
La navigazione intellettuale
- Berti Enrico, Mathieu Vittorio, Versace Gianluca
12 febbraio 2003 a Padova Conferenza dal titolo, La navigazione intellettuale. Ulisse e il valore dell’impresa, di Vittorio Mathieu, filosofo, scrittore, in presentazione del suo libro Le radici classiche dell’Europa, Spirali editore. Nella Sala Rossini dello Stabilimento Pedrocchi, con il Patrocinio della Regione del Veneto e del Comune di Padova. Sono intervenuti, Enrico Berti, filosofo, Ruggero Chinaglia, psicanalista, Gianluca Versace, giornalista.
VITTORIO MATHIEU
La navigazione intellettuale. Ulisse e il valore dell’impresa
sono intervenuti
- Enrico Berti, filosofo
- Ruggero Chinaglia, psicanalista
- Gianluca Versace, giornalista
Ruggero Chinaglia Buonasera. Mentre altri amici stanno arrivando, fornisco qualche elemento intorno all’incontro di questa sera. Siamo qui con Vittorio Mathieu per presentare il suo libro, Le radici classiche dell’Europa, edito da Spirali. Quest’anno, la casa editrice compie venticinque anni e la settimana scorsa si sono compiuti invece i trent’anni dell’associazione cifrematica; trent’anni dell’esperienza cifrematica in corso che si è avviata appunto il 5 febbraio del 1973. 5 febbraio 1973 – 5 febbraio 2003.
Abbiamo celebrato il trentennale a Trieste la settimana scorsa e altre manifestazioni sono in corso e si svolgeranno in varie città d’Italia e d’Europa per questa occasione, perché certamente non è frequente constatare che un’esperienza sorta e proceduta lungo lo spirito d’avventura, che non a caso, ricorre anche nel libro di Mathieu, giunge a compiere trentanni e a rivolgersi, quindi, ai trent’anni che seguono. E dunque non è affatto casuale che, per parlare attorno a questo bel libro di Vittorio Mathieu, abbiamo scelto questo titolo: La navigazione intellettuale, Ulisse e il valore dell’impresa.
In questi trent’anni di esperienza, si è trattato del viaggio, del viaggio intellettuale, della navigazione, dell’impresa intellettuale e di tutto ciò che sta attorno all’audacia, al rischio, alla scrittura, alla produzione, all’investimento. Si tratta di ciascun aspetto dell’impresa che non può disgiungersi da ciò che costituisce la vita, il viaggio della vita per ciascuno.
Navigazione, oggi, è un termine non molto usato, non proprio ricorrente, che evoca per lo più internet; navigare in internet, questo è lo slogan più frequente. Questa navigazione di cui internet è diventato il modo e l’esponente, richiama in qualche modo la questione del viaggio, del viaggio intellettuale, di un viaggio che si svolge senza sapere dove va a parare, un viaggio che non è per finire da qualche parte, ma è un viaggio senza ritorno, un viaggio verso l’inesplorato, un viaggio che dunque ha come suoi ingredienti l’avventura, il rischio, un viaggio che non si sa prima che cosa porterà, dove condurrà; procede dall’ignoranza e incontra il sapere come effetto del tempo nella navigazione, nel viaggio.
La nave, la navigazione, l’arca. Nella Bibbia ricorre questo termine l’arca per indicare la nave, per indicare anche la parola, la parola originaria. È interessante questo accostamento tra la navigazione, la nave e la parola originaria. E è in questa combinazione che l’esperienza cifrematica si è svolta e si svolge. Esperienza della parola, navigazione secondo la logica della parola verso la qualità della parola.
Questa è stata anche l’esperienza della casa editrice, che ha cominciato la sua produzione venticinque anni fa e di cui Vittorio Mathieu è stato testimone. Il suo primo libro pubblicato con Spirali è del 1983, quindi sono già vent’anni, e era un libro sulla musica, La voce, la musica, il demoniaco. Poi, dopo qualche anno, nell’86, ne è seguito un altro, Elzeviri Swiftiani, un libro che raccoglieva una produzione di scrittura comparsa sui giornali, quindi un libro sull’attualità: la produzione di un filosofo che parla dell’attualità delle cose con molta ironia, con molto spirito.
E poi Gioco e lavoro, un libro che ciascuno dovrebbe leggere per acquisire i termini dell’educazione intellettuale, un’educazione non pedagogica, un’educazione che si rivolge alla produzione, quindi alla qualità delle cose e non ad acquisire i canoni del comportamento. E poi, ancora, Il nulla, la musica, la luce, nel 1989. Questo è il quinto libro che Mathieu pubblica con la casa editrice Spirali e indica un cammino, un percorso, un itinerario che si è compiuto di cui lui è stato anche testimone in numerosi congressi e convegni, fornendo anche numerosi articoli per le riviste, per il giornale di cultura “Spirali” e per la rivista “Il secondo rinascimento”.
Si è trattato e si tratta del viaggio intellettuale, del viaggio che approda alla qualità, del viaggio che si compie perché ciascuna cosa trovi la sua qualità, perché, come Mathieu scrive nel suo libro, le cose non sono già qualificate, le cose per altro non sono nemmeno tali. Le cose sono in viaggio. Ciascuna cosa è in viaggio. Forse questo è un altro modo di tradurre il panta rei di Eraclito, senza che vi sia spazio per nessuna modalità fatalistica. Le cose sono in viaggio e questo viaggio va verso la qualificazione, e ciascuno avverte questa tensione delle cose alla qualificazione, come tensione intellettuale, come tensione alla qualità della vita.
L’incontro di questa sera esplora alcune questioni che per ciascuno sono importanti: la questione di come vivere, la questione di come affrontare le difficoltà, la questione di come non trovarsi nel luogo comune, come non appartenere ai luoghi comuni e quindi partecipare alle dicerie, ai pettegolezzi, e incontrare l’istanza della qualità, il modo della qualità, il viaggio verso la qualità, viaggio che comporta l’avventura, che la esige e che per Mathieu è la caratteristica principale dell’Europa.
Scrive infatti che lo spirito dell’avventura è lo spirito dell’Europa stessa, di cui appunto Ulisse e l’Odissea sono gli emblemi. Per addentrarci meglio in questo tema, lascio la parola, a Vittorio Mathieu che ci indica come è sorto questo libro, come è giunto all’edizione e attorno a cui poi interverranno il professor Enrico Berti, filosofo, docente qui all’università di Padova, anch’egli come Mathieu membro dell’accademia dei Lincei, e Gianluca Versace, giornalista, che moltissimi di voi conoscono per aver seguito le trasmissioni che dirige a Tele Serenissima. Allora, ringraziando ancora una volta Vittorio Mathieu di essere qui con noi, lo invito a parlare.
Vittorio Mathieu Grazie. Io, in prima battuta, mi limiterò a fare un po’ la storia di questo volume, ma non senza aver ringraziato in particolare Ruggero Chinaglia, ma anche la casa editrice che è generosa nel pubblicare e nell’offrire occasioni di presentazioni di libri. Questa è soltanto la seconda, dopo Milano, ma non per poca voglia della Casa, ma per poca possibilità mia di andare in tutti i posti dove mi invitano. Padova, però, per questo tema era una sede particolarmente importante. Non si può non ricordare, a proposito delle radici classiche dell’Europa, due maestri dell’università padovana come Marino Gentile, maestro in primo luogo di Enrico Berti, e Carlo Diano, anche lui filologo classico, ma anche lui in qualche modo filosofo.
Questo libro ha un’origine molto lontana, da una collezione di volumi, di venti volumi che sono anche usciti poi, dove c’erano testi di letterari, fatti da Ferruccio Olivi, non da molto scomparso. Testi filosofici, fatti da me e da un critico d’arte, che non so chi fosse, a commento di immagini di artisti figurativi. E i temi erano temi a cavallo tra l’arte e la filosofia. C’era per esempio un volume, c’è perché è uscito, io li ho questi venti volumi, ma non sono poi entrati in commercio, vi dirò perché. Un volume intitolato Nudo, l’altro intitolato Uomo, donna, per esempio. Ce n’era anche uno intitolato Avventura, uno intitolato Metafisica.
Allora, nel redigere il testo di questo volume, il testo filosofico di questo volume, ho creduto di poter constatare che l’avventura non era una cosa casuale in Europa, ma era veramente, in forme diversissime, lo spirito propulsore della civiltà europea. In quel testo, ah, dico subito perché non sono usciti, non sono stati lanciati.
L’editore, proprietario della casa editrice Eldec, era un rappresentante della Treccani, editrice dell’enciclopedia Treccani e non aveva l’autorizzazione, in quanto tale, per pubblicare opere, grandi opere, cosiddette grandi opere, tipo enciclopedie, eccetera, per non far concorrenza alla sua casa madre. E lui, piuttosto che perdere l’appoggio della Treccani, ha rinunciato a lanciare questi volumi che sono rimasti sconosciuti.
Molti anni dopo, il testo sull’Odissea mi è venuto da un’altra consimile casa d’arte, arte nel senso di arte in pochi esemplari, per esempio cere perse, esemplari o litografie, tre, dieci, venti, trenta, quaranta, poche centinaia di esemplari messi in vendita, non pezzi unici. Proseguo parlando di Artè, che si è staccata invece più presto dalla Treccani, si è messa in proprio anche a stampare libri di pregio, composti ancora a mano, con carte straordinarie.
Uno di questi è stata l’Odissea, che mi hanno commissionato. Questi volumi dell’Artè, peraltro, costano. Quando è uscito costava 7 o 8 o 9 milioni di lire, quindi è chiaro che non poteva andare nelle mani di tutti. Allora, unendo queste due cose, non praticamente in commercio, e una terza, anch’essa non in commercio perché era destinata all’enciclopedia Treccani (dove allora lavoravo per commentare delle conferenze, video conferenze in cassetta, commentate però da un testo scritto), è sorto l’Eraclito che è venuto secondo, prima dell’Odissea. Questo per fare la storia.
