L’arte e il diritto
- Chinaglia Ruggero, Costa Elisabetta, Rozza Gianluca
28 maggio 2009 Conferenza di Elisabetta Costa e Gianluca Rozza, cifrematici, L’arte e il diritto. Il mercato, la vendita, la scrittura nel secondo dibattito della modernità La scienza e la crisi, diretto da Ruggero Chinaglia, psicanalista, cifrematico, in presentazione del quarto numero della rivista “La cifrematica”, dal titolo Lo statuto di art ambassador, (Spirali). Padova, Sala Polivalente di Via Diego Valeri, 17. Con il Patrocinio della Regione del Veneto, della Provincia di Padova, del Comune di Padova
ELISABETTA COSTA, GIANLUCA ROZZA
L’arte e il diritto. Il mercato, la vendita, la scrittura
Ruggero Chinaglia Buonasera. Questo incontro s’inscrive nella serie dei dibattiti della modernità La scienza e la crisi. Abbiamo qui con noi due esponenti del movimento cifrematico internazionale, esperti di diritto, avvocati: Elisabetta Costa, scrittrice, poetessa, giornalista e Gianluca Rozza artista, pittore, docente dell’Università del Secondo Rinascimento e anch’egli avvocato. Presentano il quarto numero della collana “La Cifrematica”, collana edita dalla casa editrice Spirali, dal titolo Lo statuto di art ambassador, che raccoglie contributi di autori internazionali, esponenti e non, del movimento cifrematico. Testi che danno un contributo verso la qualità della vita. Mentre noi siamo qui, si sta concludendo a Roma l’incontro con Mikheil Saakashvili, presidente della Repubblica della Georgia, ospite in Italia per presentare l’ultimo suo libro edito da Spirali, Io vi parlo di libertà.
È un libro che potete trovare tra qualche giorno anche in libreria, libro che dà un contributo unico, una testimonianza irreperibile in altri testi sull’argomento, in altri articoli di giornale, che pur sono apparsi numerosi nei mesi scorsi intorno alla vicenda georgiana, sulla la questione del conflitto scoppiato nel 2008 tra Russia e Georgia, per il controllo dell’Ossezia del Sud e altro. Un libro in cui la questione della gioia, della libertà, della democrazia trova la testimonianza di Mikheil Saakashvili che risponde alle domande dello scrittore francese Raphael Glucksmann. È un libro di grande interesse, un libro che ha suscitato e che susciterà molto interesse, molto scalpore perché fornisce elementi al di sopra dell’ideologia e degli orientamenti giornalistici.
Un altro libro è uscito di recente, e sarà presentato sabato alla Villa San Carlo Borromeo di Senago dall’autore Boris Nemtsov che vi giungerà domani, è Disastro Putin. Libertà e democrazia in Russia. Quindi, in queste pubblicazioni c’è un’insistenza intorno alla questione libertà, oltre la cronaca giornalistica. Domani, ancora qui a Padova, avverrà la presentazione di un altro libro che è uscito proprio in questi giorni da Spirali e che sarà in libreria tra pochi giorni.
È il libro di Alessandro Taglioni, artista, pittore, esponente del movimento cifrematico, che ha scritto questo libro di grande interesse La materia, Dio, l’arte. Sarà presentato domani in combinazione con l’inaugurazione della mostra Pittura con 50 opere di Taglioni, che si tiene alla Galleria Cavour, qui a Padova, alle ore 18,00. E ciascuno può venire dato che l’ingresso è libero.
Un’altra rivista che vi segnalo è “La Città del Secondo Rinascimento.” Una rivista che esce a cura dell’associazione Progetto Emilia Romagna, rivista che viene pubblicata a Bologna, ma sempre nell’ambito dell’èquipe redazionale della casa editrice; questo numero si occupa della crisi e della riuscita. Contiene testimonianze di vari imprenditori, di intellettuali, con contributi che possono suscitare curiosità e interesse. Questa sera invece, con la conferenza dal titolo L’arte e il diritto. Il mercato, la vendita, la scrittura dei nostri due ospiti, presentiamo il quarto numero della collana “La cifrematica”, che s’intitola Lo statuto di art ambassador.
Sono 36 anni che è sorta la nostra esperienza cifrematica, in cui s’integrano la formazione e la clinica, l’attività redazionale, commerciale, promozionale, organizzativa, di comunicazione, di promozione, di formazione alla vendita, all’ascolto, alla scrittura; e è dall’integrazione di questi vari e differenti aspetti che risulta la formazione che noi chiamiamo formazione intellettuale. Formazione e educazione alla qualità della vita. È un modo assolutamente specifico quello con cui questa formazione si acquisisce, risalta lungo il procedere dell’esperienza.
E è una formazione non per applicazioni teoretiche, ma una formazione che procede per dispositivi pragmatici: la casa editrice è un dispositivo pragmatico, l’associazione psicanalitica è un dispositivo pragmatico, la Fondazione di cultura internazionale è un dispositivo pragmatico, l’Università internazionale del secondo rinascimento è un dispositivo pragmatico. I convegni, i congressi, i corsi, le conferenze sono dispositivi pragmatici e è dall’integrazione di questi aspetti che sorge questa formazione accanto a una serie di prodotti: libri, opere d’ingegno, grafica, opere d’arte, mostre, laboratori, dibattiti, congressi. Attività e prodotti quindi che strutturano la memoria come museo vivente.
Si tratta di una formazione in cui ciascuno si trova protagonista rispetto al progetto e al programma, non già rispetto a una idealità, a un essere da conformare o da raggiungere. Dunque, questa formazione investe vari settori, vari aspetti, ma investe qualcosa che per ciascuno è essenziale e è la salute. La salute come istanza di qualità. La salute che è necessaria a ciascuno, ma non è certa e garantita né dalla prevenzione, né dalla speranza di averla. È invece garantita dal fare che si rivolge alla qualità. E cosa c’entra tutto ciò con lo statuto di art ambassador, con la combinazione di arte e diritto? Lo statuto di art ambassador è quello che, in breve, Armando Verdiglione ha definito lo statuto intellettuale, cioè lo statuto che riguarda ciascun atto che si rivolge alla sua qualità.
Quindi art ambassador è lo statuto in cui ciascuno nella sua attività, nella sua vita, nel suo mestiere, nella sua professione è tenuto a instaurare per una questione di salute, per una questione di qualità. Art ambassador che, mentre letteralmente sembra annunciare lo statuto dell’ambasciatore dell’arte, si volge invece nell’arte dell’ambasceria, nell’arte dell’annunciazione, nell’arte quindi della lingua diplomatica, nell’arte dell’andare e venire in modo che, questo andare e questo venire, giovi e si rivolga alla qualità delle cose. Art ambassador: statuto intellettuale. Art ambassador: statuto del servizio intellettuale. È qualcosa che non è dispensato dalle scuole, non è dispensato dall’università, non è dispensato dalle scuole di partito, non è dispensato dai manuali.
È qualcosa che al momento nel pianeta è reperibile come traccia e come elementi di scrittura e di formazione nell’esperienza cifrematica. Di questo dunque, del modo con cui nella loro esperienza di vita, nella loro formazione, nel loro mestiere, nel loro studio, nella loro attività, ciò che hanno acquisito giova all’incontro, alla conclusione, alla qualità delle cose, ci daranno testimonianza questa sera Elisabetta Costa, che è anche opinionista del giornale “La Prealpina”, oltre ad essere autrice di un testo giuridico edito nel 2007 da Giuffrè Editore, Le prove liberatorie nella responsabilità da circolazione stradale e Gianluca Rozza. Allora, ringraziandoli di essere qui questa sera, li invito alla parola. Per prima, Elisabetta Costa.
Elisabetta Costa Io sono contentissima di essere qui, ringrazio l’Associazione di Padova, Ruggero Chinaglia, Maria Antonietta Viero. Dopo tantissimi anni torno a Padova. Abbiamo fatto un giro prima di venire qua. È veramente una città bellissima. Forse, anche per la giornata di oggi che è particolare, con una bella luce, una bell’aria. E mi dispiace che siate qui, invece di partecipare al concerto di J. Brahms, alla Chiesa degli Eremitani. Ho preparato un testo che scorrerò brevemente per cercare, d’illustrare attraverso la mia testimonianza, come la cifrematica possa intervenire nell’esperienza di ciascuno e con quali strumenti, con quali effetti. Insomma quello che ho trovato.
Io mi sono trovata ad aprire uno studio legale a Milano nel novembre 1994. Avevo 29 anni e aprivo il mio studio da sola, in centro a Milano. Il 1994 era un anno un po’ speciale per Milano, ma anche in altre parti d’Italia, perché sui professionisti in generale, e sugli avvocati in particolare, arrivava l’onda della crisi della guerra del Golfo, che aveva colpito, nel 1991-’92, le aziende; poi, Tangentopoli, ecc. i cui effetti si fecero sentire nell’industria. Era quindi un periodo un po’ così.
