Ipertermia. Quel calore che cura i tumori
- Corti Luigi, Galeotti Fabrizio, Nicoletto Maria Ornella, Pontiggia Paolo, Rossi Carlo Riccardo
29 gennaio 1998 Dibattito sul tema: Quale cura per i tumori? Novità nella ricerca e nella clinica con Paolo Pontiggia, Ruggero Chinaglia, Luigi Corti, Fabrizio Galeotti, Maria Ornella Nicoletto, Carlo Riccardo Rossi, presso la sala della Gran Guardia, a Padova
Relatori
- PAOLO PONTIGGIA Ipertermia: quel calore che cura i tumori
- LUIGI CORTI Radioterapia e ipertermia
- CARLO RICCARDO ROSSI L’ipertermia nella chirurgia oncologica
- RUGGERO CHINAGLIA Quale cura per i tumori?
- MARIA ORNELLA NICOLETTO Ipertermia: alcune obiezioni
- FABRIZIO GALEOTTI Ipertermia e chirurgia intraperitoneale
PAOLO PONTIGGIA
Ipertermia. Quel calore che cura i tumori
Cercherò in poche parole di spiegare cos’è l’ipertermia, qual è l’obiettivo che ci si propone nel parlare di questo argomento. La vita di un medico può essere intesa in mille maniere. Dal mio punto di vista, e sicuramente dal punto di vista di George Mathé, che è un illustre oncologo col quale collaboro da trent’anni, la vita del medico, per noi, è sempre stata soprattutto un’avventura intellettuale.
Il ricercare strade nuove, innovazioni terapeutiche, diventa obbligatorio quando si ha a che fare con una popolazione la cui cura dà risultati estremamente deludenti. Avevamo cominciato negli anni ’60, Mathé un po’ prima, io un po’ dopo, con la cura dei tumori del sangue, delle leucemie e dei linfomi. A quel tempo tutti i malati, indistintamente, morivano. Senza la speranza di ottenere un risultato, senza l’attaccamento al proprio lavoro, francamente sarebbe stato impossibile, a quei tempi, continuare a curare malati che regolarmente morivano nel giro di sei mesi, di un anno, di un anno e mezzo.
A un certo punto sono state introdotte innovazioni, e l’innovazione principale è stata la chemioterapia, che con combinazioni particolari di farmaci ha consentito di ottenere dei risultati brillanti in alcuni casi di leucemie e di linfomi. A quel momento la scoperta era stata molto interessante, ha avuto un impatto notevole su tutta la letteratura scientifica da allora in poi ma, anche da parte nostra, è stato compiuto l’errore strategico di voler trasferire le acquisizioni ottenute in campo ematologico alla cura dei tumori solidi, quindi dei tumori del polmone, dello stomaco, della mammella, eccetera.
Bisogna ammettere, onestamente, che l’operazione non è stata felice, è stata un mezzo fallimento, perché i risultati non sono stati altrettanto brillanti e perché, a fianco delle devastazioni provocate da chemioterapia aggressiva, da radioterapia massimale, da chirurgia ultra demolitrice, noi abbiamo potuto raccogliere dei risultati estremamente scarsi, miseri, nella stragrande maggioranza dei tumori solidi. A questo punto, a alcuni di noi è sorto impellente il desiderio di trovare una strada innovativa che consentisse di ottenere dei risultati migliori, o magari, anche senza ottenere dei risultati migliori, di cercare di evitare quegli effetti dannosi delle terapie che erano davanti agli occhi di tutti.
È nato l’atteggiamento di Mathé nei confronti dell’immunoterapia, di Levin, che è stato il mio maestro americano, nei confronti dell’ipertermia, e il tentativo di combinare terapie biologiche a scarsa incidenza di effetti collaterali in maniera da ottenere dei risultati, se non ottimali, sicuramente accettabili. L’altro dato che bisogna prendere in considerazione è il fatto che noi, quando applichiamo una terapia come la chemioterapia o come la radioterapia a una persona giovane, abbiamo degli effetti collaterali di un certo tipo; man mano che aumentiamo l’età dei nostri pazienti, gli effetti collaterali aumentano d’importanza e di intensità e, soprattutto, diminuisce la capacità di recupero.
Se noi consideriamo che tutta la popolazione sta invecchiando, se noi consideriamo che c’è l’altro dato che i tumori aumentano d’incidenza con l’aumentare dell’età, vi è davanti a noi una larga fetta di popolazione e di malati tumorali, in età adulta, anziana o avanzata, che risentono pochi benefici dalle terapie usuali e che risentono molto degli effetti collaterali. A questo punto, l’intendimento di preservare nei limiti del possibile delle condizioni di vita accettabili, ci è parsa la strada da seguire.
E allora abbiamo cominciato a trattare i pazienti, attorno al 1980, con ipertermia, con immunoterapia, con terapia ormonale, diminuendo le dosi dei farmaci e delle radiazioni, cercando di convincere gli amici chirurghi a non essere troppo aggressivi o a non operare quando la radicalità non era possibile. E abbiamo sicuramente ottenuto dei risultati che ci consentono di dire che la qualità di vita del paziente migliora; in alcuni casi si sono ottenuti anche dei risultati sulla sopravvivenza.
Il dato crudo del malato che vive di più, del malato al quale si riesce a tenere sotto controllo il tumore, oppure ad eliminare il tumore, è diventato un dato interessante. Tutta questa esperienza è stata raccolta in questo volume: è l’esperienza di due medici che per trent’anni hanno collaborato con l’obiettivo di ottenere delle condizioni di vita del paziente neoplastico più normali possibili e, nei limiti del possibile, di ottenere anche un prolungamento di sopravvivenza che è stato documentato in un certo numero di casi.
Cos’è l’ipertermia? L’ipertermia è la terapia col calore. C’è stato un biochimico, Pavese, un italiano, che nel 1947 aveva dimostrato come le cellule tumorali coltivate in laboratorio sopravvivono meno delle cellule normali quando si aumenta la temperatura. Quindi, quando noi arriviamo dai normali 37°C a 42-43°C, abbiamo una moria di cellule tumorali, e questo è il primo dato. Il secondo dato è quello che farmaci e radiazioni, che sono le basi della terapia usuale dei tumori, la chemioterapia e la radioterapia, manifestano la loro efficacia mediante delle reazioni biochimiche che avvengono all’interno della cellula. Queste reazioni chimiche, come tutte le reazioni chimiche, sono influenzate dal calore.
Normalmente, quando noi portiamo una cellula da 37°C a 42°C facilitiamo l’azione di queste sostanze, o di questi agenti fisici come le radiazioni. Quindi abbiamo un primo effetto dell’ipertermia che è un effetto di distruzione diretta delle cellule tumorali; abbiamo un secondo effetto che è quello di facilitazione dei farmaci e delle radiazioni; abbiamo un terzo effetto che è quello di stimolare l’immunità del soggetto. Quando nei tempi andati, in epoca preantibiotica, il malato guariva di polmonite, guariva dopo una crisi febbrile.
Quando la crisi febbrile non avveniva, di solito il malato moriva, perché la crisi febbrile era indice di una reazione immunitaria del paziente alla malattia, in questo caso una malattia batterica. Nei tumori succede lo stesso. Ci sono dei tumori che hanno un andamento lento, lungo, cronico; ci sono tumori invece che uccidono il soggetto in pochi mesi, a seconda del terreno nel quale il tumore si trova a crescere. Se le difese del soggetto, le difese immunitarie del paziente sono forti, il tumore ha più difficoltà a disseminarsi, a creare condizioni letali.
La stimolazione immunitaria indotta dall’ipertermia simula artificialmente la stimolazione immunitaria che il Padre Eterno ci ha dato con la febbre. In pratica simuliamo con tecnologie moderne un meccanismo antico che è quello della attivazione delle cellule dell’organismo, deputate alla difesa dagli agenti esterni. Se noi mettiamo insieme questo panorama, vediamo che l’ipertermia può avere un ruolo non indifferente nella terapia dei tumori. Perché? Perché gli effetti collaterali sono scarsissimi. Io dico che sono zero. Non è vero che sono zero, però sono veramente vicini a zero se l’operatore è un operatore capace, naturalmente.