L’avventura mi ha colpito proprio per la sua etimologia, come le cose che ci vengono incontro. È un neutro plurale, come le uova o la Bibbia, è un neutro plurale, personificato anche nella mitologia o nei romanzi cavallereschi tedeschi, germanici, come una donna, la donna, Frau abenteuer. In tedesco non c’è una parola, notate bene, che voglia dire avventura. Abenteuer è un calco sulla parola latina. Però l’avventura è una esperienza tipicamente germanica quando i tedeschi, arrivati nell’impero d’occidente, entrano in contatto, con che cosa? Con la stabilità di Roma. Il tedesco è l’eterno viandante, Roma è invece il Senato, quello che sta fisso, fermo e consistente. Da questa simbiosi latino-germanica nasce il concetto di avventura e, a mio parere, nasce l’Europa.
In quel primo testo, io ero risalito ovviamente a Alessandro Magno, perché il grande spirito avventuriero è Alessandro Magno, nell’antichità. Lo stesso romanzo cavalleresco in qualche modo si rifà alle antiche, alle ellenistiche storie, della vita di Alessandro. Poi era vie d’Alexander. È stata ristampata recentemente la bellissima collezione Valla in versi detti alessandrini, appunto persone, che diventano i versi del romanzo cavalleresco francese, il quale ha poi due appendici in Italia e in Spagna. Entrambe sono giocose, ma giocose in modo molto diverso, perché l’Ariosto prende il romanzo cavalleresco e ne fa, così, una cosa scherzosa, le fanfaluche di cui parlava il duca di Ferrara.
Il Cervantes prende lo stesso romanzo, ma ne fa, sì una cosa scherzosa, giocosa, però anche tragica, come è poi stato messo in luce tante volte. E al tempo stesso, questa avventura di radici ellenistiche passa attraverso la Roma cristiana, perché il romanzo prende il suo nome da Roma, il romanzo d’avventura, e il romanticismo stesso prende il suo nome da Roma, e riprende a sua volta questo spirito d’avventura che aveva fatto la storia d’Europa. Mi sono lasciato andare. Perciò concludo, dicendo che l’avventura europea ha avuto forme diversissime.
L’ultima, la più caratteristica è proprio l’avventura della scienza, perché mai come nella scienza, si vede che le cose che ci vengono incontro non sono indipendenti dal movimento che noi facciamo. Come le cose che vengono incontro al cavaliere nelle selve, non sono indipendenti dal suo andare all’avventura, andare, così lo scienziato, in qualche modo, andando, e non sapendo dove andrà a parare, produce quelle stesse cose che scopre, e è un’invenzione e una scoperta al tempo stesso. Ma qui mi fermo e lascio parlare i miei amici. Poi, caso mai, replico, rispondo.
R.C. Allora invito a parlare il professore Enrico Berti, non prima di aver comunque comunicato a ciascuno di voi il rammarico dell’assessore Giuliano Pisani che doveva essere qui con noi questa sera, e che teneva moltissimo a questa circostanza, in quanto grecista e cultore dei classici, traduttore egli stesso di Plutarco, ma un imprevisto di carattere familiare gli ha impedito di essere qui; ma formula a ciascuno di voi il ringraziamento per essere intervenuto e in particolare al professor Mathieu e agli altri ospiti. Prego.
Enrico Berti Desidero dire anzitutto che considero per me un vero onore, oltre che un grande piacere, avere un incontro pubblico con Vittorio Mathieu. Mathieu è stato, e è ancora, uno dei filosofi italiani che ho più ammirato. Egli ha qualche anno più di me, non molti, perciò quando ero giovane e lui era già affermato nella carriera e era uno dei protagonisti del dibattito filosofico contemporaneo, lo guardavo sempre con grande ammirazione.
Conoscevo i suoi magnifici libri su Bergson, su Leibniz, poi sulla metafisica e era per me una specie di modello. Poi era già allora un uomo internazionale, era nell’UNESCO, era un uomo che godeva di larghi consensi. Ricordo, nei congressi della Società filosofica italiana, era sempre fra i più votati dall’assemblea dei soci. Poi, recentemente mi sto occupando di una nuova edizione dell’Enciclopedia filosofica e ho avuto l’occasione di vedere quante voci sono state scritte da Vittorio Mathieu e sono tutte perfette, non hanno bisogno di nessun ritocco, sì, forse qualche aggiornamento bibliografico perché sono passati più di trent’anni dall’ultima edizione, ma sono per me oggetto di continua ammirazione. Quindi, per me, leggere un libro di Mathieu come quest’ultimo che abbiamo ricevuto e parlarne con lui, ripeto, è una magnifica occasione.
Poi, in particolare questo tema delle radici dell’Europa è, mi sembra, quanto di più attuale ci possa essere. Noi stiamo vivendo un periodo in cui l’Europa, sia pure a fatica, con contraddizioni, con contrasti, con lentezze esasperanti, tuttavia in qualche modo sta prendendo corpo e tutti ci sentiamo, direi, di giorno in giorno sempre più europei. Perciò chiederci quali siano le radici dell’Europa, quale sia la nostra comune identità come europei è secondo me un tema affascinante. E qui, in questo libro, Vittorio Mathieu, indica alcune di queste radici, le radici classiche, che non sono tutte le radici possibili.
C’è il cristianesimo, ci sono tanti altri contributi, tanti altri apporti, però non c’è dubbio che le radici classiche dell’Europa sono greche. L’Europa ha origini greche. E Mathieu indica due, mi sembra, nei saggi principali che formano questo libro, due di queste grandi radici che sono appunto lo spirito di avventura, di cui è espressione massima un poema come l’Odissea, e dall’altro lato la filosofia di Eraclito. Sono radici, mi è sembrato, abbastanza diverse l’una rispetto all’altra, ma entrambe ugualmente interessanti.
L’avventura, che poi, come spiega bene Mathieu, è la ricerca di qualche cosa che ancora non si sa che cosa sarà, perché adventura, che è un termine latino neutro plurale, indica le cose che ci verranno incontro nel nostro migrare, nel nostro viaggiare e noi ancora non sappiamo quali saranno. Quindi non è la ricerca di qualche cosa che già si conosce e si vuole trovare, ma è veramente un cammino, un viaggio verso l’ignoto da cui può venire qualsiasi evento.
L’avventura è appunto il simbolo, dice Mathieu, sotto cui va letta l’intera storia dell’Europa; è lo spirito dell’Europa. E del significato che ha l’avventura nella storia europea come elemento che la connota e la caratterizza. Mathieu fornisce una serie di esempi che sono altrettanti riferimenti storici quanto mai convincenti. Nelle sue parole introduttive ha già accennato all’incontro tra il germanesimo, le migrazioni dei popoli germanici verso quella che era l’area geografica che oggi chiamiamo Europa e l’incontro con Roma, l’incontro con l’impero romano, espressione di stabilità.
Da questo incontro tra il viaggiare, il migrare – nella mitologia germanica la divinità principale è Votan, l’eterno viandante, colui che esprime proprio l’andare, il migrare – da questo incontro tra le migrazioni dei popoli germanici (germanici in senso lato, naturalmente anche i franchi erano una popolazione germanica) e il senato romano e l’impero romano nasce l’Europa. Nasce all’insegna dello spirito di avventura e dello spirito di ricerca, di cui in qualche modo è simbolo, come ricorda Mathieu, il cavallo, il mezzo di cui i popoli germanici si servivano nelle loro migrazioni.
Un’altra grande migrazione, un’altra avventura che certamente ha contribuito alla formazione dell’Europa è stato l’Islam con la sua diffusione nel bacino del Mediterraneo e l’incontro con la cultura cristiana. Un’altra ancora, sono stati (una particolare popolazione germanica) i Vichinghi che hanno inaugurato l’epoca dei viaggi oceanici; e il simbolo dei Vichinghi è la nave, l’analogo di ciò che era per i Germani il cavallo, cioè il mezzo attraverso cui l’avventura prende corpo. E poi non possiamo dimenticare che dall’Europa, tra la fine del medioevo e l’inizio dell’età moderna, sono partire le grandi scoperte geografiche, quei viaggi inaugurati prima dai Vichinghi e poi continuati con Cristoforo Colombo, Vasco De Gama.
Ecco lo spirito d’avventura: andare verso l’ignoto alla scoperta di nuovi mondi. Questo è tipicamente europeo. Io credo, se posso aggiungere qualche considerazione personale a quelle che fa Mathieu in questo libro, che, ad esempio, in nessuna delle culture asiatiche, né nell’antica Cina né nell’India, si ritrovi l’analogo di questo spirito d’avventura e non a caso le grandi scoperte geografiche sono state tutte opera di europei.Anche la colonizzazione. Non dimentichiamoci che cosa è stata, per esempio, per un Paese come l’Inghilterra, per l’Impero britannico; nell’800 era veramente egemone sulla scena mondiale e era anch’essa espressione dello spirito di avventura.
Ora, questo spirito ha trovato la sua prima espressione, appunto, nell’Odissea, nel mito di Ulisse, o di Odisseo in greco, che torna, sì, alla patria, torna a Itaca, ma poi secondo varie interpretazioni, perché Omero poi non racconta come finisce, come muore Ulisse, ma sappiamo da varie altre interpretazioni, come quella ad esempio di Dante, che Ulisse poi sia ripartito, non abbia mai smesso di cercare avventure. Ci sono delle pagine molto belle nel libro di Mathieu su vari episodi nell’Odissea, di Nausicaa, dei Feaci e poi il ritorno a Itaca, la figura di Penelope, una serie di pagine che illuminano in maniera veramente affascinante questi aspetti dell’Odissea. E da lì nasce poi la grande tradizione, come ha appena ricordato, del romanzo, del romanticismo, che è sempre espressione dello spirito di avventura.
