passo.
La cosa che ho sempre sostenuto nella mia vita, come imprenditrice prima di tutto, è che quando si parla di rischio d’impresa e di capacità di scelta, è vero che noi abbiamo l’intelligenza artificiale che ci può indirizzare in questo percorso binario molto importante, ma è altrettanto vero che, esternamente, se non abbiamo un contesto legislativo certo e continuativo, strutturale e con una certa stabilità, cambiando le regole spesso, l’imprenditore fa anche fatica a capire cosa potere scegliere per il proprio futuro, dove investire e in che cosa. Ci sono delle regole che devono essere determinate internamente all’azienda e delle regole che devono essere esterne, perché si possano coniugare quelle che sono le possibilità per l’impresa di potere proseguire un percorso che implica una grande sfida. Ma è una grande sfida che si può affrontare tutti insieme, quindi benissimo essere coadiuvati da queste innovazioni. Guardate, non è che l’intelligenza artificiale possa inserirsi in tutti gli ambiti, in tutti i settori, ma prevalentemente in quelli intellettuali, di servizio, ecc. dove potrà avere un ruolo importante; quando si parla d’impresa manifatturiera o manuale, dove serve anche la manualità, è difficile che l’intelligenza artificiale possa assumere un ruolo predominante.
Però, è altrettanto vero che l’impresa non può esimersi dall’informatizzarsi e da proseguire con un percorso d’innovazione in questo senso. Noi siamo il secondo Paese manifatturiero d’Europa, eppure non abbiamo materie prime, però quello che ci ha sempre salvato è stato il nostro ingegno, la nostra manualità, il nostro sapere fare bene e il nostro grande brand del made in Italy, che ci ha sempre contraddistinto in tutto il mondo. L’impresa deve proseguire, stare al passo con i tempi, captare tutte le innovazioni e i percorsi da seguire per non rimanere fuori del contesto più ampio, ma e è altrettanto vero che, a fianco dell’intelligenza artificiale, io metto sempre comunque quella naturale. Grazie.
R.C. Ringrazio Roberta Toffanin per la concisione e per l’abbondanza nell’intervento di spunti, che possono fornire l’occasione di un’ulteriore ripresa anche da parte di Anna D’amico e di Sergio Dalla Val.
A proposito dell’intelligenza artificiale, ci chiediamo se tecnica e tecnologia, che offrono strumenti per l’invenzione dei macchinari, di strumenti produttivi, quindi invenzione di strumenti nuovi e per il loro uso, forniscono lo stesso contributo anche per quanto riguarda la direzione dell’impresa, che l’imprenditore ha da attuare. Cioè, è appellandosi all’intelligenza artificiale che l’imprenditore può trovare quale via percorrere? O si tratta, invece, di fare ricorso a quello che diceva Roberta Toffanin, cioè all’ingegno, alla manualità, al progetto che sorge e esige di essere attuato? Occorre intendere se c’è un contributo dell’intelligenza artificiale a questo proposito e come, in che termini può avvenire l’integrazione.
Ritengo non sia necessario prendere una posizione pro o contro l’intelligenza artificiale, ma capire quali sono i modi, i termini d’uso, le effettive aspettative da riporre, senza paura, senza ipotesi che le macchine possano occupare il pianeta e ritorcersi contro l’intelligenza umana. Perché, appunto, l’intelligenza non è detto che sia umana e neanche naturale, e precisiamo poi in che termini si pone l’intelligenza, quando c’è di mezzo la parola.
Un’ulteriore questione che mi sembra molto importante – e quindi, anche su questo, invito poi Anna D’Amico a dire qualcosa – rispetto a ciò che si connota, si auspica, si definisce il “sistema Paese” e a decisioni che sono da prendere certamente in nome di uno standard che tende a unificare, a costituire il sistema, è la constatazione che ci sono molte imprese, che sono differenti l’una dall’altra, che non possono venire omologate. E, dunque, che se ne fanno di una media cui attenersi, quando il loro specifico è proprio la differenza, sia produttiva, sia di attuazione, sia di gestione, sia quanto al modo di svolgere il loro compito? Mi sembra un altro tema importante da inserire nel dibattito, proprio perché questo è l’ambito dove arte, cultura e scienza possono avere uno sbocco oltre la così detta intelligenza artificiale, che, ricordiamocelo, è sempre una media, propone sempre una media standard. È rapida, è veloce, però tiene conto della differenza? Tiene conto dell’esigenza artistica?
Questo è un altro quesito che ci poniamo e che poniamo anche a Sergio Dalla Val, cui rivolgo l’invito a intervenire. Ricordo che Sergio Dalla Val opera a Bologna e a Milano. A Bologna dirige la rivista “La città del secondo rinascimento” che da molti anni convoca imprenditori dell’Emilia, del Veneto e di altre regioni, a dare testimonianza del loro itinerario, della loro attività. Questa rivista da tempo costituisce un faro per l’imprenditoria, per indicare quali sono le eccellenze dell’imprenditoria, eccellenze che fanno sì che ci sia il valore effettivo dell’impresa. Dirige questa rivista, inoltre dirige la Libreria galleria “Il secondo rinascimento”, opera da molti anni come psicanalista, è un esponente del Movimento cifrematico internazionale. Ha fondato anche l’Associazione La Clinica della Parola, per l’istituzione di dispositivi intellettuali per i giovani e anche per accogliere la domanda di giovani in direzione della loro riuscita, quando per esempio non ci sia chiarezza su quale corso di studi o di attività intraprendere. Poi, con il Fondo Sociale Europeo, ha svolto vari stage e master proprio sul brainworking, intorno alla formazione dell’imprenditore e alla direzione delle imprese, in collaborazione con Confartigianato di Bologna. A te Sergio, ti ascoltiamo.
