La cifrematica scienza della vita
- Lavermicocca Domenico, Viero Maria Antonietta
27 marzo 2009 Conferenza di Ruggero Chinaglia e Maria Antonietta Viero dal titolo La cifrematica scienza della vita in presentazione della collana “La cifrematica”, Spirali. Introduzione di Domenico Lavermicocca, Matera – Palazzo dell’Annunziata – Piazza Vittorio Veneto
Patrocini: Regione Basilicata, Provincia di Matera, Comune di Matera
RUGGERO CHINAGLIA E MARIA ANTONIETTA VIERO
La cifrematica scienza della vita
Domenico Lavermicocca Buona sera. Ringrazio Ruggero Chinaglia e Maria Antonietta Viero per aver accolto l’invito dell’Associazione di Cifrematica a intervenire qui a Matera.
Con questo incontro prosegue il programma culturale dell’Associazione inaugurato il 6 giugno 2003 in occasione del trentennale della fondazione del movimento culturale che ha sede nella splendida Villa San Carlo Borromeo a Senago e che annovera tra i suoi prodotti la Casa editrice Spirali, il Museo del secondo rinascimento, l’Università internazionale del secondo rinascimento.
Prosegue l’itinerario intellettuale con un progetto ed un programma rivolto a provocare un dibattito in termini non scontati, che non ossequia il senso comune ma che introduce un ragionamento, un altra logica per l’intendimento di quanto concerne la vita di ciascuno.
Lungo questo itinerario sono intervenuti qui a Matera scrittori e imprenditori, architetti e ingegneri, studiosi e ricercatori, poeti e giuristi: ciascuno ci ha arricchito di una testimonianza di vita, secondo lo specifico, in una integrazione di arte e di poesia, di invenzione e di scrittura.
Ma la conferenza di questa sera è particolarmente importante, proprio in un momento in cui la cosiddetta “crisi” viene rappresentata con ogni forma di disperazione e si odono i presagi di un futuro sempre peggiore, di cose che finiranno da un giorno all’altro.
È questo il momento d’introdurre un’altra lettura delle cose che punti alla qualità e che consenta di dissipare queste fantasmatiche traendo forza proprio dal disagio che concerne ciascuno. Occorre avviare nuove iniziative, ricerche, innovazioni, imprese, perché la crisi è del sistema imperniato sul luogo comune del guadagno facile, senza sforzo, lavorando il meno possibile per ottenere il massimo guadagno. Occorre cogliere questa opportunità per percorrere nuove strade, modificare le proprie abitudini per non dare più nulla per scontato.
Proprio lungo una ricerca nuova, audace e per nulla garantita dagli apparati, dai partiti o dalle chiese che nel 1988, durante un equipe, viene coniato il termine cifrematica. La cifra della parola diviene la scienza della parola nella sua qualità.
La cifrematica non è un altro nome della psicanalisi. È un’altra cosa, è un percorso culturale ed un cammino artistico per qualificare ciascun aspetto e ciascun istante della nostra vita, che integra l’arte, la cultura, la filosofia, la linguistica, la logica matematica, ed altro ancora.
Non è un sapere da costituirsi perché su di esso possa essere esercitata la padronanza sulla materia, ma è una pratica di vita secondo l’altra logica, la logica dell’inconscio, diversa dalla logica dello psicofarmaco, della sostanza, del male, possibilmente dell’altro.
Non è un sapere appannaggio di pochi eletti che in modo pedagogico ci dicono come si dovrebbe vivere, perché dalla stessa esperienza di vita trae gli elementi della propria formulazione, secondo il gerundio, quindi vivendo, scrivendo, facendo. Così si rivolge agli imprenditori ed alle imprenditrici, ai giovani, alle donne, ai ricercatori, agli artisti, a ciascuno che abbia una domanda e che è disposto a cimentarsi con la difficoltà per giungere alla semplicità del vivere secondo l’occorrenza.
La cifrematica pone in modo radicale una questione di verità, la questione di come ciascuno intende vivere e qualificare la propria vita.
Indica che il disagio non è qualcosa da togliere, da comprimere, da combattere, ma una chance assoluta di vita. Qualcosa che sta ad indicare che c’è un’esigenza di qualità che va ascoltata, un appello urgente ad una vita originaria che non rinunci al sogno, al progetto ed al programma di vita.
Ci fa intendere che il rischio è il rischio di vita e non pericolo di morte, e ciascuna esperienza va affrontata ed attraversata con fede assoluta nella riuscita.
Non importa ciò che manca. Importa ciò di cui abbiamo bisogno. E abbiamo bisogno di fare, di soddisfazione, di verità e di riso. Bisogno dell’arte e della cultura, di quel superfluo che è essenziale, come l’intelligenza, l’invenzione.
In questa accezione altra, secondo la parola originaria, vengono indagate questioni essenziali per ciascuno come la salute, la qualità della vita, la formazione, la direzione intellettuale, la questione donna, l’impresa, l’arte, la cultura.
Di questo e di altro ancora staserà ci parleranno due protagonisti assoluti del movimento cifrematico, che hanno attraversato questa teoria in un estremismo ed un rigore intellettuale assoluto, lungo un itinerario che dice della loro formazione.
Ruggero Chinaglia è laureato in medicina, psicanalista, presidente dell’Associazione cifrematica di Padova.
Sin dalla metà degli anni ’70, da quando ha intrapreso l’itinerario e la formazione psicanalitici, è risultata costitutiva l’esigenza di dare testimonianza delle acquisizioni che in esso avvenivano.
Il dott. Chinaglia considera essenziale integrare gli aspetti analitici e clinici dell’esperienza della parola originaria e della ricerca intorno alla scienza della parola con quanto di altro accadeva nel pianeta quanto all’arte, alla cultura, alla scienza.
È protagonista sin dalla fondazione del movimento cifrematico, con l’organizzazione e la partecipazione a eventi anche internazionali, con numerosi scritti pubblicati sulle riviste “Spirali. Giornale internazionale di cultura”, “La cifra”, “Il secondo rinascimento”, “La Cifrematica” che oggi presentiamo.
Presiede l’Associazione di cifrematica di Padova e prosegue ciascun giorno con la promozione culturale.
La dott.ssa Maria Antonietta Viero, nata a Breganze (Vicenza), vive e lavora a Padova.
Dottore in filosofia, è stata campionessa d’Italia di pallacanestro e mannequin di importanti stilisti italiani. Svolge la sua attività nel settore della moda, con una impresa che ha sede a Padova ed opera nel Triveneto.
Ha in corso da anni l’itinerario cifrematico e i suoi racconti sono stati pubblicati nelle riviste “La cifra” e “Il secondo rinascimento”. È autrice del libro dal titolo La ballata del moro Canossa (Spirali 2000), dove narra della vita e dei suoi valori presso il paese natio, Breganze. È un viaggio nella tradizione familiare, con una scrittura a tratti aspra, a tratti solenne ma sempre forte e tranquilla, scrittura dell’esperienza analitica.
Ruggero Chinaglia e Maria Antonietta Viero testimoniano che non c’è ambito della vita che possa essere escluso da un approccio intellettuale, integrando i vari aspetti dell’esperienza. Ed è così che gli statuti di psicanalista, di imprenditore, di scrittore, di artista, fanno parte del loro cimentarsi con ciascun aspetto della vita, in una qualità assoluta.
L’investimento nella ricerca prosegue incessante, nell’humilitas, perché nulla è scontato o acquisito una volta per tutte in un presunto sapere. Nulla concedono al semplicismo perché non c’è parola facile, non c’è vita facile, nonostante l’epoca faccia di tutto per far credere che tutto debba essere a portata di mano o di occhio, tutto sullo stesso piano, tutto visibile, senza ascolto.
