La musica
- Bussoti Sylvano, Chinaglia Ruggero, Pisani Giuliano, Segato Giorgio
31 ottobre 2003 – Conferenza con concerto di Sylvano Bussoti, musicista, artista, poeta, dal titolo La musica, Sala dei Giganti, Piazza Capitaniato 5, Padova, con il Patrocinio della Regione Veneto e del Comune di Padova. Interventi di Ruggero Chinaglia, cifrante, Giuliano Pisani, assessore alla cultura del Comune di Padova, Giorgio Segato, critico dell’arte
SYLVANO BUSSOTI
La musica
interventi di
- Giorgio Segato
- Giuliano Pisani
- Ruggero Chinaglia
Ruggero Chinaglia Salutando ciascuno dei presenti, cominciamo l’incontro di questa sera, che presenta una combinazione rara e curiosa tra la musica e la pittura. Questo incontro infatti è sorto nell’ambito di un progetto per cui, qui vicino, al Palazzo Del Monte, è in corso una grande mostra intorno alla pittura russa degli ultimi due secoli, che si intitola I tesori della Russia. Maestri dell’arte russa 1800-1900; è organizzata dal Comune di Padova e dall’assessorato alla cultura, in collaborazione con il Museo Villa San Carlo Borromeo e il Museum of the second renaissance e che presenta opere di pittori russi dall’inizio dell’’800 fino ai giorni nostri.
È una mostra che presenta una testimonianza dell’integrazione dell’arte europea rinascimentale con l’arte russa e queste tele indicano come questa nuova arte, che nel ‘700 giunge in Russia, viene non solo accolta dagli artisti, dai pittori, ma anche restituita con le loro opere. È una testimonianza di grande pregio dell’arte di quell’epoca in Russia, e diciamo Russia in una terminologia ancora vetusta, perché si tratta in realtà anche di altre nazioni: la Bielorussia, l’Ucraina, l’Estonia, la Lituania e altre ancora. Ci sono artisti di queste varie nazionalità, artisti che accolgono questo messaggio dell’arte, ma che diventa anche messaggio della civiltà, un messaggio da cui sorge la musica, da cui sorge la letteratura attuale.
La grande cultura russa attuale sorge da questo messaggio, che giunge dall’Europa intorno alla metà del ‘700 e è un messaggio di integrazione delle cose che vengono dall’Europa e che, restituite da questi artisti, indicano che anche la Russia è nell’Europa, è parte dell’Europa, non è qualcosa di estraneo. Dall’avvento di quest’arte c’è una trasformazione in questa regione del pianeta che coinvolge anche l’aspetto sociale, quello economico, i vari aspetti della civiltà. È così che in effetti avviene: che l’arte e la cultura sono la base di trasformazioni che investono anche altri settori della società.
Questa combinazione, quale esponente migliore poteva avere nell’ambito delle manifestazioni che accompagnano questa mostra? Abbiamo avuto quindici giorni fa Nadine Shenkar, proveniente da Gerusalemme, storica dell’arte, artista essa stessa, che ci ha illustrato alcuni suoi lavori di ricerca intorno alla pittura russa. E quale esponente migliore se non il maestro Sylvano Bussotti che è qui con noi questa sera, e che è musicista certamente, ma anche pittore, anche poeta, anche regista, attore, scenografo. Dunque artista nella più ampia accezione di questo termine, un artista che ci dà testimonianza con la sua opera dell’integrazione delle cose, come ciascuna cosa si combini per giungere alla scrittura, per giungere al fare.
Questa sera presentiamo con il maestro anche alcuni aspetti della sua produzione, due sue opere: La sonata e Bachiana di bachiane, eseguita al violino dal maestro Luca Paoloni, che è qui con noi, e che tra poco ci darà il saggio di questo suo concerto. E accanto alla musica anche un aspetto di scrittura, una produzione letteraria, questo libro di Sylvano Bussotti che è uscito qualche mese fa, Disordine alfabetico, edito da Spirali. Già il titolo colpisce per questa sorta di contraddizione, per questo ossimoro: disordine alfabetico.
L’alfabeto, che almeno apparentemente è l’indice di un ordine di segni, di un ordine di segni di scrittura, segni fonetici, segni della lingua, qui è presentato in un disordine. Quindi già questo titolo ci dice qualcosa dell’assenza di canone dall’opera del maestro Bussotti: una questione di libertà, di leggerezza, di un altro ordine che ci presenta nella sua produzione, nei suoi scritti, nelle sue poesie, nei suoi saggi. Infatti questo libro presenta una serie di scritti che coprono circa quarant’anni della sua esperienza, posti non in ordine cronologico ma possiamo dire in un ordine temporale, in un ordine che viene dal tempo della memoria, in un ordine originario non prestabilito, non seguente il canone della cronologia o un canone predeterminato, ma senza canone.
In questo Disordine alfabetico e nei suoi scritti – che auspico ciascuno legga – è posta la questione certamente della musica, ma attraverso la questione della lingua. Cioè, questo alfabeto disordinato, questo disordine, questo caos originario è reso come questione della lingua originaria, cioè di una lingua non materna, di una lingua non predeterminata, di una lingua originaria che segue per ciascuno l’idioma; quindi la questione non di una lingua che segue uno schema prestabilito, ma l’idioma per ciascuno. E anche qua e là nei suoi scritti questo termine, questo richiamo all’idioma mi pare frequente, mi pare qualcosa di assolutamente essenziale per il maestro.
Una scrittura, quella di Sylvano Bussotti, certamente non facile, non accessibile a chiunque. Una scrittura che indica una traversata dei vari settori dell’arte, della cultura, anche della scienza. E da cui sorge la questione della musica come qualcosa che è alla punta di questa traversata, alla punta di questa ricerca. Per esempio, scrive a pagina 107, a proposito della musica: “Superba punta del diamante sonoro, quasi a disegnare in allegoria l’arte principe, sentimentale, arcana e inespressa nel decifrabile scritto – la musica – sorpreso a inventarsi parole capaci di intonare; sillabanti armonie, pentagrammate, pittografate, tatuate, marcate a fuoco; glossolaliche sentenze declamate oltre il senso comune, gonfie di polifonia”.
C’è qualcosa che evoca una lettura che è tra le righe, è tra le note, è tra le cose, in un messaggio che è da cogliere oltre il senso comune, in qualcosa che invita e trae ciascuno a uno sforzo intellettuale. E qui la musica è in qualche modo data come arte dell’intendimento, arte della lettura delle cose, arte del lavoro e dello sforzo intellettuale. Un’altra notazione che mi pare importante, giusto per il dibattito. Dice Bussotti: “Credo che un equivoco estetico secolare, e dei più clamorosi, trovi origine e spiegazione in questo fatto: l’equivoco del rapporto suono/parola”.
Dunque non già la musica come mera combinazione di suoni, ma come quest’arte dell’intendimento, quest’arte del disordine alfabetico. Questo libro ricchissimo, dove abbiamo testimonianza della poesia, della musica, delle sue vicende anche personali; sono descritte alcune vicende familiari, sono raccontati i vari aspetti più importanti della sua formazione. Certamente, essere nato in una famiglia dove l’arte era di casa, dal padre al fratello allo zio, Tono Zancanaro, questo certamente ha introdotto una propensione verso l’arte, verso il lavoro intellettuale, ma che poi evidentemente è stata coltivata e esaltata dalla ricerca del maestro.