Sergio Dalla Val Cari amici, ringrazio Ruggero Chinaglia e l’equipe di Padova che ha organizzato quest’incontro, ringrazio i relatori Anna D’Amico e Roberta Toffanin. Il loro intervento ha dato molti spunti di riflessione. Per scrivere il libro, che è stato l’occasione per quest’incontro, sono occorsi dieci anni di ricerca nel mio dipartimento di cifrematica e negli incontri con le aziende, un anno per la stesura e tre anni di riletture e di editing con l’equipe dei redattori dell’Associazione di cifrematica e della Casa Editrice Spirali. La prima edizione è del dicembre 2011. Non ho introdotto modifiche in quest’edizione perché ciascuna cosa mi risultava ancora precisa e attuale, compiuta, se non esaustiva. In questi anni sono seguiti altri articoli, saggi e conferenze, anche perché dal 2011 a oggi sono intervenute tantissime cose. Certamente già allora si accennava all’intelligenza artificiale, e questo libro ne fa cenno, ma la questione nasce in modo preponderante in questo periodo. Non dimentichiamo che chat GTP, che veramente è stata l’emergenza di un iceberg enorme, è nata un anno e mezzo fa. È una cosa incredibile, si sta espandendo in modo enorme, sta producendo anche altre intelligenze artificiali, che non solo rispondono ai nostri test, alle domande, non solo scrivono testi, ma su nostro suggerimento fanno e creano immagini. Recentemente, un cloud appena uscito negli Stati Uniti, produce a sua volta file e programmi: per esempio, se voi volete produrre una app, indicate all’intelligenza artificiale cosa volete che faccia questa app e l’intelligenza artificiale produce un altro programma. Capite che siamo nel momento in cui un’intelligenza artificiale può produrre altre intelligenze artificiali. È uno scarto importantissimo, che adesso riprenderemo. Però direi che per intendere queste questioni in modo non emotivo, occorre una traversata di ciò che invece è alla base di tutto ciò, perché non dimentichiamo che i file restano comunque scrittura, sono parola, sono comunicazione; comunicazione che produce poi la direzione di macchine, satelliti, prodotti artificiali.
Questo libro interroga appunto sulla questione della parola e qui si scrivono quarant’anni di esperienza della parola, dalla psicanalisi alla cifrematica, che non sostituisce la psicanalisi, ma che offre alla psicanalisi uno statuto che non esige l’idea di guarigione e di salvezza: la psicanalisi non come psicoterapia, ma come esperienza della parola. La cifrematica, scienza della parola, constata come ciascuna cosa, dal disagio alla riuscita, esige non un rimedio o un ripristino ma un processo linguistico narrativo, da cui è imprescindibile l’ascolto. Cosa apparentemente facile, ma quanto mai complessa e quanto mai negata e trascurata. Imprescindibile l’ascolto, per giungere alla qualità e alla sua valorizzazione, alla cifra (per questo il titolo del libro, In direzione della cifra), al valore di un itinerario. E la domanda, anche se si enuncia come domanda di guarigione e di salvezza, è domanda di valore, di cifra, di qualità.
A questa domanda e al disagio, che è il modo con cui essa s’introduce nella parola, non si è trattato in questi anni di dare una risposta. Tutti danno una risposta alla domanda; la domanda non fa in tempo a formularsi, per lasciare un intendimento, un ascolto, una riflessione, che trova subito risposte. Per noi non si è trattato di rispondere, né di proporre domande in stile ermeneutico, come Socrate e come in tante altre discipline dove la domanda è fondante, mira a ottenere la risposta voluta, ma si è trattato di offrire dispositivi di parola, perché il disagio si enunci e si articoli nella parola, in modo che si dissipino le proprie idee, i pregiudizi, le proprie certezze, che costituiscono gli inciampi e gli invischiamenti che paralizzano l’itinerario di ciascuno nella famiglia, nel lavoro, nell’impresa.
Oggi, qui, parliamo d’impresa nuova. Come scrivo in questo libro, a partire dal disagio degli imprenditori si è posta, sul finire degli anni ’80, l’esigenza di un’esperienza nuova per dare un apporto alla loro istanza di riuscita. Quest’esperienza è il brainworking e nel libro ci sono circa un centinaio di pagine dedicate a quest’esperienza. L’instaurazione del cervello, brainworking, lavoratori di cervello, o cervello al lavoro, come dispositivo di direzione dell’impresa. Dove sta il cervello dell’impresa? L’assunto è che non solo il manager, ma ciascuno nell’impresa, occorre divenga lavoratore di cervello, non si sottragga all’autorità, alla capacità e alla direzione dell’impresa. Ma occorre anche che noi indaghiamo questi lessemi, proprio per non lasciarli nel luogo comune, in cui tutto si confonde e è uguale a tutto.
Cosa s’intende per impresa, parola usatissima? Cos’è? Una serie di beni e di soldi per produrre beni e dare prodotti e magari profitti? Il lessema impresa è stato introdotto nel Rinascimento —guarda caso il titolo della nostra rivista, citata da Chinaglia, è “La città del secondo rinascimento” — da Leonardo Da Vinci e è noto come Ludovico Ariosto cantasse “Le donne, i cavallier, l’arme, gli amori e l’audaci imprese”. Allora le imprese non erano un insieme di beni, le imprese erano il viaggio, l’avventura, l’itinerario, le battaglie. E, in effetti, sono anche “imprese” i blasoni delle famiglie; si chiamano imprese quelli che sono i così detti stemmi dell’araldica. Ma questi blasoni delle imprese non sono i blasoni delle famiglie, non sono tanto gli stemmi baronali o genealogici, ma vanno colti come testimonianza del viaggio e dell’itinerario di ciascuna famiglia, tant’è che spesso indicano nel loro disegno, quasi come un rebus, un modo per dire qualcosa del cammino, della specificità di ciascuna famiglia nobiliare. Noi oggi pensiamo che siano il segno della genealogia di una serie di persone che hanno palazzi e che vivono sugli allori, ma in realtà indicavano le audaci imprese di chi combatteva. Sono stemmi di famiglie che nel Rinascimento sono state le prime imprese: basta pensare, a proposito di scienza, arte e cultura, a cos’hanno dato alla ricchezza culturale artistica finanziaria gli Sforza, gli Estensi, le varie famiglie rinascimentali.
