LA PADRONA DELLE OCHE. Presentazione a Asiago
- Baggio Piera, Bagnara Mario, Chinaglia Ruggero, Rodeghiero Michela Maria, Thierry Parmentier, Viero Maria Antonietta
30 luglio 2023, giardino del Museo Le Carceri di Asiago. Testo della presentazione del libro di Maria Antonietta Viero La padrona delle oche (Arsenio Edizioni) con interventi di Piera Baggio, lettrice, Mario Bagnara, presidente “Amici dei Musei e dei Monumenti di Vicenza”, Ruggero Chinaglia, cifrematico, psicanalista, Thierry Parmentier, artista performer, Michela Maria Rodeghiero, Consigliere delegato alla Cultura di Asiago, Maria Antonietta Viero, autrice del libro.
LA PADRONA DELLE OCHE
Voce narrante e danza di Thierry Parmentier – Ti cerco
…Io ti cerco
non cercarmi,
ti abbandono,
non abbandonarmi,
ti lascio,
non lasciarmi,
non amarmi,
ti amo,
non odiarmi,
ti odio…
Non si ama il padre,
non si ama la madre,
non si ama il figlio…
L’amore non è naturale… E il legame non è di sangue.
Di qua e di là, un salto nel fosso,
instabile ponte di assi ai due capi.
Assi di legno
troppo amate dai flutti di sotto,
che proprio in quel punto
inciampano in sassi
coperti appena dal muschio
quando arso sulla sua cima
il flutto crede il legame
stretto in un gioco delle parti:
di qua o di là.
Di qua ti lascio – abbandono-
di là ti cerco – odio -.
E il filo e la corda del tempo?
Non sono più solo
in compagnia di me
nell’arido stesso.
Michela Maria Rodeghiero
Le monete, il bastone, il portachiavi,
la pronta serratura, i tardi appunti
che non potranno leggere i miei scarsi
giorni, le carte da gioco e la scacchiera,
un libro e tra le pagine appassita
la viola, monumento d’una sera
di certo inobliabile e obliata,
il rosso specchio a occidente in cui arde
illusoria un’aurora. Quante cose,
atlanti, lime, soglie, coppe, chiodi,
ci servono come taciti schiavi,
senza sguardo, stranamente segrete!
Dureranno più in là del nostro oblio;
non sapran mai che ce ne siamo andati.
Questa è una poesia di Borges, Le cose, che ci ricorda come le cose ci sopravvivano, e quindi non ci appartengono mai fino in fondo. Ho pensato non ci fosse migliore introduzione per il libro di Maria Antonietta Viero, che si intitola La padrona delle oche, ossia la padrona di niente, la padrona solamente di quelle cose effimere che mutano con il divenire dei giorni. Un albero sradicato, una carta ingiallita, una sega abbandonata, ecco le cose da cui trae ispirazione il verso di Maria Antonietta Viero, in un “flusso di coscienza” le riesamina, le risemantizza, fa prendere loro nuova vita, perché né la verità è, né le cose sono se non nel loro essere percepite nell’istante presente. E ecco dunque un flusso di coscienza continuo, una realtà che fatica a trovare un senso unico perché il senso unico non c’è ma, appunto, lo diamo noi con la nostra percezione, scoprendo sempre una nuova verità camaleontica, inafferrabile, che sfugge alla razionalizzazione. Quindi, se non esiste un hoc propter hoc c’è però un hoc post hoc, c’è uno scandirsi e quindi tutto il resto è sovrastruttura. Ecco queste le mie parole per introdurre Maria Antonietta Viero. Ora cederò la parola a Mario Bagnara, che è già stato assessore alla cultura del Comune di Vicenza, ha avuto vari incarichi e oggi è presidente dell’associazione Amici dei musei vicentini, che introdurrà il verso, meglio di me, di Maria Antonietta Viero. Grazie.
