L’economia del pianeta nel terzo millennio
- Chinaglia Ruggero, Fontela Emilio, Spagnol Antonio, Tabacchi Giuliano
19 Febbraio 1998 Dibattito con Emilio Fontela, autore del libro Sfide per giovani economisti, edito da Spirali, attorno al tema L’economia del pianeta nel terzo millennio : una sfida e un programma. Intervengono Ruggero Chinaglia, cifrante, Antonio Spagnol, responsabile per il Veneto di Alleanza Assicurazioni, Giuliano Tabacchi, presidente di Unindustria Padova
EMILIO FONTELA
L’economia del pianeta nel terzo millennio, una sfida e un programma
relatori
- Ruggero Chinaglia, cifrante
- Antonio Spagnol, responsabile per il Veneto di Alleanza Assicurazioni
- Giuliano Tabacchi, presidente di Unindustria Padova
Ruggero Chinaglia Sono lieto questa sera di avere nostri ospiti il professor Emilio Fontela, il dottor Giuliano Tabacchi, Antonio Spagnol, esponenti di un contesto economico, finanziario, imprenditoriale internazionale. Questa sera sono qui per dare un loro contributo al dibattito che ha per tema “L’economia del pianeta nel terzo millennio, una sfida e un programma”. Il pretesto per questo incontro ci è dato anche da questo libro Sfide per giovani economisti di cui è autore Emilio Fontela, economista, insegnante di econometria all’università di Madrid e all’università di Ginevra; è consulente di vari paesi per le programmazioni, le progettazioni economiche, e quindi è uno studioso, un esperto delle questioni che sono dinanzi a noi nel pianeta, non tanto nella loro generalità, ma proprio perché conosce le specificità che, in varie regioni del pianeta e di vari paesi, le varie questioni assumono.
E quindi sarà interessante sentire da lui, e dai nostri interlocutori di questa sera, quali sono le indicazioni che vengono dal pianeta a noi e che ciascuno può dare a sua volta al pianeta. Nel libro, Emilio Fontela esplora varie questioni: dalla trasformazione che la società ha, ha avuto e avrà ulteriormente in seguito all’innovazione tecnologica, ai problemi che apparentemente questo può dare in termini di occupazione, in termini di trasformazione del tipo di lavoro e anche di cambiamento di un modo di pensare le cose che la trasformazione comporta. Quindi ci sono vari aspetti, varie questioni, varie proposte, perché ciascuna di queste difficoltà rappresenta una sfida e una scommessa. Dice Fontela: “per giovani economisti”. Chi è in causa, quindi?
Si tratta di qualcosa di riservato agli specialisti, a chi si occupa di economia, o si tratta di ciascuno che si trova oggi dinanzi a questa trasformazione, a questa novità, nel settore dove lavora, dove esiste, dove vive? C’è una parte del libro, una cospicua parte del libro, dove Fontela affronta la questione dell’educazione, della formazione, dell’insegnamento, della necessità, oggi e domani ancora di più, di una formazione costante, di un costante aggiornamento della propria formazione, della propria educazione, che non è solamente aggiornamento delle nuove tecnologie, è aggiornamento riguardo a come fare, come affrontare le cose.
Nella nostra elaborazione, in cifrematica, diciamo che economia e finanza sono i due altrove della parola: economia come l’istanza della scrittura delle cose, finanza come istanza della conclusione. Pertanto “economia e finanza” non sono due aspetti tecnicistici riservati agli esperti, ma sono questioni con cui ciascuno si trova ad avere a che fare per compiere il progetto di vita che lo riguarda. Ancora, possiamo dire che economia e finanza sono la logica e la struttura delle cose: economia come logica, come logica che procede dall’investimento, finanza come struttura delle cose che esige il suo compimento nella qualità.
Ecco quindi che c’è un messaggio che viene da questo libro e attorno a cui i nostri interlocutori sono invitati anche a dire i termini della propria esperienza, c’è un messaggio che riguarda il ciascuno come imprenditore della propria vita, come ciascuno che dinanzi al progetto e al programma di vita si trova a dover scommettere per la riuscita. Credo che nessuno come l’imprenditore, dinanzi alla difficoltà che l’impresa comporta, non abbia modo di dedicarsi alla titubanza, all’attendismo, all’incertezza, alla depressione, ma ciascun giorno ha da affrontare ciò che l’impresa esige per la riuscita. Ora questo, che è la necessità dell’imprenditore, io rilevo nella mia pratica clinica che è la necessità di ciascuno, come necessità di compimento, quindi come necessità di approdare alla qualità, alla qualità della vita, alla qualità dell’esperienza, alla qualità del lavoro.
E è questa la salute, la salute come istanza di qualità. Per la salute, quindi, indispensabili l’economia e la finanza, ossia la logica e la struttura, il progetto e la scommessa. Per questo, ciascuno di fronte alla difficoltà, non ha da arretrare, non ha da aver paura, ma, come diceva Machiavelli, ha da costituire il suo esercito, ossia il suo dispositivo di battaglia, il suo dispositivo di lotta, che non è un dispositivo naturale. Non è un dispositivo che è già costituito, non è un dispositivo che si trova già approntato da altri, non è un dispositivo che ci si possa aspettare da altri in una logica dell’assistenzialismo, è un dispositivo che si tratta di inventare. Nella mia esperienza, nella formazione analitica, è proprio la variazione, la trasformazione, la novità, la necessità ciascun giorno di inventare il dispositivo che mi ha portato alla formazione clinica, a poter intendere alcune sfumature nella pratica clinica, nella pratica intellettuale.
È questa la questione dell’era della parola, l’era che sta dinanzi a noi, contrariamente a quello che sembra invece annunciato da ciò che passa come new age, cioè come l’era delle cose facili, come l’epoca del tutto e subito, come l’epoca di ciò che sarebbe dovuto a qualcuno in nome di un benessere, che è la morte, quando questo benessere non sta nella salute, cioè nell’istanza della qualità, nell’istanza del compimento delle cose, quindi nell’istanza della riuscita a cui è necessario il dispositivo. Dispositivo, dove ciascuno non ha da delegare ad altri ciò che è indispensabile perché le cose si compiano, perché non c’è nulla di automatico, non c’è nulla di facile, ma ciascuna cosa è difficile, per suo statuto.
Lo statuto intellettuale delle cose procede dalla difficoltà e poi giunge alla qualità, ma mai incontra la facilità. Questa è la questione della formazione, è la questione della scommessa, è la questione del progetto, rispetto a cui nessuno ritengo possa considerarsi escluso. Ecco, questo solo per inquadrare un po’ il contesto culturale di questo avvenimento, quale sia il contesto anche dell’associazione cifrematica che lo organizza, dove la questione dell’impresa si è posta sin dalla sua costituzione. Impresa culturale, impresa editoriale, impresa di scrittura, impresa che procede dalla ricerca, dove nulla è già dato, nulla è garantito da un’ente superiore che dovrebbe assicurare ad altri assistenza e riuscita, ma dove ciascuno, a partire dalla pulsione, dalla spinta verso la qualità e la riuscita, trova anche, attraverso la difficoltà, affrontando la difficoltà, trova la qualità delle cose. Allora io sono felice di invitare al suo intervento Emilio Fontela, che ringrazio ancora di essere qui, a Padova con noi.
Emilio Fontela L’economia è una scienza triste, lugubre, è una visione conosciuta dell’economia. Ci sono stati tanti economisti che hanno riconosciuto che è una scienza triste. Non soltanto è una scienza triste, ma è anche mediocre. Bisogna pensare, per esempio che, cent’anni dopo la pubblicazione della Ricchezza delle nazioni, il libro di Adam Smith, che in fondo caratterizza i principi della scienza economica moderna, nella commemorazione della pubblicazione del libro, il presidente degli economisti britannici disse: “La scienza economica è finita”, e l’accademia delle scienze inglese radiò l’economia delle scienze, perché dopo cento anni si sapeva tutto quello che si doveva sapere dell’economia, ormai era finito.