La questione che si pone, se si tratta d’itinerario, è: “Come si scrive l’itinerario di ciascuno, con quali mezzi organizzativi? Con quali strumenti finanziari? Quale progetto e quale programma nell’itinerario dell’impresa e prima di tutto nella vita di ciascuno?”. Chi, oggi, si pone queste domande essenziali? Non certo, o molto raramente, le varie scuole d’impresa o i vari consulenti aziendali. Questo è il compito per cui è sorto il brainworker, statuto del dispositivo della parola, non professionista del “saperci fare”, non spirito guida che traghetta l’impresa dal male al bene, dall’arcaismo al modernismo.
Per parlare d’impresa, come suggeriva prima Ruggero Chinaglia, ciascuno di noi si è trovato a essere imprenditore della sua esperienza: chi organizzatore di eventi internazionali come Ruggero Chinaglia, chi come noi a Bologna a gestire la nostra libreria e le nostre riviste, chi divenendo socio di case editrici (io e Chinaglia ci siamo conosciuti appunto come soci della casa editrice Spirali Edizioni), chi investendo in opere d’arte. Il consulente sta fuori dell’impresa, il brainworker si trova ciascun giorno nella battaglia, come si trova ciascun imprenditore.
Alluso a qualcosa rispetto all’impresa, possiamo chiederci perché il titolo dell’incontro parla d’impresa nuova. Occorre dire che l’impresa nuova non è un’impresa fornita degli ultimi ritrovati delle tecnologie. Oggi tu vuoi avviare una nuova impresa e fai un programma d’innovazione tecnologica, per cui sei considerato un’impresa nuova e magari ricevi finanziamenti come impresa nuova. Ma questa è una nuova impresa, non necessariamente un’impresa nuova. E non basta nemmeno fare formazione con i guru del momento, o attenersi ai criteri politicamente corretti della compatibilità ambientale, della sostenibilità e dell’inclusione, che certe volte sono messi un po’ come il prezzemolo. La questione ambientale è un problema straordinario, però si tratta anche di affrontarlo in modo non demagogico, non come luogo comune. Tra l’altro è uscito, proprio in questi giorni, il libro Falso allarme, che consiglio, di Bjorn Lomborg, che è stato uno dei fondatori di Greenpeace e che adesso ha preso le distanze da un certo fanatismo e da una serie di posizioni che, anziché sostenere l’impresa e la civiltà, rischiano invece di distruggerla. È risultato pure dalle testimonianze di vari imprenditori e di studiosi (nella nostra rivista collabora Gian Primo Quagliano che è uno dei più importanti studiosi delle problematiche dell’automotive) come l’ambiente sia un tema importantissimo perché riguarda la salute e la vita di ciascuno, ma proprio per questo non possa essere affrontato in modo demagogico.
Ma allora, cosa si intende per impresa nuova? A cosa pensiamo a proposito di qualcosa di nuovo? Pensiamo a qualcosa che ha a che fare con il tempo. Perché con il tempo? Perché quello che è nuovo non riguarda più il passato, non riguarda il futuro, ma riguarda qualcosa che è nel tempo attuale. È nuovo quello che è nel tempo attuale, qualcosa che non né passato né futuro. Ma quando il tempo è attuale? E come interviene allora il tempo perché ci sia impresa nuova? Questa forse è la questione: perché ci sia impresa nuova occorre che nell’impresa “intervenga” il tempo.
Allora, la questione tempo. Questa questione, come potete leggere nel mio libro, chiama in causa il brainworking, l’istanza del cervello dell’impresa. In effetti, come suggeriva Chinaglia, quello che ci aspettiamo dal cervello è che ci faccia risparmiare tempo. Si suppone anche che il cervello sia tanto più valido, quanto sia più veloce nel calcolo, quanti più calcoli possa fare in un determinato tempo. Siamo ammirati dal cervello artificiale, perché noi facciamo pochissimi calcoli e qui fanno miliardi di calcoli mentre noi stiamo scrivendo ancora due più due. Qualcosa della novità indubbiamente queste macchine ce la suggeriscono e questa sembra essere la forza dell’intelligenza artificiale: i super computer sono i computer superveloci. Ma quello che sottolinea il brainworking è che il cervello è dispositivo temporale, e occorre che sia un dispositivo che concerne il tempo, ma non perché il tempo ce lo fa risparmiare o perché ce lo fa ottimizzare, ma perché senza il cervello, come dispositivo pragmatico organizzativo, non c’è il tempo, il tempo non interviene. Il tempo, che è essenziale alla produzione e alla qualità, non interviene se non c’è il cervello, se ciascuno fa come vuole, quando vuole, secondo i propri tempi. Se non c’è direzione, come fa a esserci il tempo e dunque come possiamo giungere a una struttura di produzione e di direzione? Per questo dico che è importantissimo il tempo: se non interviene, l’impresa si paralizza e gira in tondo o, come si dice banalmente, è obsoleta. Dire obsoleta vuole dire che è fuori tempo, che non è nel tempo. Allora, l’intervento del brainworking nell’impresa instaura il suo cervello, perché comporta l’analisi della struttura propria all’impresa.