Siamo quindi in questo itinerario intellettuale, in questo viaggio della vita. Scrive il prof. Verdiglione nel libro Il Manifesto di cifrematica: “Chi sono i viaggiatori, rispetto a una civiltà che sempre è da conquistare, sempre da acquisire, sempre da inventare ? Coloro che stanno in cammino e in un percorso secondo la particolarità, ciascuna volta, del viaggio. Senza questa particolarità, il viaggio non trova mai il suo specifico nè la sua produzione nè la sua qualità”.
Matera, città inspaziale, in questo dispositivo intellettuale con Milano e con Padova è in viaggio verso la qualità, verso la qualificazione secondo lo specifico, senza ricordi del passato ma con la memoria, la traccia, alla luce dell’intendimento.
Per l’intendimento, in questa accezione, ascoltiamo la loro testimonianza.
Ruggero Chinaglia Buonasera, sono lieto di trovarmi qui con voi a Matera, città bellissima, sede di una civiltà plurimillenaria, di attività culturali e internazionali, e anche sede, grazie a Domenico Lavermicocca, di alcuni echi e testimonianze di quella civiltà della parola che, pur avendo elementi antichissimi, è tuttavia per lo più negata dall’epoca; non sembri assurda quest’affermazione, in quanto quella civiltà su cui sorge l’epoca, cioè su cui sorgono le credenze più diffuse, su cui sorgono e si reggono le convinzioni più comuni, su cui ognuno poggia la sua istanza di vita, è in realtà una civiltà del discorso, che sorge fin dal mondo greco come reazione agli elementi della parola, come reazione alla logica della parola originaria. Quindi, quegli elementi su cui si poggia la presunta conoscenza delle cose a cui ognuno si riferisce e su cui sorgono le discipline, ebbene, sono elementi di una civiltà sorta sulla reazione alla parola, non sulla parola.
La reazione alla parola è ciò che ha istituito il discorso, il discorso di padronanza, quel discorso su cui sorgono i concetti. Qui, stasera, presentiamo anche la collana “La cifrematica”, che è una collana sorta recentemente, edita dalla casa editrice Spirali, che raccoglie testimonianze, documenti, contributi sia di chi si trova nell’esperienza, sia anche di altri intellettuali che ne hanno a che fare, o che sono di volta in volta convocati a dare un contributo, una testimonianza a questa esperienza che si avvale dei contributi sia di chi si trova nel suo corso, sia di altri che giungono a dare anche notizia di altre cose, di altri percorsi, di altre attività.
E questa collana è inaugurata dal primo numero che si intitola La vita. Il suo numero. La sua scrittura. Il suo valore. La vita, intendendo qui “vita” in un’accezione particolare, non la vita come concetto, non il concetto della vita, per cui si tratterebbe della vita dell’uomo: piuttosto, è la vita per ciascuno. Della vita dell’uomo ognuno crede di sapere tutto, come incomincia, e soprattutto come finisce, come può avvenire, come può svolgersi, quali sono le tappe, quali sono le fasi; questa è l’idea della vita, questo è il concetto della vita; è un concetto che si rifà a un’idea aristotelica della vita, o a un’idea platonica, a un’idea antica che ha tentato di dare una padronanza sulla vita. La cifrematica, come scienza della vita, invece, s’interroga sulla vita, contribuisce alla vita, in quanto considera la vita di ciascuno; non la vita di tutti, ma, la vita di ciascuno, quindi, come si pone per ciascuno la questione della vita: come si svolge, secondo quale logica, e soprattutto come giunge a valorizzarsi; perché, per quanto se ne dica, di vita ce n’è una sola, almeno noi possiamo avere esperienza di una sola vita, e allora importa anche non sprecarla, non sprecare questa vita nella sua unicità, nella sua brevità, nel suo valore.
E, quindi, la questione è come vivere, come fare, come valorizzare; in questo senso, la cifrematica, che è scienza, procedura, esperienza della parola, quindi anche scienza, procedura, esperienza della vita, considera la vita non da parte della vita degli altri, della vita già vissuta, ma della vita nel suo corso, procedendo da quella domanda da cui la vita si avvia, perché è la vita originaria e non già la vita intesa in termini animali, di cui si tratta. Allora, questa vita è innanzitutto ignota: nessuno sa di cosa si tratti quanto alla vita, perché l’importanza non sta nella vita passata, ma sta nella vita a venire: cioè che cosa ci aspetta domani, che cosa fare domani, come valorizzare la vita facendo da qui in avanti, non partendo dall’idea che la vita finisca, possa finire, sia già finita, abbia un destino assegnato, ma proprio, invece, dissipando, elaborando questa idea che costituisce la cappa entro cui viene imbrigliata la vita considerata umana; si tratta quindi della vita oltre l’umano, oltre l’idea umana, oltre l’idea che ognuno ne può avere, della vita in atto, della vita che procede dalla domanda per ciascuno. È da questa domanda che s’instaura l’avvenire, e non è già dato, non è già assegnato: è una scommessa da cui si avvia la questione dell’avvenire; senza questa commessa, l’avvenire è tolto, e allora da questo toglimento dell’avvenire, per ognuno ci sono guai, contraccolpi, contrappassi, acciacchi, tutto ciò che rende florido e piuttosto corposo il catalogo dei mali e delle malattie. Occorre andare oltre questa nozione di umanità dolente, per giungere a un’altra umanità, quell’umanità che sorge sul terreno dell’Altro, sul terreno dell’Altro insignificabile, inconoscibile, che sta nella parola e da cui prende avvio quella vita originaria, dunque non legata all’idea di origine, quella vita che è, quindi, per ciascuno, da valorizzare partendo dall’ignoranza del concetto di vita. Occorre cogliere la particolarità, la specificità, la direzione, quali sono le istanze, quali sono i desideri, qual è il progetto, come quindi instaurare il programma di vita; questo esige l’attraversamento di alcune fantasie, di alcuni luoghi comuni, di tutto ciò che costituisce il discorso e il suo apparato.
Quindi, scienza. Scienza della vita: scienza, procedura, esperienza. Scienza è in un’accezione differente rispetto a quella che è stata introdotta da Aristotele, e poi dall’Illuminismo come scienza sperimentale; qui è una scienza che non assegna la conoscenza, ma è una scienza che produce i suoi effetti e le sue acquisizioni cammin facendo, quindi è una scienza che esige non già il passato su cui fondarsi, ma il gerundio, il gerundio della vita, esige quindi il vivendo, quello che in portoghese viene chiamata la vivencia.
Comunemente, da quelle che sono le discipline più comuni e diffuse, il riferimento che viene considerato importante è il “vissuto”: accade qualcosa, e la domanda canonica è. “Qual è il vissuto? Qual è il tuo vissuto di questa cosa? Qual è il mio, il nostro vissuto?”. Il vissuto, cioè, il ricordo; qual è il ricordo sulla cui base tu valuti quella cosa? E tutto ciò toglie valore a quanto sta accadendo, perché è basato sul ricordo; non è il ricordo che ci indica la caratteristica di quanto sta accadendo, è la valutazione, la qualificazione, l’indagine, l’analisi di quanto sta accadendo, e di quanto sta nella novità. Se noi vediamo solamente il ricordo, non cogliamo l’aspetto di novità, ci sfugge per forza di cose l’inedito, la logica, la caratteristica, il caso specifico.
Ecco, la cifrematica si occupa non del caso di tutti, non del caso generale, ma del caso singolare e specifico. Per valutare l’importanza di questo, noi possiamo considerare come, in quest’epoca, in particolare quanto alla salute, per esempio nella sanità canonica, la valutazione, le indicazioni per le cure, quasi mai tengono conto del caso specifico.