L’esercito era composto da me e da una ragazza di Pavia, che aveva la mia stessa età e si era appena laureata. Io avevo fatto più di 5 anni di pratica in differenti studi legali e avevo superato da quasi due anni l’esame di avvocato. Allora si chiamava esame da procuratore. Questa parola “procuratore” creava non pochi equivoci con il procuratore della Repubblica, cioè con il Pubblico Ministero che rappresenta la pubblica accusa, mentre i procuratori legali, che eravamo noi, erano avvocati veri e propri e potevamo esercitare, però solo nel distretto della Corte d’Appello di residenza, anziché in tutto il Paese, in tutta Italia, come gli avvocati. La distinzione tra procuratori legali e avvocati era davvero assurda.
Tant’è che, anche per adeguarsi alla normativa dell’Unione Europea, il “procuratore legale” con la legge del 1997 è stato abolito, in favore dell’accesso immediato all’avvocatura con il superamento dell’esame di Stato. L’esame di Stato non è cambiato nelle prove, ma sono cambiati i requisiti di iscrizione. È stato introdotto l’obbligo di sostenere l’esame nel luogo dove si è svolta la pratica (che dura due anni dopo la laurea), in modo da arginare la pratica di immigrazioni in altri fori, dove le percentuali di superamento dell’esame erano maggiori, e anche i metodi di correzione degli iscritti, nel senso che adesso ci sono delle commissioni itineranti che vengono da altre città, i cui membri non sono noti.
Io mi sono laureata all’università degli studi di Milano nel 1989 con una tesi in diritto industriale, che è quel ramo del diritto civile che si occupa dei brevetti per invenzione e dei marchi, con il titolo “Pubblicità e Diritto d’Autore”. Quando mi sono iscritta a Giurisprudenza pensavo più al giornalismo, che all’avvocatura. La magistratura era per me esclusa, perché non avrei sopportato le pressioni dall’alto che sono tipiche di una funzione statale e il notariato pareva una chimera, perché bisognava nascere da una stirpe di notai e oggi non è molto differente.
L’avvocatura un po’ m’inquietava. Si trattava di difendere qualcuno da qualcosa e soprattutto da qualcun altro. Compito assolutamente non facile. Scrivere mi piace da sempre, da quando in prima elementare cominciai a tenere un album di frasi e di disegni. E mentre frequentavo l’università accade che istituirono l’esame di stato per i giornalisti. Perciò quando mi laureai pensai che, esame di stato per esame di stato, conveniva tentare quello di abilitazione all’avvocatura. Mestiere con più chance di riuscita del giornalista.
Se non altro perché l’avvocato può sempre mettersi in proprio, mentre il giornalista dipende sempre da un giornale o da una televisione, deve conquistare un editore. Così presa la laurea, dopo una breve esperienza in Germania (soprattutto per migliorare il tedesco), ho cominciato la pratica nello studio di una nota avvocatessa di Milano. Il mio progetto sarebbe stato quello di fare la pratica in vari paesi europei, dato che si parlava molto dell’imminente unificazione dell’Europa. E si leggeva dappertutto sui giornali che saremmo presto diventati cittadini europei.
Mio padre era un industriale piemontese nel ramo tessile. Aveva sempre viaggiato molto per vendere i filati della sua fabbrica. Parlava bene il francese e l’inglese. Mi ha sempre invitato a studiare le lingue, suggerimento che ho seguito fin dall’infanzia, incominciando con l’inglese a cui poi si sono aggiunti il francese, il tedesco e lo spagnolo. Quando dopo la laurea mi sono recata all’Ordine degli avvocati, per prendere informazioni sulla pratica forense, mi dissero che la pratica doveva essere svolta a Milano, nella città di residenza, e che durante la pratica non mi sarei potuta assentare da Milano per oltre tre mesi, pena la decadenza e l’annullamento del praticantato effettuato.
La divisione non mi impedì il viaggio in Germania, che fu importante, anche perché mi trovai ad assistere alla crollo del muro di Berlino in diretta e al rientro rincominciai la pratica nello studio dell’avvocatessa, che m’interessava di più per il fatto che scriveva sul “Giornale”. Allora si diceva di Indro Montanelli, poi si è detto di Feltri, poi non si è più detto di qualcuno. Curioso. Mi interessava più per le sue doti di giornalista, che per la sue qualità di giurista che non conoscevo.
Lo studio legale si occupava principalmente di diritto di famiglia e fu per questa via che cominciai ad avvicinarmi al mondo psi, perché nelle liti tra coniugi, quando sono coinvolti i figli minorenni, il tribunale si avvale della consulenza di psichiatri soprattutto, e di psicoterapeuti e di psicologi per decidere a quale genitore affidare i minori. Adesso, dopo la riforma del 2006, l’articolo 155 del Codice Civile prevede l’affidamento condiviso, che è una fictio iuris perché comunque occorre stabilire una collocazione prevalente (così si chiama), per non far fare ai bambini quell’esperienza un po’ terribile, che è stare pari tempo con ciascun genitore.
Io ho assistito a provvedimenti che stabiliscono una settimana con la mamma e una settimana con il papà, che induce a una certo tipo di fantasia rispetto al tempo e anche rispetto all’Altro. Curioso come giudizio, che interviene come taglio, come crisi, come tempo in atto. Il discorso giudiziario interviene invece come giudizio che taglia, per dir così, il tempo: una settimana con la mamma, una settimana con il papà. Oppure, come più spesso accade, i giorni feriali con la mamma e i giorni festivi con il papà. Quindi spostando qui, la questione rispetto all’Altro, all’altro tempo.
L’affidamento condiviso, nell’idea del legislatore, avrebbe dovuto far diminuire il tasso di litigiosità fra i coniugi separandi e quindi far diminuire, anche, il ricorso a consulenti psi da parte dei magistrati. Cosa che in parte è avvenuta, ma che certamente non avveniva nei primi anni 90, quando la prassi di fare perizie sui bambini e sui genitori per stabilire l’affidamento era molto diffusa e abbondantemente praticata. Accadeva che questi consulenti, questi periti, oltre che utilizzare metodi molto invasivi, si direbbe oggi (allora invece si diceva molto traumatici), con i bambini facevano fare delle relazioni assolutamente insoddisfacenti.
In genere i periti ritengono più idoneo l’affidamento alla madre, perché pensano che il padre, dovendo lavorare, deleghi gli adempimenti genitoriali alla propria madre o a terze persone. Ma una via così semplice non viene sempre seguita, perché i padri, quando chiedono l’affidamento dei figli, invocano l’incapacità della madre a svolgere il suo compito. I motivi più spesso addotti sono: l’abuso di alcool, di droghe e la depressione, con il conseguente uso o abuso di psicofarmaci. In questi casi il tribunale nomina sempre un perito, che difficilmente riesce, però, a fare un’analisi efficace. Nella maggior parte dei casi la donna accusata dal marito si difende, o dettando che la causa del suo malessere è il comportamento di lui, o perché trascura lei i figli, trascura la famiglia o perché la tradisce.
E quindi in questi meccanismi fantasmatici di difficile accesso da parte di terze persone, occorre una preparazione notevole, oltre che un’esperienza autentica con un intervento efficace. Consideriamo poi che la consulenza tecnica richiesta dal tribunale non ha per obiettivo quello dell’intervento sulle persone coinvolte, ma chiede al perito di esprimere un giudizio, motivandolo, su quale dei due genitori risulti più idoneo all’affidamento dei figli. Giudizio, che è impossibile da formulare a priori, perché la separazione comporta una modifica importante dei dispositivi in atto in quella specifica famiglia. E nessuno può prevedere come ciascun genitore si comporterà una volta che si troverà da solo, cioè senza la presenza del coniuge.
Queste sono riflessioni che faccio oggi, grazie all’invito portomi a parlare, ma in un processo la contingenza è la difesa del cliente, che per molti legali è la realizzazione della sua volontà. A maggior ragione nel diritto di famiglia, dove le espressioni che si sentono più spesso sono: voglio i figli, voglio la casa, voglio i soldi. Oppure, lui o lei mi deve dare i figli, mi deve dare la casa, mi deva dare i soldi. Oppure, lui o lei non può togliermi i figli, la casa, i soldi, cioè dove la modalità del volere, dovere, potere sembrano tendere a prevalere certamente sul fare e su ciascuna cosa.