Mario Bagnara Grazie e buonasera, buonasera a tutti. Grazie agli amici che ho il piacere di avere al mio fianco anche qui a Asiago. In pratica siamo in linea di continuità rispetto alla presentazione che abbiamo fatto alla Biblioteca Bertoliana del precedente e, possiamo dire, impegnativo volume, che era un secondo volume perché la nostra Maria Antonietta ha fatto molte esperienze che ritornano anche in queste testimonianze letterarie rielaborate, devo dire anche arricchite, direi estese come esperienze ai lettori, e a me piace ricordare anzitutto l’originalità di questo terzo volume, il secondo per quanto mi riguarda come presentazione, proprio la dedica al lettore, simpaticissima, breve, sintetica però: Al mio lettore ignoto, che non mi conosce e non mi giudica, che lascia libero il viaggio ma non mi abbandona, che non mi chiede nulla ma resta nella donazione della mia pagina. Crea subito un feeling tra lei, autrice, e non dimentichiamo però la presenza di Ruggero, perché è un connubio inscindibile, arricchente. Io ho avuto l’esperienza ancora ventuno anni fa esattamente di fare determinate esperienze a Vicenza convocando nella sala principale, la Sala degli Stucchi, oratori, dirigenti dei ministeri, presidenti delle associazioni di categoria, e abbiamo fatto una serie di eventi che hanno lasciato un segno molto profondo, non soltanto nella memoria ma direi anche nelle conseguenze per certi orientamenti che allora, magari anche poi, sono stati scelti nelle decisioni di natura politica e poi anche ovviamente nelle varie attività. A me ha colpito anzitutto di questo secondo volume che poi cercherò di dimostrare, ma brevemente, che è un po’ una continuità, è sull’onda trasportato dal vento del libro precedente, cioè Viaggio di una foglia. Il titolo è originale e si riferisce tra l’altro all’immagine di copertina che è di un artista tutt’ora vivente che sta arrivando ai cento anni, che è un personaggio molto simpatico, un certo Renato Varese di Conegliano, nato nel 1926 e che è molto apprezzato anche in vari musei, cioè La padrona delle oche, uno si domanda… Prima la signora ha dato una interpretazione molto puntuale, molto precisa, a me piace il tentativo dell’amico Guarracino, Vincenzo Guarracino, che fa la postfazione, così come aveva fatto la postfazione anche del volume Viaggio di una foglia, per cercare di trovare magari una spiegazione più razionale di quello che possa essere il suggerimento che viene fornito, e debbo dire che, insomma, l’intuizione e la sottolineatura che ha fatto la collega relatrice nella sua apertura corrisponde in effetti, ma poi è anche un bella opera quella di copertina, che ha un suo significato. Possiamo dire che poi trova corrispondenza in tutto il contesto perché, tutto sommato, dalla prima all’ultima pagina nelle diverse sezioni, nei diversi capitoletti, non possono nemmeno essere definiti capitoli. Nel libro precedente c’erano, sì, delle sezioni che potevano anche essere definite capitoli, soprattutto nella seconda parte, dove troviamo addirittura con un linguaggio diretto trenta storie molto avvincenti che rappresentano un po’ le esperienze di vita non tanto e direttamente autobiografiche ma la parte autobiografica si trova, nell’altro volume, nella prima parte. E qui quindi direi che questo titolo desta una certa curiosità, ma possiamo dire che il contenuto di questo libro è una continuità rispetto al precedente. Vi ho detto un po’ la sintesi del precedente, qui, invece, quello che era definito viaggio di una foglia qui continua in maniera più leggera, con un vento che trasporta le foglioline, addirittura sembrano parlare, gorgogliare, queste foglioline, e la parola foglia, o meglio il concetto di foglia, la fogliolina che cade dall’albero, viene traportata, forse cade a terra e poi viene anche risollevata, sta a rappresentare un certo tipo di esistenza nella quale ci possiamo anche identificare, e devo dire che riesce molto bene Maria Antonietta nel suo linguaggio, nella sua poesia, che è come, io la definirei ― c’è un titoletto, L’acqua sorgiva ― acqua sorgiva. La sua è una specie di acqua sorgiva che scorre e magari il vento la solleva, la polverizza e diventa di una comunicazione particolarmente simpatica, e allora naturalmente i temi che ricorrono sono sempre elementi della natura, partendo dalla visione celeste, per arrivare alle piante, la citazione dell’albero, quindi ecco le foglie, ecco il volo. Sono temi che la ispirano profondamente, che sono colti nella realtà, e