Il mondo e le coincidenze sono così fatte che, esattamente nel 1876, anno in cui l’economia veniva radiata come scienza, si pubblicavano due libri importanti: uno di Gevons e l’altro di Val Ras. I libri di questi due autori, pubblicati cent’anni dopo la ricchezza delle nazioni, davano un nuovo slancio alla scienza economica. Il quel periodo la scienza economica è tornata alla sua mediocrità abituale. Praticamente non si produce più niente. Si producono molti libri, si producono molti papers, ma non si dice più niente. Ormai, quasi tutto è scritto. Difatti, quando si riflette su questo pensiero unico, l’idea che circola è che c’è una scienza economica che ha risposta a tutto e che dunque è finita.
Non c’è assolutamente niente che si possa domandare oggi a un’economista, che non abbia la risposta. Tutto. Abbiamo esaminato esattamente tutto. Siamo praticamente nella situazione del 1876; abbiamo finito ancora una volta. Forse avremmo bisogno di qualche nuovo Gevons e di qualche nuovo Val Ras. Comunque, non so se nella vostra vita quotidiana o leggendo i giornali, non vi siete accorti di questa tristezza profonda che emerge dalla lettura dell’informazione economica, dalla lettura delle relazioni degli economisti: son tutte cose generalmente noiosissime.
Mia moglie preferirebbe moltissimo che fossi dottore in medicina, piuttosto che economista. Dice come ho scelto una cosa così noiosa. E è vero, è diventata una cosa noiosa. Allora, sfide per giovani economisti, che cos’è? È un libro per dire: “guarda economista, per piacere, renditi conto che tutto questo pensiero unico semplicemente non funziona, non funziona niente. Non dovremmo avere disoccupazione, però l’ abbiamo; non dovremmo avere squilibri di ogni tipo tra ricchi e poveri, però li abbiamo. Non funziona assolutamente niente nei nostri presupposti, il che vuol dire che abbiamo quasi da ripartire da zero”.
È quasi questa l’idea. Non è che c’è bisogno di un nuovo paradigma marxista per rispondere al paradigma neoliberale. No. Bisogna reinventare l’economia. E dunque abbiamo questa chance, e per quello si chiama sfide. È un libro modesto ma ambizioso, perché vuol dire proprio che dobbiamo cominciare a fare le cose un pò serie. Dovremmo cominciare a preoccuparci di un certo numero di problemi che esistono, che tutti vedono e che però la scienza economica semplicemente si rifiuta di trovarli, perché li considerano soltanto malattie. La scienza economica ha un’ideale, e se il mondo non corrisponde all’ideale è colpa del mondo, non colpa della scienza. Siccome è colpa del mondo, noi non siamo responsabili, gli economisti son tutti tranquilli. È colpa del sistema se c’è inflazione, è colpa del mercato del lavoro se c’è disoccupazione; è colpa di, ma certo non colpa degli economisti.
E dunque questa è la situazione di partenza di questo libro. Cosa voglio fare oggi in pochi minuti? Lanciare tre delle sfide – ce ne sono tantissime – per farvi vedere un po’ la natura di queste sfide e, soprattutto, indirizzarle agli imprenditori. Comunque, economisti, dobbiamo guardare queste sfide e parlare agli imprenditori. Voglio parlare della sfida della finanza, la sfida dello sviluppo regionale e la sfida dell’occupazione. Sarò molto breve, perché son tutte sfide grandissime; dunque voglio soltanto prendere i punti più essenziali.
La sfida della finanza. Che è successo? È successo che, da quando abbiamo scoperto che con la tecnologia si possono fare delle transazioni informatiche nel tempo reale, veramente abbiamo creato un mercato mondiale dei prodotti finanziari; la finanza è diventata mondiale. Per di più, per tutta una serie di vicende che non voglio raccontare, c’è stato un processo di sviluppo sopranazionale della finanza. La finanza si giudica al di sopra delle nazioni. Nessuna nazione può praticamente controllare i mercati finanziari, poiché questi stanno al di là delle nazioni. Oggi è possibile per ognuno di voi comprare, vendere nei mercati più strani, a Tokyo, a Honkong, dove vi pare, senza assolutamente nessuna difficoltà.
Come imprese, potete fare esattamente la stessa cosa: mettere titoli in un altro mercato, andare nelle banche che stanno lontanissimo, utilizzare paradisi fiscali per fare fondazioni e uscire dal vostro contesto. È globalizzato. Non c’è più la territorialità nazionale nel campo della finanza. Qual è la sfida? La sfida è che questo non sarebbe per niente grave se la finanza non fosse lei stessa ammalata. La finanza, nei libri, è sana, però è ammalata nella realtà. Soffre di tre malattie.
Una malattia è la malattia delle crisi. La finanza, per ragioni che sarebbero troppo lunghe da spiegare, semplicemente fa delle crisi continuamente: crisi monetarie nei paesi asiatici, nel Messico, in un altro posto, crisi delle banche giapponesi, crisi delle casse di risparmio americane, crisi della Barilus, crisi di questo, di quell’altro. Sempre e intrinsecamente la finanza ha crisi. Va su molto rapida e cade, va su e cade, dunque ha delle crisi. È una malattia. Non senza cura, ci sono delle cure, però è una malattia.
L’altro aspetto di questa malattia è che la finanza è deflazionista, è anticrescita, vuole soprattutto la stabilità del risparmio. La finanza è l’operazione che fa la transizione dal risparmio all’investimento, però è orientata sulla protezione del risparmio. E dunque la finanza è sempre per definizione restrittiva. Un banchiere centrale deve essere un uomo della restrizione, non può essere un uomo dell’espansione; è deflazionista.
Seconda malattia: la finanza frena, è un freno. Anche lì, ci sarebbero metodi, modi di evitare che la finanza fosse un freno, però, intrinsecamente, basilarmente, ha questa malattia.
La terza malattia della finanza è la malattia della speculazione. Anche lì, non è una malattia grave, anzi, molte volte, la speculazione serve a molte cose. Però nell’economia c’è bisogno di un bilancio tra spirito d’innovazione, spirito d’impresa e spirito speculativo. Questo è sempre un equilibrio; noi dobbiamo camminare sul filo del rasoio.
Ripeto, queste malattie non sono gravi, se non è che queste malattie hanno delle conseguenze negative sulla imprenditorialità e sull’economia reale. Le crisi costano in termini di disoccupazione, in termini di perdita di produzione. La deflazione costa, lo sappiamo. Tutti sappiamo quanto è costato Maastricht, è costato moltissimo. La speculazione costa. Tutto questo ha un costo per l’economia reale, e dunque bisogna che attacchiamo questa sfida. All’inizio, nel libro, sviluppo qualche idea di come attaccare queste malattie, di come provare a guarirle, ma siamo soltanto nel principio. Bisogna trovare un metodo, e bisogna soprattutto che gli imprenditori, io ritorno verso gli imprenditori, trovino al più presto un modo per proteggersi da queste malattie; devono provare a diventare indipendenti delle malattie della finanza. In che modo?
In diversi modi, evidentemente. Uno importante è che l’autofinanziamento è l’esclusione dal mondo della finanza. Se le imprese risparmiano e investono il loro risparmio, non hanno bisogno né di New York né di Chicago né di Tokyo né di niente. Questo è la cosa più chiara. Evidentemente, l’autofinanziazione è l’antidoto ideale. Purtroppo, tutti non possono autofinanziarsi. Questo evidentemente è il problema. Sarebbe molto semplice se tutti potessero; però, quelli che possono, bisogna che lo facciano, proprio per un loro benessere. E poi ci sono altri metodi di ingegneria finanziaria, cioè la capacità dell’impresa di mettersi al di sopra della finanza, di essere loro stesso finanzieri, anche finanzieri nella loro attività imprenditoriale. Questa è una grossa sfida, per la finanza, per l’impresa.
Seconda sfida che volevo abbordare stasera: la sfida dello sviluppo locale. Mentre a livello della finanza, come abbiamo appena visto, o a livello della tecnologia osserviamo un processo di globalizzazione, invece a livello della società osserviamo un processo di territorializzazione, ogni volta più forte. Perché? Semplicemente perché, per la società, quello che importa è la qualità di vita, e la qualità di vita è territorialmente limitata. La qualità di vita non è neanche una città e persino un quartiere. Quando uno prova a fare un indicatore di qualità di vita, la gente si riferisce alla scuola alla quale vanno i suoi bambini, ai ristoranti che adopera e alle cose che stanno vicino.