Le varie vicende, le evocazioni, la materia del viaggio in questo libro sono raccontate con dovizia di particolari in maniera veramente unica e interessante. È un libro che non parla sulla musica o di musica, ma è un libro di musica nel senso che è narrata qui la sua vicenda, la sua esperienza e la sua musica, che diviene musica anche proprio all’ascolto, all’ascolto della sua scrittura. E allora a ciascuno l’invito di cogliere la musica leggendo il suo libro, del quale il maestro Bussotti parlerà poi personalmente, e di cui ci darà testimonianza Giorgio Segato, critico d’arte, che a Padova nessuno certamente ignora e che ringrazio di essere con noi qui questa sera accanto al professore Giuliano Pisani, assessore alla cultura del Comune di Padova, che ha voluto questo avvenimento. E lo ringrazio molto per la collaborazione in atto e a cui cedo ora la parola, già anticipando che purtroppo si intratterrà con noi solo alcuni minuti, perché alcuni impegni istituzionali lo richiameranno poi altrove. Allora la invito al suo saluto e le passo la parola.
Giuliano Pisani Grazie. Come assessore porto il saluto dell’amministrazione. Come cittadino e come persona che ama in qualche modo tutto ciò che si richiama alla cultura, esprimo la più viva soddisfazione per avere con noi qui, questa sera, Sylvano Bussotti. È un avvenimento che la città di Padova deve sentire come un’occasione molto particolare e straordinaria. Perché incontrare persone straordinarie in quest’epoca, come in tante altre epoche -non è che la nostra sia più svantaggiata probabilmente di altre epoche- non è facile.
Non è facile trovare o incontrare persone di grande qualità, persone che ci possono, solo con la loro presenza, indurre a riflettere o a cercare di capire che siamo inadeguati. Siamo tutti inadeguati quando incontriamo delle persone che, per la loro stessa presenza, ci stimolano a muoverci, a incamminarci verso una strada che non può che essere la strada che porta in su, l’andare in su. Non certo il continuare a rimanere quaggiù, dove ci aggiriamo nel quotidiano o in mille altre situazioni.
Io dicevo prima maestro, ché vengo da incontri nella quotidianità, ma anche recenti, di una spiacevolezza totale sul piano culturale. E quindi per me è come se fossi balzato dalle bolge più profonde dell’Inferno dantesco improvvisamente così nel…
Sylvano Bussotti Nel Purgatorio.
Giuliano Pisani No, no, direttamente in Paradiso, nella rosa, nella candida rosa, vedendo lei. Poi, con l’introduzione che ha fatto Ruggero, gli stimoli sono enormi. Insomma qui -salutando anche il presidente della Commissione cultura, il professor Franciosi e il nostro carissimo vicepresidente del Consiglio comunale, il professor Giuliano Lenci (quindi anche il Consiglio comunale è rappresentato autorevolmente con due persone di grande cultura)- a noi veniva in mente di pensare, visto che si parlava del fare, che il fare è poièin; quindi il poeta è colui che fa. La pòiesis è l’atto del fare, l’atto creativo del fare.
E è un fare che, non contraddistingue naturalmente quello che noi intendiamo oggi solamente come poesia ma, indicava già in passato e nel suo nascere, come la poesia fosse associata ovviamente alla musica, la phonè alla parola, cioè il suono direttamente alla parola. Se noi pensiamo, non dico a Omero, ma a Saffo, Saffo è musica. Di lei noi diciamo che è una poetessa, di Pindaro noi diciamo che è poeta (come dire: dovremmo pensare a un qualcosa, anche se nella qualità dovremmo discutere); oppure diciamo “è un Wagner”, cioè scrivo il testo, però contemporaneamente ho la musica, cioè ho la partecipazione totale della creazione.
Di fronte a Sylvano Bussotti ritroviamo questo tipo di figure: il musicista che è poeta, il poeta che è musicista e che poi traduce anche nella pittura. Noi non sappiamo se Saffo fosse anche pittrice, ma non ci stupiremmo minimamente che lo fosse stata. I termini sarebbero diversi, ma…
Quindi siamo in una disciplina artistica a tutto tondo, laddove nei tempi moderni io non saprei trovare altre persone da indicare in questa direzione.
L’altro tema che ha sollevato Ruggero Chinaglia molto opportunamente è questo del disordine alfabetico: è il caos e il cosmos. Queste sono le due definizioni: il caos e il disordine. Ma per fortuna c’è il caos, perché se non ci fosse il caos non potrebbe esserci il cosmos, visto che viviamo tutti sotto il segno del due e ogni cosa esiste perché esiste il suo contrario. Il caos è quell’informe primigenio all’interno del quale si pone un ordine, che è al tempo stesso non un ordine solo di carattere di successione o un ordine numerico, ma anche ordine da altro punto di vista.
L’ultima cosa che mi verrebbe da pensare è quando accennavi alla leggerezza, questa grande virtù. Aspiriamo tutti a Calvino pensando alla prima delle cinque Lezioni americane, l’esaltazione della leggerezza. Ma basterebbe pensare che quando parliamo di leggerezza il suo contrario è la pesantezza. La pesantezza già di per sé ci fa orrore, non solo dal punto di vista magari di qualche chilo di troppo, ma la pesantezza di un discorso, di un film, di un evento. La leggerezza invece è una grandissima straordinaria virtù, è una grandissima straordinaria qualità.
E poi, ultima notazione, io il libro non ho ancora fatto a tempo a leggerlo, ma sono di quelli che ci arrivano a leggerlo con calma. Diceva Ruggero che è una scrittura non facile. Per fortuna, nel senso che se noi siamo di fronte alla scrittura facile, a quel punto è meglio che andiamo a leggerci il giornale o qualche cosa del genere. La scrittura deve essere impegnativa, perché deve essere in grado di farci fare quella salita.
E allora mi veniva in mente – e poi chiudo per non annoiare nessuno e anche perché mi aspettano al Teatro Verdi alle 18.30 – quel giovane che andava da Ungaretti e voleva che il maestro gli spiegasse Mallarmé, perché non lo capiva. E Ungaretti gli diceva: “No, no, tu continua a leggerlo.” E questo insiste. All’ennesima volta – e è ben noto l’aneddoto, quindi mi scuso se vi annoio con questa citazione – gli disse: “Guarda amico mio, che non è Mallarmé che deve scendere a te. Sei tu che devi salire a Mallarmé”. Quindi in questo senso, per fortuna, la scrittura del maestro Bussotti non è una scrittura facile. Ma vuol dire di per sé che è una scrittura che nei suoi contenuti e anche nella sua forma ci darà ricchezza. Grazie allora, maestro. E benvenuto a nome della città.
Ruggero Chinaglia Allora, salutando e ringraziando l’assessore Pisani per il suo intervento generoso e interessante, come ogni qual volta lo sento mi capita di constatare, ora direi che possiamo passare a ascoltare un brano della musica di Sylvano Bussotti. Il brano s’intitola: La sonata.