Quando qualcuno si reca dal medico, il medico fa una valutazione statistica: questo caso è riportato dalla letteratura con un’incidenza di un tot per cento, quindi per questi casi un tot per cento muore, un tot per cento vive, un tot per cento si può curare; in quale percentuale rientra quel caso? In che modo viene valutato il caso particolare che viene addotto in quella circostanza, e non un caso generale di riferimento? Ecco allora che la cifrematica acquisisce rilevanza anche nella formazione del medico, nella formazione del professionista, nella formazione dell’insegnante, nella formazione del genitore, nella formazione dell’educatore, nella formazione di chi, essendo preposto a una funzione, a una mansione, a una professione, occorre sia formato a considerare il caso in cui si trova, il caso che viene addotto, per le caratteristiche che gli sono proprie, non per un sistema di riferimento generico che toglie valore al singolo caso, e che diventa un caso standard. La formazione, l’esperienza cifrematica è l’esperienza anche dell’attraversamento dell’idea di standard, della standardizzazione, per riuscire a cogliere invece il valore del singolo caso. Il caso di vita, il caso di valore è il singolo caso, non il caso generale, non il caso di tutti.
Io ho cominciato quest’esperienza 35 anni fa, ero ancora studente universitario in medicina, e ho cominciato casualmente, certamente partendo dall’insoddisfazione che la formazione universitaria mi stava fornendo, ma non sapendo già cosa cercare, cosa trovare; mi sono imbattuto, anche in maniera diciamo casuale, nel seminario che settimanalmente teneva Armando Verdiglione a Milano, in una libreria, e in cui affrontava questioni varie, settimanalmente, con dei giovani che avevano cominciato a partecipare a questa ricerca, e mano a mano la cosa mi ha interessato sempre più, perché non c’era un riferimento all’ontologia, un modo filosofico di approcciare le cose, ma mano a mano si instaurava un modo analitico e clinico, clinico in un’accezione molto particolare, e cioè senza il riferimento alla psicopatologia, senza il riferimento morale al bene o al male, ma clinico, cioè in direzione della qualifica, come ciascuna cosa esige di qualificarsi, esige la cifratura, esige di divenire cifra, divenire cifra ossia divenire valore; questo all’università non mi veniva insegnato. Nessuno mi aveva mai accennato all’ipotesi di giungere al valore di ciascuna cosa, quindi al valore impensabile, al valore assoluto. Eh, questo non stava in nessun libro, in nessun’altra attività quand’anche chiamata psicanalitica, in nessuna ricerca, in nessuna esperienza di quegli anni, ed è questo che mi ha sempre più interessato, sempre più coinvolto, fino intraprendere, appunto, la formazione analitica specifica, poi cifrematica, l’esperienza di ricerca, e l’esperienza anche combinata con l’impresa.
Perché quello che sfugge a chi si occupa del concetto della vita, è che la vita si fa di ricerca e d’impresa: ciascuno è ricercatore e imprenditore della sua vita; senza questa integrazione di ricerca e impresa ognuno subisce la vita, la subisce come rivalità, come concetto, come qualcosa che inizia e che deve finire, quindi la subisce sotto l’idea di morte, e l’idea di morte è una questione importante e pesante per chi non la affronta e non la attraversa. L’idea di morte, l’idea di fine è qualcosa di assolutamente comune cui ognuno pensa e non sa di pensarci. La questione e l’importanza dell’esperienza analitica è proprio questa: cogliere in che modo intervengono, qua e là nella “propria” vita, idee di fine, idee di morte che condizionano, di cui non ci si accorge e a cui però c’e chi sottostà. I casi sono diffusissimi: quante persone incominciano, per esempio, un corso di studi e poi, a un certo punto, lo interrompono, quante persone incominciano una relazione e poi, a un certo punto, la interrompono, quante persone incominciano un’attività e poi, a un certo punto, la interrompono, quante persone incominciano un’impresa e poi, a un certo punto, la interrompono, ma senza un preciso perché; poi, indagando, analizzando, emerge che l’idea di ciò che stava oltre quella cosa spaventava: “Devo terminare l’università, cosa farò dopo?”, “Devo terminare la specialità, cosa farò dopo”, “Devo sposarmi, cosa farò dopo?”. Dopo. Questa idea di dopo, è banale, indica un’incertezza, un’insicurezza; dopo, quando? Oltre, al di là; nell’al di là?
In quanti modi interviene questa idea di morte, e non viene notata? Però viene subita, e subendola ognuno sottostà alla prescrizione canonica secondo cui ognuno deve morire; e, per cercare di controllarla, viene anticipata la fine temuta; e dunque, anticipando la fine, c’è chi non conclude gli studi, così “la fine non arriva”, “la gestisco io, la padroneggio, la governo”, e così in vari settori, in vari aspetti della vita, delle cose da fare, ma pochi se ne accorgono perché non viene fatta l’analisi degli elementi che sono dinanzi, perché l’educazione aristotelica che è impartita dalla scuola induce piuttosto a un’idea di sintesi, quindi a un’idea di chiusura, a un’idea di conclusione affrettata, senza valutare gli elementi che stanno dinanzi. E invece è proprio questo modo, questo modo analitico, questo modo della qualificazione, questo modo della ricerca, questo modo della valutazione che sempre più mi è sembrato importante, interessante, valorizzante le cose che si programmano di fare; e la cosa interessante è che questa formazione, con la dissipazione di quelle fantasie che possono costituire l’impedimento al procedere delle cose, si è andata svolgendo non per un indottrinamento, non per lo studium, ma nell’esperienza, gerundivamente, facendo, cioè lungo l’attuazione, l’instaurazione di dispositivi anche pragmatici.
Nel corso di questa esperienza è sorta, per esempio, la casa editrice Spirali, sono sorte varie associazioni, sono state organizzate attività culturali internazionalI; ebbene, queste attività, con le esigenze organizzative, pragmatiche che comportavano, sono stati elementi formativi importantissimi: si trattava di recarsi all’estero, giovani apparentemente sprovveduti, senza sapere già come fare, ma proprio acquisendo lungo alcune indicazioni, e soprattutto lungo la messa in atto di quei talenti che nessuno sa di avere, e di cui ciascuno dispone all’occorrenza, mettendo in atto quell’ingegno che occorreva reperire dalle proprie risorse, che non viene dalle conoscenze, ma viene dalla costrizione, dall’esigenza, dall’occorrenza, dunque dall’intervento del tempo, senza l’idea che il tempo finisca, senza l’idea di burocrazia, cioè di un potere invisibile che dovrebbe governare le cose, senza l’idea di superstizione; la cosa più comune è la superstizione, e la superstizione è paralizzante, ma se voi chiedete: “Ma io non sono superstizioso, io so benissimo che non sono vere queste cose”, ma la superstizione cui ognuno sottostà è la superstizione che non sa di avere, e la superstizione che uno non sa di avere è l’idea che la sostanza possa governare, quindi l’idea che possa esserci qualcuno sopra di noi che ci governi, che sia agente delle nostre cose, oppure che ci sia sotto di noi qualcuno che possa sostituirci; ecco la questione della droga, la questione dello psicofarmaco, la questione dell’alternativa.