In questa situazione si sono ottenuti dei risultati documentati in molte malattie. Per esempio, nelle recidive del tumore della mammella, s’è visto che l’associazione ipertermia-radioterapia funziona meglio della sola radioterapia. Lo stesso può dirsi per il melanoma, lo stesso vale per l’osteosarcoma, lo stesso vale per i tumori della vescica, lo stesso vale per le disseminazioni peritoneali da tumore dello stomaco, da tumore dell’ovaia.
Ci sono molte condizioni nelle quali si è dimostrato, aldilà di ogni ragionevole dubbio, che l’ipertermia agisce in senso favorevole nell’evoluzione di una malattia tumorale. Recentemente, due, tre anni fa, dopo molte battaglie, l’ipertermia è entrata nel prontuario sanitario nazionale, quindi è terapia codificata nei canoni dello stato italiano e di tutti gli stati della comunità europea.
Tuttavia non è molto conosciuta né molto utilizzata per numerosi motivi: uno è sicuramente quello di una difficoltà di applicazione, cioè sono motivi organizzativi; l’altro motivo, purtroppo, ho l’impressione che sia un ostacolo psicologico dovuto alla mentalità dei medici, che è una mentalità farmaco-dipendente. Che sia farmaco dipendente per interessi specifici o per attitudine culturale non lo so, però sicuramente c’è un atteggiamento di farmaco dipendenza. Però, al pubblico, bisognava dire, e l’abbiamo detto, che esistono terapie biologiche, a incidenza minima di effetti collaterali, che possono consentire, non dico di curare il malato tumorale, bensì di aiutare a curare il malato tumorale. Questo è il messaggio.
È un messaggio anche ottimista, perché in alcuni casi ci sono delle remissioni che vanno aldilà di ogni logica possibile e che ci fanno pensare che questi casi particolari di lunghe sopravvivenze o di scomparsa di tumore, studiati a dovere, possono dare delle indicazioni per un allargamento della metodica a situazioni che attualmente sembrano senza nessun effetto, senza nessuna possibilità di cura.
Dal mio punto di vista, il fatto che numerosi colleghi a Padova si stiano occupando dell’argomento è un incoraggiamento, una conferma che la nostra intuizione era un’intuizione valida. Ci sono alcuni aspetti tecnici che vorrei puntualizzare però. Di base c’è il fatto che oggi possiamo tranquillamente dire che abbiamo una metodica ulteriore a disposizione del medico che vuol curare un paziente neoplastico, e che merita di essere sfruttata più di quanto non sia stata sfruttata finora, nel senso del volume che avevamo scritto.
Per quanto riguarda l’associazione chirurgia e ipertermia perfusionale, giustamente il dottor Rossi diceva che ci sono delle complicazioni possibili nell’ipertermia perfusionale, e noi avevamo usato l’ipertermia perfusionale a lungo. L’abbiamo usata addirittura per la terapia palliativa dell’AIDS, quando non c’erano i farmaci moderni e gli inibitori delle proteasi.
Ci sono effetti collaterali da perfusione nel caso di utilizzazione dell’ipertermia in circolazione extracorporea che non possono essere sottovalutati. Pensiamo di avere bypassato il problema, in quanto, anziché ottenere un aumento di temperatura a 42-43°C con una perfusione vascolare, noi otteniamo i 42-43°C con un riscaldamento fisico del corpo; per esempio, in soggetti giovani in buone condizioni, un irraggiamento con raggi infrarossi consente di ottenere i 42°C, senza problemi, su tutto il corpo, quindi arto compreso. Ci sono metodiche che consentono di ottenere risultati analoghi abbassando di molto gli effetti collaterali, e credo che queste metodiche non siano state valutate a sufficienza proprio perché vengono utilizzate da meno tempo e non c’è stata una casistica clinica come quella per la perfusione.
La perfusione è stata iniziata da Levin negli anni ’60, quindi ha 30 anni di esperienza alle spalle. Le terapie di radiazioni ne hanno molto meno e quindi saranno valutate in futuro, però, secondo me, c’è la possibilità di bypassare questi ostacoli che sono gli eventuali effetti collaterali di questo particolare tipo di ipertermia. Per quanto riguarda l’intervento del collega Corti, lui giustamente, da radioterapista, insiste sul problema della termometria. Io sono molto più tiepido sul problema della termometria, perché vedo di più l’ipertermia, comunque praticata, un artifizio per diminuire il dosaggio massimale di radiazioni ionizzanti o di chemioterapici. In pratica si è visto che, se noi utilizziamo il 100% di radiazioni, o utilizziamo il 70% di radiazioni più ipertermia, il risultato biologico viene a essere uguale; per cui, diminuendo la dose massima di radiazioni, si riescono ad evitare molti dei fenomeni collaterali legati all’uso delle radiazioni.
Sul quantum di calore che si va a dare a un tessuto, io dico che si può essere anche abbastanza larghi e non esser molto fiscali per quanto riguarda le temperature ottenute. In pratica si è visto che, se noi riscaldiamo un tessuto a 41,5°C per un’ora e mezza, l’effetto biologico è equivalente al riscaldamento a 43°C per 35 minuti. Per cui, allungando i tempi, visto che è metodica che non dà effetti collaterali, è possibile ovviare all’inconveniente di una termometria non particolarmente curata, che è un problema reale dell’ipertermia, che però non è un problema principale. Non vorrei che diventasse un ostacolo all’utilizzazione dell’ipertermia. Dal punto di vista scientifico noi abbiamo l’obbligo di andare a vedere la temperatura precisa; dal punto di vista clinico pratico, a mio avviso, molto meno.
Per quanto riguarda Galeotti, mi diceva che ha trattato dei casi molto avanzati, penso di capire. Per quanto riguarda la nostra esperienza, i risultati migliori sono quelli che abbiamo ottenuto trattando il preoperatorio. Quando noi abbiamo ottenuto una riduzione di massa con l’ipertermia, con la perfusione, con una metodica non immunodeprimente, il chirurgo ha avuto il lavoro più facile e il risultato finale è stato sicuramente maggiore; per cui esiste, sicuramente, a livello del peritoneo, come diceva Galeotti, il problema delle grosse masse – e sulle grosse masse l’ipertermia non può fare molto, agisce soprattutto sulle masse di dimensioni modeste, a livello peritoneale – per cui la perfusione è indicata nei casi meno avanzati, soprattutto. Poi, si possono ottenere dei risultati soddisfacenti anche in casi avanzati, però questi avvengono un po’ per caso.
È stata pubblicata l’anno scorso una casistica di un gruppo giapponese, in cui la sopravvivenza nel tumore allo stomaco avanzato, dopo chirurgia, è raddoppiata con l’utilizzazione dell’ipertermia, rispetto al gruppo controllo. Quindi c’è sicuramente un vantaggio e, per l’esperienza che abbiamo noi, i vantaggi sono soprattutto quando noi trattiamo i malati non in fase avanzata e, per quanto riguarda i malati chirurgici, in fase preoperatoria. Questo sicuramente è un’indicazione precisa per le neoplasie addominali.
Nel libro affermo che la chemioterapia dà un’immunodepressione misurabile a dieci anni di distanza. Purtroppo è vero, la chemioterapia e la radioterapia danno dei segni di immunodeficienza che sono documentabili in laboratorio anche dopo dieci anni. Questa è la ragione per cui in molti dei pazienti che sopravvivono dopo chemioterapia si sviluppa un secondo tumore. Per esempio, i malati di linfoma, guariti per il linfoma, in una percentuale abbastanza elevata di casi, a distanza di anni sviluppano un secondo tumore. Questo è dovuto proprio al fatto che la chemioterapia induce una immunodepressione.