La qualità di vita italiana non ha nessun senso. Non c’è qualità di vita italiana. C’è qualità di vita a Padova, eventualmente, o in un quartiere di Padova, ma senz’altro non a livello italiano. Dunque a misura che si avanza verso la qualità, elemento che è stato rilevato prima, si va verso il territorio ristretto.Vediamo in questo fatto che l’economia globalizza e, allo stesso tempo, la società localizza. C’è una nuova sfida che noi chiameremo la sfida della localizzazione, del globale locale. Come facciamo ad essere qualitativamente locali e economicamente globali?
Perché nella qualità locale intervengono fattori che sono puramente economici. L’occupazione è un fattore locale. Quello che veramente preoccupa la gente è di trovarsi i disoccupati o i poveri accanto a sé, nel proprio territorio. I disoccupati della Sicilia stanno molto bene; tutti lo leggono nel giornale, però sono i disoccupati della Sicilia, è una riga in un giornale. Il disoccupato che interessa è quello che sta nella piazza qua accanto, quello lo vediamo. Dunque, anche la disoccupazione è un fenomeno d’interesse territoriale, non d’interesse nazionale o mondiale.
Certo, il mondo dei mass media ci ha fatto credere, ci fa credere che interessi il disoccupato della Sicilia, però il disoccupato della Sicilia veramente non interessa. Interessa il nostro. E dunque il problema dell’economia locale dentro l’economia globale è una sfida per gli economisti assolutamente impressionante. Bisogna trovare i meccanismi per cui si possono sviluppare delle entità economiche locali che sono collegate al sistema mondiale.
E allora bisognerebbe riflettere su che cosa è veramente il processo produttivo: ci accorgeremmo per esempio, che noi abbiamo vissuto su dei disegni che non sono più veri; abbiamo vissuto sull’idea che l’industria era accumulare delle fabbriche. E non è vero. Non è solo accumulare delle fabbriche, ma è anche accumulare delle variabili intangibili, accumulare della tecnologia, delle risorse umane, dell’esperienza organizzativa, dell’esperienza finanziaria, dell’intelligenza. Questo è l’industria, non soltanto accumulare fabbriche.
E allora l’indipendenza del locale corrisponde a un processo di accumulazione di queste variabili intangibili. Sviluppare il locale non è mettere degli incentivi per provare a pescare un investitore giapponese, che stava passando là in giro e diceva: “Guarda Padova, o che bello! Qua faccio una fabbrica di computers”. Questo non è lo sviluppo locale. Non c’è una cosa così, che vola in giro, e che si chiama “investitore strano”. Lo sviluppo locale è il processo di accumulazione di conoscenze tecnologiche, di discorsi umani, di esperienze organizzative. Le società che riusciranno sono quelle che riescono in questo processo di accumulazione. È evidente che questo è un’altra chance, un’altra sfida per gli imprenditori. L’imprenditore locale è la parte importante di questo processo di accumulazione che assicura il suo futuro, perché lui è solo presente in termini di pratiche, ma è futuro in termini di tecnologie, di esperienze, di risorse umane etc. Seconda sfida che volevo abbordare.
Terza ed ultima, la sfida più importante, quella dell’occupazione. Avremo o non avremo a un certo momento una società di piena occupazione, in Europa per esempio? Senza dubbio la possiamo avere, però bisogna tenere conto di certe evoluzioni che sono evidenti, che non bisogna chiudersi gli occhi né bisogna trarre da quelle evoluzioni delle considerazioni troppo semplicistiche. Volevo farvi un piccolo calcolo. Fatelo con me. Se avete una matita, prendetela, se no fatelo a mente; tanto, il calcolo mentale l’abbiamo tutti imparato a scuola.
Metà del secolo scorso, prendete una fabbrica qualunque nel nord d’Italia, qua vicino a noi, il lavoratore che era impiegato in quella fabbrica, quanto tempo di vita aveva disponibile? – la domanda è curiosa – di quanto tempo disponeva? Allora calcoliamo. La sua speranza di vita era di 58 anni. Ci sono prove definitive che era così. 58 anni era la speranza di vita di quel lavoratore. Dimentichiamo i primi 10 anni d’infanzia, diciamo che non sono veramente vita, sono soltanto infanzia, e poi leviamo le 10 ore di sonno. Rimangono 5100 ore all’anno. Moltiplichiamo per 48 anni, 58 speranze di vita meno 10, vengono fuori 245.000 ore. L’individuo, il lavoratore a metà del secolo scorso aveva una disponibilità di vita di 245.000 ore. Quanto lavorava? Interessante!
Lavorava 45 anni, perché cominciava a lavorare ai 12-13 anni e praticamente finiva di lavorare quando moriva. Non c’era il problema delle pensioni, tutte queste cose qua, non ce n’era bisogno. Dunque lavorava 43 anni e, secondo le inchieste che abbiamo, lavorava più di 3000 ore all’anno, 3600-3700 ore all’anno. Non c’erano tante vacanze, non c’erano tanti sabati, tante cose così strane. E dunque 3600 all’anno per 45 anni = 162.000 ore di lavoro nella fabbrica. Fate la percentuale e vi viene fuori 66%. Il 66% del tempo disponibile si passava nella fabbrica. C’era poco tempo per fare altre cose. La fabbrica era la vita, era esattamente tutto per l’individuo, gli dava tutto, era la sua attività.
Tutta la società industriale è creata intorno a questa situazione: 66% del tempo nelle fabbriche. Non c’erano vacanze in Thailandia, queste cose qua. Il tempo era tutto dedicato alla fabbrica. Guardiamo la situazione in questo momento. Voglio fare un calcolo, vediamo se più o meno corrisponde.Tempo disponibile: la speranza di vita è andata su a 75 anni, come minimo; se sono donne, un bel po’ di più. E dunque contiamo 75 anni. Meno 10 = 65 anni. Le 5100 ore all’anno rimangono, perché la gente si suppone che dorma lo stesso tempo adesso come un secolo fa, e dunque viene fuori 332.000 ore disponibili, invece di quelle 245.000 che avevamo prima. Tempo di lavoro. Il tempo di lavoro è diminuito. Io ho preso 36 anni, però c’è già pochissima gente che lavora 36 anni. Perché?
E è semplicemente perché l’età alla quale cominciano a lavorare va ogni giorno aumentando, perché i ragazzi rimangono nelle scuole, c’è l’informazione, l’università e il ritiro dal lavoro avviene ogni giorno ad un’età più bassa, da 70 a 45 anni, in Spagna ci sono già pre-ritiri a 45 anni. La media attuale è di 36 anni di lavoro. Ma si sta abbassando. Le ore all’anno sono, contando l’assenteismo, le malattie, non soltanto le ore ufficiali, le ore contrattate, le ore e tutto questo ammontano a 1500. Quando ci saranno le 35 ore, saranno ancora probabilmente di meno.
In Italia sono ancora al di sopra delle 1500; in Olanda sono al di sotto. 36 anni per 1500 ore = 54.000 ore. Volete sapere qual è la percentuale sul totale? Ricordate che il totale disponibile è aumentato, però il totale lavorato è diminuito. Viene fuori il 16%. Il che vuol dire che il signore che oggi lavora, che si considera un lavoratore, che è pienamente occupato – non parlo del disoccupato, sto parlando dell’occupato – dedica il 16% del tempo disponibile a questo lavoro.
È un’altra società, bisogna rendersi conto. Non si può comparare una società in cui uno stava il 66% della vita nella fabbrica a un’altra società in cui ci sta, nel migliore dei casi, il 16%. E per di più, effettivamente, questo sta scendendo. Perché sta scendendo? Un mio amico americano, oggi famoso economista, ha fatto una distinzione interessantissima che è la distinzione tra lavoro strumentale e lavoro prodotto. Dice che fondamentalmente ci sono due tipi di lavoratori, quelli che sono strumentali in un processo produttivo e quelli che fanno un lavoro il cui risultato è esso stesso un prodotto, un prodotto nel senso di bene o di servizio, evidentemente. E che cosa dice Bombor, in un modello ormai famoso che si chiama “on ballants economic grose” (modello di squilibrio sbilanciato). Che cosa viene a dire Bombor?