La questione della droga è semplicemente l’idea che “io da solo non ce la faccio”, “io da me non ce la faccio, non ho i termini, non ho la capacità, non ho la forza,” allora ho bisogno di una sostanza che mi aiuti, me la procuro, e questa sostanza mi consentirà di fare, oppure no, non sono io che me la prescrivo, me la faccio prescrivere da chi mi cura: vado dal medico e dico che non ce la faccio più, allora il medico caritatevole dice: “Ah, se non ce la fa più, prenda questo, vedrà che ce la fa”. Questa è l’educazione alla droga, alla droga come sostanza proibita, alla droga come sostanza invece consentita, alla droga canonica: lo psicofarmaco è l’idea della cura come qualcosa che giunga da un agente. La cifrematica indica invece che la cura non può prescindere dal contributo della domanda di chi si trova nella cura; la cura non può essere somministrata, sorge in un dispositivo in cui il medico e chi è candidato alla cura si trovano in assenza di un ruolo predeterminato, di chi dà e di chi prende. La cura esige che sia dissipato il ruolo di chi è considerato attivo e di chi è considerato passivo, esige un dispositivo intellettuale, solo questo è un dispositivo di cura, e allora così s’instaura effettivamente, per ciascuno, la vita, la vita originaria, la vita che approda al valore, la vita non come concetto, ma la vita per ciascuno. Questo non è imparabile, non è qualcosa che si possa apprendere, che si possa applicare come schema, prescindendo dall’esperienza, prescindendo dallo sforzo, prescindendo, dunque, dalla domanda, dalla pulsione, prescindendo quindi dall’esperienza intellettuale in cui occorre ciascuno si trovi, perché avvengano questi effetti, che sono effetti di cura, effetti di acquisizioni, effetti di verità, effetti in cui, insomma, ciascuno si trova come candidato alla qualità.
La questione intellettuale è questa: come divenire intellettuale, come divenire candidato alla qualità; nessuno è mai arrivato una volta per tutte, ciascuno occorre si trovi candidato, cioè esposto alla domanda, e lasciando che questa domanda si rivolga verso la sua cifra, verso il suo valore, in modo costante. Ecco, questo è solo per introdurre alcuni termini della questione.
Domenico Lavermicocca Ringrazio il dottor Chinaglia per la straordinaria testimonianza del percorso, percorso che lui stesso ha compiuto nella ricerca, e che l’ha portato – come avete potuto ascoltare – a indagare le questioni di vita essenziali per ciascuno, e che occorre veramente ascoltare con molta attenzione. A questo punto, io passo la parola a Maria Antonietta Viero, come dicevo imprenditrice nel settore dell’alta moda, scrittrice, in vari statuti che s’intersecano; e quale migliore introduzione per una scrittrice se non leggere un brano del testo che lei ha scritto:
E venne sera. Il fuoco acceso nel camino riscaldava l’unica stanza. Sui muri, figure strane disegnate dalle ombre che il fuoco rilasciava.
Ombre frastagliate, non arrivavano al soffitto; tanto non si sarebbe potuto vedere: era nero e trascinava con sé le linee nell’infinito.
Tre piccole finestre con l’inferriata. Un vecchio lavello di marmo e, a guardarlo, ancora si udiva: “Soldame! Soldame!”. Sotto, il secchio dell’acqua per bere, dell’acqua per mangiare, dell’acqua per lavarsi, una volta la settimana, il sabato pomeriggio, in un grande catino di legno.
E dal secchio ognuno beveva con il mestolo di rame. L’acqua portata in due secchi agganciati a un arco di legno ricurvo che copriva le spalle e il collo: non era una stola. Il camino, non troppo buono, soffiava fumo dentro la stanza, ma teneva in serbo le braci per riscaldare l’unico letto. Quel fumo che, nei giorni d’estate, danzava alle travi del soffitto e piovevano gocce nere di catrame.
Una cucina, cosiddetta economica, con cerchi e cerchi nel mezzo; il forno era caldo, sicuro rifugio per i piedi ritornati dal gelo di una chiesa domenicale. Un cassone dipinto di azzurro; si apriva dall’alto e, dentro, il pane. Pane per tutto: pane per carne, pane per pasta, pane per frutta, pane, solo pane. Un tavolo nel mezzo della stanza, alcune sedie e, accostata al muro, la credenza. La credenza: placenta di lunghi e piccoli viaggi, d’illusioni, di sogni, di speranze.
– “Dove lo metto?”.
– “In credenza”.
– “Dov’è?”.
– “In credenza”.
Una volta, la donna, allacciato il grembiule sotto i seni grandi, liberi, rimboccati i polsi della maglia, prese il mattarello e con farina, uova, sale e acqua incominciò a impastare e a muovere sempre più velocemente le mani nella pasta e a stendere con il mattarello un cerchio che cresceva e lei raccontava questa stessa scena altrove.
“C’era una volta una donna e una piccola. Vivevano sole, lontano dal paese, avvolte nella campagna, e attendevano. La donna attendeva che la piccola crescesse e la piccola attendeva di crescere. E i giorni passavano monotoni e ripetitivi, ma la credenza era lì a incitarne la speranza.
E venne un giorno in cui la donna, inquieta, incominciò fin dall’alba a richiudere le imposte, a richiudere i vetri, a richiudere la porta a chiave, a tappare, con la pasta fatta in casa, i buchi e gli spifferi e impose alla piccola il silenzio. Ma la grande sveglia, con l’abbraccio delle lancette, scoccava, baldanzosa, l’ora. Sono le 8.00, sono le 9.00, sono le 10.00.
Il cuore della donna batteva forte, le usciva dal petto. Ore 10.00: bussarono alla porta. Colpi secchi, sicuri, due colpi.
‘Non è possibile’ – pensò la donna –, ‘non è l’ora’. ‘Presto, Piccola, presto, più presto, qui, dentro la credenza, non ti troverà’.
La donna corse all’uscio.
Sapeva.
Aprì.
Vento gelido quel mantello nero senza ossa. Una parola: ‘Dov’è?’.
‘Qui non c’è’ – disse la donna – ‘Non c’è’.
‘Io non posso tornare, lo sai’, – rispose il mantello nero –. E se ne andò di traverso tra il muro e il soffitto, lì dove le linee trovano l’infinito. La donna sospirò. Ce l’aveva fatta. Corse verso la credenza, l’aprì, e, con un tonfo, il sacco di farina si appoggiò per terra”.
Questo è il primo capitolo dello splendido romanzo che, come potete leggere, narra la storia, la traccia anche della professoressa Viero, parla anche di pane, insomma di una città in cui il pane è qualcosa di veramente molto importante, come a Matera.
A questo punto, passo la parola alla dottoressa Viero.
Maria Antonietta Viero Cambiando completamente scena, allora. Ringrazio l’avvocato Lavermicocca di avermi invitata a questo turismo intellettuale: a Matera, che domani spero di vedere ulteriormente e che, in un primo momento, dal terrazzo, vista così, mi sembrava una cartolina che mi ricordava qualcosa che mi riguarda, qualcosa di antico, che domani esplorerò ancora di più.
Le cose accadono e, accadendo, divengono in un’incessante trasformazione, e ciascuna cosa entra nel racconto che trae al malinteso, cui il filo del racconto presta innumerevoli, infiniti, inconosciuti intrecci arbitrari nella combinazione della vita. Ciascuna cosa, non ognuna e non tutte, ciascuna, nel dispositivo di parola, dove si corre il rischio di udire ciò che rilascia l’ascolto della piega delle cose che si dicono parlando, e dicendosi, si fanno e, facendosi, trovano scrittura e esigono udienza e urgenza. Ciascuna cosa nell’atto, e la parola è un atto complesso: ci sono nomi, significanti, sentieri, bordi, metonimia, metafora, sogno, dimenticanza e, nell’atto di parola, la mappa della famiglia incrocia la traccia della storia che, narrandosi, incomincia a scriversi.
“Prenda posto”, è l’invito che il cifrante fa a chi, avendo udito l’urgenza dell’essenziale, si trova nel balbettio irrimandabile della domanda in atto. È un invito a prendere posto nel dispositivo di parola, dove le cose, le parole, i pensieri non stanno più nel dovere, nel potere o nel voler essere ma, dicendosi, sorprendono l’ignaro e audace lettore del testo che, narrandosi, incomincia a scriversi; e come il “la” di uno spartito da inventare, o come l’onda anomala che il vento scaglia in riva di orecchio, qualcosa giunge a dirsi, “così, la cosa non l’avevo ancora mai letta”, viaggiatore narrante, uditore, compagno senza compagnia, solitudine. La storia si sta tessendo per la veste della vita. La vita ci chiama continuamente, c’interpella, ci occasiona, c’invita a fare, nel giardino del tempo, dove la cosa che accade si lascia udire. E, udendo, la partita è già in atto, senza nemico. La battaglia è in corso, incessante, senza porci nell’essere, senza stabilirci nell’avere. Io dico: “Sono così, ho così, io ho, io non ho”, ma, dicendolo, ho già messo il vestito della festa o del lavoro con cui presentarmi per una facoltà del fare, per una facoltà del dire; ma io non so, non so mai prima. Prima che accada, non so.