Ma dove reperiamo la struttura? Solo nel misurare la dimensione delle attività, solo nel calcolare quanti dipendenti, solo nel vedere quanto fatturato fa? Con le nuove tecnologie, o con le start up una o due persone in una stanzetta fanno fatturati che una volta faceva la Fiat. Allora, non basta la struttura concreta dell’azienda e occorre finalmente – e c’è chi se ne sta accorgendo, ma noi lo dicevamo già quarant’anni fa – che ci sia chi intenda invece la struttura della parola, la struttura della lingua di un’impresa, la struttura della sua scrittura.
Ciascuna impresa ha una sua linguistica, è questo di cui si è accorto il brainworking, è questo di cui ci siamo accorti quarant’anni fa. Questa linguistica dell’impresa, questo tessuto linguistico dell’impresa è ciò che assicura all’impresa la particolarità e la specificità. Come mai ci sono certe imprese che hanno dei fatturati strepitosi, del management pagatissimo e crollano al primo inciampo? Come mai invece ci sono imprenditori, artigiani, giovani, che, così si dice in Emilia, “tengono botta”, anche davanti a ogni difficoltà? E questa forza, questa decisione, questa fede nella riuscita, come si leggono? Come s’intendono? Come si quantificano? È importantissimo e ci vuole chi, e non può essere il commercialista, legga questa realtà: questo è il brainworking. E non può essere nemmeno la banca, che per fare un prestito non guarda minimamente all’intelligenza aziendale, ma guarda appunto al fatturato: “Ah, lei non ha pagato una rata!”, come se fosse qui il valore dell’impresa.
L’intervento del brainworking avvia un’analisi della struttura sintattica, cioè della sintassi dell’impresa. Sintassi, l’ordinare insieme — diceva Ruggero Chinaglia prima —. Occorre un’analisi della struttura frastica, della sua frase e un’analisi della struttura pragmatica, cioè la struttura non come entità corpose, sostanziali, ma “struttura del fare”. Allora, l’industria non è un luogo, ma è la struttura del fare nella parola. E Machiavelli al proposito è bellissimo, quando dice: “Non devi per tanto sperare in alcuna cosa fuora che nella tua industria”. Non c’erano mica le industrie come fabbricati allora, ma l’industria era proprio l’industriarsi di ciascuno, la scommessa e il rischio di ciascuno. E, allora, il criterio della struttura dell’industria è il fare, non la soggettività o la personalità, non il bilancio senza parola, il bilancio senza intelligenza e direzione.
E ancora: una proprietà dell’industria, della struttura della parola, è l’impresa. Dimostro, appunto, nel libro, che anch’essa sta nella parola e, in effetti, che sarebbe dell’impresa, della sua direzione, della sua produzione, senza la parola?”. E qui, quante volte noi ci lamentiamo che in un’impresa non c’è comunicazione! Tizio non sa quel che fa Caio, oppure ci sono i fraintendimenti, i mutismi, il non parlarsi appositamente, in modo quasi vendicativo, tra i lavoratori
Ecco che l’impresa sta nella sua narrazione, nel processo linguistico narrativo. Oggi questo è ridotto molto spesso, chiamandolo story telling – termine diventato d’uso: “Qual è lo story telling dell’azienda?” – oppure case history. Ma story telling e case history non sono la narrazione dell’impresa, in realtà sono testi senz’autenticità, spesso usati a scopi promozionali, per presentare l’impresa e non qualcosa che concerne invece un’effettiva testimonianza. Tant’è che questo story telling è fatto sempre delle stesse frasi: è disarmante constatare come, per esempio, i siti delle aziende cantino la stessa storiella. È veramente incredibile, non c’è parola! In questo senso, dico “l’impresa della parola”, ma l’impresa della parola non è l’impresa di slogan tutti politicamente e formalmente corretti, ma che in realtà sono tutti uguali, non è un ripetere gli stessi slogan. Invece, in quanto proprietà della struttura pragmatica, l’impresa poggia sul fare, sulla scommessa pragmatica e, come diceva Ruggero Chinaglia, sul rischio pragmatico.
È interessante indagare la questione del rischio, perché il rischio sembrerebbe qualcosa di pericoloso, qualcosa che bisogna evitare, e c’è un motivo. Infatti, il lessema “rischio” deriva da risecare, secare, da cui sega, e dalla radice sk, che è la radice di schisi, di taglio. Il rischio è un qualche cosa che effettivamente allude al taglio. Come intendere, allora, il taglio? Questa è la questione. È il taglio che decide della vita e della morte, per cui se subisci questo taglio, muori, come per le tre Parche, di cui la terza, Atropo, in particolare tagliava il filo?
Il taglio non è il taglio della vita, per cui il rischio non è il rischio di morte. Per esempio, si dice “il taglio di un vestito”, che non è appunto il vestito fatto a pezzi. Il taglio dell’azienda è qualche cosa che, anch’esso, ha a che vedere con la direzione, con l’orientamento, con lo specifico, con il tessuto linguistico dell’impresa. E poi questo tessuto linguistico dell’impresa, questo taglio, porta, come nel vestito, alla piega, e a questo proposito Maria Antonietta Viero ha scritto pagine essenziali. Allora, come cogliere la piega dell’itinerario di una azienda? Il rischio è il taglio che l’impresa prende, e questo taglio porta alla piega delle cose che avvengono nell’azienda.
Perché è importante questo rischio? Perché il rischio ha la sua condizione nella solitudine, è qualcosa che non si può condividere; il taglio non può essere condiviso, non può essere capito, spesso nemmeno dai soci, sicuramente non dai famigliari, ma è proprio questo che è lo specifico dell’imprenditore, non solo il rischio di perdere o di vincere. Dunque, la direzione dell’impresa, il cervello, è un cervello che non è uno spirito unitario, non è un qualcosa per fare insieme. Il rischio trova la sua condizione nella solitudine, nell’itinerario di ciascuno.