lei riesce a dare un significato, un’interpretazione metaforica o allegorica a tutto ciò che la natura presenta. A me, dovendo sintetizzare questo mio inizio per eventualmente riprendere, fa piacere anche sottolineare una sensibilità mistica in questa contemplazione della natura. C’era già nel volume precedente ma qui sembra essere sia pure con cenni isolati una presenza molto più determinante, molto più significativa con addirittura il richiamo a espressioni che sono del linguaggio cristiano, come il riferimento al padre e al pane, a un certo punto compare anche l’ostia di consacrazione; quindi c’è una specie di elevazione di ciò che è apparentemente materiale che diventa spirituale, che diventa, appunto, umano. E c’è un particolare che mi ha colpito, dopo aver fatto le esperienze delle scorse settimane, quei rovinosi temporali, le alluvioni, perché qui c’è un particolare in più di questi aspetti della natura, non sono sempre aspetti rasserenanti, ma sono degli aspetti, quando parla di vento, quando parla di acqua quando parla… C’è un cenno anche al terremoto, c’è una presenza terribile della natura che non avevo notato in altre composizioni, però alla fine si vede che qualcuno tra gli esseri viventi riesce comunque, anche fra gli esseri viventi umani ma soprattutto negli animali, riesce a trovare una certa consolazione e una certa pace. Per esempio anche la tortorella che viene scossa, cade colpita e travolta dal nido, cade a terra, è un passo commovente quello della tortorella, ma poi le tortore ritornano, ma i piumati o i plumi, cioè gli uccelli, sono citati in continuazione. Bellissima l’immagine degli uccelli che sull’imperversare catastrofico di un terremoto riescono a librarsi nel cielo, immuni ovviamente dalla violenza del terremoto, e questa è la sua poesia, non ha una logica ordinata, è una serie di impulsi dove riesce a comunicare innovando molto nel lessico, nella sintassi, possiamo dire anche nella concatenazione logica, non soltanto da un punto di vista grammaticale e sintattico. Potremmo dire che Maria Antonietta Viero è anche un’innovatrice da questo punto di vista, però per lei la poesia è un canto che viene spontaneo, e lo dobbiamo leggere con questo spirito, con questa accoglienza, perché poi alla fine i valori, nonostante la vita sia fatta di spine, c’è già un esergo iniziale che allude alle spine, ci sono le disavventure, c’è il capitolo centrale dove si parla di una giovane sposa che trova il compagno, mette al mondo due figli, Chiara, che muore anticipatamente, e un altro figlio invece a trentuno anni scompare pure, e quindi spariscono dall’essere però, ciò non ostante, ci sono due cenni a due valori portanti, e io mi fermo a questo punto, c’è l’amore che è la fiaba che domina nel mondo, e c’è soprattutto l’amicizia, che non è l’amicizia solo tra persone, è l’amicizia anche con le cose, anche con gli elementi della natura quindi una vita dell’uomo che è immersa nel mistero dell’universo, e quindi il cielo che purpurea, pensate un po’ anche all’uso di neologismi molto efficaci e quindi anche se furioso il vento ulula, c’è sempre la possibilità di trovare un’ancora di salvezza. Complimenti.
Piera Baggio – L’albero
E vortica forte il vento e
sgretola come brillo di mina il cono
inattraversato… L’albero divelta
il seme che ha creduto appartenere…
Ha ceduto,
ma non è volato via. E si adagia su un lato
del terreno. Posa la testa. Posa i suoi rami. Alcuni,
ancora verdi abbracciano il petto della terra… Altri storditi
dal vento che ha scosso violento la cima, come fuscelli
barcollanti, coriandolano le foglie.
In girotondo le radici sradicate mostrano
il nudo all’aria, il nudo all’idea di pensiero
solido, di pensiero compatto senza il dubbio del procedere.
Il tempo mostra il suo istante…
È proprio ciò che vedo?
È ciò che conferma il giudizio sulle cose?
Radici all’aria…
L’idea di radice ha lasciato
la presa di origine, ha lasciato
libera la mano perché l’appartenenza sciogliesse
il “Da” e “Di chi?”.
Senza presa il legittimo e l’illegittimo svolgono
l’ossimoro a procedere innanzi dissolvendo e
assolvendo i principi di alternativa e di alternanza
per la posizione di provocazione
alla domanda, al dispositivo di parola.
Come valzer viennese rotea su se stessa
l’idea di coppia, le foglie sbriciolate
dalla lama del vento musicano solitarie
l’ardita combinazione
in preghiera al cielo…
Michela Maria Rodeghiero La parola ora a Ruggero Chinaglia, medico e presidente dell’Associazione cifrematica, grazie.