La competizione non è tra chemioterapisti e non chemioterapisti. Io sono nato chemioterapista, facevo l’ematologo e ho ottenuto le prime remissioni complete nei linfomi e nelle leucemie nel 1970, sembravano dei miracoli. Poi, purtroppo, questi miracoli non si sono ripetuti quando abbiamo cercato di curare i tumori al polmone, per esempio. Sono nato chemioterapista, però la chemioterapia ha dei pregi, ha dei limiti e ha delle controindicazioni nette.
Se io vedo una persona di trent’anni con un tumore al testicolo, non mi sogno di indicargli l’ipertermia come primo approccio terapeutico: deve fare la chemioterapia. Se vedo una persona di settant’anni con delle metastasi da prostata, gli sconsiglio di fare la chemioterapia, perché la chemioterapia più che danno non gli può fare. Fa la sua ormonoterapia. Quando non risponde più all’ormonoterapia, fa l’immunoterapia e fa l’ipertermia, e cerca di tirare avanti la sua esistenza nella maniera migliore possibile.
Questa è la filosofia che ci ha guidato e ci guida, e credo che il futuro dell’oncologia sia il futuro di utilizzare sempre di più e nella maniera sempre più integrata le varie discipline insieme. Dobbiamo imparare che il radioterapista non deve fare il radioterapista, ma deve fare il radioterapista in collaborazione con l’oncologo o con il chirurgo, con il chemioterapista, con l’ipertermista, con chi può aiutare questo malato.
E si deve necessariamente andare verso un’integrazione tra le varie discipline, questo è il futuro necessario per quanto riguarda l’oncologia. Allo stato in cui siamo, l’immunoterapia è una storia che va avanti da molti anni e, sicuramente, è importante avere una buona reattività immunitaria nel malato. Una immunoterapia specifica dei tumori è problematica, perché i tumori sono molto diversi uno dall’altro. È molto più pensabile che ci sia una immunoterapia di tipo aspecifico, cioè una stimolazione immunitaria di base che rinforzi il maniera generica le difese organiche dell’organismo.
Questo è possibile ottenerlo, ci sono gli strumenti per ottenerlo e questa è una strada che è già aperta, insomma. Degli esempi ce ne sono molti; per esempio: il tumore del colon risponde meglio alla chemioterapia quando si associa l’Evanisolo, il tumore della vescica risponde alla terapia con BCG o con interferone. L’interferone è attivo in un particolare tipo di leucemia. L’interferone e l’interluchina sono attivi in alcuni casi di tumore renale. Ci sono molte indicazioni che l’immunoterapia nelle sue varie forme può essere attiva, però si tratta sempre di immunoterapia non specifica, di immunoterapia aspecifica.
Che l’immunità sia importante, è sicuro. Il malato tumorale che non ha una reattività immunitaria buona non ha la possibilità di rispondere a nessuna cura. Questa è l’esperienza nostra. Per quanto riguarda la presunta predominanza dei fattori genetici su quelli immunitari, nei pazienti trattati con chemioterapia, assolutamente non sono d’accordo. La riprova del fatto che l’immunità è il dato importante è che lo stesso fenomeno dell’incidenza di neoplasie a distanza si ha nei pazienti sottoposti a trapianto d’organo, nei quali, per fargli accettare il trapianto, viene fatta una terapia immunodeprimente e, quando sopravvivono, nel 15, nel 20, nel 25% dei casi sviluppano a distanza una malattia tumorale.
Il nesso è sicuramente tra immunodepressione e sviluppo della seconda malattia. Indipendentemente da questo, queste sono discussioni tecniche che possono continuare fino a domani, insomma. Il fatto è che probabilmente la strategia di aggressione alla malattia tumorale dev’essere rivista da parte dei medici, perché i fenomeni recenti ci dicono che alla fine di un atteggiamento dogmatico della medicina c’è la rivolta popolare, per cui la strategia dei tumori è una strategia che probabilmente dev’essere rivista.
Non son tanto d’accordo sulla statisticocrazia. Se noi abbiamo l’obiettivo di dire qual è l’indicazione terapeutica ottimale, è chiaro, non c’è ragione di dubitare che si devono fare delle statistiche su grandi numeri. Se noi siamo in una fase in cui non abbiamo delle idee chiare e i risultati non sono molto incoraggianti, credo che abbiamo l’obbligo, dico proprio l’obbligo, di considerare il caso singolo, cioè l’evoluzione anomala tipica di una malattia; consideriamo il malato che è guarito, bisogna andare a chiedersi perché quel malato è guarito, perché ha risposto bene alle terapie, cioè quel caso singolo, atipico, che lo statistico di solito elimina nella valutazione, invece quello va visto.
Non dimentichiamoci che nel passato, in un passato che era stato illustre, c’è stato un certo signor Golgi che s’è preso il premio Nobel, perché ha individuato la malaria in tutte le sue fasi e ha individuato anche la terapia studiando pochissimi casi. Il concetto moderno di una medicina che si affida a criteri matematici è valido, ma è valido soltanto quando noi abbiamo individuato quali sono i criteri per valutare una malattia. Quando noi non siamo in grado in pratica di statistiche per il tumore al polmone, faccio un esempio banale.
Di statistiche per le terapie del tumore al polmone, ne sono state fatte a centinaia. Il risultato è che oggi il malato di tumore al polmone muore esattamente come moriva 40 anni fa. Quindi, dobbiamo sforzarci di fare un atto di fantasia e di dire: quando il malato non è chirurgico, non è operabile radicalmente all’inizio, lo trattiamo in questa maniera, in quest’altra e in quest’altra. Dov’è la risposta che dà dei risultati biologicamente interessanti? E concentrare forse i nostri sforzi in quella direzione.
LUIGI CORTI
Radioterapia e ipertermia
Luigi Corti L’uso dell’ipertermia in ambito oncologico rientra nel contesto dell’ampliamento dell’uso delle radiazioni ionizzanti e non ionizzanti in oncologia. In sostanza, se noi vediamo lo spettro generale delle radiazioni, ci accorgiamo che le radiazioni ionizzanti, cioè le tradizionali radiazioni per l’uso in oncologia, hanno un piccolo sito nell’ambito più generale. Tutto il resto è radiazione definita non ionizzante.
Noi tutti sappiamo che è ampiamente utilizzata in medicina, vedi la fisiatria, vedi la diagnostica per immagine, e quindi anche in terapia oncologica. Si è costituito, nel nostro dipartimento, un centro, proprio per lo studio e l’uso delle radiazioni non ionizzanti in oncologia. Due afferenti di questo centro sono proprio il dottor Galeotti e il dottor Rossi, e direi che bisognerebbe citare anche gli altri venti reparti che, nelle varie specialità, si dedicano all’utilizzo di queste tecnologie.
Passiamo brevemente a elencarle. La tecnologia base di nostro impiego è la tecnologia laser, in tutti gli spettri, dal visibile al non visibile, e andiamo a ricavare lo spazio dedicato all’ipertermia radiante, la più tradizionale, quella dove si impiegano le microonde, le radiofrequenze, gli ultrasuoni, in casi particolari, e la luce infrarossa. Il nostro indirizzo, in questo ambito, non è solo confinato al trattamento, quindi alla distruzione del tumore, associato più o meno a tecniche di tipo tradizionale, ma anche alla cura delle complicanze. Infatti, c’è una piccola sezione dedicata all’impiego delle radiazioni laser che sfruttano piccole quantità di energia e quindi paragonabili ad un modesto incremento ipertermico, ma che energetizzano la cellula e producono un effetto bio-stimolante, per cui favoriamo la riparazione di tessuti che hanno avuto complicanze del tipo post-radiante o post-chemioterapico o post-chirurgico. Il nostro contesto applicativo riguarda le radiazioni. Le radiazioni sono “quanti” di energia, quindi cose certe e matematiche.