Il quando concerne il taglio, il rischio è anche divisione. Le cose si dividono, differiscono, variano. Nell’impresa non camminiamo tutti allo stesso passo, le imprese non fanno mai sistema. La difficoltà — lo avverto anche parlando con i giovani di Confindustria con cui collaboro a Bologna — è proprio il fatto che si parla d’imprese, ma in realtà è ciascuna impresa, perché ciascuna impresa ha un suo modo di esistere lungo questo rischio, lungo questo taglio. È qui che c’è la differenza. Dunque, non c’è fare comune: è questa l’impresa. E la stessa comunità esiste solo se pragmatica, cioè facendo.
Ecco che adesso possiamo intendere qualcosa del tempo, perché il taglio, che dicevamo è peculiare al rischio, è proprio ciò che indica il tempo, tant’è che voi sapete che tempo deriva da temno in greco, che vuole dire appunto taglio. La questione del tempo nell’impresa sta qui. Questa divisione costitutiva della struttura e del fare è il tempo. Quello che impedisce che l’impresa giri in tondo, in cerchio, che finisca e chiuda, è questo taglio del tempo, è il tempo che viene introdotto dal taglio delle cose nella parola, parlando.
Parlando, ciascuno trova un taglio e una piega, e così l’azienda. Tra l’altro, che si tratti di divisione nelle imprese, ce lo dice anche il fatto che nelle imprese parliamo spesso di divisioni aziendali, per esempio per aree geografiche o merceologiche, che sembrano sottolineare proprio che ci sono differenze tra queste aree appunto perché c’è una divisione, tant’è che si dice: questa divisione non ha le stesse esigenze di quest’altra divisione, non ha le stesse occorrenze temporali e, dunque, non può avere gli stessi modelli standard di altre imprese.
Poi a proposito della connessione tra il tempo e l’impresa, banalmente vorrei fare un esempio storico, che riporta anche Yuval Harari nel suo libro Sapiens. Da animali a dei. Non tutti sanno che è solo grazie alle esigenze delle imprese che è stato introdotto l’orario ferroviario, prima in Inghilterra e poi nel resto del mondo. Prima dell’impresa, ognuno aveva il suo tempo. Dicevo che l’impresa sottolinea la questione del tempo, perché impedisce che ciascuno faccia le cose secondo i propri tempi. Prima della rivoluzione industriale inglese, la gente viveva secondo i propri tempi, oppure secondo criteri naturalistici e sapeva che a giugno deve falciare, che a settembre deve vendemmiare, secondo i tempi della natura. Ciascuno viveva secondo il suo tempo e, se doveva viaggiare, non c’era un orario ferroviario; ognuno andava in stazione e prima o poi un treno partiva. Ma quando c’è stata l’esigenza di portare gli operai da casa al posto di lavoro e c’era l’orario di lavoro (anche se allora non c’era ancora la catena di montaggio), hanno dovuto intervenire gli orari per i treni. E per gli orari hanno preso come riferimento la città di Greenwich, che era proprio nella zona industriale, il cui fuso è divenuto riferimento per tutti i fusi orari del mondo. Dico questo per sottolineare, con un esempio banale, la connessione tra il tempo e l’impresa. Non dimentichiamoci che anche nell’astrofisica, per esempio, Einstein definiva il tempo come taglio, come divisione, cioè per lui il tempo non è mai stato una linea retta, ma una divisione, è taglio.
Il fatto che il tempo sia una divisione, sia taglio, comporta che il tempo non finisca. Non finisce perché c’è questo taglio e, se il tempo finisse — appunto Atropo che taglia — avremmo il taglio del taglio, un tempo che decide del tempo. Ma nessuno può tagliare il tempo, decidere sul tempo, per questo il tempo non finisce. Il tempo è taglio, come dicevamo per la piega, che non finisce mai e dunque la struttura non finisce, non c’è la fine del tempo. Questo è importantissimo, perché spesso, anche nell’impresa, le cose sono pensate a partire dall’idea di fine.
Nelle nostre riviste intervistiamo volentieri gli imprenditori, perché è constatabile che per loro non c’è mai la rassegnazione. Anche quando le cose sembrano finire, anche quando sembrano naufragare, non c’è l’idea che finiscano. Occorre trovare un altro taglio, un’altra piega, occorre rilanciare la scommessa, occorre trovare il supporto finanziario. Nemmeno il fallimento, nemmeno una persecuzione fiscale, come ce ne sono tantissime adesso, fa sì che ci sia il cedimento. Noi lo abbiamo riscontrato quando nel 2012 a Bologna ho fondato, presso Confartigianato, un centro di ascolto per il disagio degli imprenditori. Era il periodo in cui gli imprenditori si suicidavano, moltissimi nel Veneto ma anche in Emilia Romagna. Era constatabile che non c’entravano i soldi. Era gente che aveva tentato il suicidio per venti, trentamila euro di debito, e ti accorgevi che il problema non era la mancanza di liquidità, ma che c’era un’idea di fine delle cose. Cosa finiva? L’interlocuzione con la famiglia, che si sentiva nel panico perché temeva che l’imprenditore non ce la facesse, finiva l’interlocuzione con la banca perché ti sentivi rigettato da chi poteva darti una mano, finiva l’interlocuzione con i lavoratori, di cui temevi di distruggere le famiglie perché eri costretto a lasciarli a casa. Era questa la fine! È questo che dimostra come l’impresa è nella parola e sta solo nella parola. Solo se viene meno la parola viene meno l’impresa. Il brainworker — ciascuno di noi, come diceva Chinaglia — occorre che offra le condizioni perché la parola non venga mai meno. L’impresa è ciò che a ciascuno di noi dà un esempio di una non fine delle cose.