Io, su questo, credo di poter essere completamente d’accordo, cioè mi sembra che effettivamente lo spirito di avventura sia una connotazione tipica dell’anima europea, dello spirito dell’Europa e la caratterizzi nei confronti anche delle più grandi altre civiltà e culture sia antiche che più recenti. L’altro grande saggio che forma questo libro è appunto la trattazione del pensiero di Eraclito.
Eraclito, come tutti sappiamo, è il più oscuro dei filosofi antichi, dei filosofi presocratici e pertanto è quello che maggiormente si presta alle interpretazioni più diverse. Su Eraclito è stato detto di tutto; è stato oggetto di tentativi di attualizzazione, per esempio da parte di Heghel, che credeva di trovare in Eraclito l’intera sua dialettica, da parte di Nietzsche, che vedeva in Eraclito alcune delle sue grandi e originali idee.
Uno dei meriti del saggio di Mathieu su Eraclito, secondo me, è l’attenzione che egli ha rivolto al linguaggio, al linguaggio di Eraclito, perché l’oscurità, per la quale il filosofo di Efeso è così noto, è dovuta proprio al suo modo di esprimersi. E qui c’è un capitolo del saggio su Eraclito che è veramente illuminante nei confronti di questa oscurità, perché Mathieu concentra l’attenzione sul frammento 93 in cui Eraclito dice… Ah, interessante anche la sua considerazione circa questi frammenti, cioè noi diciamo che abbiamo dei frammenti. Tanto, poi, per frammenti non possiamo intendere pezzetti dell’opera, ma si tratta di testimonianze, di citazioni che non sappiamo mai con sicurezza se riportino le parole dell’autore, però l’idea di avere dei frammenti ci fa pensare che possa essere esistita un’opera intera di cui ci sono rimasti soltanto i frammenti, appunto i pezzetti.
E Mathieu avanza l’ipotesi che forse questo, nel caso di Eraclito, non è vero e cioè che i frammenti sono la sua opera e che egli, forse, si esprimeva appunto attraverso questa forma che per noi sembra essere fatta di frammenti, ma in realtà è fatta di aforismi, è fatta di sentenze, è fatta di osservazioni che potevano anche essere slegate l’una dall’altra, almeno all’apparenza, cioè nel senso materiale, anche se poi tutte insieme compongono un tutto, per cui forse non è vero che l’opera di Eraclito sia andata perduta. Forse, forse l’abbiamo.
Ma comunque, a parte questa considerazione che è ovviamente e inevitabilmente di carattere congetturale, la cosa più interessante che a questo proposito Mathieu dice è appunto l’attenzione che egli porta al frammento 93 in cui Eraclito dice: Il signore di cui a Delphi è l’oracolo, cioè Apollo, non parla e non cela e non nasconde, ma significa (uteleghei, utecriptei allà semainein).
È importante capire qui la differenza tra il dire, (il leghein) e il significare (il semainein). Mathieu dice, e credo che abbia ragione, “a me non convince che il dire (il leghein) è il discorso di tipo predicativo composto da un soggetto e un verbo, un nome e un verbo, un nome e un predicato”. Ebbene, non è questo il modo di parlare di Eraclito. Eraclito non dice, non fa discorsi composti di soggetto e predicato, di nome e di verbo. Semainen: significa, allude, quindi accenna, che è un modo di esprimersi, ma in forma diversa dal discorso predicativo.
E infatti, molti dei frammenti di Eraclito non sono fatti da proposizioni con soggetto e verbo; ci sono o nomi, in genere nomi contrari, opposti, accostati l’uno all’altro che si richiamano reciprocamente, o verbi, non sempre quindi proposizioni, discorsi nella forma predicativa. Ora, se noi teniamo presente questo modo di esprimersi, allora forse riusciamo a penetrare nel pensiero di Eraclito e riusciamo a comprendere che ciò che egli voleva dire, ciò che egli significava, ciò a cui egli alludeva erano cose che non si lasciavano dire nella forma del discorso predicativo.
E qui, a questo proposito, Mathieu istituisce un interessante confronto, che del resto è classico, tra Eraclito, che è sicuramente una delle radici della filosofia europea, e l’altra grande radice che è Parmenide, l’antagonista ideale, anche se poi non è possibile documentare se si siano conosciuti, se abbiano polemizzato o no l’uno con l’altro. Parmenide, al contrario, è proprio colui che privilegia il discorso predicativo, il discorso che dice “è” o che dice “non è”. Ecco allora l’antitesi.
E a un certo punto mi sembra di ricordare che Mathieu dica che insomma Parmenide è all’origine di quel discorso, di quel modo di esprimersi che poi sarà il discorso proprio della scienza; e Eraclito, invece, è all’origine di quello che sarà il discorso della filosofia, se per filosofia intendiamo qualche cosa di diverso dalla scienza, che dice le cose che la scienza non riesce a dire. Dimenticavo prima di citare, e è grave, perché invece era la cosa più importante, mi pare, detta da Mathieu nel saggio sullo spirito di avventura e dell’Odissea, che una delle espressioni maggiori dello spirito di avventura tipicamente europeo è la scienza, la nascita della scienza.
La scienza è un fatto tipicamente europeo. La scienza è ciò che dall’Europa ha saputo diffondersi al mondo intero. Posso aggiungere qualche cosa anch’io a questo riguardo. Oggi, chiunque faccia scienza, dovunque si faccia scienza, in Cina, in India, in Australia, in qualsiasi regione del mondo, si fa quel tipo di scienza che è nato in Europa. Da questo punto di vista la scienza nata in Europa, ha avuto forse una capacità di diffusione veramente planetaria, superiore a quella delle grandi religioni. Né il cristianesimo, né l’islam hanno avuto una diffusione planetaria così completa come l’ha avuta la scienza moderna, la scienza nata in Europa all’inizio dell’età moderna.
Ecco, la scienza è una delle espressioni più grandi dello spirito di avventura, perché anche la scienza è desiderio di sapere, desiderio di scoprire, desiderio di conoscere e non sa prima che cosa troverà, e in questo senso è avventura. Ma desiderio di conoscere e, quindi avventura, è anche la filosofia. Non a caso la metafisica di Aristotele comincia con quel magnifico esordio “Tutti gli uomini per natura desiderano conoscere” e pone il desiderio di conoscere, che poi si esprime nella meraviglia, alla base, all’origine della filosofia.
Ecco, la domanda che io vorrei rivolgere a Mathieu, concludendo questo mio intervento, è appunto questa: mi pare che nei saggi che formano questo libro egli abbia indicato due grandi radici dello spirito europeo, da una parte l’avventura che trova il suo culmine, la sua espressione più alta nella scienza, espressione del discorso predicativo, e dall’altra, invece, Eraclito, il semainein, il significare, l’alludere che va oltre la scienza e prende poi corpo nella filosofia. Ho capito bene? Sono due quindi queste radici, sono diverse, irriducibili l’una all’altra o sono due espressioni dello stesso atteggiamento, dello stesso desiderio, dello stesso bisogno? Come, insomma, in quale rapporto stanno tra di loro l’avventura scientifica e l’avventura filosofica?
V.M. Cercherò di rispondere.
R.C. Allora, ringrazio il professor Berti per questo suo generoso intervento che ha evocato molte cose, oltre alla domanda che ha rivolto a Mathieu, e poi ne riprenderemo qualche aspetto; intanto invito allora al suo intervento Gianluca Versace.
Gianluca Versace Io sarò brevissimo. Io ti faccio un ringraziamento per avermi invitato e è per me motivo di soddisfazione e di orgoglio essere qui tra cotanto senno potrei dire, perché hai citato l’accademia dei Lincei, due grandi filosofi, che raramente sono persone che io posso invitare in televisione per un problema di linguaggio, non c’è dubbio, e magari questo lo svilupperemo fra qualche istante. Il ringraziamento si unisce però anche a una bacchettata: “Perché io, che ci azzecco”? Un cronista, un giornalista che ci azzecca? in mezzo a tanta sapienza, a tanta conoscenza e a tanto senno, come dicevo prima, non lo so.
Tu mi hai invitato a legare l’argomento all’attualità. Io faccio il giornalista, oltretutto il giornalista televisivo; il giornalista è lo storico dell’istante, come si dice. Ma cercando un legame con la filosofia di cui parlavano sia Mathieu sia Berti, che ho ospitato – loro forse non se lo ricordano – qualche anno fa in due televisioni diverse. E io ricordo che, da ragazzo, un insegnante mi disse: “In fondo la filosofia che è amore per la conoscenza, per il sapere, è insegnare agli uomini o, come dire, portarli sulla via che conduce a provare meraviglia per le cose ordinarie, non per le cose straordinarie”.
E questo mi colpì molto, perché poi è unito a un altro insegnamento un po’ più plumbeo, più inquietante. Un altro maestro di filosofia che ebbi all’università mi diceva che la filosofia è una lenta maturazione, possiamo chiamarla saggezza, con una parola forse abusata, all’accettazione dell’idea della morte. Solo così s’impara a vivere, capendo i propri limiti che sono limiti biologici, sono limiti fisici e anche limiti intellettuali, se vogliamo. Quindi, la meraviglia, quindi la capacità di confrontarsi con la propria finitezza, col fatto che siamo transeunti, siamo passeggeri.