Sylvano Bussotti Della quale vengono eseguiti alcuni frammenti, non per non annoiare, ma perché le proporzioni sono veramente importanti. Allora diamo alcuni frammenti della Sonata e poi concluderemo con l’esecuzione integrale di Bachiana di bachiane, della quale parleremo dopo.
Ruggero Chinaglia Certo, bene. Allora invito il maestro Luca Paoloni a eseguire La sonata
[brano musicale].
Ruggero Chinaglia Ora passo il microfono a Giorgio Segato per il suo intervento.
Giorgio Segato Immagino che Sylvano avesse già sentito eseguire da Paoloni questi pezzi. E perciò sarebbe stato interessante sentire se si sente ben interpretato, se è stata una buona esecuzione e se comunque una buona esecuzione diventa una buona interpretazione, perché ci sono diverse varianti e variabili che puoi accettare o non accettare. Questo per quanto riguarda la musica nella sua complessità, ma anche per la scrittura.
È stato detto che è una scrittura difficile. Per fortuna che è difficile, così invita a pensare. Ecco, io sento invece che è una scrittura di carattere, una scrittura e uno stile personale molto forte. Più che difficile è uno stile forte. Una volta che si entra nel suo modo di scrivere si comincia a capire: è una sorta di tessitura continua. Mi pare interessante quello che scrive la Stoïanova alla fine del libro, nell‘Elogio all’apertura, dove dice che “tu sei un’artista dell’apertura”. È una definizione molto interessante, molto bella, perché ha diverse valenze.
In campo intellettuale può essere inteso come lo intendo io in senso generale, cioè che sei straordinario nell’intuire momenti di avvio che poi non ti interessa nemmeno di continuare, che senti continuamente presenti le diverse possibilità di direzione. Ecco spiegato allora questo grande interesse per forme differenti di arte. Il libro stesso, Disordine alfabetico nel suo sottotitolo, riporta Musica, Pittura, Teatri, Scritture (1957-2002). Quindi, si tratta di una raccolta di scritti nuovi, altri pubblicati, di una tessitura in cui diventano importanti, forse più che gli argomenti specifici che sono puntualizzati, che sono conosciuti, i momenti di raccordo, cioè le cuciture, come metti insieme, il percorso che ricrei.
Questo percorso, come libro, del disordine alfabetico in cui riconosci la presenza di un alfabeto, e quindi di una possibilità di sintassi, ma che vivi nella sua ricchezza disordinata di insorgenza libera, che non ha delle regole rigide e fisse, nemmeno i canoni classici, che diventano in sostanza uno specchio da rompere. Trovo interessante questo modo di raccontare e di raccontarti: è come una scrittura solida, compatta, che non ha momenti o cedimenti descrittivi e in fondo nemmeno narrativi e che è nello stesso momento sempre tra il saggio e il diario.
Lo stimolo del diario porta all’apertura di un saggio, a volte non finito, ma soltanto per appunti, in cui tocchi i problemi della tua esperienza, dell’insorgere delle tue esperienze. A volte, in poche righe racconti tutto te stesso. A pagina 25, bellissime queste sette-otto righe, dove parli a te stesso allo specchio. Scrivi: “Avevo dodici anni. Una barba studiare il violino! Quell’anno il calendario era di un bel cartoncino, invitava disegni per il suo verso. Andare e venire con gli Uffizi sotto casa sapeva di impubere assassino che ritorna indisturbato sul luogo dei delitti festosi, rinascimentali, traboccanti sensualità già prima, che a tutto il vivere, poi detterà solfeggi. Copiando polittici e pale, veniva inconsapevole a formarsi l’arte scenica, perenne desiderio d’art total, nel paziente disordine precoce del compiere intero un ciclo, a salti rimescoli le avare carte dei mezzi”.
Più autobiografico di così! È anche più riassuntivo di tutte le esperienze che hai fatto: dal disegno alla pittura, alla musica, gli stimoli avuti agli Uffizi. E poi la famiglia, il Tono Zancanaro, il padre, il fratello, il dichiarare che la presenza del musicista ti ha salvato da quella che era l’esperienza quasi predestinata, quella di pittore, esperienza che affronti invece poi verso la musica. Quindi, sempre tra il saggio e il diario, avvio dell’uno e avvio dell’altro, a volte insieme, però senza obbligo di continuità, senza obbligo di continuazione, a memoria.
Quasi sempre senza date. Per esempio: riferimenti fisici e riferimenti storici anche, ma senza date precise. E invece, sempre molto ben delineati i personaggi che hanno contato per la tua vita e che emergono dal racconto: quelli vissuti direttamente a tu per tu, quasi in colleganza, quelli sentiti come maestri. Come Ettore Luccini per esempio, che tu definisci un maestro. Non uno dei tuoi maestri, ma comunque maestro perché maestro di vita, maestro di filosofia, personaggio che ti ha mostrato una strada, ti ha fatto vedere una strada.
Descrivi in modo particolare l’esperienza del Pozzetto, l’esperienza – straordinaria per la Padova di allora – del concerto di John Cage, che resta indimenticabile in tutti quelli che lo hanno visto, sentito o ne hanno anche solo sentito parlare, perché moltissimi citano questo evento di cultura padovana. Anche le mostre di Renzo diventano per te un momento di profonda riflessione e di apertura di un’altra via; la poesia di Zanzotto, con la quale termini questo libro. Parli di Andrea con estremo affetto e rispetto, proprio quasi dell’allievo al maestro. Anche Zanzotto ha aperto straordinarie vie a poeti, a giovani, a artisti, sempre disponibile.
Però fai anche i tuoi quadretti. C’è tutta la parte dei 15 nomi all’alba. Ecco, anche questo è interessante: all’alba, questa definizione del tempo, così come il titolo, naturalmente, che diventa chiarificatore del tuo modo di raccontare. Ma ancora la poesia, l’uso della parola. Si parlava prima della parola, la parola suono, la parola musica, il suono che diventa parola, la musica che ha sempre cercato una possibilità di descrizione, ma che non ha mai trovato. Io resto convinto che la musica non si può raccontare, descrivere, quasi nemmeno si può fare una critica musicale. Bisogna ascoltarla e parteciparla. Ma anche in questo caso io ho trovato importante la tua definizione, il tuo modo di raccontare la musica in poesia. Non dico in versi, in poesia.
Si presti un momento di attenzione, una / volta esclamata la bella, solenne, ricolma, / inebriante parola: MUSICA, a quella / caotica frana per le numerose, insulse / definizioni, nel linguaggio comune, dei / suoi vari generi, che di colpo svilisce e / precipita l’alato sostantivo nel ruolo dei / detriti funzionali. A chiunque può però / sembrare istantaneamente chiaro, vivido, / vedasi simpatico, il concetto di “musica / leggera”; in effetti al poeta innato tale / accostamento delle due parole birbone / fornirebbe montaliane occasioni che il / paroliere ignora; nel campo di cosiddetta / musica vengono poi a derivare / colorite, numerose specialità dettate / principalmente dai mercati editoriali, / discografici, cine-video-commerciali; allegre / tutte, appagate del semiuniversale / riscontro nella cultura di ogni uomo che / in questo mondo viva. L’improprio / conio di “musica classica”, viceversa, / generalmente viene contrapposto al / precedente che genericamente ribalta / (solo per scherzo qualcuno la chiamerà / “musica pesante” senza che l’ostica, bassa / immagine giustamente, riesca ad attecchire, / imporsi). “Lirica”, “sinfonica”, “vocale”, / “cameristica”, “antica”, “moderna”, / “barocca” o “elettronica”, “operistica” / e “di consumo”, sono, queste, soltanto / alcune fra le più comuni, per certi versi / sconcertanti, etichette di cui la gente si / serve per sparlare di musica; fra i / musicisti medesimi circolarono più / autorevoli, spesso dogmatiche, forme /d’appellativo delle quali rammentiamo / “dodecafonica”, quindi “seriale”; la / prima celebre quanto Picasso, clinica, / fastidiosa e temuta la susseguente non / meno d’un disastro naturale (pagg. 37-38).