Viene a dire che la forza della logica fa che alla fine rimane soltanto il lavoro prodotto. Il lavoro strumentale viene progressivamente, dalla legge della produttività, dalla legge della tecnologia, rimpiazzato da sistemi produttivi più efficienti come sono i sistemi produttivi automatizzati. Non è la paura dell’automatismo, eccetera, ma è che, se l’uomo è uno strumento, più tardi, più presto o più lontano troveremo uno strumento migliore nel campo tecnologico. Abbiamo trovato moltissimi strumenti, ne troveremo ancora di migliori. Abbiamo dei robot, faremo dei robot ancora migliori, faranno dei sistemi ancora più intelligenti, avremo dei sistemi ancora più esperti.
E per finire: il lavoro strumentale è condannato a scomparire; è crollato dal 66% al 16% della nostra vita, scenderà al 6, al 4, al 2% e sparirà. Questa è una sfida, perché bisogna costruire una società nella quale la parte strumentale viene abbandonata dall’uomo a altri sistemi produttivi e, effettivamente, il lavoro come prodotto richiede altre caratteristiche. Uno non fa un corso di formazione specializzata per fare il lavoro “prodotto.” Questo richiede una motivazione ulteriore, richiede una creatività, richiede una responsabilità, richiede un individuo che è lui stesso il padrone del lavoro. E dunque a me sembra essenziale per il futuro la frase di Verdiglione, che dice: “A ognuno la sua impresa”. Ogni individuo, in fondo, deve diventare un imprenditore. L’imprenditore tradizionale diventerà l’imprenditore degli imprenditori, il che vuol dire che sarà il capo, il più responsabile di un gruppo tutto di imprenditori.
Qualcuno mi ha detto a Milano: “Sarà una società di prime donne”. Sì, sarà una società di prime donne e bisognerà negoziare con le prime donne. Era facile negoziare col sindacato, era una cosa gentile il sindacato. Adesso ci troveremo di fronte a un gruppo di imprenditori che dovranno fare insieme un’impresa ancora più complicata. È una sfida, perché tutto il nostro sistema, tutti i nostri pensieri intorno alla società industriale non servono per la società post-industriale. Certo, non è finito.
Alcuni vi diranno: “No, no, la mia impresa ancora…” Sì, sì, ancora, ancora, ma aspettiamo vent’anni, aspettiamo trentanni. Ancora, ancora è una fase reattiva. Quanto tempo impiegheranno a levare questa incertezza sul lavoro strumentale? Queste sono delle sfide che ho messo nel libro, perché trovo che, soltanto con queste tre, abbiamo già per produrre una scienza economica sufficientemente ampia. Il pessimismo attuale degli economisti, che pensano che è finita la nostra scienza, non è giustificato.
Ruggero Chinaglia Emilio Fontela ha posto dinanzi a noi numerose questioni, e non da poco, che riguardano una trasformazione radicale del contesto in cui viviamo. Intanto ci ha dato un’indicazione che la finanza non è nulla di stabile e, forse, quelle che lui chiama le tre malattie potrebbero anche chiamarsi indici più che malattie; più che fare riferimento al male e alla morte, si può andare verso un’altra idea delle cose. Quindi, tre indici che la finanza non è qualcosa di stabile, ma quindi va e viene. Non ha freni, la finanza è sfrenata, tanto è vero che ha bisogno di qualcuno che la restringa, e si basa sull’investimento, quel qualcosa che è molto prossimo alla struttura pulsionale.
È qualcosa che ciascuno si trova dinanzi; questo andare e venire delle cose, questa sfrenatezza è la logica dell’investimento. Anche questa accezione di qualità come qualcosa di non generico, ma che anzi caratterizza l’unicum delle cose, mi sembra una novità molto interessante, che ci fa riflettere, come pure la questione che ciascuno divenga imprenditore. Già questi elementi portano a considerazioni intorno alla trasformazione industriale, la trasformazione dell’impresa, la trasformazione dell’istituzione, e quindi trasformazione nel settore della banca, nel settore delle assicurazioni.
Giuliano Tabacchi Siamo arrivati a avere in azienda tutti imprenditori e credo che io certo non li vedrò, neanche i miei figli, per cui parliamo di un futuro futuribile. Però ha ragione di fare questo, perché credo che solo in questo modo, quella economia che lei chiamava prima finita e triste, possa essere viva e vitale, e forse diventare anche meno triste. D’altronde, sul fatto della tristezza, l’economia fa parte della vita, per cui se vediamo la vita triste anche l’economia lo è. O forse un po’ meno triste, perché in fin dei conti l’economia è tutto, è il lavoro, dal lavoro domestico a quello della grande finanza, e credo che i risultati, che siano a casa, che siano appunto nella grande finanza, danno quelle soddisfazioni per cui passa la tristezza.
Sí, se si sbaglia, si diventa tristi. Allora, come dicevo prima, la tristezza fa parte della vita, più che dell’economia. Per rispondere cercherò di essere anche breve e dire la mia opinione a tutte quelle sfide. Aggiungerei un’altra cosa, cioè che siamo in un momento di grande transizione. Siamo passati, solo qualche anno fa, da un momento in cui c’era il muro di Berlino al momento in cui è sparito, cioè siamo passati da un momento di grande tensione, se vogliamo di guerra fredda come la chiamavano, a un momento di pace. Basta, non c’è più il comunismo. Il nemico di 80 anni da combattere è sparito, non c’è più, si è dileguato. Questi fenomeni creano sempre dei problemi e anche le tante opportunità.
Parlando in senso positivo, queste positività e queste speranze ci sono; però, ovviamente, prima che si passi da un certo tipo di economia a un’altra, cioè a un’economia, a una prima regionale di un’economia globale, bisogna adattarsi, bisogna trovare delle regole e perciò ci passa del tempo. In questo modo, io sarei un’altra volta ottimista e direi che insomma diamo un tempo al tempo.
Le sfide. La globalizzazione è un altro fenomeno. Mi ricordo all’inizio quando qualche anno fa si parlava di globalizzazione, c’erano pochi che capivano cosa voleva dire; sembrava si parlasse di parole, paroloni e che non si dovesse neanche mai arrivare a tanto. Invece, in pochi anni ci siamo arrivati. Oggi, ogni prodotto è soggetto a una sfida globale. Ogni prodotto, dall’automobile all’occhiale, alle scarpe, ai vestiti, a quello che volete, ai prodotti agricoli – un’altra cosa importante – sono tutti in un mercato globale. Si va a fare la spesa, a comprare gli aranci che vengono non più solo da Catania, ma vengono anche da Israele, magari dalla Nuova Zelanda o dal Cile. E così tutti i prodotti.
Si guardi, qualsiasi prodotto viene da tutte le parti del mondo, per cui oggi un’industria, per esistere, dev’essere globale, altrimenti sparisce. Cioè, bisogna non solo esportare o produrre addirittura all’estero, ma in ogni caso essere competitivi con il prodotto che è prodotto in qualsiasi altra parte del mondo. Che sia prodotto in Cina, che sia prodotto qui, deve avere delle caratteristiche per cui si riesce a vendere. Dev’essere qualitativamente migliore, per cui sopportare un prezzo superiore, oppure deve avere lo stesso prezzo, per cui la globalizzazione è avvenuta. Non è solo nella finanza, ma è nei prodotti. Cosa ha portato la globalizzazione? Ha portato forse anche dei problemi, dei vantaggi per il consumatore, perché ognuno di noi è consumatore e è cittadino. Come consumatore, ha il vantaggio di comprare a più basso prezzo – ecco la deflazione, per cui non è solo un’altra volta la finanza, ma è il mercato che lo impone – e come cittadino, magari, dev’essere disoccupato, proprio perché quel prodotto non è più fatto qui, ma è fatto a Hong Kong.