Ora, il discorso che si faceva prima a proposito dell’avventura, del rischio, dell’azzardo è bellissimo quando si applica al romanzo. Diceva qualcuno che bisognerebbe avere molta fortuna; probabilmente non basterebbe una vita intera per scrivere una sola riga per il Donchisciotte di Cervantes. Aveva ragione. Difficile parlare in televisione di questi argomenti, difficile essere avventurosi sul piano televisivo, che poi è un linguaggio che io utilizzo abitualmente. Io devo dire che è l’unica possibilità che noi abbiamo, utilizzando uno strumento così rischioso, perché apparentemente asettico e in realtà molto subdolo come lo strumento televisivo, che adesso si apre a nuovi orizzonti con la piattaforma digitale, con l’ampliamento insomma delle possibilità tecniche.
Ma non dimentichiamoci mai che la tecnologia è la perfezione senza scopo, quindi non dimentichiamoci mai che bisogna dare un senso di umanità, significato e materia umana alle cose che facciamo. Ecco, tutto questo, poi va a ricadere con un linguaggio che noi dobbiamo saper esprimere nell’utilizzazione del mezzo televisivo. E tante volte mi rendo conto come sia più facile, più semplice l’utilizzo dei luoghi comuni di cui parlavi tu prima, Ruggero Chinaglia.
La navigazione attraverso luoghi comuni è una navigazione, diciamo così, col pilota automatico, spesso avviene. Siamo in overdose di luoghi comuni nella televisione; sono schemi, stilemi che in qualche modo ci preservano dall’azzardo, dall’avventurosità, dal romanzo televisivo, però sono molto comodi perché in qualche modo noi non agiamo, ma siamo agiti da una cultura che è cultura carpionale, che è cultura conformistica, la risacca del conformismo, è il vero pericolo di chi fa questo mestiere.
Qual è il compito? Io faccio riferimento alla famosa, alla più famosa trasmissione degli ultimi anni, posso dire, per la quale siamo finiti – uso il plurale rispetto anche allo strumento che utilizzo, alla rete per la quale presto la mia opera – siamo finiti insomma sulla bocca di tutti. Di noi hanno parlato tutti quanti, quindi siamo stati protagonisti di un’operazione, professor Mathieu, avventurosa; siamo andati alla scoperta di qualcosa che non conoscevamo. L’ignoto è emerso, non tanto perché noi abbiamo preparato l’ignoto, ma l’abbiamo preventivato. Oggi si parla persino di guerra preventiva; sarebbe più corretto parlare di guerra in qualche modo preventivata.
Ma noi ci siamo trovati nel calore di una lotta derivante da un conflitto culturale di opinione, forse anche antropologico, non lo so, perché tutto ciò è avvenuto e è stato un momento eversivo; non a caso ha colpito e ha creato molto sconcerto. Ha destabilizzato, come posso dire, una palude, un quadro dato. Tutto era già detto, tutto era già giudicato sulla base di elementi già noti, come se noi con gli stessi ingredienti avessimo sfornato, e anche questo è un elemento, il cuoco. Pure il cuoco, per usare un’altra metafora, ha in sé una capacità creativa che è metafora dell’esistenza, perché anche lì c’è l’avventura, come in tutto quello che facciamo, se ci mettiamo spiritualità, creatività, inventiva e non diamo mai nulla di scontato. Anche lì c’è l’elemento dell’avventura, quindi non il fatto predestinato.
E allora noi siamo protagonisti. Noi, oggi, tendiamo a credere che la storia accada perché deve accadere, noi possiamo essere soltanto spettatori di qualche cosa che è già precostituito, pregiudicato. Ebbene, perché con gli stessi ingredienti, proprio in una – la conosci bene, perché anche tu ci vieni a trovare qualche volta – “piccola televisione locale” è accaduto un fatto che ha destato sconvolgimento, scombussolamento, panico anche in altre realtà televisive molto più importanti, molto più potenti delle nostre.
Perché noi abbiamo fatto la cosa fondamentale di questo mestiere, poi senza tante alchimie, non abbiamo dato nulla di scontato, abbiamo usato un linguaggio, cerco di utilizzare un linguaggio quanto più possibile diretto e non ci sono censure, non ci sono mediazioni. Tutto ciò è potuto accadere perché quel linguaggio, su cui molto s’insiste giustamente, perché la parola è l’elemento fondamentale in quello che facciamo, a maggior ragione in chi utilizza uno strumento come quello televisivo – la parola a cui oggi chiediamo talmente poco che alla fine essa finisce quasi sempre per darcelo – l’utilizzo della parola senza infingimenti, così come cerco di fare ogni giorno in questa televisione, ha prodotto un fatto “epocale”.
Il nostro 4 di gennaio 2003 resta negli annali e è oggetto di studio, di approfondimento. Perché? Perché desta così tanta meraviglia? Perché ha creato questo sconvolgimento a livello internazionale? Proprio perché le cose, come dice il professor Mathieu, non accadono da sole, ma soltanto se noi, anche inconsapevolmente, cioè senza avere la totale consapevolezza e padronanza delle stesse, andiamo incontro alle cose.
E è quello che io cerco di fare quotidianamente, soprattutto nel senso più proprio del dialogo con gli altri, della costruzione di una coscienza collettiva dello stimolo, anche del desiderio di apprendere, di conoscere, di confrontare le proprie idee con le altrui, in uno spirito, posso dire, illuministico. Le nostre convinzioni ci sono, però poi ci battiamo in tutti i modi affinché gli altri possano manifestare le loro.
Quindi, una trasmissione che aveva una metodologia, un impianto di un certo tipo e che ha prodotto quel che ha prodotto, proprio perché è partita con quei presupposti, presupposti avventurosi, mettiamola così. Dopo di che, si è aperta una riflessione, però, su come mai. Come mai? Oltretutto, considerato che da allora, da quell’incontro-scontro televisivo, si è aperta alla stura una riflessione sul tema: “noi stiamo difendendo abbastanza le nostre radici? Stiamo tutelando abbastanza? Stiamo riscoprendo abbastanza il senso del nostro passato?”
Noi abbiamo, viviamo in un tempo in cui il presente è il tempo dominante; viviamo in un momento in cui, diciamo per sintetizzare così in un’immagine, soffriamo di emiplegia della memoria, una paresi totale della memoria, che quando cerchiamo di ricordare non ci riesce. Io, ieri sera, facevo una trasmissione su Il giorno della memoria per gli esuli istriani e mi chiamavano da altri posti, dice uno: “Ma sa, io conosco pochissimo di questa cosa”. In effetti è accaduta soltanto cinquant’anni fa. Cinquant’anni fa! Quindi emiplegia della memoria. Ma se noi non sappiamo da dove veniamo, ovvio che abbiamo poi l’anoressia del futuro. Non riusciamo a ingerire il nostro futuro, a metabolizzarlo, a inventarlo, a crearlo.
E allora, da questo punto di vista, il nostro sforzo di operatori televisivi, non facile, perché quando cerchiamo di fare qualche cosa di diverso – probabilmente possiamo farlo soltanto, proprio dalle più piccole televisioni – la gente, i cittadini hanno bisogno di quello che uno scrittore chiamava i grandi racconti, che non ci sono più, la capacità di coinvolgimento su un’idea comune, una storia comune perché, se non abbiamo un passato, delle radici, il nostro procedere è un procedere a casaccio, è un po’ come andare nella nebbia, oppure come giocarsi la vita ai dadi sul tavolo verde e buttare i dadi e esca il numero che deve uscire, un po’ a casaccio.
Io non so se la citazione sia giusta, professor Berti, ma io di Eraclito ricordo una frase che era sulla guerra. Mi sbaglio? La guerra è la madre di tutte le cose; alcuni uomini li fa dei, gli altri schiavi o uomini liberi. C’è un’inquietante analogia con quello che sta accadendo in questi giorni, in questi momenti e c’è però un’altra analogia, io credo, fra il linguaggio o l’immagine, le immagini utilizzate da Eraclito e il nostro modo di condurre sia i rapporti umani, e sia il confronto televisivo.
C’è la coriandolizzazione, c’è la polverizzazione, il frammento che prevale su un linguaggio più ampio, su un percorso di continuità. È il linguaggio sincopato il nostro, è la frammentarietà, è il day by day, è il giorno per giorno. Abbiamo difficoltà cioè a avere una grande cisterna, un grande serbatoio di ricordi; siamo tutti aggrappati al nostro piccolo fiumiciattolo, al nostro rivolo familiare o sociale o comunitario. Io ricordo un frammento, mi pare fosse di Kierkegaard. Vado a recuperare mnemonicamente, ho un piccolo parco delle rimembranze, mio, del liceo.
Io ho fatto lo scientifico, quindi ho la nostalgia di qualcosa che non ho fatto, cioè il classico, con il greco che mi manca, professor Mathieu. E è un modo di pensare, non è soltanto un linguaggio. Ma mi pare fosse il viandante. Ho proprio un piccolo frammento, c’è questo viandante che cammina, si ferma e chiede: “Buon uomo, mi scusi. Vado bene per Londra?” “No”, gli dice quello, “Lei si deve voltare, perché sta venendo da Londra”.
R.C. Bene. Allora siamo in medias res. A questo punto tocca al professor Mathieu riprendere alcuni elementi. Aggiungo solo un paio di notazioni, anche in forma di domanda, se vogliamo. Prima il professor Berti citava l’Odissea e quindi il ritorno a Itaca. E io chiedo e propongo invece se non si tratti di un approdo a Itaca; cioè, il viaggio di Ulisse è un viaggio senza ritorno; è un viaggio verso qualcosa che è ignoto, che è ignorato, che non è saputo prima, e Ulisse non torna a Itaca, ma giunge a Itaca, approda a Itaca da cui non è mai partito, perché Ulisse è cretese. E dunque Ulisse non torna alla sua origine, non torna alla terra natia, non torna al luogo di partenza, come invece Agamennone che infatti muore, perché questo è il destino del ritorno, del ritorno all’origine.