Il diritto ha le sue ragioni che non sono la volontà del cliente. Neppure quando la volontà si presenti come volontà di bene. Se le ragioni del diritto consistessero nella volontà di bene, allora la procedura coinciderebbe con la procedura penale. Dato il bene, data la pena, la pena come male, incesto, peccato dell’Altro, oppure la pena come prigione (a seconda dei ruoli che la società assegna a ognuno e che ogni discorso che si assume come causa si assegna), data la pena ecco la procedura. Una procedura che partendo dalla fine ripercorrerebbe il ciclo vitale. La procedura attiene al viaggio senza ritorno, al viaggio che non ha una seconda volta perché si svolge già in una seconda volta.
Una giovane coppia ha due figli e a causa di una certa indifferenza del marito (figlio unico di genitori torinesi abbienti, che si considera in credito verso la vita) nei confronti della moglie, indifferenza, che diventa insofferenza dopo la nascita del secondo figlio (la prima è una bambina), la moglie dice di sentirsi depressa. Giunge l’estate e la signora chiede alla suocera con cui ha avuto sempre buoni rapporti, se può lasciarle i figli per un paio di settimane perché si sente un po’ giù; e così avrebbe modo di svagarsi un po’, magari di riposarsi in modo da affrontare meglio l’autunno e le cose da fare.
La suocera dice: “Ma certo cara, non ti preoccupare”. E da quel momento (la figlia aveva sette anni, il bambino quattro), la madre entra in un meccanismo giudiziario fantasmatico che la porta a riavere con sé i figli dopo più di dieci anni. Non che non li abbia più visti, ma la suocera ha approfittato di questo momento di debolezza della nuora per insinuare nel figlio il dubbio, il dubbio di sé e il dubbio sulla moglie, affinché questo figlio chiedesse la separazione dalla moglie e l’affidamento dei bambini sul presupposto che la madre, depressa, non era in grado di svolgere adeguatamente il suo ruolo. E la prova consisteva nel fatto che lei stessa aveva abbandonato i figli, chiedendo aiuto alla suocera che li tenesse e ammettendo di non essere più in grado di gestire i propri figli.
La signora venne nello studio legale, dove si svolgeva la pratica e il caso fu affidato a me. Il tribunale di Milano chiede un c. t. u. e il perito dichiara che l’appartamento a Milano dove vive la madre è disordinato. Pare anche poco pulito. Ricorda in particolare che il cane era stato visto bere dal bidè e ciò contrastava con le norme igieniche, mentre i nonni abitavano sulle colline torinesi a Moncalieri, in una villa circondata da un giardino grandissimo con fiori e alberi da frutto. Pareva il paradiso terrestre. Lì, i bambini godevano di protezione, igiene, aria buona, pasti regolari. Mentre le attività lavorative della madre, che era attrice di teatro, e questo è il motivo per cui i suoceri (soprattutto la suocera) non vedevano di buon grado l’unione del proprio figlio unico, un po’ viziato e bamboccione, non assicurava la stessa cura e costanza nei doveri genitoriali.
Nel corso del processo era anche emerso che i nonni praticavano riti, che prevedevano di recarsi al cimitero all’alba con le urine a digiuno, oppure di collezionare zampe di gallina da nascondere in casa e cosette di questo tipo. Ma il c. t. u., il consulente tecnico, pur avvertito di queste cose e pur avendo sentito i bambini (che soprattutto la maggiore desiderava tornare a casa dalla madre), concluse che i minori dovevano stare a casa con i nonni. Nel frattempo il marito, che aveva lasciato la casa coniugale di Milano, spostò la residenza a Moncalieri presso i propri genitori, anche se continuava a vivere a Milano e andava a Moncalieri soltanto il fine settimana. Il processo quindi si sposta a Torino.
Poiché il processo per la separazione dura oltre i tre anni richiesti dalla legge per chi chiede il divorzio, l’avvocatessa dello studio decide di fare il processo di divorzio a Torino, anziché fare appello alla sentenza del tribunale di Milano. Una mossa ardita, ma le risorse finanziare della cliente erano pressoché nulle. E comunque, molto difficilmente i giudici della corte d’appello avrebbero dato torto ai loro colleghi del piano di sopra. Era pure rischioso, peraltro, il processo proprio nel forum dove abitavano le controparti.
La signora, poi, se voleva vedere i bambini doveva lei recarsi a Moncalieri, perché non era previsto che i figli potessero andare a Milano per via delle esigenze scolastiche, se non per un breve periodo durante le vacanze estive. E un inverno, proprio tornando da Torino, dove nevicava, la signora cadde e si ruppe una gamba. Ciò le rendeva impossibile guidare. Così una volta l’accompagnai io stessa a Moncalieri e ebbi modo di vedere la villa.
Era un sabato pomeriggio d’inverno e la villa, con grandi vetrate che davano su un enorme prato con arbusti e alberi e che terminava a strapiombo sulla vallata senza alcun recinto o parapetto, era immersa nella nebbia e dava una sensazione spettrale. La suocera aprì la porta per far entrare la signora, mentre io rimasi in macchina. Dopo un paio di ore uscì e partimmo per Milano. Fu una scena un po’ tetra, ma mi sorprese la forza con cui la signora riuscì a tenere un tono di conversazione tale, da non mettermi in imbarazzo in alcun modo. In prima battuta, il divorzio ricalcò pari pari la sentenza della separazione.
Poi la figlia, che nel frattempo era diventata adolescente, fece arrivare alla madre il proprio diario, dove c’era scritto che la nonna li spiava, non li lasciava parlare al telefono con la madre e altre cose di questo tipo, per cui, chiedendo la revisione delle condizioni del divorzio, i figli tornarono a casa. La maggiore stava per compiere 18 anni e la signora, quando ha saputo la notizia che finalmente i giudici ci avevano ascoltato, si mise a piangere dall’emozione e fu questa l’unica volta che la vidi piangere.
Questo caso, un macroscopico errore, non è l’unico in cui mi sono imbattuta. Ho raccontato questo perché qui è molto chiaro l’errore del consulente tecnico che ha preferito la parte più simile a sé, la parte meno distante dai propri pregiudizi, pretendendo che fosse la decisione migliore per i bambini. E ciò a fin di bene, per la volontà di bene, dove il bene sarebbe la prigione dorata con giornate grigie, monotone, accanto a persone anziane con le loro abitudini, anziché il movimento, la sorpresa della vita con la madre, l’emozione anche del teatro, dove a volte, alla fine, li portava quando non sapeva a chi lasciarli e non potevano ancora stare a casa da soli. Un giudizio, quello del consulente tecnico fatto proprio dal tribunale, a priori, cioè senza la contingenza, quindi in una visione fuori dal tempo, in un tempo ritenuto ideale, perciò fermo.
Non certo il tempo della vita che è ritmo, evento, sorpresa. Noi avevamo il compito di contrastare queste perizie. Quindi io mi sono imbarcata a leggere vari autori psi, dove però non c’era nulla di pragmatico, di efficace, nessuna indicazione da seguire, nessuno strumento da utilizzare. L’analisi pareva una pratica più o meno assimilabile all’autopsia: il caso fermo, classificato, morto viene descritto, rappresentato. E da lì si traggono giudizi che sono pregiudizi, perché il materiale da cui provengono le formulazioni attiene in massima parte al vissuto di chi li formula. Vissuto che viene spacciato tout-court per esperienza, in assenza di elaborazione, senza alcuna prova che l’elaborazione sia avvenuta o che stia avvenendo.
Questo modo della pratica un po’ grossolana e facile è consentita, anche, dalla circostanza che le sentenze giudicano il passato. Giudicano i cosiddetti fatti che non servono per l’avvenire, per il progetto per il programma di quel caso specifico e per la sua riuscita. Il processo giudiziario deve seguire l’”accertamento della verità”, in modo che la società possa stare tranquilla, che le cose stanno proprio così, che sotto non c’è niente e che quindi si possa andare avanti, senza che l’animo di alcuno venga turbato.
Ma di che verità si tratta quando diciamo accertamento della verità? Nella parola la verità si effettua nel racconto. E questo vale per il diritto penale, dove lo scopo del processo penale è l’accertamento della verità, perché lo Stato avrebbe il diritto alla verità certa. Ma vale anche nel diritto civile, perché intanto, qualcuno viene condannato a pagare, in quanto si è accertata la verità del diritto fatto valere dal suo avversario.
Intanto vengono affidati i bambini a un genitore, in quanto si è accertata la verità. In questo caso la verità è chi dei due genitori è migliore, dove per migliore viene spesso inteso quello che risponde ai requisiti socialmente accettati e condivisi: il padre e la madre ideali, cioè rispondente al canone. La verità, secondo il discorso giuridico, non tiene. Tant’è che si parla di verità processuale di cui si accontenterebbe il presunto popolo per tacitare la faccenda. Più che la verità, lo scopo del processo giudiziario pare proprio l’omertà. Il processo si celebra perché il caso sia chiuso, magari definitivamente. Comunque sia, secondo questa verità certa occorre che, ogni volta, a qualcuno sia comminata una pena.