Ma questa è un po’ la descrizione del mondo della musica, che ripete e ribadisce più volte. Chiaramente è una forma di costruzione polemica, ma di una polemica sempre molto chiara, molto nitida, per niente – come si diceva – difficile, ma che presenta quella che Sylvano stesso chiama: “la vil razza dannata dei musicisti”. Poi si sofferma ancora su un libro interessante che era uscito, ma che non aveva mai suscitato particolare entusiasmo, proprio perché se la prende un po’ con i musicisti: il famoso Mozart and the Wolf Gang (Mozart e la banda di Wolf) che racconta un po’ tutte le esperienze dei musicisti, le personalità.
Devo dire che è nello stile di Sylvano Bussotti quello di fare dei cammei estremamente precisi delle persone che ha incontrato nella sua vita: alcune, che ha incontrato e con le quali ha condiviso determinati momenti culturali; altre invece, solo attraverso letture oppure esecuzioni musicali, perché alcune recensioni di autori che sono qua presenti non li hai direttamente conosciuti, ma hai ascoltato e hai espresso delle opinioni non da critico musicale, ma collegate con la tua personale esperienza.
La tua personale esperienza è sempre il filtro attraverso il quale si costruisce questa trama sostanziale di un diario, in cui l’ordito è una sequenza di piccoli saggi, forse anche meglio, di piccoli assaggi tecnici, musicali, letterari, pittorici. Molto belle le pagine in cui parli di te e di Renzo, cioè questo parlare dei due fratelli: prima di sé, poi di Renzo, poi ancora torna su se stesso, sulla propria storia, sulla pittura di Renzo. E sulla pittura di Renzo subito dichiara in maniera esplicita, in maniera evidentemente anche generosa e piena di affetto, che era fin dall’inizio chiaro che “il Beethoven” era Renzo.
Leggo dal libro: “Per associazione, il vero Beethoven, fra noi due, è sempre stato Renzo. Aggrappati ai contenuti, esaltati e commossi come appare, per sfuggire, di codesta pittura, l’ancor più insostenibile accusa, passione politica, sostegno fortissimo e superiore di tanta pena, disegnano alto riscatto” (pag. 103). Va avanti descrivendo lateralmente, mai puntualizzando, focalizzando un quadro o una situazione, ma il modo di Renzo di dipingere, di sentirsi pittore, di vivere la pittura. Questo è particolarmente significativo.
Come dicevo, poi anche di Ettore Luccini. Questo ricordare Luccini come intellettuale soprattutto, come uomo di testimonianza e di insegnamento, come guida, come figura “capace di aperture”, come dice la Stoïanova. E per Ettore Luccini dedica tre paragrafi, mi pare qualcuno già pubblicato. “Certo in qualcuna delle più vecchie case fiorentine si troverà qualche giorno una traccia, programma stampato, articolo di giornale. Adesso la pubblicazione padovana conta soltanto per la mia memoria, come provocazione improvvisa, che taglia il corpo delle partiture, confonde i colori più ingenui alle scenografie. Ettore colse, primo di tanti, moltissime cose, se si può dire, al cuore del loro valore, sul momento essenziale (pag. 240).
Sentire che Ettore Luccini ha colto le cose al cuore del loro valore, nel loro significato e nel valore che avevano, che potevano avere e che indubbiamente costituiva il momento essenziale, l’essenza della situazione. Ci sono molte altre parti che mi ero segnato e che trovavo interessante leggere, ma poi Ruggero ha introdotto in maniera esemplare la pubblicazione. E allora vorrei chiudere il mio intervento leggendo un piccolo brano dall‘Elogio all’apertura di Ivanka Stoïanova, in chiusura del libro: “Musicista, compositore, pianista, pittore, scrittore, poeta, attore, disegnatore, regista, scenografo e costumista per il teatro e l’opera Sylvano Bussotti (1931) è un artista poliedrico che pratica fin dall’inizio della sua attività artistica in modo del tutto spontaneo e quasi “per sbaglio” l’apertura nell’opera d’arte.
Il suo straordinario talento gli permette di intuire, prima dei suoi colleghi europei, l’avvento e la diffusione del caso, della forma aperta, della grafica musicale, della musica gestuale, della stratificazione narrativa o non narrativa, nell’espressione musicale e di imporle con opere convincenti. Nella sua versatilità l’artista è nemico dichiarato di ogni evidente e definitivo principio normativo, – ecco anche il disordine alfabetico – e non può che creare opere aperte. Per la produzione artistica di Bussotti questa totale apertura è una caratteristica tipica e permanente”(pag. 335). Grazie.
Ruggero Chinaglia Ringraziamo Giorgio Segato per il suo intervento generoso e illustrativo delle caratteristiche più importanti di questo libro e, prima di passare la parola a Sylvano Bussotti, invito Luca Paoloni a eseguire Bachiana di bachiane.
[brano musicale]
Ruggero Chinaglia Certamente, ascoltando le note e l’esecuzione del maestro Paoloni, risulta chiaro questo brano del capitolo: Musica e nuova musica, dove Sylvano Bussotti scrive: Parlare di musica, per chi esercita il mestiere di compositore, è un compito non soltanto ingrato ma potrebbe apparire addirittura un controsenso. Indefinibile per essenza, la musica sopporta che se ne prenda contatto solamente attraverso l’ascolto. Non solo, ma per ascolto qui s’intende una consuetudine intima e amorevole con le opere del suono, cioè l’ascolto ripetuto, instancabile, attento in una concentrazione assoluta che nessun evento esteriore dovrebbe distrarre o ferire, distruggere. E qui sta il punto. Anzi, i molteplici aspetti del problema (pag. 193).
È chiaro che leggere il libro, ascoltando le composizioni del maestro, deve essere qualcosa di assolutamente straordinario. Allora, adesso invito Sylvano Bussotti al suo intervento, poiché ogni altra parola di presentazione mi sembra superflua. L’unica cosa che forse merita un accenno è la questione internazionale. La sua vita e anche la sua produzione – e questa è una questione che formulo anche come domanda – ha indubbiamente risentito per un aspetto della tradizione della famiglia, dell’Italia, ma per un altro aspetto sicuramente anche del suo abitare, andare a vivere in ambienti differenti quali New York, Parigi, Stoccolma, Buffalo,Vienna.