Questa è la sfida della globalizzazione. Siamo in un momento di transizione. Sarà certamente superata, però dovrà essere superata non solo con nuove regole, nuove regole a livello mondiale, ma nuove regole, nuove organizzazioni, nuove idee anche a livello locale e imprenditoriale, indiscussamente. Per cui, non dico solo la finanza, insomma, siamo tutti di mezzo. Per quanto riguarda, volevo rispondere velocemente, lei diceva “se supera la finanza i problemi, la crisi che crea la finanza, questa globalizzazione, attraverso l’autofinanziamento”. Sì, autofinanziamento, da capirsi come. Un’azienda può autofinanziare qualcosa; non può certamente, oggi come oggi, autofinanziare la crescita.
Per finanziare, non autofinanziare la crescita, ci sono dei mezzi, nel mondo finanziario, quali la borsa: cioè prendere dei soldi, in un certo senso gratis, con la promessa di remunerare un investimento, però insomma qualche volta lo remunera e qualche volta meno. Naturalmente questo è tutto un discorso a sé; potrebbe essere un’altra serata, perché è un discorso culturale, un discorso organizzativo eccetera, però questo è un altro modo, ovviamente, per superare quello.
Le regioni. La regionalizzazione. Lei ha detto un concetto estremamente importante. Infatti oggi si passa dalla globalizzazione alla regionalizzazione. Questo è vero e lo è in tutti i sensi, infatti dicono gli americani: “Think globally and act locally” (Pensa in senso globale, progetta, pensa in senso globale e poi agisci in senso locale), perché, quando hai capito globalmente come vanno le cose, tu devi metterle in pratica, e le metti in pratica a casa tua. Un altro concetto che mi viene in mente, pensando a questo, è per esempio il fatto europeo. Adesso c’è l’Euro che entrerà in funzione. Speriamo, ce lo auguriamo, altro discorso estremamente importante in tutto questo scenario economico.
Però, anche da un punto di vista quasi politico del fatto regionale, le leggi saranno fatte da Bruxelles almeno in un quadro generale, e poi passeranno alle regioni. Non ha senso che la legge fatta a Bruxelles sia adottata più o meno da Roma e imposta a regioni italiane che sono più differenti delle nazioni europee; è ovvio dovrà, e arriveremo a questo (questa è la mia prospettiva, spero che non sia futuribile, come dicevo prima, perché più presto è meglio è): dovranno essere dei quadri, delle leggi quadro fatte a Bruxelles che poi saranno locali, definite in senso regionale. È chiaro che la definizione e gli interessi della regione Veneto sono sostanzialmente differenti da quelli che possono essere quelli della regione Campania o della regione Basilicata, per ovvie ragioni.
L’occupazione. Anche qui siamo in transizione. Dovremmo transitare da una educazione quasi marxista – perché non dimentichiamo che per 50 anni ce l’hanno in qualche modo inculcata anche a noi, ci sono ancora i residuati bellici di questo, basti pensare a Bertinotti – a una educazione liberista. Non c’è niente da fare. Non possiamo pensare globalmente e poi pensare di fare le 35 ore solo in Italia: questo è suicidio premeditato, oppure è malafede, insomma, mettiamola come vogliamo. Penso che per ottenere la massima occupazione, per risolvere il problema dell’occupazione dobbiamo liberalizzare. Faccio solo un esempio. Gli unici paesi oggi che hanno superato il problema della disoccupazione sono i due paesi in cui la “deregulation”, o liberalizzazione completa di tutto, è avvenuta, e sono Stati Uniti e Inghilterra.
Pensiamo all’Inghilterra, cos’era vent’anni fa e cos’è oggi. È un miracolo, un miracolo che ha fatto la Thatcher. Cosa ha fatto? Ha liberalizzato tutto, infatti non ha neanche citato per esempio le 40 ore europee. Loro parlano di 48. Ma questo cosa significa? Liberalizzare significa poi fare il lavoro partime. L’Italia è indietro come in tante altre cose nell’applicazione del partime, anzi, molte volte è criticato e osteggiato. Invece il partime è una soluzione, una soluzione estremamente valida, proprio tornando quasi al discorso che lei faceva “imprenditoriale”. Uno sceglie quello che vuole. Perché, per esempio, una signora di casa, mamma, che ha dei bambini, eccetera, non può pensare di dire: “ Io alla mattina ce la voglio lavorare perché ce l’ho libera, i bambini vanno a scuola, però voglio essere a casa il pomeriggio per la mia famiglia”. Perché non può farlo? Prenderà uno stipendio che non è quello che vorrebbe, cioè che è quello nazionale nel senso di quello completo. Benissimo! Meglio quello di niente.
Credo che questo sia il modo di arrivare… Poi, con questo, pensi la soddisfazione che può trovare con quel lavoro, che altrimenti non avrebbe, e le possibilità che questo lavoro, poi, può aprire anche alla sua carriera. I figli crescono e lei può poi dedicarsi a full time a un qualcosa che ha imparato quando doveva fare il partime. Dobbiamo aprirci. Il mondo si apre, appunto diventa un mondo globale, e noi dobbiamo perlomeno cercare di diventare un po’ meno nazionalisti, cioè aprirci a regole mondiali. Noi possiamo essere e sostenere le sfide globali se adottiamo tutte le regole globali, e credo che questo dia spazio certamente a un aumento incredibile alla disoccupazione. Credo che questi sono i punti.
Lei aveva così accennato a alcuni punti, io ho cercato di dare delle risposte viste dal mio punto di vista. Ogni individuo, lei dice, è imprenditore. Questo sì, sarebbe l’ideale, sarebbe il massimo. È andato molto oltre le mie aspettative e le mie speranze. Certamente però, arriveremo, io sono d’accordo con lei, in un momento futuro, non so quando – dicevo prima, se io lo vivrò – però in cui ogni individuo, proprio grazie a questa apertura, a questa liberalizzazione, dovrà cambiare anche i sistemi di produzione.
E cambieranno in modo tale, per cui ogni individuo sarà responsabile di quello che fa e del tempo che probabilmente vuole lavorare per fare quello. Per cui diventare imprenditore, cioè imprenditore, nel senso di decidere quanto vuol lavorare, come vuol lavorare. Credo che sia decisamente una sfida, questa la prendo con molto entusiasmo, una sfida estremamente positiva per superare la situazione attuale e arrivare a una situazione non solo di piena occupazione, ma di massimo soddisfacimento delle prerogative e degli interessi personali.
Ruggero Chinaglia Ringrazio Giuliano Tabacchi per il suo intervento, che ha dato un contributo rilevante, in particolare sottolineando insomma come la questione per il pianeta, oggi, è l’istituzione e l’introduzione di un’altra logica rispetto a quella del sacco: non più la logica binaria, la logica delle cose finite, le cose che entrano tutte nel sacco e che hanno come unico destino la morte, ma quindi la questione del dispositivo temporale, la questione dell’infinito, dove ciascuno, per affrontare, per svolgere il suo programma, occorre che istituisca un dispositivo, un dispositivo libero, un dispositivo temporale, e quindi dove invenzione e tradizione si combinino, dove regionalismo e internazionalismo trovino integrazione.
Questa mi sembra una notazione importante che sottolineava Giuliano Tabacchi, la questione quindi di dispositivi particolari e specifici, non legati alla logica corporativa, non legati a una paura della fine e quindi a prescrizioni e divieti, ma legati alla logica dell’impresa che è la logica dell’infinito. Ora, rispetto alle proposte sin qui emerse, credo che anche Antonio Spagnol abbia una testimonianza da dare, in particolare rispetto a quello che è il suo settore, ossia il settore delle assicurazioni e quindi un settore istituzione. E quindi invito all’intervento Antonio Spagnol, che è responsabile per il Veneto di Alleanza assicurazioni.