Nel caso che ho raccontato è curioso il sillogismo che fanno l’avvocato del marito e i suoi periti: “Siccome la signora ha chiesto aiuto alla suocera per accudire i bimbi dicendo che è depressa, allora, dato per accertato che la signora è depressa perché lei stessa lo ha detto, lo ha confessato, allora alla signora vengono tolti i bambini perché non è in grado di accudirli.” Questo sillogismo è stato applicato dal tribunale dei minorenni in un altro caso che ho avuto l’occasione di seguire.
Anche in questo caso il marito, all’ennesima dichiarazione della moglie che diceva di essere stanca e depressa, su suggerimento del suo avvocato, si era recato al tribunale dei minorenni per denunciare la cosa, temendo di essere ritenuto responsabile per la mancata segnalazione, qualora fosse accaduto qualcosa alle figlie. Anche qui, la dichiarazione della signora “Sono depressa” è stata ritenuta una confessione.
Con la cifrematica noi impariamo che la depressione enuncia qualcosa della pressione, quindi della pulsione. La depressione constata la logica delle funzioni. E più precisamente, la depressione si accorge del godimento. Ma quand’anche dicessimo, come dicono gli psichiatri, che la depressione è una malattia, sotto il profilo giuridico non si è mai sentito della valenza della connessione della malattia.
Occorre comunque una verifica, mentre nel diritto di famiglia si fa molto presto a parlare di depressione e trarre da ciò conseguenze pragmatiche che rispondono ad altri desiderata, come quello che coinvolge il matrimonio che si rispetti e che consiste in un primato della padronanza di un coniuge rispetto all’altro, detta anche rivalità.
Faccio un breve inciso. La rivalità è una fantasia omosessuale che considera il fratello come figlio ordinale, senza differenza, anziché fratello come alter filius. Ciò che comunemente si dice fratellanza implica la rivalità. Ma prendere atto che in un matrimonio, in assenza di itinerario intellettuale, in assenza di elaborazione può intervenire la rivalità e che lo sforzo per dominare il coniuge può arrivare anche all’accanimento suicidiario, pur di essere riconosciuti vittima, essere cioè riconosciuto il padrone assoluto delle cose del tempo, non rientra nei requisiti del bravo professionista del mondo psi. È più facile dire che la signora soffre di depressione e che i figli devono essere accuditi da qualcun altro, con l’effetto immediato che la depressione della signora si aggrava e che i figli avranno un altro futuro.
Nella parabola dei talenti a quel servo che ha ricevuto un talento e lo seppellisce il Signore dice: “A chi ha sarà dato. Ma a chi non ha, sarà tolto anche quello che ha”. È una formulazione curiosa, perché è impossibile togliere anche quello che ha a chi non ha. Piuttosto enuncia la questione del non, il non dell’avere e il non dell’essere che sfata qualsiasi rappresentazione di competenza o di prestazione professionale. Che in una certa fase della vita per alcuni l’accento si ponga sulla ricerca, anziché sull’impresa, non è una malattia, neppure se questo accento diventa un’anafora. Non c’è davvero nessun professionista che possa dire che l’effetto di dispendio che rilascia la funzione di nome e l’effetto di ripetizione che rilascia la funzione di significante siano una malattia.
La ricerca poi procede con l’altrove, con l’economia e approda al commercio e l’impresa procede con la finanza e approda alla vendita. A questo punto è chiaro che l’avvocatura non è difendere qualcuno da qualcosa o da qualcun altro, perché il diritto non è il diritto di qualcuno nei confronti di qualcun altro, nè il diritto di ottenere qualcosa da qualcuno. E l’avvocatura non può prescindere dalla constatazione che le leggi sono il frutto della decisione di una maggioranza su una minoranza; e che non si tratta, dunque, della mera difesa del cliente a partire dalle leggi, perché la posta in gioco parte dall’ascolto di ciascun caso e giunge alla via della riuscita. È quasi l’opposto, nel senso che, per la riuscita di un caso, si cambiano le leggi se occorre. E l’avvocato è chiamato anche a questo.
Non si tratta invece di sottoporre il caso alle leggi o alla magistratura, ma si tratta di ascoltare il caso con la lettura delle norme e della giurisprudenza. L’ordinamento non è il letto di Procuste. Le norme e le regole si possono modificare per motivi di diritto. Il diritto non conosce codici, non conosce accertamenti, non conosce condanne, non conosce sanzioni, non conosce esecuzioni. L’umiltà, l’indulgenza e la generosità sono le sue virtù: virtù del fare e della scrittura. Come si fanno le cose? È una domanda che attiene al diritto, questione poetica, questione pragmatica.
Come si scrivono le cose? È una domanda che attiene alla clinica. Le cose che si fanno si scrivono, ma intanto si piegano con la strategia. Senza la strategia, la materia sarebbe materiale e il tempo temporale, cioè il trionfo della psicosi. Con la prova di verità l’Altro ride e ride proprio per la virtù del diritto. Senza l’umiltà, l’indulgenza e la generosità, la verità non andrebbe con il riso, ma con la severità. Sarebbe una verità parricida e senza le virtù del tempo la prova di verità diventerebbe addirittura severa, verità matricida. Magari i giudici tenessero conto dell’elaborazione che fa la cifrematica sul diritto!!!
Ma intanto c’è chi scrive attorno a significanti che riguardano il diritto e che sono così vicini ai significanti che riguardano lo psichico: la colpa, la pena, la procedura, la giustizia, la verità, l’equità, il pagamento. Vivendo si incontrano questi significanti, dove la loro elaborazione ci porta non è indifferente. Ne va della qualità, del valore e della salute di ciascuno. La cifrematica offre l’occasione di un itinerario intellettuale, entro il quale l’elaborazione raggiunge ciascun elemento del viaggio, fornendo a ciascuno tantissime sorprese e novità e trasformando l’esistenza in un caso, nel caso unico, nel caso di qualità.
Ruggero Chinaglia Ringrazio Elisabetta Costa per questo suo primo intervento della sera, che già ci fornisce numerosissimi spunti. Ha colto numerosi varchi rispetto a credenze comuni, a modi consueti, canonici di pensare le cose rispetto all’esigenza, che ha posto in evidenza, di cogliere la particolarità e la specificità di ciascun caso per formulare un giudizio e, anche quindi, per formulare una sentenza, che comunque rispetto all’esigenza non può essere che secondo il diritto dell’Altro.
Quello che emerge da ciò che ha detto Elisabetta Costa è che la questione del diritto comporta la constatazione che la norma venga letta più che applicata. Si tratta ciascuna volta della lettura del testo della norma e del testo del caso. E questa lettura occorre giunga alla clinica, alla piegatura, quindi alla formulazione non canonica, che assolve all’esigenza di qualità di quel caso. E questo non è una questione di applicazione, non è questione di protocollo.
Esige, come notava, l’ascolto, la ricognizione, l’analisi, la clinica, non il fine di bene presunto per qualcuno perché a nessuno è dato di sapere quale sia il bene, né in assoluto né per qualcun altro. Ciascun atto si rivolge alla sua qualità, non al bene. È un concetto platonico che sia il bene il punto di arrivo delle cose, ma appunto Platone aveva come fine il governo della città, la gestione della città, la padronanza sulla città. Invece l’esigenza di ciascuno non è padroneggiare, ma è la salute come istanza di qualità e, dunque, la qualità. Sono questioni di grande interesse che sono state proposte e adesso invito al suo intervento Gianluca Rozza. Prego.
Gianluca Rozza Ringrazio i presenti, per essere qui questa sera e il dottor Ruggero Chinaglia, per aver organizzato questo incontro e avermi invitato al dibattito. In questo mio intervento cercherò di raccontavi la mia esperienza rispetto all’incontro con la cifrematica. Faccio l’avvocato a Milano e mi occupo prevalentemente di diritto penale e di diritto societario. Ho aperto il mio studio nel 2005 e poi ho svolto la pratica forense presso lo studio di un noto avvocato milanese.
Con lo pseudonimo di Gualdo Rocco da circa nove anni dipingo con sempre maggior frequenza nel mio atelier di Milano. Il primo incontro con la cifrematica è avvenuto al Circolo nella Stampa di Milano nel 1998, dove il professor Armando Verdiglione teneva delle lezioni ciascun lunedì sera. In quell’occasione fui invitato da un noto avvocato milanese a parteciparvi. La prima lezione durò circa due ore, durante le quali, per la prima volta, udii il termine cifrematica.