Intoglibile la difficoltà della vita, e la vita è l’occorrenza stessa della parola, e la vita è senza scelta. Occorre però la decisione assoluta di vivere. E, senza scelta, m’imbatto nella questione donna, e importa l’instaurazione di dispositivi di ascolto e di parola, nel mio caso di commercio, di impresa, di scrittura, e quando qualcuno mi chiede cosa faccio, rispondo: “Vendo”, e la cosa mi riguarda forse da sempre. Allora, nel mio intorno, come abbiamo sentito, non c’erano la televisione, i giornali, ma c’erano la casa, la corte, la contrada, la piazza, la chiesa, le botteghe, il paese … Da dove venisse la notizia, quale fosse la sua fonte era impossibile a sapersi, ma la sua forza era tale da travalicare il muro, la pietra, e trovava il vento a condurle all’ascolto per via di usura che traduceva, trasmetteva, trasponeva portando con sé il messaggio: quale? Ciascuno restituiva quel che ascoltava, la propria lettura e novella per il testo della vita, lasciando ciò che resta all’eco del malinteso, per proseguire a narrare ancora. Sin da allora l’oralità, e l’oralità era il canto, la coralità domenicale, il suono di una campana per rami infiniti richiamante la famiglia immortale, il sibilo del vento che s’incunea nella pietra e modella briciole per il disegno; era la poesia, le tabelline da imparare, era di ciascuna cosa il racconto. L’uscio, la strada, il vicino, il corso d’acqua con la fila per lavare, il filò delle sere d’inverno, al caldo di una stalla muggente; nelle sere d’estate, seduti sul ciglio del fosso rasente la strada, sotto il cielo stellato, ancora l’oralità, e racconto, e la chiacchiera assopiva e si udiva parola, e comunicava.
Quante storie: prendere, lasciare, dire comunicare. La scrittura, al paese, era ancora da venire, e per quei pochi “saputi” c’era sempre bisogno dell’interprete, del lettore. E ancora l’oralità. Forse lì incominciava, per me, a funzionare il padre come nome che porta alla scrittura, nel suo mito, e che trae la vendita al suo valore. Lavoro nel campo della moda, ho uno show – room a Padova, e rappresento, per il Triveneto, varie aziende con le loro collezioni, e intrattengo, quindi, relazioni con i clienti, con il cosiddetto mercato, con le aziende produttrici, e si potrebbe pensare che questa attività sia scevra, esente da implicazioni culturali, intellettuali, cliniche… Niente di più errato. La vendita è soprattutto un processo di valorizzazione narrativa. E, un primo elemento – cominciamo a entrare, magari, in alcuni enunciati che incontro costantemente in questa vendita – è pensare che la vendita sia fatta della cosa che si vende in quanto merce, cioè che io vendo quella cosa che si fa merce; ma ritenere che la merce sia il prodotto di scambio, cioè che l’oggetto e la merce coincidano, non va senza conseguenze. La merce così rappresentata rappresenta l’abito dell’occasione, che occorre avere per fare e per essere, l’abito come habitus, come avere, come abitudine, e che copra quindi il nudo supposto e distolga lo sguardo dal segno del corpo. Una vendita, quindi, interdetta per un verso e preservata per l’altro, e a questo fa questo da corrispettivo l’idea che la verginità è assunta dalla donna santa e espulsa dalla donna di malaffare, donna qui intesa quindi come segno, significazione della differenza, garanzia del nome delle cose, la donna come animale fantastico – anfibologico.
Propongo ancora alcuni enunciati: si provi a chiedere, ad esempio, a un insegnante, e dico a un insegnante perché è un esempio abbastanza rilevante, di proporsi per la vendita. Nella maggior parte dei casi la risposta è: “Io? Non posso vendere, non saprei vendere, non so vendere”, ma niente di più errato, perché l’insegnante è il venditore per eccellenza; dovrebbe occupare il posto della provocazione all’ascolto, della provocazione alla ricerca, affinché gli studenti compiano il loro viaggio nel loro specifico, e l’insegnante si ponga nel dispositivo maestro – allievo, e ponga le condizioni perché ci siamo effetti di sapere. Quindi, qual è la merce che vende l’insegnante, di quale materia si tratta se non della materia del dire? Non c’è nessuna cosa visibile, toccabile, non c’è una cosa che non si venda. È naturale la vendita? L’idea di questa naturalità si fonda sull’idea di origine e sul culto dell’androgino – sappiamo dal mito che l’androgino viene diviso in due e quindi è costretto all’eterna condanna di ricomporsi nell’intero – e ciò costituisce il suo destino di vittima naturale del suo carnefice. Indagare la natura delle cose è ascoltare e assolverle in quel va e vieni rispetto al dove le cose vengono, per quell’idea di origine che ne vorrebbe marcare il pericolo di morte e costituirsi in un cerchio, per condurle all’origine. Cos’è quel che sembra naturale? È la spinta, è la forza, è la pulsione che spinge a osare, a esporsi, a fare, a dire, a udire; la spinta che porta all’ingegno, a quei talenti che ciascuno ha ma non sa di avere se non osa questo rischio, e di cui l’ingenuità, che non è la spontaneità, è il modo di ingegnarsi, dove, chi corre il rischio, trova l’invenzione quale virtù culturale.
Si può umanizzare la vendita? Un suo espediente, per esempio, è diventare amico del cliente, dargli del “tu”, cercare la via facile, togliere quella funzione di inibizione che, sola, mi permetterebbe di incontrare la vendita, senza star lì, invece, ad ascoltarne il lamento, a farlo proprio, per esempio, se il negoziante ti dice dell’invenduto, riserva mentale, dove il cliente è posto nel posto dell’Altro. Non c’è mai da credere al lamento, occorre trovare un’apertura, trovare un altro modo, una provocazione a che le cose vadano verso l’avvenire, non trovarsi nel passato, perché questa questione dell’invenduto come riserva, che è una riserva mentale, è un’arma del ricatto, che solo in un primissimo momento sospende l’idea del riscatto, così che il convincimento, per esempio, sulla superiorità del prodotto, diviene ricatto quando si cambierà per vari motivi il prodotto. Il prodotto non è mai tale: è uno strumento per l’incontro, perché ci sia scrittura di qualcosa che sta avvenendo e divenendo lì.
Analizziamo l’enunciato “Non posso vendere”, “Non so vendere”. È una credenza nel cosiddetto posto sicuro, che indica le forme di un erotismo assunto, vendo solo “per conto di” o “in nome di”, sia esso lo stato, la materia d’insegnamento con il suo programma, il numero degli allievi, le ore da svolgere, può vendere ciò che sa essere sicuro del consenso altrui, ma, in questo caso, basterebbe un dispositivo di parola per giocarsi sul banco le risorse dell’inconscio, e poi la vergogna: “Mi sporco le mani a vendere”, “Sporco il nome mio, quello della mia famiglia”.