Innumerevoli sono le città dove lui è stato, dove ha lavorato, dove ha diretto teatri, opere. E questo sicuramente è anche un altro di quei motivi per cui noi abbiamo voluto che Sylvano Bussotti fosse qui, accanto a quella mostra a cui accennavo prima. Ricordo ancora che Sylvano Bussotti è Commendatore dell’Ordine delle Arti e delle Lettere dello stato francese e unico artista vivente che può vantare di esporre una sua opera nel Museo parigino dell’Orsay, accanto a Van Gogh se ricordo. Prego maestro, a lei la parola.
Sylvano Bussotti A me non dispiace che la tecnologia si dimostri un po’ fallace e che ogni tanto il microfono in questa occasione abbia bisogno di qualche schiaffo, come nei tempi in cui ascoltavamo la radio o addirittura- forse qualcuno ricorda – le galene. E bisognava dare dei pugni perché si continuassero a ascoltare in certi momenti. Tento di non dimenticare le domande postemi e, dunque, di approfittarne.
Quando Segato mi chiede se sono contento delle interpretazioni, non solo di Luca Paoloni (domanda che va girata direttamente al pubblico), pur non conoscendo le partiture e del quale cerco di far parte, cerco di avere totalmente dimenticato quello che ho scritto. Debbo intanto dire che Bachiana di bachiane è una composizione scritta per dedicarla a Ivanka Stoïanova, dalla quale ho avuto (come è stato sottolineato stasera) da tempo, e mi viene da dire spero di avere fin che campiamo, una comprensione veramente profonda e comprensiva nel senso pieno di questo termine.
E più che soddisfatto, le interpretazioni musicali non le fanno solo i violinisti o gli interpreti, le fanno anche gli strumenti, ahimè. E un violinista, che quanto meno all’apparenza è così fanciullo (in realtà è un giovanissimo violinista) non si può immaginare che possieda un violino da 50-60-80 milioni di vecchie lire, possiede un buon violino, per adesso ha un arco meraviglioso. Dunque, la virtù dell’arco (credo che fosse evidente) e la bravura dell’interprete stanno nel recuperare eventuali tradimenti della modestia del violino facendoli diventare espressivi. Che è poi mettere il dito sull’enorme e eventuale unico problema della musica scritta nell’epoca in cui si vive, cioè dei propri contemporanei.
E credo che lo sia sempre stato. Parla un linguaggio talmente nostro, talmente dentro la nostra pelle, che non ci fa riconoscere quello che abbiamo o studiato o ascoltato, come musica più o meno antica, già stratificata in un certo modo. Ora, per quanto riguarda – mi dilungo un tantino, spero che Luca poi non si vendichi in qualche maniera – l’interpretazione di Luca, essa giunge a me con qualcosa di più diverso e anche, se si vuole, lontano dal fatto musicale in senso proprio, nel quale peraltro è evidente che tecnicamente è perfetto, eccetera. Ma io conosco Luca da quando, credo, aveva cinque anni, che cantava nel coretto dei bambini in uno spettacolo lirico e è da allora che collaboro con la sua famiglia.
Luca, tra l’altro, è gemello di un mio allievo, che è un gemello femmina, compositore – scusate se dico “compositore” all’antica- estremamente dotata, cioè una dote gemellare importante. Tutto questo mi fa – e non voglio aggiungere ahimè, e se lo aggiungo passatemela come civetteria – rivivere letteralmente, perché quando ho conosciuto Luca aveva l’età di quando ho cominciato a toccare un violino e, nell’andare avanti del nostro dialogo di lavoro, porta avanti proprio un ritorno che non è soltanto autobiografico o un ritorno all’autobiografia, ma storiografico.
Infatti, Bachiana di bachiane perché si chiama così? Perché da ragazzo, all’incirca dieci anni dopo, dai 15 ai 18 anni, ho composto una serie di sei bachiane che sono state anche eseguite a quell’epoca in contesti di conservatorio, di classi e che ho voluto riunire in un’unica bachiana. Siccome molto spesso si dice che la musica contemporanea è una musica classica con tante note stonate, ho trovato questa idea fonte di ispirazione estremamente interessante, e anche la natura degli strumenti e il fatto che alle orecchie contemporanee stonerebbero molto, se le sentissimo come delle attribuzioni proprie di Bach, per non parlare di Vivaldi, per non parlare di tante altre cose. Scusatemi se mi sono dilungato un attimino su questo, ma volevo cogliere questa occasione.
Io ho chiesto il permesso a Francesco Loperfido di leggere una sua breve presentazione fatta il 23 scorso a Ferrara di questo stesso libro. E adesso farò tutti gli sforzi possibili per frenare le emozioni che questo testo mi ha dato nell’ascoltarlo, letto dall’autore e nel rileggerlo poi. E avverto soltanto una cosa: che potrà sembrare che alcune cose siano state dette e ridette. Qui ho avuto una copia di lettori tale, per cui non posso leggere quasi più nulla, perché sono andati a pescare molte cose che avrei letto io e che dunque non rileggerò.
Come nelle parole di Segato, in quelle di Loperfido si ritrovano concetti, persone, cose, eventi del libro pressoché identici. E vi ricordo che in musica ci sono due tipi di movimento, che sono l’ostinato e il ritornello. Sono fatti importanti. Dunque, mi permetto intanto di iniziare con questa breve lettura del testo di Loperfido che mi dava un bentornato in questa occasione:
“Benvenuto a Ferrara, Sylvano. Bentornato, figlio della bilancia, per il tuo Disordine alfabetico, opera multiforme di un artista completo, “politecnico”, direbbero greci, antichi e illuministi. Ho letto sull’indice di settembre la recensione di Davide Bertotti sotto il titolo: Ricordi sparsi di un dramma vissuto.
Mi spiace di dover rinunziare, per manifesta incompetenza, a una emphasis descrittiva della copertina di Disordine alfabetico: tu solo lo puoi fare. Tua è questa concentrata enciclopedia ultraespressionista di collage polìcromo-plastici, di spazi incisi o disegnati con grafie finissime, spartiti su luoghi infiniti ove dritti spuntano nomi come: Bergkristall dell’amato Stifter, cristallo di rocca da lui mai nominato. Sarai tu, Sylvano, a scriverne la musica, a portarla alla Scala e a teatri di mezzo mondo. Anche il titolo dei saggi, salvo errori, è riferito a Adalbert e al surreale caos di libri che si assiepano e si celano, secondo un certo disordine alfabetico. E la musica? Il suonatore di cetra si trasfigura come assalito da un rapimento.
In Der Nachsommer, Estate di San Martino, parla “Il cuore di un vecchio nella sua tragica sapienza”. “Grande Musica”, commenta Sylvano. Stifter è il primo dei 15 nomi all’alba. La musica ha ancora il potere di rapire? Vale ancora l’estrema interiorità delle hegeliane lezioni di estetica? I suoni scorrono nell’interno più profondo dell’Io? E sul senso teologico di musica e rapimento, sull’ascolto in abbandono del silenzio, secondo quanto raccomandava Ettore Luccini a Pier Vincenzo Mengaldo? Sylvano non ripeterebbe che è la più incorporea delle arti e che comporre significa andare oltre?