Da allora è cominciata la mia avventura con la cifrematica. Ho cominciato leggendo i libri del professor Verdiglione. Anzi, a esser sincero, ho tentato di leggere i libri del professore, ma mi fermavo quasi subito perché constatavo la mia mancanza di quelle nozioni che il testo supponeva già acquisite da parte del lettore. Questa sensazione, inizialmente, ha condizionato il mio approccio con la cifrematica, in quanto trovavo come scusa il fatto che, non avendo una formazione classica, avrei dovuto prima provvedere a colmare tale lacuna e poi iniziare a leggere la cifrematica. Dissipato tale fantasma, invece, mi sono accorto che la cifrematica è presente ciascun giorno.
Mi spiego meglio. Come accennato, faccio l’avvocato e dipingo. Apparentemente due mestieri completamente l’uno l’opposto dell’altro. L’avvocato nel luogo comune è razionale e non è incline a esternare le proprie emozioni. È molto riservato. Invece l’artista, sempre nel luogo comune, è considerato irrazionale, estroverso, non ligio alle regole. Questo nel luogo comune, ma non è così. Almeno nella mia esperienza non è questo.
Quando faccio l’avvocato e mi trovo di fronte al foglio bianco e inizio a scrivere, la sensazione è quella di piacere. Quando giungono le parole e lo scritto che stai facendo, man mano si compone, c’è la sensazione di soddisfazione, di piacere intellettuale e ciò anche quando vi è da affrontare una questione molto complessa giuridicamente. Quindi, mentre scrivi c’è profitto intellettuale.
Quando dipingo è tutt’altro. Durante l’esecuzione dell’opera c’è il disagio, l’insicurezza, l’ansia, l’angoscia. Ciascun tratto è tormentato, difficile. La mia ricerca, l’unico modo col quale posso concludere la mia pittura è nella direzione della novità, dell’invenzione. Solo se c’è l’invenzione l’opera supera l’epoca in cui è stata realizzata. Il significante novità per la cifrematica è: la novità segue alla scrittura. (Leonardo da Vinci pag. 39).
L’invenzione, sempre per la cifrematica, è l’invenzione che riguarda quel che entra in gioco in un percorso. (Dio pag. 250). Quando dipingo non riesco a iniziare e svolgere un’idea e concludere un’opera, ma devo necessariamente avere più luoghi, più parti dove poter lavorare. Questa simultaneità è essenziale e non solo per dipingere. Il significante simultaneità per la cifrematica è la simultaneità delle cose. È data dal tempo. Ancora. C’è simultaneità delle cose da non intendersi come contemporaneità.
Come dicevo, vivevo simultaneamente molte opere: cinque, dieci, otto, ma non c’è un numero preciso perché l’aspetto più difficile di quando dipingi, oltre ovviamente a trovare l’idea, la combinazione, la combinatoria, è di riuscire, a sentire, ad ascoltare quando l’opera è conclusa. Quando è l’opera. Fermarsi, quando l’opera ti dice che è conclusa, è la situazione più difficile perché basta un tratteggio, un riflesso, un materiale in più, che l’opera non è più quella che stai cercando, ma è un’altra opera. Come si fa a capire? Si capisce. E come, è impossibile da spiegare. Ma capire quando l’opera è conclusa, quindi non fermarsi prima o dopo rispetto alla conclusione, è l’elemento essenziale dell’artista, soprattutto se le sue opere sono astratte.
La simultaneità è secondo l’aritmetica. Come dicevo prima, nella mia esperienza questa necessità di trovare l’idea, la combinazione, la combinatoria ha determinato che il mio modo di ascoltare si sia intensificato. Cioè i dettagli di ciascuna cosa che incontro, mi giungono e vengono a me, letti in modo del tutto differente da quando dipingo. È l’esercizio che ha cambiato abitualmente il mio modo di pormi rispetto a quello che accade in ciascun istante. Perché?
Perché, anche, nel luogo più lontano sotto il profilo artistico, allora puoi trovare, quell’elemento, quel dettaglio che stai cercando per concludere o iniziare una nuova opera. Questo esercizio, oltre a migliorare la qualità della mia vita, ha dato un contributo essenziale alla mia professione di avvocato, perché accorgersi di alcuni dettagli è essenziale alla riuscita. Quando dipingi intervengono lo specchio, lo sguardo, la voce.
Lo specchio come punto di caduta e di distrazione, lo sguardo come punto di sottrazione e punto di fuga e la voce come punto vuoto, cioè punto di astrazione e punto di oblio. Come intervenga il sembiante è difficile da narrare, ma interviene. O meglio, quando l’opera riesce interviene la luce; quando l’opera non riesce, e cioè non ha la forza che un’opera deve avere, vuol dire che non è intervenuto. Nella mia esperienza la vendita è intervenuta solo quando si è instaurato il racconto con l’interlocutore. Cioè quando l’opera che doveva essere acquistata è entrata nel racconto e quindi l’interlocutore non ha acquistato solo l’opera, ma acquistato l’opera con il suo racconto. Il racconto e la scrittura sono la valorizzazione, la messa in qualità dell’opera.
Facendo l’avvocato penalista a Milano, tra significanti che ho esplorato ci sono la paura e la pena. Sulla paura e sulla minaccia della pena è strutturato tutto il processo penale volto all’instaurazione della pena. Le indagini svolte dal pubblico ministero o dalla polizia giudiziaria vengono effettuate instaurando la paura nei confronti della persona indagata o informata sui fatti. Questo per qualsiasi tipologia di reati, da quello meno efferato a quello di maggior impatto sociale.
Attraverso la paura, la modalità dell’interrogatorio punta a ottenere dalla persona indagata una collaborazione incondizionata. Con l’instaurazione della paura, intesa nel senso comune, le persone si paralizzano, vedono tutta la propria esperienza di vita come fosse una costellazione di errori. Questo determina che l’indagato metta in discussione la propria esperienza e incomincia a confermare le affermazioni che gli vengono suggerite durante l’interrogatorio. Questa è la paura ordinaria che, come ombra dinanzi, toglie la lucidità.
La pena è la conseguenza giuridica della violazione di una norma del nostro ordinamento. Un aspetto essenziale è l’afflittività: consiste, infatti, nella privazione o diminuzione di un bene individuale, libertà o patrimonio che sia. La paura, come dicevamo, viene sempre instaurata in modo da poter ottenere la collaborazione incondizionata dell’imputato. La paura dinanzi. La paura che immobilizza. Questa è la vera pena. La pena secondo la cifrematica: “Per taluni è bene che il piacere non intervenga.
E come essere sicuri che non interverrà? Averlo già convertito in pena. La pena dà loro la certezza che il piacere non ci sarà: preferiscono avere il loro posto all’inferno, anziché in paradiso. Chi evita l’istante accetta la pena. Si situa già nell’infernale, nel luogo dell’inferno. Perché l’inferno è l’ipotiposi del cielo. Ma l’istante non può essere evitato.”. (A. Verdiglione, La necessità del superfluo, “Il secondo rinascimento”).
Un esempio: mi è capitato di assistere a un interrogatorio, cosiddetto di garanzia, a un indagato per bancarotta preferenziale. L’interrogatorio condotto dal pubblico ministero puntava a fare ammettere all’indagato di avere pagato determinati creditori a discapito di altri, quando era già consapevole dello stato d’insolvenza della società che amministrava. L’imputato risultava l’amministratore della società, ma di fatto tale società era amministrata da un familiare. L’imputato era terrorizzato da quanto gli veniva rappresentato come imminente dal pubblico ministero, cioè l’arresto; e per questo la tentazione di ammettere tutti i fatti che il pubblico ministero gli contestava era fortissima, in modo da liberarsi dal peso dell’interrogatorio e salvarsi. Salvarsi come?
Con la pena, ammettendo fatti che non aveva compiuto e di cui non era neanche a conoscenza. Per fortuna, l’indagato ha resistito a tale tentazione e non ha dichiarato nulla di quanto il pubblico ministero chiedeva. Terminata l’indagine il pubblico ministero si è visto costretto a chiedere l’archiviazione. Perché? Perché nel nostro ordinamento è previsto che solamente chi compie con dolo o con colpa, determinati fatti ritenuti reati dal legislatore, può essere condannato. Chi non ha compiuto con colpa o dolo nessuno dei fatti contestati non deve in alcun modo temere di essere condannato.
Per la cifrematica, invece, c’è un’altra paura che non è una cattiva consigliera e che non deriva dall’ombra che stia dinanzi. “L’ombra non può essere assunta come guida, né come principio, né come consigliera perché chi è in balia della paura trova sempre sciacalli, conniventi, complici, pronti a assecondarlo e, da pavido, diventa zimbello, diventa soggetto automa”. Così diceva Armando Verdiglione, in una conferenza del 28 marzo del 2009. Quando la paura, l’ombra sta dinanzi, tutta la propria vita sembra costellata di errori e quindi per salvarsi bisogna immediatamente purificarli.