Mi viene in mente una cosa che ho sentito ieri all’università di Bari, dove abbiamo tenuto una lezione al Dipartimento di Filosofia del Linguaggio, quando il professore raccontava che, nel Seicento, come nei Promessi Sposi del Manzoni viene raccontato c’è la nobiltà in auge, ma si sta avvicinando la borghesia, e la vendita sembra proprio il modo della degradazione di tutto, ma è una degradazione apparente perché c’è uno spossessamento dell’avere; c’è chi comincia, come dire, ad avere molto meno di quello che pensa di avere, quindi qualcosa sembra togliere questo avere; e allora “Mi sporco le mani a vendere, sporco il nome mio, quello della mia famiglia”, e questa è l’idea del male, l’idea della macchia, l’idea di contaminazione, della dicotomia puro-impuro, che preserva quell’uno significante dal dividersi da sé, quello che, invece, abbiamo sentito prima nel culto del’androgino, diviene l’uno che si divide in due. Viene meno, quindi il principio di unità che manterrebbe intatto il movimento del tempo, per cui il pudore, che è la credenza dello svestimento, che si possano togliere le vesti lasciando il corpo esposto a una visione denudabile, il varo dell’innocenza, e lo stupore: “Il mio abito non è in vendita, quindi non posso vendere. Quel che è mio è mio e quel che è suo è suo”, sempre questo abito come habitus, come avere, come qualcosa che posso fare o non fare. L’idea del possesso impedisce l’usura; l’abito non è fruibile: è inassumibile e inconsumabile, il suo uso non usura. L’usura interviene nel racconto della veste, in assenza di abito.
E poi, ancora, “Non sono portato per la vendita”, la significazione e la sostanza contenuti nel sacco dei ricordi, tenuti con stretta fune sulle spalle – che peso – impedendone il passo, costretto nell’immobilismo, nell’identico a sè, senza memoria. E che dire anche della paura dei cosiddetti “numeri uno”, che intervengono qui in questa idea: fobia e idolatria, due facce dello stesso animale fantastico, anfibologico, per un verso intoccabile, per altro inavvicinabile, e è una fantasia che pone l’interrogativo di un dopo impossibile, un dopo attribuito al tempo e supposto baratro …
Quello che diceva il dottor Chinaglia prima, questo “dopo” per cui devo anticipare la fine, è ciò che impedisce di andare verso “il numero uno”, la boutique più bella, per esempio, nella fantasmatica del venditore, perché: “Se poi arrivo lì, la cosa finisce, poi, cosa mi resta? Devo tornare indietro.” Impossibile.
Quindi c’è questa idea della scala, già posta alla fine, il limite come contenimento dei tanti … quanti. Una scala dai pioli/valori, pensata tutta in salita, allude all’idea di un desiderio desiderabile e di un godimento godibile posti in successione, indice anche di un’assenza di simultaneità e di assenza di zero nella sua funzione di nome, nella sua funzione di padre. È l’idea di origine che sostiene questo fantasma, questa fantasia fondata sulla paura nel suo principio che fonda, anche per via di essere, la competizione. Sta qui anche l’idea interessante di concorrenza: posti occupati che devono essere vuotati per poi di nuovo riempirli, e non è un caso che senta dire, io che vado ad ascoltare i clienti, ad offrire, a raccontare le collezioni che ho nello show – room, la loro storia, il sogno di queste collezioni: “No, per acquistare la tua, o un’altra, devo far posto, devo toglierne qualcuna, devo toglierne una, almeno”.
Con la cifrematica la vendita è attività intellettuale, e riguarda propriamente la valorizzazione di ciascuna cosa. Con la formazione che ho incontrato, le cose non finiscono, ciascuna cosa esige l’ascolto, la scrittura.
Nel book che presento al cliente, all’interno, ho incominciato a scrivere le storie di donne imprenditrici, nell’ambito delle Tre Venezie, e ho avviato questo modo per ciascuna stagione che inaugura una nuova collezione: presento il caso, perché quello che nella fantasmatica era, per così dire, il “numero uno”, c’è lo specifico di ciascuno, e questo specifico entra nella mia lettura e lo restituisco così, in questa scrittura dove questo cliente trova, per così dire, l’infinito: l’infinito dell’accoglimento della collezione, l’infinito della vendita. Non può finire, come ogni tanto sento dire: “Il mio cliente finale”. Ma chi è il cliente finale? Qual è? Quello che può dire di godere tutto il viaggio di quella cosa dal momento in cui entra nella narrazione, o nella vendita e poi si appresta nel pacchetto, lo porta a casa … portando a casa per esempio un abito: è quello? È quello il finale? Acquistare è come acquisire, lungo la proposta del venditore, la favola che apparentemente lo riguarda; sembra sua perché racconta, ma è simultaneo il messaggio che si ode e invita a partecipare, per cui ciascun acquisto partecipa della vendita e ciascuna vendita partecipa dell’acquisto.
Il primo gesto di acquisto quando avviene? Avviene già nel primo appuntamento, lì ci sono i termini della vendita. Ma il primo appuntamento è già secondo, perché l’istante ha già posto i termini della vendita, nella sembianza è come una folata d’aria, spalanca la finestra. Aria, perché il messaggio giunga in mano di scrittura. Perché, se non si vende, nulla si comunica; e senza viaggio narrativo l’opera rimane fissata alla parete, incontrando il tempo che passa, che invecchia, ma non porta l’antico. Restituisce l’antico sul rigo dell’invenzione di ciò che è contingente e si attualizza, e restituisce, ciascuna volta differente, il testo della propria vita, e questi sono gli elementi della mia esperienza, e devo dire che senza l’esperienza della cifrematica non potrei trovarmi nello show – room di moda, incontrare il cliente, compilare una copia commissione, ascoltare tra le righe il suo racconto, fosse anche il cosiddetto lamento; basta non crederci e rilanciare la scommessa, e quindi, credo che anche in questo momento in cui è stata nominata la crisi, mi dicono: “Ah, c’è la crisi, non si vende più come una volta, qui le vendite sono state interrotte …”, ma crisi è proprio l’interruzione per via di tempo di qualcosa che si voleva continuativo, senza il rilievo. Crisi. Ciascun racconto non può andare in crisi, non c’è nulla che possa andare in crisi e, forse, ben venga questa idea di crisi cui ciascuno può confrontarsi e inventare cose nuove, ingegnarsi e così contribuire, ciascuno a suo modo, alla civiltà.
Domenico Lavermicocca Ringrazio Maria Antonietta Viero per la splendida, straordinaria testimonianza; non penso si sia mai ascoltato venditore parlare in questi termini, veramente si coglie Altro rispetto a quello che comunemente – diciamo – viene inteso per la vendita, e che qui incontra il modo intellettuale, che è il vero capitale che ciascuno di noi poi ha. Se c’è qualche domanda, sono sicuro che gli autori…Prego ecco, dottor Cascino. Prego.
Dott. Cascino La domanda non può essere una sola: voi avete spaziato in un modo fantastico, anche molto eloquente, poco convincente però per chi non conosce la materia. Poco convincente non sia un’offesa, ma è la verità, anche perché io non ho sentito da voi su quale sistema filosofico le vostre teorie hanno fondamento, se il sistema idealistico, se il sistema razionalistico; mi sembra piuttosto il sistema dello scetticismo. Sì, scusate, io dico francamente, ma quello che ho capito dalle vostre relazioni è che mettete tutto in dubbio, tutto in discussione, pensate sempre al dove. Ora, siamo in un’epoca in cui ci sono delle cose veramente nuove, originali; voi pensate alla farmacogenomica: la terapia non sarà più la terapia classica, non esisterà più la malattia, esisterà il malato, e quindi si curerà il malato addirittura con farmaci specifici, la farmacogenomica è una cosa – credo – a portata di mano, credo molto prossima, più di quanto non ci si aspetti. Ora, mi premeva capire se sorregge la vostra teoria con qualche sistema filosofico; io, invece, ho capito dalle cose che avete detto che ci sia una sorta di scetticismo, che tutto è messo in discussione, tutto viene valutato non tanto nel divenire, il divenire poi non è oggettivo, il divenire è molto soggettivo, dipende dalle persone. Adesso non volevo annoiare nè la platea nè voi, mi premeva soltanto darvi atto della vostra competenza, nella bontà dell’iniziativa, e soprattutto uno squarcio che avete fornito a noi meridionali, soprattutto alla cultura corrente, specie del Mezzogiorno, perché la cultura corrente del Mezzogiorno è una cultura classica, ecco perché torno a dire che non ho capito se sorregge le vostre teorie il razionalismo, l’empirismo, a me sembra piuttosto lo scetticismo. Smentitemi, perché così smetto di parlare. Grazie.