Antonio Spagnol Ritengo quello che è stato detto fin’ora molto interessante, sopratutto nel campo dell’imprenditorialità, nel campo dei lavoratori. Sono chiamato per dare alcune informazioni, alcune precisazioni, alcuni dati sulla polizza vita in particolare, sulle assicurazioni in genere, ma in particolare sulla polizza vita, ma anche, e questo mi piace, sono tenuto in questa conferenza a toccare il punto critico del lavoro. Qui vedo che ci sono già alcune discordanze, per quello che ha detto il professor Fontela da quello che dice il Signor Tabacchi. Vi dico subito, io sono un piccolo imprenditore, dipendente dalla società, dipendente di una grande società e opero come imprenditore. Pensate che tutta la nostra organizzazione opera con il concetto del piccolo imprenditore.
Quindi, non dico che abbiamo anticipato quello che ha scritto il professor Fontela, ma ci stiamo avvicinando, abbiamo già iniziato un’attività di questo tipo. Vuol dire che non siamo fuori del mondo, ma stiamo mettendoci nel futuro, confortando quello che ci ha detto poco tempo fa il dottor Fontela. Il campo delle assicurazioni, in Italia, è rimasto molto indietro rispetto all’industrializzazione, rispetto a tutti i fenomeni economi che abbiamo avuto in Italia; è rimasto molto indietro per diversi motivi. Io dico sempre che le banche, le compagnie di assicurazioni sono rimaste indietro, perché le banche hanno sempre atteso i risparmi del cittadino, il quale riteneva la banca il tempio del risparmio, per cui automaticamente il cittadino andava a servirsi in banca e quindi non hanno fatto niente di straordinario per poter accaparrarsi il mercato.
Le compagnie di assicurazioni, specialmente per quanto riguarda il ramo vita,– pensate che siamo rimasti nel mercato, ci siamo messi nel mercato a fare il ramo vita, quindi il ramo che maggiormente interessa la finanza, interessa il benessere della vita, perché il nostro slogan è “L’alleanza assicura e semplifica la vita ”, cioè il ramo vita dà sicurezza e dà sicurezza anche al risparmiatore (vediamo poi più avanti come si sta trasformando questo mondo economico finanziario, assicurativo)–, dicevo che sono state poco assistite, poco seguite e poco regolate. Voi pensate che nel mercato, noi abbiamo cominciato nel ’34, eravamo solo noi e l’INA che operavamo nel campo assicurativo, nel ramo vita, quindi avevamo spazio, senza concorrenza.
Ognuno poteva fare quello che voleva e quindi, ecco che siamo venuti avanti così, senza la concorrenza che è stimolante per fare meglio, per potere fare di più, con prodotti ancora embrionali nel campo della finanza e nel campo della sicurezza; rischio di premorienza eccetera eccetera. Oggi, invece, le compagnie si stanno svegliando, perché l’ha svegliata il mercato stesso, ma l’ha svegliata anche la concorrenza. Noi sappiamo che in America e in Inghilterra abbiamo compagnie di assicurazioni che la sanno lunga, si stanno mettendo in Italia; con l’apertura del mercato europeo, non abbiamo ancora, ma avremmo un’invasione, perché adesso noi abbiamo un grosso serbatoio.
Prima, una volta, facevamo anche di meno le assicurazioni, perché eravamo poveri, avevamo la mentalità diversa, poco portata verso la previdenza. È noto, perché avevamo lo stato assistenzialista, quindi noi ci basavamo soltanto sullo stato. Oggi, cominciamo a capire che lo stato non è più quello di una volta, che le nostre forme di previdenza istituzionalizzate vanno a scemare sempre di più. Basta vedere i buchi di questi ultimi tempi che abbiamo avuto anche nell’Inps, per cui ecco che la previdenza privata sta venendo molto, ma molto avanti. Ma vorrei darvi in breve alcuni dati per farvi capire, e, a conforto di quanto io sto dicendo, alcuni dati sul mercato europeo nazionale. Voi pensate che in Italia fino a qualche tempo fa, fino al ’90, avevamo il 25-26% delle persone assicurate, mentre oggi siamo passati al 35%. Ecco lo sviluppo che sta avendo la compagnia di assicurazioni.
In altre nazioni avevamo il 100%, l’80%, il 90%, il 70%, ma in nazioni confinanti con noi, Francia, Svizzera, Germania. L’importo che il cittadino italiano ha versato di media nel ramo vita è proprio questo: la Svizzera versa 4.606.000 lire pro-capite, dopo scendiamo (la Francia 2.448.000), arriviamo in Italia con 406.000 lire di media pro-capite. Il rapporto tra prodotto interno lordo è di molto differenziato, in quanto la Svizzera ha il 6,5% rispetto al prodotto interno lordo, mentre l’Italia ha l’1,3%. Questo perché?
Perché non è stato fatto, a mio parere, per questo grosso settore della finanza, – io parlo anche di finanza, perché pensate che, malgrado che siamo così indietro rispetto alle altre nazioni, in Italia nel ’97 abbiamo incassato circa 30.000 miliardi di premi vita, soltanto vita. Questi premi vengono riversati nella convivenza sociale alla fine; sollevano in parte anche il debito dello stato, perché, quando le società che operano nel ramo vita sono obbligate ad investire le riserve matematiche in titoli di stato, e quindi, quando lo stato ha debiti, tante volte si comprano miliardi di titoli di stato e si solleva un po’ le finanze dello stato.
Soprattutto le riserve matematiche vengono reinvestite in immobili, oltre che il titoli di stato, immobili vincolati dallo stato, a garanzia dei nostri assicurati. Quindi, cosa hanno fatto le compagnie di assicurazioni, si può dire in sordina, dal ’34 a venire a oggi? Hanno dato da lavorare a imprenditori, i quali hanno fatto lavorare i loro operai: gli idraulici, gli imbianchini, i muratori, eccetera, hanno costruito dei quartieri grandi e grossi, come a Padova. A Padova, soltanto la mia società ha costruito 1.200 appartamenti, quindi ha contribuito non solo a dar lavoro, ma a lenire il problema dell’affitto, il problema della casa per tutti, e via via. Ecco che questo grande flusso liquido si riversa poi sulla convivenza sociale.
Come ripeto, stiamo venendo molto avanti, perché abbiamo avuto uno stato meno assistenzialista, perché abbiamo avuto maggiore ricchezza. Anche il nostro investitore, parliamo in campo regionale veneto, è sempre stato risparmino, metteva i soldi prima sotto il cuscino, poi via via nelle poste, poi nelle banche; oggi va alla ricerca del prodotto migliore, di quello che gli rende di più, oltre che alla sicurezza che a ognuno di noi può dare. Ecco che noi, compagnie di assicurazioni, oggi ci stiamo buttando in pieno anche nel campo finanziario, oltre che quello assicurativo. Abbiamo assicurati che vanno in banca, o assicurandi, prendono centinaia di milioni per versarli nelle nostre casse. Perché? Perché, come diceva prima il professore, cerchiamo la garanzia, cerchiamo la sicurezza.
Diamo, fra l’altro, delle rendite superiori molte volte a quelle delle banche, quindi troviamo un pubblico molto, ma molto più disponibile di tempo indietro. Inoltre, oggi c’è una grossa occasione per le compagnie di assicurazione: ci sono i fondi della pensione integrativa che stanno venendo avanti a gonfie vele, anzi, quelli individuali sono già venuti avanti e di molto. Adesso devono venire avanti quelli aperti, quelli globali, quelli chiusi che lo stato, ancora oggi si legge su “Il Sole 24 ore”, trova difficoltà a varare. Però, ecco che le compagnie di assicurazione sono in agguato. La trasformazione del lavoro, la trasformazione del singolo operatore deve cambiare. È cambiato il mercato, stiamo cambiando anche noi, attraverso dei sistemi, delle metodologie di lavoro che una volta non esistevano.
Ecco che dobbiamo vedere il futuro. Io mi complimento con il professor Fontela per il libro che ha scritto, perché io, come mi è stato portato dal dottor Bellumat, ho detto: “Questo è un mattone, come tutti i mattoni dell’economia”. Invece, sia per l’intellettualità del professore, sia per la sua alta competenza, è vero che è piacevole da leggere, perfino! E poi è futuristico, ti fa vedere il futuro, molto, ma molto più chiaro di quanto noi potremmo anche presumere. Quasi, quasi, ci sembra un po’ surreale, però è fattibile. Perché? Io volevo dirvi che il piccolo imprenditore, un imprenditore, che il professore ha intravisto, per me è una formula non idealistica, ma che si può realizzare.