Questo viene rappresentato durante l’interrogatorio. “Chi ci casca” cancella la materia intellettuale che lo riguarda e cerca la salvezza nell’immediato, che può essere quella di evitare la carcerazione o ottenere la scarcerazione, a patto che vengano rilasciate certe dichiarazioni. Tale sistema è emerso in modo mediatico durante Tangentopoli, ma prosegue anche oggi. Quindi, l’idea di salvarsi, dovuta alla paura presa per la sua coda, è la cancellazione della materia intellettuale, mentre, secondo la cifrematica, la paura presa per la sua punta, che è la paura non più assunta, ma presa come spia, come sentinella della ricerca e della sintassi, è sentinella dell’incominciamento e del rilancio. L’ombra non più dinanzi, ma come indice dell’inconciliabile. Un altro significante che ho esplorato è la prova.
Con la riforma del 1989 del processo penale è stato abolito il processo inquisitorio ed è stato introdotto il processo accusatorio. Con il processo inquisitorio la prova si formava durante le indagini preliminari e poi concludeva quasi direttamente nel processo, quindi nel fascicolo del giudice o della corte. Questo sistema determinava la quasi inutilità del dibattimento. Con la riforma invece, la prova si forma durante il dibattimento e tutto quello acquisito durante l’indagine preliminare del pubblico ministero, della polizia giudiziaria deve poi essere confermato durante il dibattimento, altrimenti non ha alcun valore di prova.
Questa riforma è un primo passo verso la parificazione dei ruoli tra l’accusa, il pubblico ministero e la difesa, quindi l’avvocato. Anche l’introduzione del giusto processo, (articolo 111 della Costituzione) ha contribuito all’avvicinamento dei due ruoli della difesa e dell’accusa, consentendo al difensore di effettuare delle indagini a favore dell’assistito. Questo almeno nelle intenzioni perché nella realtà non è assolutamente così. Non è assolutamente vero che la difesa ha gli stessi poteri d’indagine dell’accusa.
Anzi, in alcune circostanze effettuare delle indagini può essere dannoso per il proprio assistito. Faccio alcuni esempi. Il difensore può effettuare sopralluoghi presso il luogo dove è avvenuto il fatto, per raccogliere prove a favore del proprio assistito. Se, per esempio, è avvenuto un reato all’interno di un albergo, il difensore può recarsi presso tale luogo e effettuare un sopralluogo per esaminare il luogo dove è avvenuto l’evento criminoso.
Questo solo in teoria, in quanto, se il direttore dell’albergo non consente l’accesso, il difensore non può entrare, a meno di chiamare il pubblico ministero, la propria controparte e chiedere d’intervenire con il direttore in modo da ottenere il permesso di accedere per poter fare il sopralluogo. Oppure, il pubblico ministero potrebbe anche non acconsentire. In questo caso il difensore deve rivolgersi al giudice per l’indagine preliminare. Ovviamente con tutta questa trafila, soprattutto con la notizia che il difensore ha intenzione di effettuare un sopralluogo, l’effetto sorpresa svanisce. O meglio, il pubblico ministero potrebbe ritenere di inviare un suo collaboratore a “sorvegliare” il lavoro del difensore. Il diritto alla ricerca della prova è certamente limitato.
Un altro caso che ho seguito di recente riguarda un mio assistito accusato di un grave reato commesso all’interno della metropolitana di Milano per il quale era stato arrestato e condotto in carcere. All’udienza della convalida dell’arresto, il giudice dell’indagine preliminare ritenne che le prove acquisite dal pubblico ministero, al momento dell’arresto, non fossero tali da giustificare l’arresto. Pertanto non ha convalidato l’arresto e, per quanto riguarda le misure cautelari, ha disposto l’immediata scarcerazione comminando, però, all’indagato l’obbligo della firma presso la questura. Durante l’appuntamento nello studio, il mio assistito mi ha chiesto con fermezza, di ottenere le immagini delle telecamere fisse presenti nella metropolitana perché sicuramente, a suo dire, lo avrebbero scagionato dall’accusa.
Allora, predispongo la richiesta per ottenere una copia delle immagini presso la direzione. La risposta dell’ATM è stata: “Non possiamo fornire alcun materiale di videoregistrazione se non all’autorità giudiziaria”. Quindi, come potete comprendere, la parità dei ruoli non esiste ancora. A questo punto, la questione era quella di chiedere al pubblico ministero il materiale, ma con le evidenti conseguenze che, nel caso le immagini fossero state compromettenti per il mio cliente, sarebbero state requisite immediatamente dal pubblico ministero stesso. Cosa diversa sarebbe stata acquisire tale video fisicamente e valutare se utilizzare tale prova a discolpa del mio assistito. Anche in questo caso la possibilità di acquisire una prova favorevole al mio assistito era limitato.
Per la cifrematica, la prova è senza dimostrazione. La prova di realtà procede dall’impossibile della rimozione e dall’impossibile della resistenza per attraversare l’incodificabile e l’indecidibile. La prova di verità e di riso procede dal contingente, principio stesso di realtà, principio di piacere per seguire quell’itinerario che conduce le cose alla cifra. La pratica si qualifica sulla prova tanto di realtà, quanto di verità e di riso. A questo punto del racconto è necessario indicare come affrontare, nell’ipotesi che occorra, l’apparato giudiziario e non solo.
Innanzi tutto non con l’ombra innanzi e non cancellando la materia intellettuale. Affrontare ciascuna cosa, non con l’algebra, ma con l’aritmetica. Affrontare ciascuna cosa vuol dire anche, mettere in conto di dover percorrere la strada più lunga, tortuosa e difficile. Vuol dire non rimandare, o non ritenere che alcuni dettagli del racconto siano inutili per poter giungere rapidamente alla salvezza. Affrontare ciascuna cosa vale a dire che il racconto si scrive.
Ruggero Chinaglia Ringrazio Gianluca Rozza che ha dato testimonianza del contributo dell’arte al diritto e dell’arte alla sua esperienza. Certamente si notano alcune cose decisive. Ci ha indicato anche alcune questioni che si pongono per chi ha a che vedere con l’apparato giudiziario, e soprattutto come interviene la paura. La paura della pena, la paura della comminazione, la coscienza della punizione e della pena come possibili. Ciò comporta, nella maggior parte dei casi, un’anticipazione della punizione e della pena stessa. Non occorre nemmeno il reato che, come notava giustamente, occorre sia volontario e per dolo, per comportare una sentenza di comminazione della pena.
A questo arrivano in pochi, i più si somministrano da sè la pena, passando prima per la paura e poi per la relativa punizione che moralmente ciascuno si somministra. Questa idea della colpa, della punizione, della pena è già un indice dell’assenza di arte nella propria vita perché comporta una idea statica, fissa, immobile delle cose. Che cos’è l’arte? L’arte è quella variazione costante che interviene parlando, facendo, pensando. Interviene, insomma, nella domanda, interviene nella parola.
Arte: variazione costante. Quindi è ciò per cui ciascuna cosa non è mai la stessa. Come pensare. Come pensare il reale, come pensare la colpa, in assenza dell’aritmetica, in assenza di questa variazione costante delle cose. Allora ciascuno si sente indagato. Ognuno si sente indagato a prescindere che vi sia contro di lui una procedura, ufficiale, giudiziaria in corso. Ognuno si indaga da sé, si immobilizza da sé e in questo processo sommario si negativizza e giustamente, come notava Rozza, vede la sua vita come una serie di errori.
E questo è l’apporto della coscienza. Ognuno giurerebbe di meritare tutte le punizioni possibili, che ha sbagliato non una, ma dieci, cento, mille volte. Ha sempre sbagliato e sbaglierà ancora, quindi a maggior ragione, in nome di errori che saranno possibili in futuro, è giusto punirsi, è giusto scontare. Questa è la procedura “normale”. Questo è quanto avviene normalmente per via della coscienza di colpa. La questione che notavano Rozza e Costa è che la chance è quella di non aderire a questo realismo moralistico della coscienza, ma di tenere conto che ciascun atto avviene secondo l’idioma, quindi secondo la logica particolare che non è morale, e che non è per via di coscienza. È la logica della parola.
In questa logica, l’arte è qualcosa di essenziale. L’arte, la cultura, la scienza, ma non come applicazione di un metodo di scuola, non come applicazione di un’ideologia di scuola o di classe. Scienza, non come applicazione di un metodo democratico, cioè dove vale il principio della maggioranza. Allora sarebbe scienza oggi, ieri, l’altro ieri, ciò che la maggioranza ritiene coscientemente acclamato per via di coscienza democratica. Galilei è stato processato. Si è salvato per via di abiura, rivolta alla credenza della maggioranza che riteneva che le stelle fossero fisse, che la terra fosse ferma ecc. Oggi, come allora, la scienza è ancora a questo punto. È ciò che la cosiddetta comunità scientifica ritiene condivisa dalla maggioranza. Il resto è stregoneria, il resto è da rigettare, non è scienza. È qualcosa che non deve nemmeno essere introdotto come ipotesi, perché romperebbe l’unità della comunità.