Ruggero Chinaglia Buonasera. Sono molto contento di trovarmi ancora una volta qui a Asiago a presentare un libro nell’ambientazione culturale che sempre più Asiago sta avendo con le sue manifestazioni; l’anno scorso eravamo nella sala consiliare, nell’ambiente austero della sala consiliare, emblema della città di Asiago, oggi ci troviamo qui all’aperto, dinanzi a questo museo che con il restauro che ha avuto ospita delle bellissime mostre. Attualmente è in corso la mostra su I pittori della realtà. Tra l’antico e il moderno, davanti a questa bella opera dell’artista Giovanni Paganin, che celebra la cacciata dal paradiso terrestre, quindi siamo in un contesto artistico secondorinascimentale, cioè di integrazione tra le varie arti, scienze, culture, dove ciascuna cosa contribuisce al valore della vita, al valore di ciascuna cosa che integrandosi non scaccia un’altra cosa, ma si aggiunge senza l’idea di dovere finire qualcosa. Questo libro di Maria Antonietta Viero, La padrona delle oche, possiamo dire che è un libro dell’ironia e del sorriso, ironia che già nel titolo indica la vanità dell’idea di padronanza, che come ricordava Michela Rodeghiero è padronanza sul nulla, quindi assenza di padronanza, e del sorriso perché ciascuna cosa che è narrata nella pagine del libro trae al sorriso, e anche dinanzi a avvenimenti che possono risultare tristi, impegnativi, drammatici, lascia invece un messaggio volto al proseguimento. Abbiamo appena ascoltato una poesia, L’albero, che trae ispirazione non già dalla natura, non già dalla constatazione che dal seme, una volta seminato, si sviluppa poi la pianta e allora abbiamo una visione idilliaca della natura, no, trae la sua origine, il suo motivo, da un evento che è stato eccezionale nella sua drammaticità: nel 2018 c’è stata la tempesta Vaia, con milioni di alberi sradicati in tutto il nord Italia, una cosa di cui non avevamo avuto mai notizia durante la vita, ebbene da questo avvenimento, anche da questo apparentemente tragico, e anche non solo apparentemente, avvenimento, Maria Antonietta trae una scrittura, una testimonianza che va in un’altra direzione. Questo lo troviamo anche nella poesia Acqua sorgiva, che sembra un’ode all’acqua che sgorga dalla fonte, dalla natura; invece, è la testimonianza di un paio di notti trascorse in albergo dove un rubinetto perdeva incessantemente. L’acqua sgorgava, impediva anche quasi di dormire, e non c’era modo di fermarla perché non c’era chi potesse riparare questo guasto, ebbene, da questa vicenda, sorge una poesia che è intorno all’acqua, intorno a un’altra questione. Così come anche nella poesia E tuba, dove, constatando la caduta di un uccellino dal nido, Maria Antonietta scrive qualcosa che nulla ha a che vedere apparentemente con la disgrazia ma apre a un’altra lettura. Questo è il pregio della scrittura poetica di Maria Antonietta, che è poetica non in quanto appartiene a un genere letterario, la poesia, che si contrappone a un altro genere letterario, la prosa, no. Nelle sue pagine c’è integrazione di prosa e poesia, perché è scrittura poetica come scrittura dell’esperienza, scrittura di quel che accade, e che si integra nella sua elaborazione e diviene scrittura, diviene messaggio. Un aspetto interessante che il lettore potrà constatare è che nella pagine di questa scrittura non c’è mai l’idea di fine, c’è sempre qualcosa che trae al proseguimento, anche le formule, “non c’è più”, “c’era una volta”, che potrebbero indurre il lettore a qualcosa di nostalgico, all’idea di qualcosa che sia finito e che lascia un rimpianto, queste formule Maria Antonietta le chiama “contrasti d’archivio”, qualcosa che si registra nella memoria, si registra nell’esperienza di ciascuno e poi diviene un’altra cosa. Ora, questa questione del contrasto ritengo che sia molto importante in questa scrittura, perché è un contrasto che non trova mediazione, non trova soluzione, è un contrasto che non nega la contraddizione ma, anzi, la indica come qualcosa di essenziale perché ci sia qualità delle cose. Noi siamo abituati all’idea di soluzione, all’idea che qualche cosa debba prevalere su qualcun altro o su qualcos’altro, che ci sia una verità che debba imporsi su un’altra verità; qui, invece, non c’è una verità ipostatizzata, una verità di partenza che deve essere dimostrata e mantenuta, ma c’è l’invito a trovare nella lettura la verità come effetto per ciascuno, che