Il ritorno all’origine è un fantasma di morte che realizza la presunta conoscenza dell’origine: la conoscenza dell’origine come modo di presumere la conoscenza della morte. Noi non sappiamo da dove veniamo, né sappiamo dove andiamo, perché non sappiamo dell’origine, né possiamo saperlo. Presumere di sapere l’origine doppia la presunzione del discorso occidentale di conoscere la morte per evitarla, dunque per confermarla, dunque per farne il punto di riferimento.
Ulisse non torna a Itaca, ma giunge a Itaca. Certo, la questione del ritorno, nel testo in qualche modo c’è; questa strage dei proci, forse allude a un’idea di ritorno, quindi a un’idea di morte che permea questo fantasma del ritorno all’origine. Ma insomma, questa è una proposta: il viaggio, la navigazione intellettuale da cui sorge l’Europa è viaggio che non mira a tornare all’origine, ma va verso la sua qualità, va verso la cifra delle cose, va verso il valore assoluto, non verso il ritorno all’origine.
In questo senso, la questione della meraviglia che evocava Versace è qualcosa che è assolutamente essenziale e contrasta l’accettazione dei presunti propri limiti. La meraviglia si staglia sulla non accettazione, perché dove avvenisse l’accettazione dei propri limiti, cioè la presunzione di conoscersi, ebbene, quale meraviglia potrebbe prodursi? Quale valore, quale sorpresa, quale avventura se prevalesse la presunzione di conoscersi e quindi di avere già dei limiti, di sapere come stanno già le cose?
Forse è proprio questo che non accetta Eraclito, questa imposizione di accettarsi, di accettare le cose e, ritengo, una delle pagine più belle del libro di Mathieu, sia quella dove parla del contrasto in Eraclito: dal contrasto si generano tutte le cose, dal contrasto, cioè da questa contraddizione che non si risolve univocamente mai, cioè un contrasto che resta come apertura, come contraddizione, quindi come questione aperta per cui mai giunge la conoscenza definitiva di qualcosa, perché da questa apertura, da questo contrasto incomincia il viaggio verso il valore, verso la qualificazione, verso anche l’avventura e la scienza, scienza intendendo ciò che dunque si produce nel viaggio.
E questa usanza che oggi attribuisce invece valore di scienza allo scientifico, cioè a ciò che c’è già, è un po’ la tomba della scienza, la tomba della produzione di ciò che si produce quindi nel viaggio. Ah, sì, un’ultima cosa. È forse più interessante per semainein, “indicare” che non “significare”. Il segno, qualcosa indica e quindi non significa, ma lascia che l’indicazione possa giungere alla qualità in maniera differente e varia, senza comportare già una significazione che in qualche modo vincola la ricerca.
V.M. Grazie. Devo due risposte. La prima, all’amico Berti, penso che gli possa andare a genio: cioè queste due tendenze, della verità come enunciato (Parmenide) e della verità come rivelazione (Eraclito), sono in realtà complementari; sono due tendenze, se volete divergenti, ma che non possono mai fare a meno l’una dell’altra. Nel caso della scienza, si può giungere all’assiomatizzazione, alla formalizzazione, dove i significanti sono volutamente aboliti. Ci sono non dei simboli, perché il simbolo starebbe per altro, ma dei segni, delle regole per formare delle proposizioni, ma in questo senso ben formate, delle regole per trasformare queste formule in altre formule che non dicono niente.
Però poi c’è l’interpretazione di questo sistema formale. E quindi anche la scienza non si astiene mai dall’interpretare. E poi quando ha fatto un sistema perfettamente formale, lo interpreta, per esempio nel sistema dei numeri, e così via. E poi i numeri, come dice Wittgenstein li interpreta col linguaggio comune e cosi via. D’altro canto, il filosofo dice sempre, continuamente, di aver la pretesa di dire le cose come stanno, formula delle proposizioni.
C’è qualche scuola. La scuola più vicina a Eraclito, forse in questo, sono i Cinici che molte volte non rispondono con una affermazione, ma per esempio Antistene, per contestare gli alleati, si mette a camminare, il celebre argomento ad deambulandum, cioè una filosofia fatta di atteggiamenti, però è una filosofia più rara.
Certamente, la filosofia tende piuttosto a rivelare una verità che in fondo non si può dire, di cui si deve tacere, come dice Wittghenstein, mentre la scienza tende a formare delle formule che poi possono essere adoperate pragmaticamente per ottenere certi risultati previsti. C’è anche nella cultura quasi contemporanea un altro stranissimo letterato filosofo, che a mio parere è vicino a Eraclito, e non a caso, forse, gli fu dedicata la prima edizione moderna dei frammenti di Eraclito, e è Goethe.
Goethe, come filosofo tecnico, valeva pochissimo. Se noi prendiamo dei suoi enunciati su Kant, su Spinoza, e ne faceva… sarebbero tali, che credo che sia lui che io lo bocceremo, lo rimanderemmo almeno una volta all’esame. Eppure, proprio nelle opere letterarie di Goethe, c’è una straordinaria rivelazione del senso del mondo. E del resto, quando Beethoven diceva che la musica, intesa in quel modo, è la più profonda filosofia, diceva a mio parere un’enunciazione che, detta così, sembra una sciocchezza e invece è rivelativo perché, quando noi abbiamo ascoltato e colto il senso, non il significato, ma il senso di certi brani di Beethoven, capiamo meglio il mondo. E lo stesso capita quando leggiamo certe opere, soprattutto le opere letterarie di Goethe.
Qui non è contenuto, ma in un altro mio lavoro destinato all’enciclopedia Treccani, che poi però ho riscritto completamente, e è uscito da Adelphi, Goethe e il suo diavolo custode, dove cerca la filosofia di Goethe precisamente nei suoi enunciati non tecnici ma, così, artistici, di resa di stati d’animo, di Erlebnis e cosi via, si tratta in realtà di due tendenze. Tant’è vero che, da un lato i filosofi cercano continuamente di dire le cose come stanno e si contraddicono l’un l’altro, mentre non ci sarebbe ragione se si rivelassero. L’interpretazione, per esempio di un testo biblico come dice Agostino, se uno mi dicesse: “È vero quel che dico io, non quel che dici tu”, io gli risponderei: “È vero quel che dico io, quel che dici tu e ancora infinite altre cose, perché l’interpretazione è inesauribile”.
La scienza non sembrerebbe così, eppure vedete come la scienza usi continuamente metafore. Quando non si limita a ordinare dei segni e trasformare le costellazioni di segni, usa continuamente metafore, non soltanto la fisica, ma anche la geometria. Pensate alla geometria di Euclide che è il primo grande assiomatizzatore, che non rinuncia per questo all’intuizione nel senso di riferire quel che dice al parlare comune, tant’è vero che le sue definizioni non servono a dimostrare niente.
Non c’è nessun teorema fondato sul fatto che il punto non ha parti, la celebre definizione con cui si iniziano gli elementi di Euclide. Il punto non serve a dimostrare niente, ma serve a interpretare quelle formulazioni, che se fossero veramente assiomatizzate non significherebbero più niente, a interpretarle e invece anche ad applicarle nella cosa. E l’inverso fa il filosofo. Il filosofo, a mio parere, è costretto continuamente a alludere, a giocare, ma giocare con giochi che significano, quindi sono allusivi.
Alludere. È costretto continuamente a usare metafore, cioè trasporti da ciò che si può dire e maneggiare a ciò che non si può dire e non si può maneggiare. Il filosofo fa continuamente. Tende con questo a rivelare come lo scienziato tende invece a operare, Hand haben, avere sotto mano, però si tratta di due tendenze complementari e penso che, se fossero portate al limite, l’una e l’altra finirebbero col distruggersi. L’altra domanda riguardava… Me la ricorda un istante?
R.C. Il viaggio senza ritorno.
V.M. Ah ecco. Ad Itaca si approda, non si ritorna. Certamente, fin già dai nostoi, oi nostoi, cioè i ritorni degli eroi andati a combattere a Troia che poi ritornano a casa e a volte se la vedono brutta come Agamennone, era un genere letterario di cui fa parte anche l’Odissea o, meglio, tutti quei poemi che il grande cosiddetto Omero, il secondo Omero raccoglie nell’Odissea. Ma c’è un’interpretazione del ritorno che a mio parere è veramente rivelativa, è quella di Plotino, quando dice: “Fuggiamo verso la nostra cara patria”. L’espressione si trova, notate bene, nell’Illiade, non nell’Odissea, la prima volta.
Quando Achille cessa di combattere perché si scoccia, non è una questione di gelosia sessuale, è una questione perché gli hanno portato via un bene come Criseide, (ma anche di gelosia), si scoccia e non vuole più combattere. I greci prendono paura di Ettore e dei suoi e dicono: “Prendiamo le navi e fuggiamo verso la patria”. Ulisse, anche lui, vuole ritornare in patria; ma questa patria certamente è un simbolo, certamente è un’allusione, e chi lo dice meglio di tutti è Plotino che, prendendo di peso l’espressione omerica, fuggiamo verso la nostra cara patria, intende dire “ritorniamo” (epistrofèno).
C’è una conversione in senso, se volete, anche religioso, ma non necessariamente, una conversione verso la nostra origine, ma effettivamente verso un’origine a cui non si approda fisicamente, ma si approda col desiderio, con la filosofia, non col sapere, con quella che Eraclito chiama la polumatia, la multiscienza, il sapere molte cose che non insegna l’intelletto, ma con il sapere e cioè con il cogliere, con il vivere la verità.