L’arte della parola, l’arte della vendita, l’arte della scrittura, l’arte della lettura, l’arte del fare è senza unità. Come può intervenire l’unità artistica se l’arte è variazione? L’arte impedisce ogni possibile uniformità, quindi anche ogni unità. È un aspetto dell’integrazione, quindi dell’intero, ma l’intero non è una unità. Non deve fare un’unità. Questo è ciò che risulta difficile da capire a chi è stato educato secondo la filosofia platonica e aristotelica, dove si parla dell’unità di partenza che viene rotta e poi deve essere ricostituita per ritornare all’unità come punto di arrivo, e ecco, quindi, il cerchio. L’esperienza della parola è senza il cerchio. Procede per integrazione. Nulla può mancare all’intero. L’intero non manca di nulla. E le cose avvengono e divengono. Si aggiungono perché sono adiacenti; e dunque, per questa adiacenza, si dispongono nell’esperienza di ciascuno. Questa è la questione dell’aritmetica.
La vita secondo l’aritmetica. Dunque senza algebra. Cosa vuol dire? Senza l’alternativa tra il positivo e il negativo. E senza la geometria, cioè senza l’alternativa tra l’inizio e la fine rispetto al tempo. Non c’è il positivo e il negativo del tempo. Non c’è il tempo che finisca. Questo è il modo del tempo. Questo è lo statuto dell’artista. Questo è anche lo statuto del diritto, le cui virtù, ricordava prima qualcuno, sono l’umiltà, la generosità l’indulgenza, ma non come possibilità di applicazione per qualcuno. Sono virtù proprie allo statuto intellettuale. Si tratta di approdare a questo statuto. Non è un ruolo sociale da impersonare. Dunque è una conquista intellettuale.
Non basta dire: “Bene da oggi non credo più nella befana, non credo più nella magia, non credo più nella superstizione”. Non basta volontariamente propendere per questo. È una conquista. Non basta dire: “Io non sono superstizioso”, e poi dire: “Speriamo che mi vada bene”. C’è una prova, c’è un colloquio, c’è un esame, c’è un incontro con l’avvocato, con il medico, con il bancario e il superstizioso dice: “Speriamo che mi vada bene”. C’è da fare delle indagini cliniche e il superstizioso dice: “Sono preoccupato, ma non voglio neanche leggere, perché non vorrei che ci fosse qualcosa di male. Non sono superstizioso, però non vorrei mai che ci fosse qualcosa di male”. La superstizione non è una questione volontaria. E nemmeno la dissipazione della superstizione è qualcosa di volontario. È una conquista intellettuale che procede, appunto, dall’esperienza della vita secondo l’aritmetica.
Ora, potremmo stare qui a discutere a lungo, ovviamente, di questi contributi, delle notazioni che sono emerse lungo la lettura di questi testi e che sono indicativi di una esperienza in corso, di qualcosa che si va scrivendo man mano negli anni. Nemmeno giorno per giorno, ma istante per istante, negli anni; sono conquiste che comportano elaborazione, analisi, clinica, la narrazione, la scrittura, il racconto; dispositivi dove nessuno può stare a guardare o a vedere cosa fare. Quel che accade è invisibile, non si vede. Occorre ascoltare quello che accade, così come l’opera di un pittore non riguarda ciò che si vede. La stessa questione che si poneva Rozza sulla conclusione è interessantissima. Non è guardando l’opera, non è vedendo ciò che si è scritto fin lì che posso stabilire, decidere “la termino qui”. È qualcosa che giunge per via di ascolto, per via d’intendimento.
Ecco la questione dell’art ambassador, dove la questione è logica e linguistica. Linguistica perché di parola, in quanto secondo la sua particolarità, non secondo la coscienza, non secondo la volontà, non secondo l’idea di bene, non secondo l’idea di conoscersi o di essere, perché l’unica idea che possa supportare l’idea di essere è quella di essere mortale. Quindi, ognuno essendo, volendo essere al colmo del suo essere, non può che essere mortale; e quindi riferirsi all’idea della morte.
È proprio rispetto a questo, che si tratta di andare oltre, con la questione dell’arte, con la questione del diritto, con la questione, quindi, dell’esperienza intellettuale. Ma vorrei anche lasciare modo ad alcune domande di formularsi. Quindi, se c’è chi voglia rivolgere qualche domanda rispetto a quanto ha udito sin qui, anche riguardo alla lettura della collana “La cifrematica”, siamo qui per procedere con il dibattito. Prego. Chi ha qualche notazione da fare?
Cecilia Maurantonio Prima ascoltavo l’intervento dell’avvocato Costa e a proposito dei suoi incontri con i vari operatori psi nelle questioni da affrontare, ho pensato alla scuola dove sono più che presenti e fanno parte proprio dell’organico. Ecco, mi chiedevo se può dire qualcosa in merito al modo di porsi e di intervento in queste interlocuzioni. Poi c’è anche una domanda a Gianluca Rozza, più all’artista che all’avvocato. Come capire se effettivamente un’opera è conclusa? Perché c’è sempre qualcosa in movimento che varia rispetto a quanto si è disegnato o dipinto poco prima e quindi si presenta sempre qualcosa di nuovo. Si tratta forse di un’aggiunta o magari è un’altra opera?
Ruggero Chinaglia Questa è una prima domanda. Possiamo raccoglierne altre e poi riprenderle insieme.
Maria Antonietta Viero In un primo momento, la constatazione è che il caso specifico non può fare ricorso a nessun tipo di letteratura psichiatrica o giudiziaria e la formazione non finisce con gli esami, non finisce con l’università, non finisce con il praticantato, ma è una formazione che trova il tempo non come durata né come sua fine, quindi non c’è nessun modo di applicare lo standard, la statistica, ma c’è il caso specifico e qui sta l’audacia sia nella battaglia sia nella vita stessa.
C’è una curiosa formulazione della dottoressa Costa che mi ha fatto pensare: “Sentirsi in credito con la vita”, a proposito del caso di quel padre. Normalmente si dice “Sono in debito con la vita”, ma, “Sono in credito con la vita” è un’arroganza rispetto alla vita. C’è un modo per farla pagare che è l’altra faccia del vittimismo; io lo leggo in questo modo e mi sembra che si avvicina moltissimo all’infernale, che è il modo di purificare. Ognuno si pone all’inferno, ma per un altro modo della salvazione, un altro modo della salvezza, per purificarlo.
C’è una questione che volevo chiedere alla dottoressa Costa, quando dice che l’impresa procede dalla finanza e giunge alla vendita. Se può riprendere questo percorso. Me lo sono segnato così, magari non esattamente. Poi un’annotazione: non avevo mai colto quest’accezione di arte e non avevo mai pensato che la questione dell’arte procedesse in ciascun istante dall’ascolto rispetto alla variazione; istante e variazione, per cui uno pensa all’arte, a un quadro, a un disegno e non pensa invece che ci sia qualcosa che entri nell’itinerario della vita.
Ruggero Chinaglia Esatto. Questa è una annotazione importantissima. In effetti dell’arte è stata fornita, anche nonostante Freud, una concezione romantica e disciplinare. Sono state formulate delle ipotesi delle arti sulla scia di quelle che una volta erano le corporazioni: arti e mestieri. Quindi arti visive e arti meccaniche. Arti visive e l’architettura, la musica la pittura. Arti e mestieri. Come dire che questa concezione disciplinare dell’arte è stata mantenuta nella filosofia, nella sociologia, nella psicologia dell’arte. Una cosa terribile. E è Verdiglione che ha posto una questione straordinaria rispetto all’arte, intendendola come costitutiva della vita di ciascuno. Cioè non si tratta di fare l’artista per rivolgersi all’arte o per accorgersi dell’arte, sempre, quindi, in una sorta di devianza rispetto all’assetto normale.
È Verdiglione che ha introdotto la questione dell’arte come costitutiva. Arti del cielo e arti del paradiso. E l’arte come costitutiva: arte, cultura, scienza, non come un risvolto particolare dove incanalare la devianza perché l’arte è stata funzionale anche a questo. L’arteterapia, l’arte come terapia, l’arte così come è stata utilizzata nei manicomi, l’ultima chance del pazzo che nonostante fosse pazzo tuttavia, o forse proprio per questo, poteva assurgere alla grandezza. Il commento diffuso: “Era di una pazzia assoluta, infatti guarda, guarda cosa dipingeva: cose straordinarie! Certo si vede che era pazzo.” Questa è stata l’ultima trovata manicomiale. L’arte che salva il pazzo perché c’è almeno questo di buono che ha prodotto opere d’arte.