R.C. Giunti a questo punto, siccome Roberta Toffanin ha un altro impegno fra poco e ci deve lasciare, vorrei che ci fosse un momento d’interruzione del tuo intervento, che potrai riprendere fra poco, perché ritengo interessante per il dibattito che ci sia un’aggiunta sia di Anna D’Amico sia di Roberta Toffanin. Dato che Roberta deve andare tra poco, invito lei a una ripresa del suo intervento, se intende fare alcune altre precisazioni, alcuni rilanci anche in base a ciò che ha ascoltato. E poi proseguiamo, anche con Anna D’Amico.
R.T. Grazie. Innanzi tutto mi complimento davvero con il dottor Dalla Val, perché la sua è stata veramente un’affascinante introduzione alla sua opera e è certo molto importante quello che ha detto dell’impresa, dell’imprenditore. I temi, come avevo già anticipato, sono molto vasti, le sfaccettature sono molteplici e, magari andando un po’ velocemente, quello che volevo sottolineare è che assolutamente, quando parlo di ambiente, non parlo di ambientalismo. Sono perfettamente d’accordo, ci tengo, e per questo serve un approccio culturale nuovo perché non siano delle operazioni sporadiche di aziende e quindi fini a se stesse e ci sia, invece, un nuovo modo di vedere la vita all’interno della nostra impresa ma anche all’esterno, perciò con un approccio che sia pragmatico, non ideologico, che abbia tempi e modalità adeguati al nostro sistema paese.
L’altro aspetto che vorrei precisare è che sono assolutamente d’accordo che l’intelligenza artificiale non si può non considerarla e non pensarla come una protagonista nella nostra attività presente e futura (presente lo è, come sottolineava bene il dottor Dalla Val) e io vorrei dire che, come in tutte le cose, ci vuole sempre il buon senso e, quindi, magari è giusto non dimenticare l’intelligenza che chiamiamo umana, naturale, diciamo “non artificiale” (e in questo senso, lo diciamo per opposizione e quindi facciamo prima). Però sicuramente l’intelligenza artificiale fa parte ormai della nostra vita e dobbiamo saperla cavalcare bene. Abbiamo delle opportunità molto importanti e l’impresa nuova, intesa come modello, come nuovo modo di vedere l’impresa, certo non può prescindere dagli apporti esterni, ma anche da quella che è l’essenza dell’uomo. Ecco perché arte, cultura e scienza non possono non partecipare a quella che è la vita dell’imprenditore e dell’impresa stessa.
Grazie davvero per questa bellissima esperienza perché mi ha arricchito molto e spero che ci sia l’opportunità per continuare questa riflessione, questo dibattito che, ripeto, non si può concludere in un paio d’ore, ma dev’essere veramente sviluppato. Grazie e scusatemi se purtroppo devo andare.
R.C. Grazie, Roberta. Noi proseguiamo e accogliamo l’invito di Roberta Toffanin. Infatti, non l’avevo annunciato all’inizio, ma mi riservavo di farlo alla conclusione, questo è il primo di una serie di appuntamenti che noi dedichiamo alla questione impresa, proprio perché è propriamente una questione civile e certamente non è confinabile nel tempo del dibattito di un giorno. Adesso invito Anna D’Amico, se intende precisare ancora qualcosa, per un ulteriore contributo.
A.D’A. Dalla Val diceva che concludeva con il tema dell’intelligenza artificiale, quindi a questo punto lo lascerei proseguire. Poi magari a conclusione intervengo.
R.C. D’accordo. Lasciamo quindi proseguire Sergio Dalla Val, che ha posto una questione essenziale, che è quella del tempo. La questione del tempo è una delle più difficili da accogliere, perché è impossibile pensare il tempo, tant’è vero che il modo di pensarlo, come lui acutamente notava, è attraverso la sua fine. Quando interviene il pensiero del tempo comunemente? Con l’idea di durata. Quando voi avete un appuntamento, un incontro, un film, un aperitivo, una cena, ci si chiede: “Quanto dura?”. A proposito di un lavoro c’è chi si chiede: “Quanto dura?” Il tempo di preparazione di un esame: “Quanto dura?”, cioè ognuno si chiede quando quella cosa finisce. Questa è la questione su cui occorre ragionare.
L’idea del tempo che hanno gli umani è l’idea di fine. Pertanto, come interviene l’idea di fine per ciascuno? In che modo condiziona la vita, in quanto la vita è pensata finire? Quanto dura la vita? Quando finirà e in che modo ci si attrezza per la fine? E, così, nell’impresa: quanto durerà? Ognuno scommette che durerà dieci anni, vent’anni, trent’anni, cinquant’anni. Pensa che durerà e poi, come ogni cosa naturale, finirà. Eh, no! È proprio questa la questione, non c’è questo destino di fine. E è ciò che l’impresa propone ciascun giorno con il suo programma, perché l’impresa ha il suo riferimento nell’azienda. Si dice impresa, però ciascuno si riferisce all’azienda, l’azienda da dirigere, da gestire, da governare. L’azienda, che è proprio il modo del tempo dell’impresa. Perché di cosa si tratta nell’azienda? Dell’agenda che ciascun giorno l’imprenditore e i dispositivi dell’azienda hanno come programma. L’azienda è l’agenda del fare. L’azienda, in quanto agenda, in quanto programma delle cose che si fanno, non finisce, non è destinata a finire, se non c’è il preconcetto della fine. E è questa la questione più difficile. Così, il rischio stesso è lo stesso rischio della scienza: l’impresa è senza conoscenza, perché il taglio che incontra come rischio è il taglio della scienza, di ciò che giorno per giorno si aggiunge, si produce e non è conosciuto già, e è quello che contribuisce al proseguimento. È questa scommessa sul tempo che per l’imprenditore conta e così non può cedere al luogo comune. Questo, giusto a fianco a quanto Sergio Dalla Val stava dicendo.