E noi non raggiungiamo mai questa verità, però a mio parere è un simbolo di un ritorno, è un’allusione a un ritorno, è un ritorno, ma non è un ritorno certamente geografico. Tanto è vero che addirittura i geografi ora cercano di localizzare Itaca a Zante, cos’è? Non si sa bene dove sia. Sul manifesto, qui, della serata di stasera ci sono, se voi vedere bene, il viaggio, tutto il percorso che avrebbe fatto Ulisse. È discusso dagli eruditi. Alcuni lo trovano anche in altre, un percorso allusivo del genere, in altre epopee, per esempio slave, e così via.
Effettivamente certe cose addirittura sono contraddittorie del viaggio di Ulisse quando deve andare verso oriente, ma al tempo stesso va verso le cosiddette colonne di Ercole. Perché? Ma perché anche qui, citiamo ancora una volta Eraclito. La via all’insù e all’ingiù è la stessa. La via è una sola, cioè andare da una parte o dall’altra è la stessa cosa. In questo senso qui, effettivamente la Itaca dell’Odissea non è un approdo fisico, ma è effettivamente il desiderio di un approdo, la nostalgia di una patria da cui siamo caduti, di cui abbiamo come una vaga reminiscenza, ma che non possiamo rappresentarci come una patria fisica. Spero di avere risposto; naturalmente sono disponibile ad altre domande.
R.C. Certo. Se ci sono domande da parte del pubblico al professor Mathieu o anche annotazioni attorno a ciò che è stato detto, anche una ripresa che volesse fare il professor Berti, abbiamo qualche minuto disponibile per questo, dato che poi il professor Mathieu non è qui di frequente; lo abbiamo solo questa sera. Prego. Venga.
Scimeli Io vorrei approfittare della pazienza e della scienza del professor Mathieu per portare il discorso molto terra terra.
R.C. Può dire il suo nome.
S. Scimeli Io sono un ingegnere, un mecanicòs come diceva giustamente il professor Mathieu, e quindi le cose piane mi sono più familiari delle elaborazioni intellettuali che ammiro molto, ma con le quali non posso competere. Mentre tutti, direi, gli oratori completavano il loro breve e interessante intervento, mi veniva in mente un film che ho visto ieri sera al cinema Astra, che va per la maggiore adesso: è la storia del signor Schmitt, mi pare, con un famoso attore, Jack Nickolson, che mi fa pensare che questa sia un po’ l’epoca in cui noi viviamo delle tragicamente enormi avventure collettive e, contrapposta a queste, c’è una carenza desolante delle avventure individuali.
Il protagonista di questo film, che è un bravissimo attore, è un personaggio al quale non succede niente. Dall’inizio del film fino alla fine non gli succede niente. A un certo momento, per disperazione, essendo andato in pensione e non avendo niente da fare, non avendo più affetti, non avendo più relazioni, disperato, prende una mobil house, una specie di camion enorme, come si chiama?, un camper grande come un dirigibile e parte. E naturalmente s’imbatte sull’autostrada, sulla road 66 che non porta da nessuna parte; è una strada desolata che attraversa tutta l’America, ma non s’incontra niente lungo quella strada. E c’è il dato tragico di questo protagonista che a un certo momento cerca anche di avere un’avventura, con la a minuscola naturalmente. Non ci riesce, non gli va neanche quella, e così la storia finisce, ma la storia non è mai cominciata, in realtà. Non ha storia.
In confronto a questo, il discorso delle avventure collettive e individuali effettivamente del mondo classico è un’altra cosa, è affascinante. E io, appunto, vorrei approfittare della vasta conoscenza e sensibilità del professor Mathieu per chiedergli, in due parole, un rapido confronto tra grandi avventurieri, due dei quali li ha citati: uno è Alessandro Magno e l’altro è Ulisse. Per me, una differenza fondamentale sta in questo: che Alessandro Magno era effettivamente un avventuriero con la A maiuscola; intendiamoci, un grande, un gigantesco avventuriero, ma non c’è dubbio che la sua, la sferza che lo mandava avanti era lo spirito d’avventura, inteso in senso strategico, inteso in senso storico, geografico, quello che volete voi, ma c’era questa idea di avventura. Non sappiamo come sarebbe terminata, perché è finito prima lui.
L’altro, invece, è Ulisse. Ecco, per me c’è una differenza, perché Ulisse, nonostante quello che lei diceva prima e che è interessante sotto il profilo filosofico, però Ulisse racconta sempre che vuol tornare a casa; quindi le avventure che lui incontra le incontra perché, come diceva il professor Mathieu, gli vengono incontro. Ma lui, almeno così mi fa intendere, non è che se le cerca. Lui vorrebbe andare a Itaca e a Itaca c’è casa sua, come a Padova c’è casa mia. Certo, io ho un letto di frassino, non di olivo perché qui gli olivi non crescono, però insomma è di frassino massiccio e per me rappresenta il ritorno. O forse Ulisse m’imbrogliava e m’imbroglia tutt’ora, forse lui era un avventuriero, perché era un bugiardo formidabile.
Quindi non so se dice il vero quando dice che voleva tornare; insomma queste avventure… andava a est, invece voleva andare a ovest, mi puzza un po’ che sotto sotto, poi, non gli dispiacessero le avventure. Ma il terzo personaggio su cui vorrei un confronto rapidissimo è un giornalista, un famoso magnifico cronista che ha fatto la cronaca dopo vent’anni che erano passati i fatti, ma non importa; era un inviato di guerra e è un personaggio che è quotato meno dei due precedenti, ma però a me piace molto perché mi racconta delle avventure straordinarie che fanno da fonte, naturalmente.
Fanno parte di una fonte, sì, era un avventuriero, perché, almeno quando è partito insieme con l’armata di Ciro, eccetera, era in avventura. Dopo, quando si trattava di tornare, certamente lui aveva idea di tornare, ma all’inizio era un grandissimo avventuriero. E non pertanto, nel ritorno, anche se aveva uno scopo prefisso, tutta l’Anabasi, che poi è anche una catabasi, è un seguito di avventure. E insomma veramente da fumetti, diremmo noi oggi, straordinarie per vivacità e per interesse. Ci potrebbe dire due parole, la sua visione, il suo concetto di questi tre grandi così diversi avventurieri. La ringrazio.
V.M. Anzitutto, anche Ulisse era un ingegnere, un mecanicòs…
S. S. Un politecnico, era.
V.M. …nel senso però greco, dove la meccanica era a volte un po’ l’arte degli inghippi. La nostra ingegneria è piuttosto di origine romana, costruttiva. Però c’è anche un anello di congiunzione attraverso Alessandria e poi attraverso Siracusa: Archimede che impara dagli alessandrini, i quali usavano un’ingegneria tecnica come gioco, soprattutto. Ma invece Archimede, pur disprezzando le applicazioni, usava delle macchine da guerra, per esempio, e quindi media, è una mediazione tra l’ingegneria greca di Ulisse e l’ingegneria moderna.
Quanto a Senofonte, beh, è una tarda, evidentemente, e tarda e un pochino anche scherzosa, ma un pochino piatta imitazione dei ritorni dei grandi. Solo che è un ritorno più simile a quello che vogliono praticare gli Achei nell’Iliade e scappare, tornarsene a casa prima che gli altri li facciano fuori, piuttosto che un ritorno mistico quasi, un ritorno non mistico, no, ho sbagliato la parola, un ritorno ascetico e come quello teorizzato da Plotino, che teorizza ormai in piena, in tarda epoca romana addirittura.
Quindi l’Anabasi è un ritorno, ma è un ritorno bonario, se volete, e insomma, del tipo tutti a casa, un pochino quel ritorno lì, tra Caporetto e l’8 settembre, è un pochino quello l’Anabasi di Senofonte, mi pare. E certo è un bellissimo testo divertente, ma non ha la grandezza né delle vite di Alessandro, che danno luogo a tutti i romanzi cavallereschi, né dell’Odissea che dà luogo addirittura alla fantascienza, perché poi la fantascienza anche nei titoli è l’erede dell’Odissea. Avevo visto altre mani.
Silvia Sartori Io certamente non mi sono preparata un discorso da dire qui, quindi mi sono presa un paio di appunti; e volevo dire che mi è molto piaciuta l’impostazione di questo problema, viste appunto le radici intellettuali come avventura, e poi il riferimento a Parmenide e a Eraclito, mi è piaciuto molto; però sono rimasta sbalordita che, almeno, non so se fosse andato,cioè sarebbe andato fuori tema, probabilmente parlando di un libro che si chiama Le radici classiche dell’Europa, non sia stato menzionato il discorso della democrazia.
La democrazia nasce in Grecia; la parola stessa è greca e non c’è nessuna civiltà asiatica che abbia portato democrazia, cioè è una cosa che nasce qui da noi nel Mediterraneo. E questa è una cosa estremamente importante, perché … cioè lo vediamo anche già anticipato nei poemi omerici. I poemi omerici non sono un poema di rivelazione, ma sono dei poemi in cui è data importanza non solo al fare a botte, al fare la guerra, cioè al discorso della forza. Cioè un eroe è un eroe perché è forte, ma è un eroe anche perché sa discutere, sa imporre il proprio punto di vista, sa convincere. Sia nell’Iliade che nell’Odissea abbiamo eroi che discutono e convincono l’assemblea. E questo sta all’origine della nascita della democrazia in Grecia, che poi è democrazia nel Mediterraneo. Anche questo è un modello che è stato esportato, né più e né meno, come è stata esportata la scienza, quindi ha avuto vasta diffusione planetaria. Mi piace, cioè io spero che nel libro ci sia anche questo fatto qui, perché mettere le origini classiche, cioè le radici classiche dell’Europa restringerle solamente ad avventura e… – l’altro cos’era? – lo spirito d’avventura e la filosofia di Eraclito era discorso affascinante, stupendo, però io spero che nel libro, cioè il libro non l’ho letto, però spero che ci sia anche questo. Sarei sbalordita che non ci fosse e avrei gradito che qui, come presentazione del libro, si fosse parlato anche di questo, perché, d’accordo, sarebbe stato fuori tema perché qui si parlava di navigazione intellettuale, Ulisse, eccetera, eccetera.