Arte come qualcosa di costitutivo. Arte e invenzione, variazione e trovata aspetti della procedura. Ciascuno non può evitare l’arte, l’arte come variazione di ciò che si dice, di ciò che si fa. E se non c’è l’ascolto questa variazione è inavvertita, come se non ci fosse. Ma non è una questione acustica, Beethoven era sordo, ma componeva cose straordinarie, non è una questione fonetica e di suoni, è una questione acustica, cioè di ritmo delle cose, dell’aritmetica.
Elisabetta Costa Ho trovato molto interessante la domanda sulla presenza psi nella scuola, questo risponde alla logica della prevenzione. Adesso c’è stata questa fase di burocratizzazione in nome dell’Unione Europea e in questi ultimi dieci anni si è vista la procedura di qualsiasi cosa diventare sempre più complessa, dall’ottenimento di un credito all’apertura di un banco al mercato. È frutto di questa Unione Europea che è un organo burocratico, un ente astratto nel senso non migliore del termine che, praticamente, ha raccolto tutte le lobby, tutte le mafie che ci sono nei vari Paesi e ne ha fatto una supercupola.
Adesso con la crisi che c’è stata, può esserci la chance che l’Unione Europea prenda un’altra piega e che quindi forse ci sia una svolta e che questo metodo, questo modo cambi; intanto, noi ci ritroviamo con gli psichiatri nella scuola. Questo è un problema serissimo e il mio suggerimento, per l’esperienza che ne ho io nei casi che seguo, è di non entrare mai in un “botta e risposta” perché questo è assolutamente deleterio, perché loro sono emanazioni dello stato e quindi hanno purtroppo il potere di segnalare dei casi al tribunale dei minori e di fare sì che il tribunale intervenga e di avviare una procedura. Diciamo che è come avere un pubblico ministero all’interno della classe e quindi se ci sono casi così è meglio chiedere aiuto. Chiedere aiuto a chi?
Che ci siano tanti legali attrezzati per questo non ne conosco. Anzi, sconsiglio di andare negli studi specializzati in diritto di famiglia perché hanno un atteggiamento molto polemico, che non aiuta per niente e che, anzi, instaurano poi procedure giudiziarie. Queste persone vanno ascoltate, hanno diritto a fare questo lavoro perché lo stato glielo dà. Quando suggeriscono una terapia, un qualcosa, si ha sempre il diritto di nominare un proprio consulente, quindi di affiancare queste persone a dei professionisti nominati e quindi di dire: “Sento anche il mio medico”. Cioè, aggiungere delle persone con le quali si possa parlare più liberamente e dire quello che si pensa in modo che possano portare avanti la nostra opinione. Ci si può rifiutare di somministrare farmaci; quindi assolutamente questo non farlo mai. E poi ci vuole molta cautela.
Attualmente sto seguendo due ragazzi che sono stati sottratti ai genitori senza una parola. A luglio, o forse a giugno, riusciamo a riportarli a casa. Intanto, per un equivoco, questi due bambini per un anno sono stati allontanati. Purtroppo queste cose accadono molto spesso e sempre di più. Però il botta e risposta è deleterio. E poi bisogna pensare che non c’è mai l’atto malefico. Se noi pensiamo che un processo, una diagnosi, un equivoco siano il male, noi siamo già subito alla pena. Invece sono circostanze. Sicuramente questa famiglia quando tornerà unita farà delle cose straordinarie che mai più si sarebbe immaginata prima. Questo è importante.
Poi, rispondo a Maria Antonietta; io ho scritto qui “l’impresa procede con l’altrove, con la finanza e approda alla vendita”. Quindi non è che procede dal, procede con l’altrove, con la finanza e approda alla vendita. È anche un augurio che le faccio, oltre che una constatazione.
Ruggero Chinaglia Bene. Forse anche Gianluca Rozza aggiunge qualcosa.
Gianluca Rozza Per quanto riguarda la domanda. Allora, sulla conclusione dell’opera è essenziale capire quando l’opera è conclusa. Ciò non vuol dire che la ricerca sia conclusa perché la pittura dell’artista ha un percorso di ricerca continuo. E in ciascuna opera c’è il passaggio di questa ricerca, quindi l’imprevisto, la novità, l’aggiunta che può incontrare facendo quell’opera. Poi può essere lo spunto per l’opera successiva o la continuazione della stessa opera. Però questo non vuol dire che l’opera che stai facendo in quel momento arriva a una sua conclusione, dopo di che quest’opera è conclusa, perché quello che poteva dire nel percorso che stai elaborando è giunto a un suo messaggio.
Se riesci a cogliere questo istante vuol dire che l’opera può esprimere e dare questo messaggio. E poi, invece, il lavoro dell’artista nella sua ricerca prosegue nell’opera successiva, anche se, come ho detto varie volte, nella mia esperienza non c’è che concludo un’opera e poi non ne faccio nessun altra. Faccio, inizio più tele contemporaneamente. Quindi, questa simultaneità del lavoro fa sì che l’idea che stai cercando di portare avanti venga svolta su più tele. Poi, a un certo momento, quella tela è arrivata alla sua conclusione.
Elisabetta Costa. Volevo segnalare che su questo numero della rivista c’è un mio intervento sulla vendita, e poi volevo dirvi anche di questo libro qui, che Alessandro Taglioni non è solo un pittore, bravissimo peraltro, ma è membro dell’associazione dagli anni 70. Volevo anche dire che la particolarità di questo libro è che lui fa una lettura della cifrematica rispetto all’arte che è molto interessante. Io sono all’inizio perché è uscito la settimana scorsa, però dice, già nelle prime pagine, per me, una cosa assolutamente rivoluzionaria e cioè, che nel luogo comune l’arte si associa alla follia, mentre perché no, si associa al rigore. Questo mi ha spalancato degli scenari infiniti perché è un tabù, perché il rigore abbia a che fare con l’arte è assolutamente improponibile. Nessuno lo accoglie. Detto da un pittore è interessante.
Ruggero Chinaglia Domani, infatti noi, avremo modo di testimoniare intorno agli elementi di questo libro. Si avvale della cifrematica, ma esplora duemila anni di civiltà rispetto alle immagini, alle credenze, alle codifiche, ai contributi. Si tratta di leggere. Di leggerli proprio con l’ausilio del diritto dell’Altro. Perché questa sera ciò che è giunto anche come contributo, tra le tantissime cose, è questo, che il diritto civile, il diritto penale, il diritto amministrativo, le varie forme del diritto, il diritto romano, che poi, insomma, si traducono in codici e codicilli costituiscono il testo della prescrizione alla controversia, cioè alla lite.
Ora la questione è che non si tratta di fare riferimento al diritto civile, penale, amministrativo in funzione del litigio, che è un modo di applicare l’alternativa e quindi la pena o a sé o all’Altro, si tratta invece di fare appello al diritto dell’Altro, che non è né il diritto umano, né ciò che si definisce come “i diritti civili”; non è il diritto di qualcuno, non è il diritto relativo. Il diritto relativo è quel diritto che per definizione termina quando incomincia il diritto altrui. La formula canonica del diritto è questa: il mio diritto arriva fino a dove non lede il diritto di qualcun altro, ma questo diritto relativo è il diritto relativo rispetto alla controversia possibile, quindi al litigio, in assenza di lingua diplomatica, in assenza delle virtù dell’Altro: generosità, umiltà, indulgenza.
La questione essenziale è il diritto dell’Altro. Cioè quel diritto per cui il terzo non è mai escluso. La questione è aperta, il terzo non è escluso, quindi la vicenda si rivolge alla qualità, non alla punizione o al pareggio che sono varianti della stessa cosa, due facce della stessa ideologia o mitologia della vendetta. La questione è la qualità in ciascun atto, in ciascun cosa, la qualità della vita e di questo si è detto questa sera con le testimonianze di questo dibattito, per cui ringrazio Elisabetta Costa e Gianluca Rozza. E ringrazio ciascuno di voi.
Ricordo che sono disponibili e in vendita alcuni volumi sia della collana “Cifrematica” sia un altro testo molto interessante che abbiamo presentato qui con Augusto Ponzio, La dissidenza cifrematica e anche altri volumi della casa editrice. Allora ringrazio ciascuno di voi e do l’appuntamento domani alle 18 alla galleria Cavour. Ricordo che il laboratorio intorno all’amore e la crisi, giovedì prossimo, si tiene a Bologna, non qui a Padova alla sala Polivalente della Guizza, come le altre volte, ma a Bologna in via Zamboni al Palazzo della Provincia, dove appunto concludiamo il corso che si svolge da varie settimane intorno all’amore e l’odio, mentre noi riprenderemo gli appuntamenti qui fra quindici giorni, l’undici giugno con Antonella Silvestrini e Luigi Rosso intorno alla questione appunto della salute presentando il volume Il cervello e la bussola. Grazie a ciascuno e arrivederci.