S.D.V. Interessantissimo quello che ha detto Ruggero, perché si pone proprio lungo il tracciato che avevo preparato. Giustamente, uno potrebbe dire: “Sì, ma perché io voglio sapere quanto una cosa dura? Eh, è perché devo organizzarmi, perché devo fare i miei calcoli”. Allora qui c’è un altro problema dell’imprenditore, il problema del calcolo. Giustamente si dice: “Ma voi fate tante parole sul tempo, ma noi dobbiamo pensare ai bilanci, dobbiamo fare i nostri calcoli”. Il problema interviene però se anche il calcolo subisce questo destino dell’idea di fine. Il problema è se fai i calcoli perché le cose potrebbero finire, potrebbero andare male e allora, se non faccio bene i calcoli, magari finiscono i soldi, finiscono le forze, finisce il tempo. L’impresa pone, invece, una questione di calcolo che occorre sia calcolo non innanzi all’idea di morte, ma calcolo per la vita, rispetto alla vita.
Allora, il calcolo del cervello, il calcolo del computer, è un calcolo che mi serve per risparmiare il tempo pensando che il tempo possa finire oppure un calcolo che, di calcolo in calcolo, fa sì che le cose non finiscano? È un calcolo dettato dalla paura della fine o è un calcolo dettato dall’esigenza che occorre fare costantemente dei calcoli per il proseguimento, sull’istanza della riuscita? Perché sono interessanti i giovani imprenditori con cui parlo? Perché non partono mai dell’idea di fine, ma si trovano nell’incominciamento e anche se qualcosa sembra non andare bene, non è che fanno i propri calcoli e poi chiudono l’azienda, ma pensano che occorra fare degli altri calcoli per riuscire a trovare il modo per proseguire.
Certamente il calcolo è esposto all’errore, ma quest’errore è strutturale: i calcoli non vengono mai come noi vorremmo, però quest’errore è alla punta dell’arte e dell’invenzione. Per questo errore, Curie scopre i raggi X, Goodyear la vulcanizzazione delle gomme, Cristoforo Colombo l’America. Lui aveva fatto i calcoli e erano calcoli per vincere, non per chiudere. Ha fatto degli errori di calcolo? Certamente, ma proprio questo gli ha consentito d’imbattersi in qualche cosa di straordinario, in qualche cosa d’imprevedibile. Allora, ecco che il calcolo è incalcolabile, e dunque rende vana ogni chiusura di bilancio, ogni bilancio esaustivo. Come evitare l’errore di calcolo? Come calcolare in modo esaustivo e definito i flussi di cassa, gli asset materiali? È lì che c’è il problema, per venire anche a questioni concrete. L’accusa di falso in bilancio che colpisce moltissimi imprenditori — e adesso stiamo facendo il numero della rivista sulla questione giustizia rispetto alle imprese — poggia sull’idea che il calcolo possa evitare l’errore o che, se c’è un errore, c’è perché c’è un “signore del falso”, un imprenditore come creatura diabolica che manipola i dati. È la stessa questione dell’abuso d’ufficio, che ha fatto sì che nessuno più firmasse pratiche amministrative. Perché, tu come fai a essere certo di non imbatterti nell’errore?
Ma perché l’errore, anziché essere magari l’occasione per una rielaborazione, per l’introduzione di nuovi elementi, per aggiungere calcolo al calcolo cioè infinito all’infinito, è invece ciò che deve portare alla pena, che dev’essere penalizzato? Questa è la questione.
Facciamo un ultimo passo, così arriviamo all’intelligenza artificiale. Proprio perché l’impresa si accosta all’arte del calcolo, possiamo capire la fascinazione che l’intelligenza artificiale ha, a mio parere, per gli imprenditori: questi calcolatori offrono una capacità di calcolo infinita. E, attenzione, non è vero che non sbagliano. Sbagliano, anzi questo è il bello. Io ho chiesto a Chat GTP di dirmi l’inizio dell’Iliade, perché avevo bisogno di una citazione; Chat GPT parte e, in mezzo secondo, mi mette l’inizio dell’Iliade e mi risponde scusandosi perché me la può dare solo in greco in quanto in italiano non è disponibile. Invece me l’aveva data in italiano! Da un computer non ti aspetti un errore così clamoroso. Allora, e questo è il bello, io ho chiesto se era sicura che questo fosse greco, e mi ha risposto: “Ops! Scusa, ho sbagliato, è italiano in effetti”. Bellissimo! E dopo dicono che non sbagliano, per cui non sono umani!
A.D’A. Hanno una capacità d’apprendimento molto veloce.
S.D.V. Esatto. Allora la questione non è se l’intelligenza del computer batterà quella umana. In molti casi avviene già. La questione non è se eliminerà il lavoro degli umani. In un convegno un consulente del lavoro ha detto che ha fatto una verifica e non è riuscito a trovare un lavoro che l’intelligenza artificiale non metterà in pericolo. Si parlava dell’assistenza agli anziani e ci sono già robot in Giappone che assistono benissimo gli anziani, per cui anche il settore dell’assistenza, il terziario, certamente verrà superato. Allora, il problema non è quello dello scontro tra l’intelligenza umana e l’intelligenza artificiale: se facciamo questo scontro, cioè se è una questione di performance, hanno già vinto loro. “Eh, ma noi li possiamo controllare”, ci dicono. Neanche questo è vero, perché un’intelligenza che ha tutto lo scibile del pianeta e che calcola milioni e milioni di volte di più della somma di tutti i computer al mondo, e c’è già, chi può controllarla? Il problema è che dobbiamo smettere di credere che la nostra intelligenza sta nella capacità di controllare tutto! Sicuramente noi non riusciremo a controllare i computer. Ci fa paura? Beh, quante sono le cose che non controlliamo? Controlliamo il tempo meteorologico, gli animali, i terremoti, le epidemie? Però li gestiamo, ce ne avvaliamo, ne cogliamo occasioni per l’invenzione.