Ecco, volevo anche ricordare un’altra cosa, che i Vichinghi sono anche importanti, perché il Thing è tutt’ora il parlamento norvegese, e quello è un esempio di democrazia, cioè queste popolazioni che hanno migrato, sono venute, i loro modelli si sono mischiati con quelli del Mediterraneo, e noi siano in una qualche maniera, abbiamo il retaggio di tutte queste formazioni, cioè queste espressioni di civiltà che sono anche dei Vichinghi, perché no?
E poi volevo dire un’altra cosa: il fatto che il Mediterraneo sia un esempio unico al mondo per la nascita del modo di pensare, il greco, come diceva lui, non è solamente una lingua, è un modo di pensare, ed è scritto molto bene nel libro di Jer Diamond, che è un premio Pulitzer, e dice che il Mediterraneo è un fatto unico perché ha potuto, aveva un tipo di cultura, no, di coltura, cioè di piante, che gli hanno permesso di stoccare i cibi, stoccare i semi, cosa che non è successa in altre zone del mondo. Quindi nel Mediterraneo avevano i semi che gli permettevano di stoccare, quindi di accumulare ricchezza, per cui quando uno accumula, dopo, non ha più il problema della sussistenza – c’è l’ha un po’ ridotta – e può lanciarsi in avventure. Se non ha da mangiare, non può farlo. Quindi il Mediterraneo è unico al mondo perché per ragioni casuali, cioè aveva avuto la possibilità di stoccare il cibo, cosa che non hanno avuto gli altri.
V.M. Ora rispondo un istante. Poi, dopo, forse raccogliamo, se è possibile, tutte le domande e poi rispondo alla fine. Certamente il passaggio dal paleolitico al neolitico è fondamentale. Credo che sia, prima della rivoluzione informatica, la più importante che sia avvenuta; però è avvenuta anche in Cina, per esempio. I cinesi non è che non accumulassero. Dunque, sulla parola invece democrazia, bisogna non dimenticare una certa differenza, che la democrazia certamente è nata nel Mediterraneo, società aperta, come volete, però era di uno strato della popolazione, sotto al quale vivevano i semiliberi e gli schiavi, mentre la nostra democrazia ambirebbe eliminare questa differenza. La libertà degli antichi come partecipazione alla vita pubblica era diversa dalla libertà dei moderni, come libertà dalla oppressione statale e comunitaria, quindi c’è stato un Rosseau che ha cercato di restaurare in Europa una democrazia di tipo antico, ma Rousseau ha dato luogo… Ora chiudo qua, perché se no… Qualcun’altro e poi, dopo, chiudiamo.
R.C. C’era, mi pare, Simone Barison. Sì. Prego!
Simone Barison Ho scritto un testo per dare un’eco della lettura del libro.
R.C. Magari se può giungere a formulare una questione, una domanda per il dibattito.
S.B. È più una elaborazione che, comunque, una domanda.
R.C. Brevemente, alcuni aspetti. Sì.
S.B. Sì. Il viaggio è insituabile, s’inaugura con il mito. Da dove vengono e dove vanno le cose? Ubi consistam? Il dove è senza luogo. Itaca, ci ricorda Vittorio Mathieu nel suo libro, meta e motore del viaggio di Ulisse, non è un luogo fisico; Itaca è la fede che trae Ulisse al viaggio, oggetto in perdita e oggetto mancante. Scrive Mathieu: Il raggiungimento fisico della meta, anche per Ulisse, non è realizzazione di una pace assoluta, perché il centro dell’avventura è sempre sul punto di perdersi, anche una volta raggiunto.
Anziché attributi soggettivi mentalizzati e meditati, che varrebbero a fare del navigante il soggetto della nostalgia, perdita e mancanza sono attributi di Itaca, oggetto causa del viaggio di Ulisse. Itaca è per Ulisse la condizione del viaggio in quanto ne è provocazione. Il viaggio espone all’audacia e al rischio; non è scelto, né volontario, non è il viaggio per il viaggio, non è circolare, non ritorna al punto di partenza. Il ritorno di Ulisse a Itaca non è mai realizzato, perché Itaca continua a trarre Ulisse al viaggio oltre le colonne d’Ercole. Dante si accorge che il viaggio di Ulisse è senza ritorno. Il viaggio non ha termine, perché l’oggetto irraggiungibile, differente e vario, continua a provocare. La questione per chi viaggia è quella dell’assoluto. Il viaggio di Ulisse è viaggio dell’identificazione e la solitudine di Ulisse ci dice che la relazione non è con altri soggetti della perdita e della mancanza, ma è con l’assoluto.
L’uomo dell’avventura, nota Mathieu e pagina 89, è solo; la sua solitudine è anzitutto una condizione spirituale. Itaca è il demone che provoca Ulisse al viaggio e infatti, per viaggiare, occorre un demone. Il soggetto presunto padrone del viaggio non viaggia; può agitarsi, dimenarsi, correre su e giù, muoversi, svoltare o stare immobile o fissarsi o precipitarsi, può sentirsi sempre in corsa, può credere di correre anche quando passeggia oppure può credere di passeggiare anche quando corre.
L’avventura di Ulisse è senza finalismo, segue la tentazione intellettuale. Adventura, le cose che vengono incontro, senza cercarle perché non si sa già che cosa siano. Ma a una condizione, che la vita sia in atto nel gerundio che la qualifica, viaggiando ovvero narrando, facendo e scrivendo. La cosa più tipicamente avventurosa, nota Mathieu, è la scienza che ci fa venire incontro continuamente delle cose nuove, ma queste cose nuove non esisterebbero neppure, se lo scienziato non si muovesse. Che cosa è scientifico? Che cosa inaugura il viaggio e istituisce le cose come adventura, provocandole a venire incontro?
La cifrematica rileva che l’esperienza scientifica è l’esperienza di parola. Il tempo interviene facendo, ma il fare non soggiace alla volontà. Quindi il tempo non soggiace alla volontà; è impraticabile e inautomatico. Le cose si fanno perché si dicono. Il viaggio è inaugurato dall’atto di parola. Il viaggio è viaggio dell’identificazione dell’oggetto e questo carattere costituisce il viandante nella solitudine. Ma la solitudine, avverte Mathieu, non è l’isolamento; nessun viaggio senza il dispositivo del viaggio, che è dispositivo scientifico del racconto, infatti il viaggio, più di un’altra cosa, esige il cervello. Il turista conformista ha i suoi principi, le sue idee, la sua ragione d’essere o d’avere. Viaggiare con i propri principi, con la propria lingua, con le proprie idee espone a un viaggio in tondo e a vuoto. Come trova il viaggio il suo specifico, la sua produzione, la sua qualità, come intendere il logos delle cose?
Il logos di cui scrive Eraclito, come precisa Mathieu, non è certo la struttura formale del suo discorso, bensì l’ordine delle cose in cui ci si imbatte. È indispensabile per viaggiare intendere il logos, la logica di ciò che avviene. Le parole, quali sono usate dai più, prosegue Mathieù nella lettura del testo di Eraclito, sono del tutto inadeguate a intendere l’ordine delle cose. Occorre usare le parole altrimenti da come le usano i più per risalire a un logos che sia radice comune del parlare delle cose, ovvero che coincida con la sapienza con cui le cose sono fatte. Mathieu rileva nel testo di Eraclito l’importanza della lingua. Chi viaggia ha un’attenzione assoluta sulla lingua; non pesa, non c’è bisogno della borsa per portarla. La lingua è leggera. Ma per capire, per cercare, per viaggiare bisogna scordarsi la propria.
R.C. Bene. Questa è già una testimonianza di lettura del libro. Ci sono altri? Lei. Prego. Poi, qualcun’altro? Bene. Allora brevemente la questione e poi…
Cecilia Maurantonio Ho apprezzato molto quando lei ha parlato anche dell’interpretazione, e quindi mi sono chiesta qualcosa. La domanda che le rivolgo è proprio riguardo alla lettura. Se la lettura, come l’interpretazione, ha o procede addirittura dalla libertà. Quindi la questione che le pongo è rispetto alla libertà e la lettura, e poi anche come lei intende la ricerca, l’esperienza, ossia… Perché c’è stato qualche passaggio in cui mi è venuto il dubbio se la ricerca, e quindi l’esperienza, avessero già un fondamento, specie quando anche il professor Berti ha detto, riferendosi ad altri continenti che, guarda caso, vengono in Europa, c’è l’Europa come riferimento per la questione della scienza, cioè c’è la scienza. Allora volevo chiarire e chiedere se la scienza, anche questa, può avere, può trovare un riferimento o se invece la questione intellettuale proceda, e quindi anche la navigazione, per una questione di pulsione e di ricerca. Ecco questo.
R.C. Bene. Allora, al professor Mathieu la risposta.