D.L. Ringrazio il dottor Cascino per la provocazione, sicuramente interessante, e che in qualche modo il dottor Chinaglia o anche la professoressa Viero riprenderanno. Però intanto passo la parola al dottor Chinaglia che può sicuramente meglio forse precisare qualche termine in relazione alla domanda, che richiederebbe un’ampia trattazione…
R.C. Intanto ringrazio anch’io il dottor Cascino, perché ha ascoltato con attenzione, e già questo per un relatore è una bella cosa: sentire che non ha parlato invano, e che quanto ha detto ha incontrato attenzione, magari non proprio l’ascolto, però sicuramente ha incontrato uno sforzo per capire; poi è chiaro che la cifrematica è materia complessa, e quindi esige certamente ulteriori chiarimenti, non è che si possa indicare in pochi minuti quale sia il suo ambito, o quale sia anche il suo messaggio, però lei ha colto una cosa importantissima: la cifrematica è senza sistema di riferimento, non fa riferimento a un sistema. Questa è la questione per un verso straordinaria, per un verso scandalosa e è ciò per cui la parola originaria non è di facile intendimento, nemmeno di facile accoglienza, perché ogni filosofia, ogni disciplina, ogni discorso si fonda sull’idea di sistema, si fonda cioè su qualcosa di finito che possa essere governato, padroneggiato, diretto. La parola, invece, non si trova in un sistema, non è sistematizzabile, la parola ha come suo ambiente l’infinito; se c’è qualcosa che è antitetico al sistema, all’idea di sistema, alla nozione di sistema, è l’infinito. L’infinito non è sistematizzabile, nell’infinito è impossibile fare previsioni, nell’infinito è impossibile calcolare, prevedere ciò che seguirà. L’infinito è ciò che esige l’ascolto, è ciò che esige di capire, perché è impossibile sapere prima. La questione della parola è questa: è la questione di assenza di sistema.
Questo ha delle implicazioni notevoli perché il sistema è ciò che comporta l’idea di fine, il sistema è anche una nozione che attinge alla termodinamica. Il sistema termodinamico mira alla limitazione, all’estinzione dell’entropia, cioè mira al contenimento del bisogno, mira all’equilibrio. E, il sistema termodinamico trova l’equilibrio con la fine, dove l’entropia è uguale a zero; dire che l’entropia è uguale a zero, è dire che il sistema non tende più a crescere, tende a stabilizzarsi, tende alla fine. Ecco, la parola che non è vincolata a questo riferimento al sistema è parola libera di qualificarsi, questo è lo straordinario, e questo sconvolge i piani di ogni riferimento filosofico, disciplinare. La parola comporta la fede, non già lo scetticismo, o il nichilismo, ma la fede, la fede assoluta, una fede tuttavia non religiosa, non la fede in un ente che possa intervenire a toglierci d’impiccio, la fede nella riuscita; è questa fede assoluta che comporta allora che non ci sia cedimento, non ci sia cedimento all’idea di negativo, non ci sia cedimento all’idea di sè, perché è questo il problema: ognuno si rappresenta in un modo che gli affibbia un limite. La parola è senza questo riferimento alla limitazione che ognuno dovrebbe avere. E quindi la parola è non solo senza malattia, ma anche senza malato. Io non vedo questa sorta di grande speranza che lei intravede nel fatto che la medicina genomica possa trovare un rimedio per tutti, perché a ognuno verrà prescritto “in modo mirato”, il suo farmaco. Intravedo in questo una sorta di tensione all’estinzione: a ognuno sarà prescritto il suo rimedio, nessuno potrà farci niente, è già predestinato al male, ma questo male previsto sarà curato da un farmaco; ebbene, questo è quanto di più terribile, è come se noi riconoscessimo una predestinazione del bene e del male, e a questa predestinazione ci sarà un rimedio automatico. Questa è la fine dell’intellettualità, è la fine della ratio, è la fine della ricerca, è la fine della domanda. Ognuno è, ontologicamente, malato, e a questo malato la medicina trova il suo rimedio. Non c’è fede in questo, c’è un pessimismo assoluto.
Ebbene, io dico che con la parola ciascuno trova gli elementi per andare oltre lo statuto di malato, e trova i termini di quel dispositivo che, nel caso in cui sorgano questioni e problemi, si tratta di inaugurare, avviare, compiere la cura, ma la cura è un percorso, la cura è un dispositivo, la cura non può essere subita, la cura è una chance. La cura è in direzione della vita, non è un guaio, non è un guaio la cura. In questa concezione, invece, ci sarà chi provvede e vede per noi, per tutti, è una sorta di “grande fratello” questo, è una sorta di realizzazione di quello che Orwell aveva preconizzato, non è un bell’avvenire.
Io auspico che non giunga mai – e sarà così – una sistematica di questo tipo, perché il sistema è un’idea, non esiste nessun sistema, e infatti la crisi lo dimostra: la crisi è l’intervento del tempo, la crisi indica che l’idea di sistema è solo un’idea, non è reale. Il sistema, fortunatamente, è solo un’idea: la crisi, cioè il modo con cui interviene il tempo, con cui interviene il giudizio, con cui interviene la trasformazione, indica che in realtà nessun sistema può instaurarsi e realizzarsi, e che la vita di ciascuno è senza sistema; per questo può dare soddisfazione, per questo può trovare cose nuove, inedite, interessantissime per ciascuno, a condizione però che s’instauri la fede, che s’instauri un progetto e un programma di vita, e che questo progetto non si fermi al primo inconveniente, proprio per via della fede nella riuscita; quindi senza scetticismo, senza pessimismo, senza ottimismo, ma ragionando, con la parola. Questo come prima risposta e la ringrazio della domanda.
D.L. La dottoressa Viero voleva aggiungere qualcosa?
M. A. V. Aggiungo qualcosa. La parola debutta parlando perché ha esigenza di compiere un viaggio, il viaggio è quello che non è mai stato prima, quindi è proprio inedito; io non so prima che accada, ma ciascun accadimento sta nella parola, è la parola ad agire. Allora, anche nel mio lavoro, la cifrematica, non è applicabile, è un’esperienza in atto che mi dà, pone gli strumenti di un ascolto di ciò che è inedito lì in quel momento; e se il cliente mi dice qualcosa, va ascoltata non nel realistico di ciò che dice, perché nel realistico sarebbe che ogni parola che dice è portatrice di quel senso che io so di sapere, di quel sapere che so di sapere, e quindi è esente da malinteso. Ma se io parlo, è perché sono tratta da ciò che diviene, e è ancora da avvenire, e occorre che ascolti, allora, il “tra”, tra le righe, perché questo “tra” è la traccia dell’interdizione linguistica, è la traccia della famiglia, questo pone all’ascolto. Gli strumenti della cifrematica come esperienza in atto comportano questa formazione incessante che va di acquisizione in acquisizione, che pone allora l’ascolto non del realistico ma della fantasmatica, della fantasia che insiste parlando: qual è questo operatore fantasmatico per cui io sto dicendo questa cosa, e la dico così, senza realismo? Ecco, mi sembra che sia questa una questione molto importante, per cui non conosco la materia del dire, perché questa materia si fa nel dirsi, nel gerundio, ciò che sto dicendo, ma è già Altro, se lo prendo potrei farne una scuola, potrei applicarlo? No, perché è già Altro, è sempre costantemente Altro; non è che per questo non si scriva: si scrive, ma in questo incessante divenire.