Concludo qui, dicendo che la distinzione tra intelligenza umana e intelligenza artificiale è vana, perché quale intelligenza è umana? L’intelligenza è sempre artificiale, se intendiamo “artificiale” secondo l’etimo di artificio, che è arte del fare. L’intelligenza è sempre artificiale quindi se non è il Q.I., se è arte del fare. L’intelligenza non si oppone alla manualità, come osservava Roberta, perché l’intelligenza esige la manualità. Il primo modo di nutrire il cervello è la manualità, è la mano intellettuale, è la mano che tocca, che scrive. Vediamo il bambino che impara con la mano, ciascuno che ha un bambino ha quest’esperienza. Ecco, allora, che l’intelligenza è un’arte, arte del fare, non dell’intendere, del capire tutto, ma arte del malinteso. Allora giustamente, diceva Chinaglia, questa è la scienza. Mi piace concludere con questa notazione e qui torniamo, potremmo dire, alla terza divisione: scienza da scio, divido. Ancora una volta, il taglio, il tempo: la scienza esige il tempo, esige il fare, non è la conoscenza. Conoscenza, che deriva da cum scio, cioè metto in comune il taglio, ma, come dicevamo prima, il taglio non è comune. Allora la cultura non è la conoscenza, tanto meno la coscienza. “Noi abbiamo la coscienza, i computer no”, e chi l’ha detto? E poi chi l’ha detto che abbiamo la coscienza? “Noi abbiamo la coscienza, la volontà, abbiamo tutte le varie capacità”, ma sono concetti obsoleti! Chi può decidere quello che vuole? Chi può sapere quello che effettivamente vuole? Chi ha effettivamente coscienza dei suoi atti, di quello che sta facendo?
R.C. Per la conclusione, Anna D’Amico.
A.D’A. Grazie. Sì, materia interessante è anche l’intervento su questo testo. Credo che, alla fine, quello che mi ha lasciato questo discorso è che diventa estremamente importante per le imprese trovare la propria unicità, il proprio linguaggio; importante poi l’analisi, nel senso che l’azienda in primis deve guardarsi dentro, deve capire quali sono i propri valori guida, che in alcuni casi possono sembrare magari un poco marchettari, come il tema della sostenibilità, però in realtà sono dei temi fondamentali per le imprese del futuro, perché se non abbiamo a cuore noi stessi e ci limitiamo a seguire una prassi sicuramente non sappiamo che cosa avremo domani. Siamo in un circolo virtuoso dove l’intelligenza artificiale diventa uno strumento a servizio dell’impresa e dell’unicità proprio dell’impresa.
S.D.V. Un’ottima conclusione. È il caso di dire che concludiamo in bellezza.
R.C. Bene, allora concludiamo qui questo primo intervento intorno all’impresa nuova, cioè l’impresa che si avvale dei mezzi e degli strumenti della parola, si avvale del tempo, si avvale di ciò che occorre. Noi non sappiamo già quali sono le necessità dell’impresa in atto. E questo che è difficile da accogliere, perché i luoghi comuni accordano un privilegio al sapere: bisogna sapere per sapere fare, per sapere decidere, per sapere che cosa è bene, che cosa è meglio. Ma è proprio questo che è impossibile. L’atto, che non è già avvenuto, non può avvalersi del sapere e, quindi, occorre interrogare l’atto, ascoltare l’atto, avere questa umiltà intorno all’atto, che è l’umiltà intorno alla vita. È l’umiltà, l’accoglienza che introduce al gerundio, senza più l’apparente necessità di distinguere il passato, il presente e il futuro, ma accogliendo l’attuale e la direzione verso cui la combinatoria delle cose, ascoltando, ragionando, calcolando, ci trae. Però non sarà mai una certezza dove ci trae, dove va ciò che ci trae. Una cosa tuttavia è sicura: non va a finire. Se abbiamo l’idea che va a finire, ci paralizziamo. Questo è un elemento che occorre intervenga nel messaggio verso i giovani, verso chi si rivolge all’intraprendenza, verso chi si rivolge alla vita da vivere in modo intraprendente, perché, allora, ciascuno trova l’intelligenza, che è l’intelligenza della parola, l’intelligenza che procede dall’atto, quindi con l’audacia e con il rischio, con la scienza.
Non si vive di statistica e l’intelligenza artificiale, ricordiamocelo, è una statistica; veloce, su una massa di dati enorme, ma è una statistica, quindi è finita e ci dà un’indicazione in nome del finito, non dell’infinito, non della combinatoria infinita. Occorre trovare l’audacia, la forza, di accogliere l’infinito e allora c’è la chance della cifra, come dice il titolo del libro.
Questo è il primo mattoncino che noi abbiamo posto in relazione al dibattito che, come giustamente dice Roberta Toffanin, è molto ampio. Ci sono questioni di grande portata, di grande intensità, che richiedono di entrare in dettaglio su vari aspetti, però questo è il primo e noi contiamo di farlo seguire con altri, convocando altri imprenditori che possono dare a loro volta una testimonianza della loro esperienza e avvalersi di ulteriori contributi. Noi proseguiamo a dare un contributo alla civiltà.
Grazie a Anna D’Amico e a Roberta Toffanin per la loro generosità, grazie a Sergio Dalla Val che ci ha condotti in un viaggio anch’esso infinito e grazie a ciascuno di voi. Contiamo di vederci presto per proseguire, anche con la vostra testimonianza, il nostro dibattito.
Grazie e arrivederci.
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Per ulteriori informazioni scrivere a ruggerochinaglia@infinito.it o tel. 049 656218