Quello che potremmo dire di più filosofico, è che queste radiazioni potevano essere utilizzate ed espresse in termini precisi, sistematici, per migliorare la qualità di vita del paziente oncologico che va curato. La cura non è sinonimo di guarigione. Può essere di estremo aiuto per la cura e, quindi, il passaggio di questa malattia. In realtà, noi diciamo che di diabete non si guarisce, ma che il diabete si cura; quindi così, con questa filosofia, noi dobbiamo avvicinarci anche all’ambito dei tumori. Il problema, visto che io sono legato alla fisica delle radiazioni, non è così facile, perché il sistema operativo, parliamo di ipertermia, è particolarmente complesso. Noi dobbiamo garantire un controllo di qualità nell’erogazione della energia e quindi produrre un effetto ipertermico per un certo numero di minuti, tradizionalmente trenta minuti, a una temperatura costante di 43°C. Effetto biologico è la produzione di alcune sostanze, tali che possano distruggere selettivamente la cellula neoplastica.
Quindi, primo, controllo di qualità nell’erogazione dell’energia e continuamente monitorare durante il trattamento la temperatura, non la temperatura teorica, ma all’interno del tumore. Il complesso, il sistema che noi abbiamo qui a Padova, ha varie possibilità di erogazione: quella esterna, quella endocavitale e quella interstiziale. Ora, per rilevare la temperatura, c’è bisogno che ci sia un termometro – termistore, termocoppia, fibre ottiche – in sostanza un vettore che rilevi la temperatura all’interno del tumore o nel tessuto sano e, quindi, nell’unità di tempo, ci dia un monitoraggio completo di quello che facciamo. Questo è, dicevamo, un controllo di qualità certo e sicuro. Noi sappiamo che in questo tempo produciamo un aumento di temperatura che arriva a 43°C, per esempio, e che abbiano una certezza di un effetto fisiologico.
Queste premesse così semplici, da dire e da comprendere, non sono sempre rispettate poi nella pratica di tutti i giorni, perché, come si diceva, c’è una biologia diversa tra un soggetto e l’altro, c’è anche una distribuzione della dose diversa, c’è un fattore vascolare diverso, c’è una biologia del tumore diversa, quindi non è così semplice applicare un controllo di qualità delle radiazioni in un quadro poi clinico, oncologico, che è più complesso. Direi che, dal punto di vista filosofico, il nostro accesso è quello di migliorare la qualità di vita e, con l’ipertermia, si ha il miglioramento della qualità di vita se si ha anche una riduzione della massa tumorale, quindi diminuisce il dolore da compressione, e si ha la possibilità che il paziente possa uscire e avere un rapporto di relazione.
Una delle ottimizzazioni dell’effetto oncologico dell’ipertermia è quello di associarla ad altri presidi; come diceva il professor Pontiggia, questi sono energizzati dall’aumento della temperatura. Altro punto importante è che la ipertermia ha un’azione diretta in quelle cellule che noi definiamo ipossiche, e cioè sono quelle stesse cellule che, a distanza di tempo, ti daranno la recidiva, ti daranno la metastasi a distanza; sono cellule che si chiamano in “quiescenza”, cioè con un ciclo cellulare fermo: l’esempio più classico è la spora. La spora, che poi manifesterà, per esempio, il Clostridium tetani, e quindi l’infezione tetanica, è una situazione latente presente nel terreno, che per anni può essere in questa situazione; appena si creano le condizioni ideali per la crescita, si sviluppa.
Potrebbe essere anche che l’aspetto soggettivo del paziente possa contribuire a questa evoluzione e quindi anche lo stato immunitario. Più è presente lo stato immunitario, più questa cellula quiescente è contenuta. Appena ci sono fattori di diversità, può esplicare la sua crescita e, quindi, metastasi e recidiva.
Concluderei brevemente questa mia breve relazione dicendo anche che la nostra casistica è abbastanza importante, perché, nell’arco di questi ultimi sette anni, solo con l’ipertermia, escludendo le altre tecniche interventistiche che, sempre con l’uso del calore, noi utilizziamo per via transcutanea, tipo il trattamento delle metastasi epatiche con le fibre ottiche laser o altre tecnologie invasive, considerando quindi solo l’ipertermia esterna, noi abbiamo una casistica di oltre 150 casi nelle patologie, principalmente nelle recidive a parete toracica del cancro alla mammella, nei sarcomi recidivi, nel melanoma localizzato sulla cute o in metastasi linfonodali, e nel linfonodi del colon.
CARLO RICCARDO ROSSI
L’ipertermia nella chirurgia oncologica
Carlo Riccardo Rossi Io sono un chirurgo di Padova che si occupa prevalentemente di oncologia, e, visto che mi occupo di ipertermia, penso di essere un innovatore. Quindi, tutto sommato, una persona che è aperta alla discussione, anche nell’ambito della sperimentazione. Io applico metodiche complesse per particolari tipi di tumore, che fortunatamente non sono molto frequenti; in particolare, sottogruppi di pazienti che possono risentire beneficamente di questi trattamenti, nell’ambito di questi tumori, non poi così frequenti.
Si tratta dei pazienti che hanno dei melanomi che abbiano dato delle metastasi agli arti, quindi che si siano diffusi nell’ambito degli arti, oppure dei sarcomi, sempre degli arti, che vengono trattati combinando la chirurgia con un lavaggio caldo, che si chiama perfusione, del circuito che si viene a formare fra l’arto stesso del paziente e una macchina cuore e polmone collegate con delle cannule che si mettono nei vasi.
Questo trattamento si chiama “perfusione ipertermico-antiblastica”. È un trattamento non nuovo nella sua applicazione, perché i primi casi sono stati trattati negli anni ’60, e si è via via affermato, forse senza mai decollare definitivamente come diffusione, perché è una metodica complessa, ed è una metodica che ha i suoi effetti collaterali. Non è una cosa semplice da applicare, non è una cosa assolutamente tranquilla per il paziente. Il paziente che viene da me, perché inviato da qualche medico, mi fa delle domande e io devo rispondere a queste domande, e su che cosa mi baso per rispondere a queste domande? Mi baso sulla statistica.
Questa è un po’ una risposta che do al dottor Chinaglia, che diceva: “Ma la statistica, forse, è qualche cosa che generalizza troppo, che spersonalizza, che va al di fuori della cura dell’individuo” L’individuo mi chiede delle informazioni, io devo dargli le informazioni. Le richieste di questi signori generalmente sono: “Applicando questo tipo di trattamento che lei mi propone, che probabilità ci sono che questa terapia riesca?” Come faccio a rispondergli, se prima non ho fatto degli studi clinici controllati che mi consentano di dire: “Questa è la probabilità che lei ha di avere una risposta da questa mia terapia”. E allora lui subito mi chiede: “Che rischio ho nel fare questo tipo di trattamento?” Come posso rispondergli se prima non ho l’esperienza, non solo mia, ma di altri cento che hanno fatto la stessa cosa che ho fatto io e che hanno visto qual è l’incidenza della tossicità degli effetti collaterali?
Io devo rispondere a questi signori sulla base di esperienze precedenti, studi clinici controllati, compiuti seriamente, quindi sperimentazione clinica che deve essere compiuta nella maniera più seria possibile. Cosa significa seria? Significa che solo un certo gruppo di pazienti deve essere stato trattato da più centri in un certo modo e, alla fine, posso trarre delle conclusioni dai risultati di più sperimentatori, e in questo modo posso avere dei dati oggettivi che io, medico, posso utilizzare ai fini di un trattamento professionale. Io posso dire a quel signore: “Vieni da me, ti tratto con queste garanzie, con queste possibilità di cura”, e gli do dei dati oggettivi.
Quindi, tutto sommato, gli aumento la consapevolezza di quello a cui va incontro, lo tranquillizzo e, se tutto va bene, gli miglioro la qualità di vita e, qualche volta, lo curo. Abbiamo puntualizzato un punto di vista, il punto di vista di chi ogni giorno si trova in prima linea a consigliare dei trattamenti; qualche volta li consiglia come trattamento professionale, cioè, si dice: “Questo trattamento lo puoi fare perché è un trattamento sicuro”. Altre volte si dice al paziente: “Io ti curo con poca garanzia, perché questo trattamento non è un trattamento che dà dei risultati sicuri, oggettivamente riscontrabili, ma ti tratto ai fini di avere da te dei risultati che un domani potranno essermi utili per altri”.