V.M. L’interpretazione, oggi, è di moda. L’ermeneutica riguarda anche l’interpretazione. Dunque interpretare significa etimologicamente frapporre il linguaggio. Noi, per comunicare, salvo questi casi limiti di linguaggi allusivi, usiamo, dobbiamo passare attraverso la mediazione del linguaggio, il quale però enuncia. Enuncia. E questo, anche storicamente, la storia recente e la filosofia. Uno dei fondatori dell’ermeneutica contemporanea come scienza filosofica, e cioè Heidegger, viene fuori da una scuola di Husserl, che scrive un libro di filosofia come scienza rigorosa. Vede il rovesciamento, dovuto al fatto stesso che noi non comunichiamo direttamente, ma sempre soltanto attraverso una mediazione. L’altra cosa che diceva, molto interessante, la seconda cosa qual era?
C.M. Della lettura, della scienza.
R.C. Libertà, lettura, interpretazione.
V.M. Sì. Effettivamente l’interpretazione significa libertà; l’interpretazione è per sua natura libera, ma, libera, non significa arbitraria. L’essere liberi non significa comportarsi, perché l’arbitrio è il caso, cioè quel che mi cade in mente io faccio, eccetera. La libertà, invece, è appunto, per essere libera, deve essere una interpretazione di ogni singola situazione, alla luce dei criteri in sé non esprimibili. Prenda il diritto naturale. Il diritto naturale non è un insieme di norme formulate, ma è un insieme, sono dei criteri impliciti attraverso i quali interpreta le singole situazioni giuridiche. Quindi, effettivamente, tra libertà e interpretazione, libertà finita come la nostra. Molti sostengono che la libertà o è infinita o non è, è una proposizione di Giovanni Gentile. La libertà o è assoluta o non è, invece la nostra libertà o si rassegna ad essere finita, creaturale oppure cadiamo nel suo opposto.
Pubblico Un’ultima domanda. L’orizzonte di Eraclito e Parmenide nella scienza di oggi. Eraclito è la navigazione che, secondo me, sembra sia il divenire intellettuale, il divenire della scienza e quindi Eraclito, va bene. Parmenide e l’incontro con Eraclito. Il paradigma della scienza. Si può interpretare in questo modo?
V.M. Sì, si!
Pubblico È una riflessione, effettivamente, che non avevo mai fatto. Interessante. Non c’è più scontro tra Parmenide e Eraclito, ma nella scienza c’è questo incontro, insomma tra…
V.M. L’avventura permane, ciò è molto tentante. L’avventura permane molto tentante, al punto che lo stesso Ulisse nell’Odissea deve, prima di morire, tranquillo nella sua Itaca, deve intraprendere un viaggio in una terra che ignora talmente il mare, che un tale passante, incontrandolo, incontrando Ulisse con un remo sulla spalla, lo scambia per una pala per spostare la pula del grano; quindi deve in qualche modo fare ammenda Ulisse dalla tentazione del mare, perché il mare è tentante. E in Eraclito c’è una polemica contro il mare, anche. Per i pesci, dice, è molto salutare, ma per gli uomini… E anche, è tutto nero intanto, c’è l’insidia del mare, ovviamente, e anche il mare come tentazione è dannoso, insieme con l’essere il veicolo, ma il veicolo che introduce una tentazione di onnipotenza, diremo noi. Pensiamo ai Feaci: hanno delle navi che senza rematori e, soprattutto senza timoniere, si dirigono in “no time”, senza che passi il tempo, si dirigono dove vogliono; portano Ulisse a Itaca. E questo, però, fa arrabbiare il dio del mare, Poseidone che dice: “Da questo momento…” e pietrifica addirittura una nave perché non cadano in questa tentazione. Quindi, il mare è ambivalente per i greci.
Pubblico L’essere logico di Parmenide lo possiamo trovare nel paradigma della scienza, delle teorie scientifiche? Ecco, questo volevo chiedere. Secondo Lei, l’essere di Parmenide, che è un essere logico, lo possiamo oggi trovare nelle teorie scientifiche che sono paradigmi di riferimento?
V.M. Sì. Parmenide è l’ideale del rigore. Certamente, come voi avete capito, le mie simpatie vanno più a Eraclito che a Parmenide, ma questo non significa niente.
G.L.V. C’era una piccolissima suggestione creata dall’ingegnere che mi sembrava molto, forse, concreta, ma meno filosofica e più pratica, però non per questo meno interessante, quando ha fatto riferimento a questo film. Io non ho visto questo film; bisognerebbe vedere tutti film e leggere tutti i libri, non è possibile, però me ne hanno parlato. Allora la gente va, si siede al cinema e va a vedere un film, perché uno si aspetta che ci sia una storia. Non c’è alcuna storia. Esce dal cinema, queste persone escono dal cinema e dicono: “Mannaggia, però assomiglia tanto alla nostra stessa vita. Porca miseria! Cosa vuol dire?” Non so. Il romanzo, qui parliamo molto di romanzi, ma i grandi romanzi del passato, – non faccio riferimento all’Odissea, ovviamente, ma arrivo più all’era moderna, Il rosso e il nero di Stendhal – nascevano dalla frizione delle differenze.
La storia era possibile perché qualcuno voleva migliorare la sua condizione, lottava per uscire dalla sua realtà di inferiorità, di soggezione, di povertà. Su, c’era qualcuno che glielo voleva impedire; c’era un conflitto sociale, intrasociale, dentro la società che era conflitto perfino antropologico, culturale, spirituale. All’improvviso ci si dice “ma non si scrivono più romanzi”.
Adesso, il romanzo che va per la maggiore è un trhiller, cioè si racconta la storia di un serial killer. Io uccido, si chiama questo libro di un ex comico. Questa è la quintessenza del romanzo di oggi. È un romanzo tipicamente americano, lui non fa mistero, che ha mutuato da quello stilema. Non sono gli incunaboli della letteratura americana, ma è così. Prima gli Stati Uniti avevano Sulla strada di Kerouac, che era un’avventura underground, la loro strada, quella che mister, come cavolo si chiama? Schmitt dice “non porta da nessuna parte”. Perfino Alessandro, canta Vecchioni qualche anno fa, cantava in Strano amore: “Il più grande conquistò nazione dopo nazione. Quando fu di fronte al mare, si sentì un c…..”. Però era un’altra cosa. La strada di Alessandro è un’altra cosa dalla interminabile road americana che mister Schmitt intraprende.
Io credo che, siccome nella storia umana nulla è eterno, tutto in qualche modo deve ancora accadere, e allora perché, perché noi oggi in fin dei conti, noi pensiamo che sia già tutto successo? C’è stato in uno dei libri di maggior successo di questi ultimi anni è stato scritto da un giapponese che vive negli Stati Uniti e si chiama Francis Fukuyama, si chiamava La fine della storia e l’ultimo uomo.
Ma chi l’ha detto? Voglio dire la fine la storia perché tutto sia compiuto, lui è convinto che sia l’ultimo uomo. Non so se pensa di essere lui l’ultimo uomo, il prototipo. Però questa cosa è entrata dentro di noi. In fin dei conti, prima ci bastava pochissimo; anche da bambini, ci divertivamo con un nonnulla, coi cavalli a dondolo. Adesso ci vogliono le play station, i computer, e non basta mai. Non è fuori di noi, ma è dentro di noi che l’avventura deve cominciare. Questo volevo dire. Forse incide la globalizzazione, forse questo egualitarismo spinto ci porta a dire che la libertà, che è quello di cui parliamo spesso è, diceva Sartre tanti anni fa: “La libertà è ciò che un uomo fa di ciò che fanno di lui, ma se noi lasciamo che facciano di noi questo: il senso della libertà degli altri”, cioè di chi in qualche modo governa queste dinamiche.
Dentro dev’essere lo spirito, la novità, l’ulteriorità, in qualche modo la scintilla che ci porta a essere diversi da noi stessi, io con me, prima che con gli altri, quello che oggi si sta un po’ spegnendo e quello che porta a dire “Non ci sono più i vecchi romanzi di una volta”. In fondo, davvero, il romanzo in questo senso è la spia di un pericolo: l’appiattimento, l’omologazione.
R.C. A questo punto, è chiaro che questo libro è una miniera di questioni. Noi siamo potuti andare dalla filosofia alla scienza, da Ulisse ad Alessandro, da Eraclito a Parmenide, dalla democrazia ad altre cose, all’avventura, traendo elementi, evocazioni dalle pagine di questo libro, che quindi è un libro che invito ciascuno a leggere perché è un libro di pensiero; è un libro che lascia pensare, lascia riflettere, lascia sognare, lascia insomma a ciascuno di intraprendere il viaggio, senza dover già stabilire come essere, come pensare, come dover pensare, come dover essere, e quindi è un libro straordinario, è un libro da cui effettivamente emerge la questione dell’Europa, non come la questione di qualcosa che c’è già per tutti, ma come una questione che sorge; è un orizzonte e comporta per ciascuno la decisione di vivere, di intraprendere, di fare il viaggio, ma non già il viaggio dell’andare a zonzo, che inizia qui e finisce lì, che sappiamo già dove inizia e dove finisce. No!
Il viaggio che comporta l’avventura infinita, la ricerca infinita e l’approdo in direzione della qualità, della qualità assoluta che è poi qualità della vita. E la qualità della vita non è la metafora del benessere, che sarebbe invece appunto l’idiozia o l’ebetudine del ritenere che bisogna rilassarsi, lasciarsi andare senza pensare più a niente e quindi quale prolessi della morte.
È un libro, quindi, che comporta un’educazione intellettuale assolutamente unica e impareggiabile, è un libro che invito ciascuno a leggere; si può trovare qui nella sala e il professor Mathieu sarà lieto di firmare ciascuna copia, oppure anche il libreria. Allora io, rinnovando l’invito alla lettura, ringrazio Enrico Berti, Gianluca Versace e Vittorio Mathieu di essere stati qui con noi e ringrazio ciascuno di voi.