Lui ha sfidato, con Cage, la possibilità di fare musica mettendo in gioco sensibilità e intelletto, misurandosi con l’onnipotenza del caso e strappandogli nuovi suoni e nuovi ascolti. In una intervista fattagli da mia sorella, Maria Giovanna Maioli, per “Il Nuovo Ravennate” a proposito della sua divinazione casuale dell’aprire pagine all’improvviso, rispondeva: “Io sarei l’uomo più felice del mondo se potessi fare concerti e serate aprendo a caso libri che mi vengono offerti anche in quel momento”. Caso e affettività si incontrano nella dedica a Michela, la nipote che vive in Cina (Michela è la bella bambina che Sylvano ricorda con tutte le sue vivide astuzie). “Trovo l’ideogramma che mi piace, non ne conosco il senso, cosa dice, tanto siamo ignoranti. Ma, se vola, intonerà la dedica a Michela”.
Consanguineità fisico-artistica e singolare unicità di Sylvano coesistono e consistono nel suo desiderio di non trascurare niente, di ascoltare tutto, di giocare, lavorare, di vivere fino in fondo l’eterno presente reagendo con profonda, illuminata parola alle volgarità del secolo e alla sua barbarica violenza, immettendo nel nostro mondo il sale della conoscenza. Tu, giardiniere del sapere, artigiano del sublime, sei asceso sull’Olimpo della contemporaneità, dentro la realtà incancellabile della storia. Grazie dei tuoi doni: stile, eleganza, classicità”.
Me ne vergogno non poco, perché è un testo che mi ha messo in un imbarazzo enorme, soprattutto perché, non confessarlo qui a Padova, sarebbe veramente un tradimento. Sono convinto che abbia ragione! Dunque, la convinzione che Loperfido abbia colto nel vivo mi lascia obbligato, “servo suo”, come si diceva una volta. Nel senso che non ho possibilità di scrivere se non musica in questo modo, in questa maniera, o tracciare segni. E se così non fosse veramente sarei da condannare, perché rendiamoci conto del privilegio di un bambino che ha uno zio come Tono e un fratello come Renzo. Tono mi prendeva in giro dicendo che, grattando con una lametta da barba la punta dei pennini, si faceva come con la matita, diventavano più sottili, si pulivano semplicemente. Non è vero. Ma io ho creduto che diventassero più sottili e gli grattavo i pennini.
Renzo – tra i due ragazzi di casa Bussotti ci sono, credo, sei anni di differenza – ha patito esperienze adolescenziali atroci, perché si può dire che ha fatto la resistenza da ragazzino e questo gli ha senz’altro almeno conservato un carattere taciturno, pensoso. Poi la sua pittura. Non ho bisogno di raccontarlo a nessuno, insomma, quanto testimoni tutto questo, trovandosi accanto un incorreggibile giocherellone – c’è un contrasto di questo genere – e che però curiosamente stava a imparare e a vedere tutto questo. Guai a me se poi non avessi prodotto e non continuassi a produrre.
Nel pubblicare testi già apparsi -e la più parte dei testi in questo libro sono già apparsi in tantissime altre pubblicazioni – il problema è veramente quello, come è stato osservato: delle ricuciture. E nell’incontrare una serie incredibile di persone – solo quelli che erano morti prima non ho conosciuto, ma quelli di cui parlo sono tutte persone che ho conosciuto, alcune delle quali con cui continuo – Arbasino ad esempio – a intrattenere rapporti molto stretti di amicizia, tutti questi privilegi, una volta vissuti, sentiti, se si ha il coraggio di guardarli in faccia sono tali che ti obbligano a fare, lasciatemi usare il parolone, dei capolavori, o altrimenti smetti.
D’altra parte per difendermi, ad esempio, dai discepoli, che non sono pochi e potevano essere più bravi, bravi come il maestro, cominciare da lì e poi diventare più bravi, dico sempre: “Se non sei bravo come me è inutile. Ma siccome non lo sarai mai, perché il genio si manifesta una volta sì e no tra 100, 50 anni, 150 anni, 200 anni, dunque, non varrebbe la pena. Però, forse lavora e si farà vedere, eccetera”, con atteggiamenti di questo tipo e fortunatamente anche con un temperamento, (come mi sembra di dimostrare, abbastanza allegro, abbastanza estroverso, che equilibrasse appunto i silenzi, le introversioni di Renzo. Era fatale che a Padova riconducessimo po’ tutto alla famiglia, ai fatti, che sono fatti dei quali non solo non ci si deve adontare, ma di un’importanza fondamentale nel caso di questo ragazzino, ex ragazzino, fondanti proprio di un tutto.
Volevo soltanto ripercorrere un attimo la ricostruzione nel tempo dai vari titoli dei capitoli, perché può essere curioso e interessante. I Sette preludi facili ad esempio: Bartòk, Schumann eccetera, hanno cominciato o hanno prodotto e pubblicato delle cose – Schumann in particolare – volutamente facili, semplici, per dare ai fanciulli e agli allievi dei primi corsi la possibilità di eseguirli. Dunque questi primi sette pezzi li considero in qualche modo sette preludi facili, seguiti dai Quindici nomi all’alba. Questo fatto così suggestivo, nomi all’alba. Naturalmente è inutile che sottolinei che, quando una frase mi colpisce per la sua musicalità, perché diventi settenario o endecasillabo, faccio solo più fatica a frenarla, perché altrimenti scriverei pagine e pagine seguendo quel ritmo.
Io ho fatto il servizio militare, per mia fortuna, quando se ne facevano 18 mesi e dunque ho avuto modo di vivere un anno e mezzo con un certo tipo di esperienza. E i commilitoni segnavano con delle crocette i giorni che passavano, le albe, perché l’alba è una cosa classica del militare che si alza all’alba, quanti giorni. Quindici giorni all’alba significava: tra quindici giorni vado in congedo. Quindici nomi all’alba prende l’avvio da una cosa molto lontana e dentro questi 15 nomi ce ne sono molti che ho conosciuto, che conosco, eccetera. Così come Se dodici una mano. Pensare che una mano sia fatta di 12 dita, che neanche tutte e due le mani arrivano a questo, è un riferimento alla serie dodecafonica -è qualcosa che è stato così importante – e anche poi, se vogliamo, alla magia, all’astrologia, il numero 12, eccetera.
Faire la salle è una serie, forse la più nutrita. Sono 18 pezzi. Faire la salle, si dice di un attore, di un’attrice che, pur di essere applaudito, usa tutti i mezzi, mezzucci (il top era Edoardo, faceva la salle continuamente), purché un solo respiro di quell’attore o quell’attrice non vada perduto e colpisca. E gli attori più puristi, con una certa tendenza molto francese nel recitare soprattutto in teatro, che poi darà luogo alla recitazione tipica del cinematografo, che deve essere estremamente spoglia per essere credibile, non si può sgranare gli occhi e urlare, se non in determinati momenti, invece facevano la salle.
E qui ho raccolto di quelle cose che mi sembrano eccessive. Poi non riuscivo a finirlo questo libro, perché mancava sempre qualcosa che volevo assolutamente metterci. E non è stato del resto l’editore che mi abbia premuto, perché non avevo, ahimè, nessun contratto. Qui non esiste, credo, il sistema americano di versare una congrua cifra a un letterato e entro tre mesi o tre anni deve produrre per quella cifra ricevuta, qui non si riceve mai niente. E comunque la cosa è innocente, però non riuscivo. Volevo fare tre pezzi conclusivi un po’ legati alla triade e me ne sono venuti fuori cinque. Ecco, mi piaceva spiegare questo.