E questa è la mia esperienza professionale di ogni giorno, la filosofia della mia esperienza professionale di ogni giorno. Riprendo da quella che è stata un po’ la mia linea d’inizio. Non vorrei che si uscisse da questa aula, stasera, pensando che l’ipertermia è la terapia risolutiva del tumore. Si può applicare in una stragrande maggioranza dei pazienti, in modo professionale. Cioè: io, medico, ti do questo paziente, tu fai l’ipertermia e ti curo. Io ho la certezza di darti questi risultati, la certezza statistica di darti questi risultati? Questo non è vero.
Il professor Pontiggia dice che, in base alla sua esperienza, esiste una curabilità, ma che difficilmente può quantificarla in termini statistici. Quindi, al paziente deve fargli firmare un consenso informato e, se questo trattamento, come nel caso della perfusione di un arto, è un trattamento validato da altri, di cui si sa bene il risultato e qual è l’effetto collaterale, il professor Pontiggia è autorizzato a farlo in maniera libera, professionale. Se questo trattamento non è autorizzato, perché non è provato essere da più centri un trattamento realmente efficace nei confronti di quel determinato tipo di tumore, il professor Pontiggia può farlo, ma, se lo fa, sarebbe meglio lo facesse all’interno di un protocollo di ricerca che, almeno, nell’ipotesi di un successo o anche di un insuccesso, dia un contributo a quella che sarà la conoscenza futura, quindi è autorizzato a fare quel trattamento in termini scientificamente accettabili, se c’è un disegno dietro, se c’è una sperimentazione dietro.
Se qualcuno è interessato di sapere quali sono i risultati della perfusione ipertermico-antiblastica nei melanomi, io son qui a esporli. Sono dati certi, perché, come dicevamo prima, è un trattamento partito negli anni ’60, che è stato sperimentato in tanti altri centri, che ci dice che questo è il trattamento di scelta in un determinato tipo di tumore, in un sottogruppo di pazienti affetti da quel tumore. Ma per arrivare a questo ci sono voluti tanti anni di esperienza e, al giorno d’oggi, per quel tipo di tumore, questo è il trattamento da consigliare. Non esistono trattamenti migliori per quel tipo di tumore in quello stadio. C’è una remissione della malattia, completa, dell’ordine del 50% dei casi, quindi un paziente su due ha una remissione completa, e circa il 90% dei pazienti risponde a questo trattamento. Poi, dei pazienti che rispondono, circa la metà resta libera da malattia. A tre anni, l’altra metà di questi pazienti recidiva ancora, così, quando un certo tipo di trattamento è fallito, si passa a un altro tipo di trattamento.
Ed ecco che vien buono anche il discorso della radio-ipertermia, in questo caso, o della laserterapia. Per quanto riguarda i sarcomi delle parti molli, si tratta sempre di trattamenti regionali, cioè trattamenti che sono mirati a salvare gli arti di questi pazienti, che altrimenti dovrebbero essere amputati. Allora abbiamo visto che per il melanoma c’è questa possibilità; per i sarcomi delle parti molli, la certezza che questa possibilità sia vera è un po’ minore. Anche la sperimentazione clinica in questo campo è iniziata diversi anni fa, però le casistiche che hanno trattato gruppi sufficientemente omogenei…
Ecco il discorso di Chinaglia. Lui vi dice: “Ogni caso è un caso a sé”. Sì, è vero che ogni caso è un caso a sé, ma se io devo costruire un gruppo di pazienti sui quali puoi dire che il trattamento funziona o non funziona, dovrò proprio scegliere i pazienti che sono più omogenei, cioè che hanno quelle caratteristiche che gli consentono di entrare nel protocollo che io in questo momento sto sperimentando. Quindi andrò in cerca se il paziente corrisponde a quei criteri di eleggibilità che gli consentono di entrare in questo tipo di trattamento. Questa era una divagazione.
Ritornando al discorso dei sarcomi delle parti molli, è giustificato fare questo tipo di trattamento nei pazienti nei quali il chirurgo dice: “Questo paziente dovrebbe essere amputato, perché la situazione anatomica è quella che è: è troppo avanzata e quindi il paziente dovrebbe essere amputato”. In questo caso, circa nel 20-30% dei pazienti affetti da questo tumore, si fa l’intervento prima della chirurgia; si ottengono buoni risultati, la risposta è del 70%, quindi circa il 70% dei pazienti risponde bene. Nel 30% dei casi si ha la necrosi completa del tumore, utilizzando l’adriamicina e, più recentemente, associando a questa il TNF, che è una nuova molecola in produzione da una decina d’anni, ma che è entrata nella sperimentazione soltanto da qualche anno. Quindi, nel 30% dei casi già si ottiene la necrosi completa del tumore utilizzando questa associazione di ipertermia, e si consente in questo modo il salvataggio dell’arto nell’85% dei casi.
Questi sono dati certi, che provengono dalla mia esperienza, ma provengono anche da altri centri, che sono pubblicati in letteratura e che è facile riscontrare. Per quanto riguarda la tossicità, sì, è vero, c’è una tossicità, e il paziente deve essere informato che esiste questa tossicità. È una tossicità loco-regionale. Se diamo la chemioterapia sistemica, la tossicità è sistemica; se poi diamo anche l’ipertermia sistemica, la tossicità diventa maggiore a livello sistemico. Se diamo poi invece l’ipertermia soltanto a livello locale, sicuramente non raggiungeremo a livello locale quelle dosi di chemioterapico che posso avere quando tratto il paziente con la perfusione.
C’è una diatriba in corso fra chi vorrebbe dare la chemioterapia, come diceva il professor Pontiggia, per via generale e scaldare soltanto il tumore e chi invece la dà soltanto per via loco-regionale. Questa diatriba non è risolta, perché, per risolvere questo tipo di diatribe, soltanto la sperimentazione clinica può darci alla fine delle risultanze, dei risultati che sono capibili dai medici e comunicabili ai pazienti, perché quello che io voglio dirvi stasera è che il più indifeso, qui di fronte a questi dibattiti, è il paziente, è il pubblico.
Non siamo noi, perché noi capiamo queste robe qua, perché ci viviamo in mezzo, ma siete voi i più indifesi e quindi voi dovete avere quegli elementi di giudizio che vi consentono di dire, di fronte a chi vi propone le cure: “Attenzione! Che tipo di cura mi propone? È una cura professionale, cioè è una cura che è stata accettata e validata, o è una cura che entra nella sperimentazione clinica?” Se è una cura che entra nella sperimentazione clinica, avete il diritto di sapere il perché, il per come e a che fine. Questo è il mio messaggio.
RUGGERO CHINAGLIA
Quale cura per i tumori?
Ruggero Chinaglia Cosa intendere con il termine cura, come praticare la cura, che cos’è la cura? Nell’esperienza clinica psicanalitica la cura non è qualcosa che si subisce, da affrontare passivamente o che risenta della possibilità di uno schema, uguale per tutti, che consenta quindi un’applicazione omogenea e generalizzata, non è il rimedio che deve liberare da qualcosa. E’ un dispositivo da instaurare caso per caso. La cura non è uguale per tutti. Rispetto a che cosa tutti sarebbero uguali? Aristotele diceva: “Rispetto alla morte”.
Ma, la cura di cui si tratta non è la cura per la morte, è la cura per la vita; è la cura rispetto alla clinica della vita, non a una clinica della morte. In questo senso non può risentire, in primo luogo, della morte o del suo fantasma. La cura è anche itinerario verso la qualità, verso la salute. L’esperienza e la pratica della cifrematica si rivolgono alla qualità, e la salute è l’istanza di questa qualità. La salute, nella parola, non è il benessere, non è lo stare bene, è l’istanza della qualità, quell’istanza per cui ciascuno si rivolge, nel suo progetto, con il programma di vita, al compimento delle cose che urgono. In questa urgenza, in questo compimento, in questo programma di vita sta l’essenziale della cura.