Voi pensate che noi operiamo in questo grande settore, in questo importante settore, che va venendo avanti a gonfie vele, però, e quindi parliamo un momentino della disoccupazione, non abbiamo personale da poter sviluppare le nostre attività. È assurdo pensare che noi italiani non sappiamo accaparrarci quello che ci offre il mercato, perché ci manca del personale qualificato. Leggerò qualche frase del professore, che rispondono ai nostri concetti e ai nostri principi. A parte che abbiamo poca disoccupazione, specialmente qui nella regione, ma la trasformazione del lavoro, – ecco questo che io vorrei dire anche al dottore che prima parlava del lavoro futuro, eccetera – i giovani, specialmente, devono pensare che certe professioni stanno scomparendo, o sono già scomparse, e devono avere un’evoluzione che si addica all’evoluzione che ha avuto il mercato.
Noi abbiamo delle tecnologie moderne, non so i servizi, che ci fanno lavorare di meno. Avete sentito! Fra un po’ non lavorerà più nessuno. Questo mi sembra un po’ una chimera, però lavoriamo di meno, questo è vero, però dobbiamo lavorare in senso continuativo e meglio. Vengo alla nostra struttura. Noi abbiamo – ho detto che sono un dipendente, e è vero. Sono un piccolo imprenditore in seno alla grande nostra azienda – ebbene, tutta la nostra struttura a cascata è così. Voi andate a vendere le polizze, voi andate a vendere i prodotti finanziari, assicurativi, andate a vendere la previdenza, quindi siete dei venditori. Bene, io dico che non siamo dei venditori e basta; noi abbiamo una struttura che è composta in questa maniera: ogni capo settore è un piccolo imprenditore, è un dipendente della società e mi segue il settore.
Dipendente significa entrare nello statuto del lavoratore con tutti i suoi regolamenti, con tutte le sue cose, le ferie, i weekend, le malattie, tutto quello che concerne un lavoratore; però ha una quintessenza sul lavoro che lui svolge, quindi già il capo settore che è un operatore di base della nostra organizzazione è un piccolo imprenditore. Sopra di lui ha altri superiori, che sono degli imprenditori più importanti che fanno operare i piccoli imprenditori, oltre che avere le garanzie che dà lo statuto dei lavoratori e che dà una grossa azienda come potrebbe essere la nostra. Quindi, io devo concludere perché il tempo è crudele, non ti permette, ma ci sarebbe molto da dire in questo campo. Volevo soltanto, se mi permette dottore, leggere due cosette che mi sono rimaste impresse del libro del professore.
“Un modello di crescita è un modello che esige appropriate risorse umane.”
Poi, non voglio andare avanti:
“Un nuovo modello di crescita che attribuisce particolare importanza alle attività di servizio, probabilmente necessita di nuove risorse umane, addirittura.”
Ecco che noi abbiamo bisogno di giovani per creare nuove risorse umane, perché è difficile cambiare la testa a gente della mia età. Poi abbiamo, ecco, il futuro dell’economia:
“Poi abbiamo i cambiamenti tecnologici che sopprimono il posto di lavoro di routine; fa appello anche ad alcune risorse umane con elevato livello di preparazione, specialmente di tipo universitario – le università non fanno niente o poco per campo del lavoro – e con processi di insegnamento permanente.”
Queste sono frasi interessantissime, importantissime, sono la base di quello che può essere l’economia futura. Io dico che è in concerto molto con quanto diciamo noi. Poi chiudo, dicendo che bisogna imparare una professione, non cercare il posto di lavoro. Se ci sono dei giovani, noi abbiamo bisogno di questi giovani; rivolgetevi pure a noi, anche, se avete bisogno di lavorare, però dovete venire a imparare una professione, bisogna imparare una professione, bisogna diventare dei piccoli imprenditori. E qui, dice appunto il professore:
“ Il lavoro produttivo sarà funzione della capacità creativa individuale, della capacità di autorealizzazione del singolo, non già dell’esistenza di un mercato del lavoro nel quale alcuni individui, con o senza titoli, vendono le proprie doti personali in cambio di un salario”.
La cosa più umiliante che io abbia trovato nella mia vita, 45 anni di contributi versati e quindi 45 anni che lavoro, però è la cosa più umiliante andare a vendere la mia personalità, la mia capacità, la mia anima a un posto di lavoro. Per me è umiliante. I giovani devono capire che dobbiamo nella nostra vita poter dare qualcosa di più, qualcosa di cui ci viene permesso. Naturalmente, dobbiamo continuare a formarci, come dice appunto il professore, perché il futuro non è triste, l’economia non è triste. Il futuro bisogna saperlo prendere. Vi auguro che questo libro, che lo leggerò molto meglio, cioè con più attenzione, sia interessante per voi, perché, ripeto, io che ero riluttante quando il dottor Bellumat è venuto a prospettarmi di intervenire, invece ho capito che è una cosa molto importante.
Ruggero Chinaglia Ringrazio Antonio Spagnol per questa brillante testimonianza. Effettivamente ha ragione quando nota che questo libro, pur trattando di economia e finanza, è un libro che si legge volentieri, un libro che fornisce molti dati, molte indicazioni; soprattutto il messaggio è interessante, è un libro di pensiero, un libro di valutazioni, libro quindi che consente di intravedere come la finanza sta nella vita di ciascuno, come l’economia sta nella vita di ciascuno, non come qualcosa che riguarda gli altri, che riguarda un mondo lontano da noi, ma come ciascuno ha a che vedere con questo imprenditore non aleatorio, non ideale, ma propriamente che sta per ciascuno nel dispositivo che occorre che s’instauri. È per questo che auspico che questo libro trovi lettori. Chi desiderasse, lo trova qui al tavolo in fondo alla sala.
Un altro elemento che Spagnol rilevava era l’esigenza di un’educazione, di un insegnamento, di una formazione all’impresa, e questo, ovviamente, è compito che certamente spetta alle istituzioni, alla scuola, all’università, ma anche a ciascuno che si trova nel settore dell’impresa, dell’industria, della finanza tenere conto dell’esigenza dell’informazione, quindi dell’istanza che la formazione e l’insegnamento rappresentano. Insomma, la formazione pone la questione di un’altra cultura che non sia rivolta a essere assistiti, ma alla cultura dell’impresa e quindi cultura del dispositivo. Ciascuno occorre che si trovi in un dispositivo. Questo non è automatico, non va da sé, comporta un’altra logica delle cose. Ora invito Emilio Fontela, tenendo conto dei vari apporti che ci sono stati, a un suo intervento conclusivo.
Emilio Fontela Sarò breve, perché siamo stati già abbastanza abbondanti in argomenti. Volevo soltanto venire su un punto, che però è di interesse in relazione con i due interventi e ha a che vedere proprio con quello che ha detto il dottor Tabacchi sul part-time e sulla soluzione dell’occupazione a tempo parziale. Effettivamente c’è il modello americano, evidentemente c’è anche il modello inglese, c’è pure il modello olandese. L’Olanda, effettivamente, è passata da un 13% di disoccupazione a un 6% di disoccupazione, ha anche risolto il problema della disoccupazione.
Nel caso olandese, la soluzione si è trovata via l’occupazione a tempo parziale, che, nel totale dell’occupazione, in Olanda rappresenta il 32% dell’occupazione. Il 32% degli occupati sono queste persone che liberamente scelgono il lavoro a tempo parziale. Non è un tempo parziale imposto dalla caduta della produzione, è un tempo parziale voluto dalla popolazione olandese.
Io quasi penso che il modello olandese è più in linea con quello che è in fondo il modello europeo; è probabilmente più vicino a quello che penso sono i challenge della società del futuro; perché in fondo, – permettetemi qualche minuto, per precisare due, tre cose che non ho fatto prima sulla disoccupazione – nel mondo, abbiamo nei libri di economia, noi economisti, abbiamo scritti su tre tipi di disoccupati.