E adesso, se abbiamo ancora pazienza, qui a Padova vorrei leggere un unico frammento, ma che ancora una volta ci fa stare qui e che dà relazione di un fatto. Senza dubbio ci sono altre persone qui presenti che hanno avuto questo privilegio, ma io ho veduto gli affreschi del Mantegna prima del bombardamento e in questo testo lo posso rammentare. Ci sono due testi, uno che riguarda Mantegna agli Eremitani e l’altro Giotto agli Scrovegni. Vi leggerò il primo dei Dialoghi con gli affreschi che s’intitola Mantegna agli Eremitani: “Sui dodici anni, giusto mezzo secolo fa, trascorrevo a Padova periodi sempre più lunghi dell’anno. Frequentare a Firenze il conservatorio Cherubini, ancora studiando violino, sarebbe diventato presto un pericolo serio, con l’avanzare degli avvenimenti bellici. Meglio continuare a Padova dove lo zio, un artista come Tono Zancanaro, conosceva fior di musicisti, disponibili per controllare l’erratico andamento di arpeggi e fantasie di un ragazzino, sullo stridulo strumento dalle vivaldiane impennate.
Accanto a Tono e soprattutto a mio fratello Renzo, allora diciottenne, entrambi pittori, alternavo con imparzialità carte pentagrammate a cartoncini da disegno, accomunando scrittura musicale e tratto a mano libera con il medesimo, aureo, sottilissimo pennino inglese, marca Perry, tuffato in calamai sempre colmi di inchiostro di china. Sarebbe stato naturale, per me, fare un giorno il pittore, tanto assomigliava a una classica bottega rinascimentale quel mondo patavino. Del resto erano anni che disegnavo e ridisegnavo immagini sacre o visioni profane. Potrei anzi dire come la musica mi rappresentasse allora più di un obbligo scolastico (del quale, in cuor mio, mi consolavo pensando come ciò mi distinguesse dagli esempi dello zio e del fratello più grandi) che un diletto sorgivo.
L’esosa figurina del fanciullo prodigio, infatti, viene spesso e giustamente accomunata al musicista in erba. Io feci tutt’altro che eccezione. Quel tanto di misterico rappresentato dall’ideogramma musicale all’occhio profano, mi riempiva di un orgoglio sciocco, tipico dell’adolescenza incipiente. Bach, Mozart, perfino Strawinskij, credevo non avessero mistero per me, che guardavo gli strumenti musicali dipinti su qualche celebre pittura in chiesa, convinto di udirne, unico e solo, le armonie, contemplando le fogge di mantelli e corazze, o i muscoli del torso ignudo d’un San Sebastiano, con occhio già consapevole di spettacoli d’opera o balletto, più volte ammirati al “Maggio Musicale Fiorentino”, cui mi ammisero fin da bimbetto, e che mi sentivo predestinato a emulare ben presto.
Non amavo più tanto i giochi di cortile. Uscivo da casa quasi ogni mattina, raggiungendo velocemente i giardini dove, sopra tracce ancor visibili di un’antica arena, la Cappella degli Scrovegni affrescata da Giotto posava tranquilla sul brecciolino nella luce dell’estate. Molto più grande, con l’aspetto di una Basilica, sotto l’ombra di enormi castani e alti pioppi, la chiesa degli Eremitani conteneva invece le pitture di Andrea Mantegna. Dall’uno all’altro tempio c’erano pochi passi da fare, che ripercorrevo infinite volte.
E forse m’attirava di più la vasta e fresca oscurità degli Eremitani con al fondo la Cappella Ovetari, del piccolo tempietto Scrovegni, simile a uno scrigno, tutto affrescato in una prefigurazione ideale quanto irreale della galleria d’arte. Agli Eremitani si andava propriamente in chiesa, mentre per vedere Giotto era come penetrare in un museo, anche se la complicità del custode con berretto a visiera, amico d’osteria dello zio Tono, e i miei calzoncini corti, garantivano sempre libero accesso. Però le immagini, di circa un secolo e mezzo più tardi, del Mantegna rappresentavano certamente allora, per il mio fantasticare, scene stracolme di suggestione teatrale.
Mi fu detto come quei dipinti Mantegna li avesse creati ancora minorenne, intorno ai diciotto anni, dunque la stessa età di mio fratello Renzo quando per primo m’ accompagnò a vederli. Io sgambettavo, chiacchieravo da saputello, bassino e in carne, mentre mio fratello era bello, asciutto, longilineo, silenzioso e severo nello sguardo ardente appena mitigato dal sorriso. Quanto diverso dal duro volto del giovine rinascimentale. Contemplando l’ipotetico autoritratto di Andrea – dipinto a fresco, ma quasi che i colpi di stecca nell’argilla di un busto gigantesco tendessero a scolpirne la fiera testa dallo sguardo minaccioso dell’attaccabrighe, che con diversi rivali, pittori non trascurabili, trascinò a lungo la disputa per quelle mura – cercavo invano la grazia men che ventenne del precoce maestro, nei fulmini di un occhio colmo d’ira.
Abitavamo un vasto casolare rurale. Nella sua stanza Renzo appese una squillante riproduzione della Circoncisione, piccola coloratissima tavoletta dal Trittico degli Uffizi, dipinto forse di un decennio posteriore agli affreschi padovani; con archi, lunette, marmorei scomparti fra colonne, festoni, dorature in ogni dove; scacchiera sotto ai piedi delle lunghe figure adulte che un fanciullo, un bambino con la ciambella e il putto ignudo, offerto dalla Madonna al taglio del prepuzio, punteggiano delicatamente. Quello sì che divoravo con gli occhi come sogno decorativo di personaggi da sontuosa rappresentazione melodrammatica.
L’Assunta in cielo, il Gran martirio e il Trasporto di san Cristoforo, staccati già nella seconda metà dell’Ottocento, non erano da considerare, nelle riproduzioni presenti allora in chiesa, dove soltanto minutissimi frammenti autografi verranno un giorno applicati, dando barbagli delle tinte originarie a un collage dal fondo scialbo. Assenze provvidenziali, che salvarono almeno qualcosa da quel bombardamento aereo sferrato nel marzo del 1944 – neppure un anno dopo le mie visit e- e che ridusse in briciole gran parte del ciclo, ma fastidiose lacune per l’ansia, infantile ancora, che provavo nel percorrere la drammaturgia di una narrazione. Si trattava delle immagini, grandi e rettangolari, offerte per prima, subito sopra lo zoccolo, pronte alla lettura diretta e frontale, come San Giacomo condotto al martirio, dirimpetto, e accanto al Martirio di san Giacomo. Trucide storie di prigionieri e decollati a incutermi un’aspra inquietudine sacrificale, austera e leggendaria, generatrice d’incubi.
Testa mozza sul piatto, corpo gigantesco del santo protagonista, reiterato in più repliche – come poi si son lette, sia pure con difficoltà, nelle copie al Musée Jaquemart-André di Parigi oppure alla Pinacoteca di Parma – le ritrovo a scassinarmi la memoria con grimaldelli altrimenti scottanti della madeleine proustiana. Si criticò in Mantegna l’ossessione soverchiante dell’antico: personaggi più simili ad antiche statue che a figure vive. Ferri, armature, soldatesca (c’è un ragazzino che s’appoggia sopra uno scudo, con l’elmo, per lui troppo grande, portato alla brava sopra la testolina tenera e arguta), antichi eroi raffigurati con evidente predilezione, appiedati o a cavallo, spesso più rilassati, annoiati e compiaciuti di comparse da teatro, “vestiti d’arme bianche brunite e splendide” come scrisse il Vasari.