Pongo l’accento su questa cosa, che mi sembra importante, proprio perché il discorso occidentale, con l’impostazione che ne deriva nelle discipline, nella vita di tutti i giorni, pone invece l’accento non già sulla vita, ma sulla morte. Privilegia la morte come sostanza proprio a partire da quel sillogismo aristotelico secondo cui tutti gli uomini sono mortali; quindi privilegia la morte, la paura della morte, il pericolo di morte, le varie rappresentazioni nel male, nel peccato, nelle malattie. Il discorso occidentale, rispetto alla morte, perfeziona un apparato di conoscenza, di presunta conoscenza sulla morte che è già la morte. Il presumere di conoscere la morte è già la morte, è già un modo di porre la morte dinanzi a sè come spauracchio, come specchio, come referente.
Non a caso, per quel che riguarda molte malattie e, non ultimo, il caso dei tumori, la cosa più frequente che accade di sentire dire, in occasione di una diagnosi, è quanto resta da vivere. Quanto resta? Quanto manca alla morte? Ma, così, è introdotta la morte nella cura, al posto della cura, in primo piano, sta la morte. È importante che, invece, questo non sia determinante rispetto alle possibilità della riuscita della cura, rispetto alla sua efficacia, che si tratta di valutare quale sia. La qualità della vita non dipende dalla durata della vita. L’idea di durata è già un’idea della morte; l’idea della durata privilegia in primo piano la fine. Chiedersi quanto dura qualcosa è già chiedersi quando finisce, quando finirà; è già un porre dinanzi a sé, come prioritaria, la fine, anziché lo svolgimento delle cose, anziché l’itinerario delle cose verso il loro compimento. Già questo è morte, già questo toglie la cura.
Elaborare la combinazione della vita con la morte è essenziale per la psicanalisi, ma ritengo sia essenziale anche per la medicina, perché si costituisca come medicina per la vita, più che medicina contro la morte. Essere contro la morte non equivale a favorire la vita, a far sì che effettivamente qualcosa si rivolga alla vita e alla qualità della vita. La questione della cura non è una questione di sostanza, non è la questione di trovare una sostanza che si contrapponga a un’altra sostanza a cui poter delegare la questione vita. La questione della cura è quella di un dispositivo da instaurare, grazie a cui ciascuno possa affrontare la difficoltà che gli sta dinanzi. Affrontarla porta già alla vittoria. Già affrontare la difficoltà è un modo della vittoria, è qualcosa che va in direzione della vita, va in direzione della qualità, perché la qualità delle cose non sta nella loro durata.
Quindi non si tratta di demonizzare il male o demonizzare la malattia, puntare alla salute come qualcosa che sia esente da ogni segno presunto del male, del negativo. Ciò che oggi è male, o può sembrare male, una circostanza che, oggi, per qualcuno, può costituirsi come male, se affrontata può portare a qualcosa che non è previsto e prevedibile e che non è più male. Non si può porre dinanzi a tutto la presunzione di conoscenza, perché questo toglie il cammino, toglie l’itinerario, toglie il corso delle cose; questo è già morte. Queste considerazioni sono anche un invito alla lettura del libro di Paolo Pontiggia Quel calore che cura i tumori, edito da Spirali, perché, pur con molte notazioni scientifiche, con molti dati che riguardano l’insorgenza dei tumori, le loro caratteristiche, i modi della cura, le svariate combinazioni in cui ciascuno può imbattersi nella pratica, nella clinica e nella ricerca intorno ai tumori, contiene anche degli squarci di speranza, degli squarci che indicano che la medicina non può ridursi a tecnologia.
La medicina, che è arte e scienza, occorre che mantenga questa sua prerogativa che la qualifica come medicina di vita, perché lì dove si riduce a tecnologia perde il suo messaggio di vita, perde la sua connotazione di clinica della vita e si riduce a qualcosa che forse perde di vista che ciascuno esiste nella sua specificità, nella sua particolarità, non in una totalità, non in una genericità. E questo vale nella parola, quindi vale per quanto attiene alla psicanalisi, ma anche per quanto attiene alla medicina, perché la vita non è qualcosa di zoologico, non riguarda l’animale in quanto tale, ma riguarda ciascuno con le sue caratteristiche, con i suoi progetti, con le sue speranze, con il suo programma di vita. Soprattutto questo è importante. Mi pare che anche nel contesto medico nessuno obbietta intorno al fatto che non si possa più parlare di una malattia tumorale, ma di tumori, cioè di ciascun tumore. Ciascun tumore è un caso a sè; ciascun tumore, anche per come è descritto nel libro, ha una tal possibilità di variare nel suo corso, nella sua insorgenza, durante la cura, che sfugge a un possibile inserimento drastico in un catalogo.
Questo, allora, suscita la domanda: come mai, nonostante questo, il riferimento più frequente, il dato più frequente che viene comunicato è quello della statistica, quando si tratta di qualcosa che è vario, multiforme, molteplice e che quindi va verso il caso particolare e non verso il caso generale? Anche questa è una questione che, quanto al modo della cura, pone determinate riflessioni, così come si tratta di valutare come intendere la guarigione. Perché qualcosa sia definito guarigione, occorre corrisponda con il debellare ciò che rappresenta il male, o non si tratta di puntare a qualcosa che garantisca la vita, che consenta la vita, che vada in direzione della qualità della vita, nonostante ciò che possa costituirsi come male? La cura procede non dall’alternativa fra il bene e il male, ma dalla tolleranza del bene-male, e da questo procede anche la salute, non come qualcosa che debba espellere ogni presunto segno del negativo, ma che possa anche combinarsi, senza quindi nessun cedimento a un purismo esasperato, che possa diventare poi anche accanimento. Forse, insomma, la questione della morte non intesa come male, non intesa come qualcosa che sia da sconfiggere, ma qualcosa nonostante cui c’è la vita, ed è a questo che ciascuno occorre si rivolga con i suoi pensieri, con i suoi progetti, con il suo programma.
Si pongono in luce soprattutto le difficoltà del medico dinanzi alla decisione da prendere, per il medico e anche per chi gli sta dinanzi. Questa decisione da prendere, indubbiamente, ha bisogno dell’orientamento, delle indicazioni che il medico può dare. Ma, mi chiedo e chiedo a ciascuno: può questa responsabilità, questa decisione da prendere venire delegata a un dato presunto obiettivo? Per quanto suffragato dalla ricerca, dai dati, dalle testimonianze che vengono dalle varie sperimentazioni, dai riscontri clinici delle varie sedi, imbattendosi tuttavia nella varietà, nella differenza, implica necessariamente che ciascun caso ha una decisione che si pone lì, che certamente può avvalersi dei riscontri che ci sono, delle esperienze in corso, forse non come primo presidio, non come primo suffragio. Il primo suffragio viene da ciò che c’è dinanzi, da una combinazione particolare di cui certamente la letteratura non può dare il più ampio riscontro totale, un obiettivo riscontro. Io credo che la difficoltà della medicina stia proprio in questo, ma non può venire tolta.
Io credo che la questione del medico nella sua pratica sta proprio in questo, che la difficoltà della decisione da prendere non può venir tolta, non può venir delegata a dei riscontri della letteratura, delle riviste, dei riscontri della statistica, che possono fornire, sì, uno sfondo a cui riferirsi, ma che non tolgono in prima istanza ciò che è una decisione che si pone lì da un dispositivo della cura che s’instaura nell’incontro, nel colloquio, nella visita, anche forse in termini non solamente individuali ma anche di equipe, che comunque pongono per ciascuno una questione di originarietà del caso.
Ciascun caso è originario nel senso che non origina nella letteratura. In un certo qual modo, è sorprendente che noi ci troviamo qui in un dibattito pubblico a parlare di tumori, rispetto a qualche tempo fa quando l’argomento veniva riservato agli specialisti. Dovrebbe essere il contrario, invece: dovrebbe sorprendere che non sia una pratica in uso quella di favorire lo scambio, le informazioni, gli apporti, le testimonianze che vengono dalla ricerca della pratica clinica, anche in un contesto non riservato agli specialisti.