D.L. Ecco, ci sono altre domande; se c’è ancora un’altra domanda, e poi concludiamo. Mi sembra che veramente occorra approfittare della presenza di Chinaglia e Viero, perché ci danno modo di intendere cose sicuramente inaudite, lungo un’esperienza straordinaria attraverso la cifrematica.
Pubblico Io volevo chiedere da quanti anni si trova nell’esperienza cifrematica e che cosa è cambiato nella sua vita, perch�� mi sembra di aver capito che la cifrematica è un approccio all’ottimismo, alla fiducia in se stessi … Ecco, chiedo uno spaccato di vita sua prima e dopo, se c’è stato un prima e un dopo, non lo so…
D.L. Bene, grazie.
M. A. V. Grazie. Lungo la lettura di questi elementi del testo, forse ho tralasciato una parte che mi sembrava, come dire, quasi superflua; ma quando ho incominciato a vendere, e non so se si è potuto ascoltare il racconto che ha letto il dottor Lavermicocca; questo racconto è una credenza, cioè una stanza, tre finestrelle, l’inferriata, c’è solo un catino, c’è solo la credenza, c’è un tavolo, c’è, per così dire, una povertà assoluta; ma questa povertà, io ho vissuto con mio nonno, con mia nonna, quindi in assenza, per così dire, di genitori, e questo mi ha indotta fin da sempre, direi, una dignità, dignità della vita, che mi ha costretta a inventarmi ciascuna volta, a inventare ciascuna volta il proseguimento; ma perché avevo come dispositivo questo mio nonno e questa mia nonna, che nella loro oralità, perché non sapevano scrivere nessuno dei due, eppure nella loro oralità mi hanno trasmesso quel che era essenziale per proseguire; per cui quando qualcuno mi chiede quando è cominciata per me la vendita, rispondo quando facevo l’indossatrice, in passerella, poi ho cominciato a fare la rappresentante, ma non è proprio così.
Ho cominciato già nel primo gesto, nel primo gesto di scuola, quando a scuola – ero la più brava a scuola, ho proseguito con la borsa di studio – eppure in casa non c’erano libri, c’era solo un pezzo di giornale, ma serviva a qualcos’altro, sicuramente nessuno leggeva, eppure il mito si è instaurato. E quando mi si chiedeva: “Mi passi il compito?”, “Eh sì, ma tu mi devi dare la banana, un panino con la nutella, il gelato”: allora cose assolutamente proibitive nella mia casa, nella mia famiglia; quindi era proprio il massimo del superfluo, cioè qualcosa che concerneva non il bisogno in quanto tale, mai è stato di sopravvivenza, ma sempre tratta in questo superfluo, per cui quando ho incominciato a vendere? Già nell’atto del movimento, nell’atto di andare a scuola, di portare quel secchio coi due ganci (con questo pezzo di legno ricurvo, si portava a casa l’acqua); mia nonna aveva questo mito dell’accoglimento: aspettava l’ospite, e la casa era aperta, e ciò che si aveva era dell’ospite, e così mi è sembrato anche qui quando sono arrivata a Matera, in questa unica stradina sembrava veramente di ascoltare qualcosa di antico, in questa stradina, in questa radura, le colline, gli uliveti, e poi c’era qualche ulivo che era più vecchio, mi sembrava di trovare quasi mio nonno, poi c’era qualche ulivo molto giovane, il tronco non era ancora tutto disegnato, tutto contorto; e poi quando arrivi, senti questa forza della pietra, questa luce che è incontrollabile, sembrava di ascoltare questa forza, è quella la forza, l’atto di vendita comincia così; per cui con la cifrematica ho potuto dissipare quello che anche per me era una fantasmatica del numero uno: che non potevo accedere al numero uno.
Io mi chiamo Viero, con la V, e lo racconto spesso; allora questa V, Pallacanestro Vicenza, la prima vittoria, lo scudetto, V come Vicenza, poi in passerella a Milano, con chi? Con Versace, e non poteva esserci nessun altro, perché costituiva il mio itinerario, V come Versace, e poi un’altra V con Verdiglione, la mia formazione, per cui c’è questo percorso come dire di V, come vittoria. E è cominciato lì, ho potuto dissipare quelle che erano le fantasie che riguardavano l’origine, da dove venivo: era proprio quella la mia origine? Il mio destino: doveva essere proprio quello dettato da questa origine? E poi quando mi sembrava di aver toccato la quarta V, un itinerario incominciava nella sua inidentificazione, V come Viero, ma, quale nome? Era proprio questo il nome? È assumibile il nome? Porto questo nome? Lì è incominciato qualcosa sicuramente di straordinario, perché c’è qualcosa che non finisce più, le cose non finiscono, la parola non chiude, c’è l’infinito davanti, la scrittura di questo infinito. Ogni tanto penso: “Però, quanti anni ho”, poi, se non mi guardo allo specchio, ogni tanto magari prendo anche un po’di paura, dentro di me, questo me che è irriconoscibile: “Ho tante cose da fare”. Grazie.
D.L. Ascoltiamo un ultimo intervento del dottor Chinaglia: come non credere alla crisi, allora, si diceva, come si fa ad essere ottimisti di fronte a quello che si vede ciascun giorno?
R.C. Non si tratta di essere ottimisti, l’ottimista è tanto stupido quanto è idiota il pessimista, l’uno e l’altro sono due facce, possiamo dire, dell’imbecillità. Occorre, quindi, non appellarsi nè all’ottimismo nè al pessimismo: appellarsi all’ottimismo vuol dire credere nella predestinazione al bene, appellarsi al pessimismo vuol dire credere nella predestinazione al male, è sempre predestinazione, quindi è sempre superstizione. La questione è intellettuale, la questione è la questione aperta, la questione della domanda che si rivolge alla qualità, la questione è quella di un itinerario, un itinerario pragmatico, un itinerario in cui le presenze, cioè i pregiudizi, l’idea di sè, l’idea dei propri limiti, l’idea di essere qualcosa, l’idea di essere qualcuno, si dissipi e si articoli; perché, fino a che qualcuno crede di essere, in questa credenza nell’essere trova il suo limite, trova il suo contenimento. Questa credenza nell’essere non giova alla riuscita, la questione sta nella riuscita, e, l’attesa della riuscita non è la fede in se stessi, perché credere di essere se stessi è già un’idealità.
Occorre andare oltre l’idea di essere se stessi, occorre andare oltre l’idea di essere. Importa, dunque, il fare, e importa il modo, come fare; questo come è ciò che introduce il tempo, il modo del tempo, senza l’idea di fine, e introduce il gerundio. Il gerundio è senza l’idea di fine, è questo il problema: dissipare l’idea di fine, e trovare, trovare, perché non è già scritto, non è già dato, trovare il modo, il modo della riuscita. E questo non è automatico, per nulla, per questo ci vuole uno sforzo, lo sforzo intellettuale, lo sforzo di capire, lo sforzo di intendere, lo sforzo per il proseguimento. Questo è il bello, il bello della vita sta lì, bisogna capire questo: il bello della vita sta in questo sforzo per approdare alla qualità; questo è l’augurio per ciascuno, di trovarsi, di intraprendere questo sforzo senza il quale ognuno trova giustificazioni per cedere ai pregiudizi, alle idealità, alle credenze. Occorre andare oltre questa idea di sè, oltre l’idea di essere, perché, invece, il viaggio, il viaggio che ciascuno intraprende, il viaggio in cui si trova, il viaggio in cui ciascuna cosa si trova, si scriva. Allora, la scrittura di questo viaggio è essenziale per ciascuno, è ciò che giunge alla soddisfazione, e giunge alla qualità. Questo è l’approdo che la cifrematica.