Per i biografi un bottino ghiotto, la gara a individuare quei viventi da cui Mantegna trasse le fisionomie dei suoi personaggi – lui stesso, vorrei sperare, vi può apparire più di una volta – e lo dico in questo modo: sommandovi l’ossessione, l’impietoso verismo, all’odio (perché non anche all’amore?), alla vendetta, a ogni violento sentire in petto al giovane artista; e spinti fino a conoscervi raffigurazioni amarissime ma stupefacenti. Come sarebbe giunto sennò al, più celebre fra tutti, Cristo morto di Brera?
Qualità “minerali” del colore, paesaggi “dal gusto quasi geologico”, vertigini prospettiche, raffigurazioni del reale in archi veronesi o campanili veneziani, logge, trionfali apparati e poi citazioni. Che sia dal Donatello o da Jacopo Bellini (di cui Mantegna sposava la figlia) non ha tanta rilevanza, penso, ma importa sottolineare l’impazzito assieme di elementi pronti a sfociare in una coerenza poetica nello stile che non ha eguali. Si sa quanto la schiacciante maggioranza dei dipinti del passato sia stata soggetta alla distruzione, polverizzata, come (peggio vorrei dire) si è dissolta la spoglia terrena dell’artefice.
Rivoltandosi la coscienza sotto il moderno rombo delle bombe, o dei roghi antichi appiccati, degli strappi per mano, forbici sacrileghe, oppure rapaci compravendite, il sereno mistero di un legame (come quello fra l’artista vivente e l’opera sua), che quasi sempre in minima parte gli sopravvive, potrebbe anche generare arcate del pensiero simili a quelle di un violino, respiri profondi, sorti nel seno di una filosofia intemporale colmi dell’eco d’un flauto di Pan. A piene mani attingeva Mantegna dentro quella involontaria summa del surrealismo letterario, mistica e sadomaso a un tempo, che è la Legenda aurea di Jacopo da Varagine, e che io stesso tentai di rappresentare (curiosamente istigatovi da Cesare Brandi), nell’opera Nottetempo presentata dalla Scala nel 1976.
Demoni, santi, tiranni, arcieri, bambini da guerriglia e poi putti alati, uccelletti in volo, festoni di frutta e fiori; davvero tutto un armamentario di rigattiere alla grande. Condannato Cristoforo al martirio delle frecce, queste non oseranno conficcarsi nelle sode carni del santo, ma ricadranno, devieranno significativamente. L’una colpirà nell’occhio addirittura il tiranno, affacciato al suo bel bancone di sfondo per godersi lo spettacolo.
Riesco a sospendere la confusa memoria mantegnasca – rammentare pitture contemplate da ragazzino poco prima che un bombardamento, di cui conservo ancora più crudo ricordo, ne sbriciolasse i resti – soltanto traducendo l’eccezionale ricordo in un pastiche proustiano, proprio in forma sparsa, come quei rimasugli. Immobile, scultoreo, inutile, quel guerriero puramente decorativo (che spesso si vede nei dipinti fra i più tumultuosi del Mantegna) intento a fantasticare, appoggiato allo scudo. Mentre accanto a lui ci si sgozza e si precipita, seguendo vagamente quel che accade con l’occhio glauco e crudele, ma deciso a disinteressarsi della scena; fosse il martirio di san Giacomo o quello degli Innocenti.
Forse il modello ebbe ciuffi di capelli rossi, arricciati dalla natura, ma incollati dal gel, poi scompigliati e trattati come su di una testa greca, studiata incessantemente dall’artista visionario. Nato in una frazione di Piazzola sul Brenta per approdare a Padova, Mantova e dilagare nelle pareti di museo del mondo intero, il pittore della Camera degli Sposi s’inventa un surrealismo che, senza voler figurare altro se non l’umano, riesce a cavarne, nelle forme più semplici, ricchezze tanto varie ma come prese in prestito da tutto ciò che vive. Cosicché una capigliatura, per attorcigliarsi allisciato in becchi acuti dei suoi ricci, o nella sovrapposizione del triplo, fiorente diadema di pesanti trecce, rassomiglia contemporaneamente a un mucchio agitato d’alghe, una voliera stracolma di pappagallini, serto in profumatissimi giacinti o viscido groviglio di serpi” (pag. 317 e seguenti).
Ruggero Chinaglia E allora, con la lettura di questo magnifico brano del libro, che integra musica, pittura e scrittura, concludiamo questo incontro, non prima di aver dato un’informazione e due inviti. L’informazione è che le attività dell’associazione proseguono settimanalmente alla sala della ex Chiesa delle Zitelle, in via Ospedale al numero 26, con una serie di incontri intorno alla Direzione dell’arte, della scienza, della scrittura, il giovedì sera. Due inviti: uno, di visitare questa mostra I tesori della Russia, Maestri dell’arte russa 1800-1900 al Palazzo del Monte, a due passi da qui; e il secondo, che è di leggere questo straordinario libro Disordine alfabetico. E per concludere, un saluto a ciascuno di voi da parte del presidente della commissione cultura del Comune.
Franciosi Voglio stringerle la mano.
Sylvano Bussotti Grazie.
Franciosi Se dovessi dire delle parole di circostanza, dovrei ripetere, probabilmente impoverendole, quelle già dette dall’assessore all’inizio di questo incontro. Quindi mi asterrò da questa parte, per manifestare invece una emozione di carattere strettamente personale: quella di essermi trovato questo pomeriggio in un avvenimento che, oltre a onorare la città, ritengo che abbia veramente arricchito noi che ne siamo stati partecipi. Le parole che abbiamo sentito, prese appunto dal libro e il loro raffronto con quello che, dobbiamo dire purtroppo, è stato sul Mantegna, è una cosa veramente notevole, difficile da dimenticare, perché ci porta caso mai al rimpianto, rendendolo ancora più amaro.
Anche la musica che abbiamo sentito ci ha certamente arricchito, facendoci constatare come, senza che io mi perda in parole banali, ci troviamo di fronte un vero artista, “politecnico”, come è stato detto, che onora l’arte in generale ma anche la nostra umanità, onora l’Italia. E onora la città per quella che abbiamo sentito essere stata una grande parte della sua vita, della sua formazione, della sua esperienza, tanto che ancora oggi io non so dove il maestro Bussotti attualmente abiti. Però è un fatto che lo abbiamo ancora qui a Padova. Certamente in conseguenza del fatto che è stato qui in anni fondamentali della sua vicenda umana, della sua formazione. Sylvano Bussotti, grazie ancora.
Ruggero Chinaglia Grazie professore. Allora, chi volesse avere una dedica al libro da parte del maestro che oggi si trova qui – e è questo già un evento straordinario – è il caso di approfittarne. Può trovare il libro in fondo alla sala, e il maestro sarà lieto di fare la sua dedica. Grazie e arrivederci.