MARIA ORNELLA NICOLETTO
Ipertermia: alcune obiezioni
Maria Ornella Nicoletto Per collegarmi agli interventi precedenti, vorrei dire che abbiamo inviato pazienti al dottor Rossi, al dottor Corti, al dottor Galeotti e abbiamo avuto queste esperienze di cui i colleghi prima hanno parlato. Sono casistiche un po’ comuni, per cui anche noi oncologi, quando decidiamo di provare cure nuove e aspetti nuovi, ci mettiamo d’accordo e proviamo a inserire, con il consenso informato di queste persone, questi casi. Io non ne sono stata molto entusiasta; però, vorrei un attimo entrare nel merito invece del testo, Quel calore che cura i tumori, scritto da Pontiggia e Mathé.
Vorrei rilevare alcuni contrasti presenti in questo testo, che è soprattutto diretto ad un pubblico non specializzato, ad esempio: “La chemioterapia può nuocere alle difese immunitarie e può lasciarle depresse anche per una decina d’anni” e poi, più avanti, si dice: “La chemioterapia adiuvante si è dimostrata essere efficace nella neoplasia mammaria in fase premenopausale, come adiuvante” e altre affermazioni: “Nell’osteosarcoma è importante anche la chemioterapia, nel cancro dell’ovaio è efficace, nel tumore del testicolo è efficace”. Per queste contraddizioni penso che sia facile che in questa cultura, che è una cultura di morte, di paura del male, eccetera, queste possibili sofferenze che arreca la chemioterapia possono essere peggiorate da quello che è scritto nel testo.
Questa è una specie di critica che vorrei fare. Poi, un altro aspetto: dice il professor Pontiggia che il second look di verifica si fa nella neoplasia epiteliale ovarica; una paziente affetta da neoplasia ovarica viene operata, fa della chemioterapia e poi, siccome clinicamente, magari con metodi disorientativi, tipo l’ecografia o la TAC, non si vede più malattia, le si propone ancora il second look di verifica chirurgica, cioè una ripetizione dell’atto chirurgico atto a esplorare che non ci siano ancora residui di malattia per effettuarne, in tal caso, la loro resezione. Noi, a questo proposito, come gruppo nord-est insieme ad Aviano e ai colleghi di Belluno, di Mestre, di Bassano, abbiamo fatto un’esperienza dove abbiamo chiesto a 102 donne, terminata la chemioterapia di prima linea, che c’era sì da fare il second look, però, alcune di loro, se accettavano di entrare in questa ricerca, potevano anche non farlo e stare solo a vedere come andava; quindi, un gruppo faceva la TAC e la laparoscopia, l’altro gruppo faceva TAC, laparoscopia ed essendo negative faceva un intervento chirurgico.
Di questi 50 interventi chirurgici abbiamo avuto praticamente 10 casi positivi, cioè, vuol dire che la TAC e la laparoscopia rivelavano la positività. Presumiamo che anche l’altro gruppo che non è stato operato avesse pressappoco la stessa incidenza di positività microscopica; però, a distanza di cinque anni, c’era una netta migliore sopravvivenza nel gruppo che non ha fatto il secondo intervento chirurgico. E, questo, non sappiamo perché. Ma certo che, pur avendo minori conoscenze nei dettagli, a quel punto, giustamente, come ha detto più avanti nel suo libro, la chemioterapia, qui sono pienamente d’accordo con Lei, in questi ultimi trent’anni non ha fatto più tanti altri grossi passi, salvo all’inizio il cloramin, farmaco estremamente importante, scoperto nel ’49, molto utilizzato nella terapia fondamentale, quella terapia dei linfomi di Hodgkin, come dicevamo prima, essere molto efficacie in questa patologia; poi platino, l’adremicina molto importante nella cura dei tumori al seno. Il platino, successivamente negli anni ’80, si è rilevato fondamentale nella cura del cancro ovarico.
Diciamo che effettivamente adesso è una fase di stallo. Però, occorre dire, che effettivamente era importante vedere quanto era importante accanirsi, controllare, vedere, perché credo che a questo punto i nostri pazienti, come diceva prima Rossi, chiedono informazioni, quanto e, effettivamente, certe volte sono loro che insistono, perché vogliono più cure: “Ma è proprio sicuro? Non devo più fare niente. Ma se vedo che anche la mia amica lo fa, ma se vedo che anche questo. Questo è andato dall’altra parte”. Esiste molto spesso questa ansia, per cui dal punto di vista nostro è molto importante l’informazione. L’informazione che certe volte non riusciamo neanche noi bene a capire fino a che punto il paziente. Il paziente, molto spesso, viene accompagnato, capisce quello che gli diciamo (30%). È dall’accompagnatore che deve lui recepire il residuo 70% e portarlo avanti nei tempi successivi all’incontro clinico.
Molto spesso, noi abbiamo l’imbarazzo, la sensazione di non essere riusciti a comunicare bene con il paziente. C’è una serie di informazioni non tanto precise. Probabilmente, fa parte di questa nostra cultura che stiamo cercando anche noi di capire, anche, alla luce degli ultimi eventi, che cosa dobbiamo capire ancora di più per comunicare meglio noi con loro. Ovviamente, io capisco che scrivere un libro, così, rivolto a un pubblico vario, non ha un carattere scientifico, per cui il mio appunto è semplicemente, per esempio, il ruolo del second look chirurgico nel cancro ovarico non si fa più. Ma non è una cosa… siamo partiti anche noi, abbiamo cooperato anche noi come gruppo, siamo riusciti a pubblicarlo sul Journal of clinical oncology, ci è piaciuto e ci fa piacere sempre citarli. Però diciamo che soprattutto è importante dire che non è certe volte sempre l’aggressività che dà dei buoni risultati. Non è importante.
Come si diceva prima, è molto importante anche un certo aspetto di collaborazione, di tranquillità, di credere nella vita. Per adesso, anch’io sospenderei. M.O.N. Vorrei proprio rispondere al professor Pontiggia, per cui il paziente trattato con chemio, radioterapia può sviluppare un secondo tumore. Mi permetterei di dire che più che un fattore, sì, può darsi, questo non è ancora chiaramente dimostrato, però è molto importante il fattore genetico. in questi giorni, sta per uscire in letteratura un lavoro in cui l’acromegalico, – sono quelle persone che hanno il mento molto pronunciato, in cui a un certo punto crescono molto le mani e i piedi, perché soffrono di un disturbo all’ipofisi – sviluppa molto più spesso tumori, due, tre, e questo fa tutto pensare a un fattore genetico.
Non dimentichiamo, per esempio, la scoperta eseguita nell’ottobre dell’anno scorso in cui c’è un gene che può provocare il cancro al seno, il cancro dell’ovaio. Per cui si assistono a famiglie, parentele, e per cui si sta sempre più nell’ambito anche delle loro analisi familiari al fine di scoprire queste correlazioni. Quindi, in collaborazione col nostro istituto di oncologia sperimentale, vengono segnalati i casi, si eseguono dei prelievi di sangue e si studia il DNA del linfociti di questi campioni ematici. Credo, si spera, e vedo che già qualcuno negli Stati Uniti sta proponendo su questa base la terapia genica, cioè, una volta individuato, e vi assicuro che è un lavoro grandissimo, occorrono tre biologi dietro un campione di sangue per un mese, un lavoro molto lungo, almeno con le metodiche e con quello che la scienza fin’ora e riuscita a individuare, quindi i pazienti vengono selezionati molto accuratamente. Una volta individuato questo gene aberrante, si vorrebbe provare a correggerlo con la terapia genica.
E quindi stanno già partendo negli Stati Uniti le prime sperimentazioni. Come si diceva prima, la terapia genica sarebbe per esempio un’altra soluzione, a malattia instaurata a cancro, che potrebbe rappresentare. Dai primi dati, si è visto che non è tossica; dà un modico movimento febbrile, però non è tossica e sembra allungare di molto la vita, stabilizzando soltanto un tumore che in genere i casi primi che si stanno trattando ora sono molto avanzati.