Uno è il disoccupato classico. Il disoccupato classico è un signore che costa troppo per il mercato di lavoro. La versione classica della disoccupazione è semplicemente che, a livello in cui si incontrerebbero la domanda e l’offerta di lavoro, il salario sarebbe troppo basso, e allora la gente non lavora a quel salario là, e è questo che fa la disoccupazione. Questa è la versione classica del mercato del lavoro.
C’è pure il disoccupato Keynesiano. Il disoccupato keynesiano è un signore che non lavora, perché non c’è abbastanza domanda per i prodotti in cui lui potrebbe lavorare. Siccome non c’è abbastanza domanda, non c’è abbastanza produzione e dunque quello là è un disoccupato keynesiano.
Il terzo disoccupato è un disoccupato chiamato schumpeteriano: è un signore che non lavora, perché la tecnologia ha messo come totalmente obsoleto il lavoro che lui sa fare, e dunque fa delle cose che non servono più e che dunque diventa tecnologicamente obsoleto.
Allora ci sono disoccupati classici, troppo cari, disoccupati keynesiani, non c’è lavoro, e disoccupati schumpeteriani, non servono le loro tecnologie. Veramente, non serve a niente dire a un signore che è disoccupato: “Lei è keynesiano, lei è classico, lei è schumpeteriano”. Sono queste cose che ci inventiamo noi economisti. Però, evidentemente questa visione ha molto a che vedere con le soluzioni che uno apporta. Se ha una visione classica, dice che quello che bisogna fare è abbassare il prezzo del lavoro e, dunque, liberalizzare il mercato del lavoro, levare i limiti minimi al salario, creare tante possibilità di contratto a basso costo, in modo da creare il posto di lavoro.
Evidentemente, la visione classica si è imposta negli Stati Uniti dove effettivamente si riesce a trovare la piena occupazione a livelli di salari bassissimi, tanto più bassi che, anche con la piena occupazione, il 20% della popolazione americana sta al di sotto del livello di povertà, secondo i criteri di povertà del banco mondiale del fondo monetario internazionale, criteri che uno applica al Brasile e al Cile; applicati agli Stati Uniti, il 20% della popolazione è povera.
L’Europa ha molto più disoccupati, però ha un livello di povertà più basso. Dunque, effettivamente c’è un trade-off tra disoccupati e povertà. Uno può avere molti occupati poveri o può avere meno occupati e meno poveri. Questo è un po’ il problema dell’Europa. Le soluzioni vanno per la via della riduzione del tempo di lavoro (soluzione olandese), ma non attraverso le 35 ore, che sembra un anacronismo, che ancora una volta vorrà ricreare il modello industriale che sta sparendo. La soluzione olandese sembra proprio quella logica, che è quella di preparare il modello che viene, modello che viene in cui la gente semplicemente lavorerà di meno. Per volontà, non per forza legale. Per volontà, semplicemente. Perché per volontà?
Semplicemente perché avremo un’organizzazione diversa della vita. In questo momento, abbiamo questa organizzazione totalmente anacronica, dal mio punto di vista, in cui la gente passa dall’educazione al lavoro e dal lavoro al ritiro. Questo, nel libro, avete dei grafici molto divertenti. Questo è una soluzione anacronica, è la soluzione della società industriale. Evidentemente nella rivoluzione industriale, nel secolo scorso, quando il lavoro rappresentava il 66% della vita, come abbiamo visto, effettivamente c’era un pochettino di formazione, la scuola primaria, un pochetto così, poi uno si metteva a lavorare e, se ancora viveva, prendeva uno o due anni di riposo alla fine.
Nella situazione attuale diventa un modello anacronico, perché noi dobbiamo con 16% della nostra attività, concentrandola in un numero di anni ogni volta più piccoli –mettiamo uno che comincia a lavorare ai 30 anni e finisce ai 45–, tempo pochissimo, deve finanziare tutti i primi anni, se non suoi, quelli dei suoi figli, sono abbastanza cari, e deve finanziare tutti gli anni che gli restano. Evidentemente adesso molta più gente ha più tempo dopo in ritiro del lavoro che durante il periodo del lavoro. Fino a che uno muore è più lungo che il periodo del lavoro.
È assolutamente anacronico questo sistema di provare a concentrare tutto in quel modo. Verosimilmente, la soluzione del futuro quale sarà? Sarà a prospettiva, sarà a futuri… sarà quello che ci pare; però, evidentemente, a un certo momento, la società dovrà organizzarsi in modo che il passo tra educazione e lavoro sia un passo permanente. Che vuol dire un passo permanente? Vuol dire che uno lavora due anni, fa tre anni di studi, lavora ancora quattro, poi fa due, fa cinque, e lavora ancora ai 70 anni e agli 80 anni. Questo di fermarsi ai 60 sembra un’inutilità totale, e si svolge così la vita umana in un continuo va e vieni, tra lavoro e altre occupazioni interessanti. Questo presuppone evidentemente una ridefinizione del sistema di remunerazione, perché la società non può finanziare questo sistema, semplicemente, se tutto quello che uno guadagna si ottiene nel momento del lavoro.
E è per quello che bisogna ripensare a fondo la società, e è per quello che io penso che queste sono sfide serie; saranno prospettive, sì, ma se uno non guarda un pochettino verso il futuro, rischia di mettersi in modelli senza soluzione. Per esempio, per me, il modello della rottura educazione, lavoro, ritiro è un modello finito. Peccato, è interessante, è stato interessante, ha vissuto, ci ha servito molto, ci ha aiutato molto, adesso non ci aiuta più. Se non lo capiamo, continuiamo a discutere sulle 35 ore, o su queste cose qua che sono epifenomeni di una soluzione molto più grossa, per cui bisognerà ripensare l’impresa in un altro sistema in cui la relazione tra educazione, impresa, cultura, eccetera sono relazioni diverse. Sfortunatamente, l’altro modello è vissuto. Grazie.
Ruggero Chinaglia Bene. Con questo messaggio che ci introduce nel futuro, anzi ci indica come il futuro non è dinanzi a noi, ma è alle nostre spalle, noi siamo nel futuro avanzato e, quindi, già un’altra logica si è instaurata per noi, grazie a quanto ci dice Fontela, a quanto ci ha indicato Giuliano Tabacchi e Antonio Spagnol, questo è quindi un invito per ciascuno a considerare questi elementi non come futuribili, ma come elementi che stanno dinanzi a noi e che si dispongono per le cose di ciascun giorno e per ciascuno, in particolare per quell’impresa in cui sta la vita di ciascuno.
La vita non è un tempo da consumare, quindi, stando a ciò che ci dice questa sera Emilio Fontela, la vita non è un tempo da consumare in attesa della morte, la vita è quindi il dispositivo stesso, è l’impresa che si tratta di compiere, di portare a compimento, e quindi non c’è da attendere nulla, ma anzi, si tratta sempre più di avvalersi di arte, di cultura, di intelligenza artificiale, intesa non già come intelligenza del computer, ma l’intelligenza artificiale, cioè quel lavoro intellettuale, quello sforzo intellettuale per cui ciascuno diviene imprenditore e dunque vive nella qualità. Non in attesa della morte, ma vive nella qualità compiendo l’impresa propria. Questa è la qualità della vita, che non è la vita davanti al televisore con gli elettrodomestici, con tanti utensili a disposizione.
La qualità della vita è questa: è la vita che si compie nella soddisfazione, nella soddisfazione delle cose, quindi facendo, non aspettando che altri facciano o che altri ci dicano come fare, o che altri ci assistano. Questa è la questione culturale, logica dell’impresa attuale; è la questione della parola, è la questione del secondo rinascimento, è la questione del messaggio che ci viene questa sera anche da Emilio Fontela, che lo ringrazio ancora di essere venuto qui a Padova a trovarci, che invito sin d’ora ciascuna volta egli vorrà a venire, e sarà per noi un onore e un piacere. Ringrazio quindi anche Giuliano Tabacchi, Antonio Spagnol, ciascuno di voi e ci diamo appunto allora alla prossima volta leggendo il libro di Emilio Fontela. Grazie e arrivederci.