Sì, penso anch’io che la direzione della ricerca sarà in questo senso. La genetica e l’immunoterapia vecchia, nuova, come si diceva, avrà i loro sbocchi. Cure poco tossiche: abbiamo provato altre sperimentazioni sovvenzionate che saranno contribuite con fondi anche della Regione Veneto a trattare pazienti in prima linea, cioè vuol dire appena riscontrati, affetti da neoplasia, per esempio in questo caso neoplasie ginecologiche, con chemioterapie poco aggressive, per vedere se togliendo, dando meno tossicità c’era uguale attività, se non anche più attività terapeutica. Lo studio è stato concluso dopo 26 casi reclutati, perché, sì, c’era molta meno tossicità, ma meno attività terapeutica. Questo, invece, è importante per noi offrire il più possibile, come è richiestoci in genere dai nostri pazienti.
FABRIZIO GALEOTTI
Ipertermia e chirurgia intraperitoneale
Fabrizio Galeotti È certamente vero quello che il professor Pontiggia diceva prima per quanto riguarda i numerosi insuccessi registrati nella terapia dei tumori solidi; però vorrei anche portare una nota lieta: la chirurgia è in grado anche di guarire molti di questi pazienti. Il problema è la diagnosi precoce della malattia. Vorrei che si sottolineasse l’importanza della diagnosi precoce della malattia tumorale, quelli che sono chiamati gli screening, perché oggigiorno, se un tumore del colon è riconosciuto in una sua fase iniziale e viene operato, la sopravvivenza a cinque anni è di oltre il 90% di questi malati.
Il che vuol dire che a distanza di cinque anni dalla scoperta, dall’inizio della malattia, possiamo considerare il malato guarito. Il chirurgo, però, molto spesso si trova di fronte a delle situazioni avanzate; molto spesso queste sono note già dagli esami preoperatori. Altre volte, capita sovente, gli esami preoperatori sottostimano ampiamente quella che è la situazione reale e quindi, una volta aperto l’addome del paziente, si riscontrano situazioni di tumore molto avanzato.
In questi casi, è vero, la chirurgia non è radicale, però esiste anche l’importanza di ridurre la massa tumorale, perché una riduzione della massa tumorale facilita gli eventuali trattamenti ulteriori. È molto più facile per il chemioterapista, il radioterapista o anche l’immunologo agire e ottenere dei risultati su pochi grammi di tessuto neoplastico, piuttosto che su un chilo di massa neoplastica. Una situazione di questo tipo, il chirurgo addominale – io, prevalentemente, sono chirurgo addominale – la può riscontrare allorché il tumore, gastrico o colico, abbia superato la parete dell’intestino e abbia dato una disseminazione nella cavità peritoneale. Questo è un grosso problema.
È un problema, perché, nonostante gli sforzi del chirurgo di ridurre la massa neoplastica, si assiste molto spesso ad una ripresa della malattia con delle sopravvivenze che sono molto limitate. Posti di fronte a questo problema, ci si è un po’ chiesti se si poteva fare di più per questi malati, e la risposta è venuta in gran parte anche dalla ipertermia e dalla chemioterapia che è stata applicata nella cavità peritoneale, direttamente a contatto, quindi, con la sede di disseminazione del tumore. Quando, quattro o cinque anni fa, ho cominciato a interessarmi di questo problema, avendo riscontrato in letteratura gli studi che erano stati fatti soprattutto in Giappone, mi sono chiesto anche dove venisse fatto in Italia e dove ci si potesse procurare un’apparecchiatura per fare questo tipo di trattamento, e sono andato proprio a Pavia; è stato in quell’occasione che ho conosciuto il professor Pontiggia. Infatti abbiamo lavorato per molto tempo anche con lo stesso tipo di macchina.
I problemi nell’applicazione tecnica di questa metodica sono molti e ci è voluta un po’ di esperienza, di affinamento della tecnica per poter ottenere dei risultati ottimali. Le difficoltà maggiori sono rappresentate dalla difficoltà di mantenere in tutte le parti della cavità peritoneale una temperatura utile. Avete sentito che le cellule tumorali muoiono se le temperature sono dai 42 ai 44°C. Il cavo peritoneale è un cavo estremamente segmentato, nel quale la circolazione del liquido può essere resa difficoltosa anche dalla presenza di aderenze per precedenti interventi o altro, e la difficoltà sta proprio nel poter ottenere una distribuzione omogenea e il mantenimento di questa temperatura. Così, da una fase iniziale in cui questo tipo di trattamento lo abbiamo praticato ad addome chiuso, dopo aver operato il paziente, avergli ridotto la massa tumorale e aver fatto una bonifica del cavo peritoneale, siamo passati ad operare questo tipo di intervento nel corso stesso dell’intervento chirurgico, cioè ad addome aperto.
Questo ci ha consentito di poter rendere omogenee le temperature, perché per periodi che vanno da 60 a 90 minuti viene fatto circolare questo liquido nella cavità addominale e l’operatore rimescola le anse intestinali in maniera da poter rendere le temperature costanti e omogenee in tutti i settori dell’addome. L’esperienza, che è di una quarantina di casi trattati con questa metodica, è stata in parte perdente, ma in parte ci ha dato anche delle soddisfazioni, soprattutto in quei casi nei quali siamo riusciti a ottenere, anche chirurgicamente, una riduzione quanto mai completa della malattia neoplastica, cioè quando la malattia neoplastica è stata ridotta a pochi gruppi di cellule, a piccoli residui cellulari. In questi casi, di fronte a una sopravvivenza abituale a nove mesi di questi malati, siamo arrivati a sopravvivenze, e stiamo seguendo ancora questi pazienti, di oltre due anni.
Quindi riteniamo che la chemioterapia e la chemio-ipertermia intraperitoneale ci abbia dato dei vantaggi nel trattamento di queste particolari situazioni. Il calore aumenta la penetrazione dei farmaci all’interno delle cellule; danneggia, oltre al chemioterapico, esso stesso le cellule, quindi è un’arma in più nella terapia del tumore. Non è forse l’arma risolutiva, ma certamente riesce a farci aumentare le percentuali di risposte. Volevo ritornare un momentino sul discorso della decisione terapeutica e del ruolo del medico. Certamente esistono le statistiche, ma il rapporto nostro quotidiano con i malati è quello di persona a persona. È il medico, purtroppo, devo dire, che deve decidere per il paziente, e deve decidere pensando di fare la cosa migliore per lui. Non tollero quei medici che dicono al paziente: “Se vuole, la operiamo”. La decisione deve essere del medico.
Non si può demandare nè al paziente, nè, tanto meno, ai parenti una decisione. Noi dobbiamo proporre quello che riteniamo giusto, se è il caso di fare un intervento, che tipo di intervento fare o che tipo di terapia fare, ma la proposta deve partire da noi e deve essere quello che noi riteniamo il meglio per il paziente. Poi volevo dire che sono, come chirurgo, entusiasta che ci siamo nuove metodiche, in particolare l’immunoterapia: è una cosa abbastanza nuova; è vecchia, però è solo da qualche anno che cominciano a comparire studi sempre più frequenti sull’argomento. Probabilmente siamo ancora lontani dal raggiungimento dell’obiettivo.
Chissà, un giorno forse riusciremo a vaccinarci contro il cancro del colon o contro le leucemie, come ci siamo vaccinati da piccoli contro il vaiolo. Questo sarebbe il massimo. Siamo ancora molto lontani da questo obiettivo. Però, certamente, il rapporto tra il malato e il tumore è un rapporto estremamente complesso, del quale ancora sappiamo pochissimo. Lo stesso intervento chirurgico, per esempio, che noi vediamo come un fatto curativo e benefico, comporta nel decorso post-operatorio una riduzione delle difese immunitarie, legate all’anestesia, al trauma operatorio, alle trasfusioni; quindi, le conoscenze immunologiche e i trattamenti immunologici, anche in queste fasi, cioè per aiutare il paziente a superare queste fasi di abbassamento delle difese, penso che in un futuro potranno darci dei concreti risultati, o perlomeno sono delle vie sicuramente da esplorare nell’ambito di studi clinici che siano seri, che possano alla fine darci dei risultati concreti.