quindi è questione di elaborazione, leggendo, è questione di trasposizione, leggendo. Non c’è una chiave di lettura, ci sono effetti della lettura, e per ciascuno differenti. Nessuno è chiamato a avere un’interpretazione univoca di queste pagine, perché sarebbe in realtà molto difficile, se non impossibile, dato che proprio per l’esperienza da cui questa scrittura procede, che è l’esperienza cifrematica, l’esperienza della parola che si qualifica, l’esperienza della parola che diviene valore, qualità, noi troviamo in queste pagine una lingua che man mano si rinnova, non è mai la stessa lingua, troviamo, come notava Mario Bagnara, neologismi, aggettivi che diventano verbi, verbi che diventano aggettivi, ma non per una impostazione di principio, perché ci deve essere qualcosa di strano nella lingua, ma perché risulta proprio che quel termine, quel lessema non poteva che essere quello, non poteva che avere quell’uso, che è un uso differente, un uso che potremo dire “improprio”, ma che è ciò che dà tono, timbro alla scrittura e dà un contributo alla lettura. C’è un arricchimento nel gerundio della lettura che è anche quell’arricchimento che per ciascuno è imprescindibile nel gerundio della vita; questo è un altro dei messaggi che viene da questa lettura, non c’è l’idea di fine non c’è qualcosa che finisce, ma l’invito per ciascuno all’instaurazione del gerundio. L’idea di umano porta con sé l’idea di fine, perché l’idea di umano è l’idea che sorge dai principi misterici, religiosi, ideologici, antichi, il principio di uguaglianza e il principio di unità, l’idea di fine è insita in questi principi. L’idea di umano trae con sé questa se pur vaga condanna alla fine. Qui c’è l’assoluzione rispetto a questa condanna dell’umano, e quindi c’è veramente un’altra leggerezza un altro piacere nella lettura, perché non c’è più l’umano, c’è la scrittura con la sua la poesia, con la sua leggerezza, con il suo “altrove”. Anche per quel che riguarda Vuotopieno, il racconto, la poesia, il contributo poetico che è centrale al libro e che costituisce la struttura portante di questo volume, che poi leggeremo, c’è un’altra nozione di lutto, un’altra nozione di dolore, un’altra nozione di trauma che risultano non già come sentimenti legati alla perdita, a qualcosa che rappresenta un vuoto che non può essere colmato da nulla e che resta come segno del negativo; qui troviamo invece che lutto, dolore e trauma sono sensazioni della struttura della vita, del suo proseguimento, perché le cose procedano, proseguano e non solamente in una negazione di ciò che può essere il dolore, il lutto, il trauma, ma nella accettazione e è questa accettazione che trae al sorriso, trae alla qualità, trae alla vita come capitale. Un invito alla lettura, quindi.
Piera Baggio – E tuba
E come tortorella a giugno,
già piumata, tenta il suo primo volo,
lasciando il nido sicuro sul ramo più alto del pino
marittimo, vigili il padre e la madre,
schiatta con tonfo al suolo,
e la madre in picchiata si fa cuscinetto,
prima che il cemento la trattenga nell’ultimo saluto
ma non arriva in tempo.
E tuba, tuba
e rumorosa vola sul ramo più basso
più vicina possibile
a dove è caduta la sua piccola e sta lì immobile,
fisso lo sguardo sulle piume
che il vento appena solleva e attende, che attende?
Vano tentativo di riportarla su, su al riparo,
ancora in quell’uovo
che dischiuse la vita…
La tortorella apre il becco, ma la voce non giunge,
chiama senza ascolto, ansima,
apre appena le ali,
il cuore pulsa sulla schiena che ancora respira…
Maria Antonietta Viero Vado sulla via raccogliendo storie, scrivendo ciò che il malinteso dell’ascolto stravolge nell’idea del possesso, nell’idea che la storia sia mia, tua o sua; la storia si narra nel racconto, magari si appunta a un ricordo dov’è aria a cogliere gli elementi della storia per la fiaba che si sta tessendo, dove trama e ordito intrecciano fili sconosciuti senza l’idea di volontà, di potere di dovere, provocati dal colore svolgono la volta dell’arcobaleno disfacendo l’idea di proprio e di comune, idea basata sul principio dei “tutti uguali”. Il passo incide sul percorso in cammino, in un tempo che nulla ha a che fare con la durata, con la conta del suo passare e del suo futuro. La difficoltà sta nel pregiudizio che segna e marca l’idea di sapere già, di sapere già da dove vengono le cose e dove andranno. Le cose accadono, e accadendo avvengono e divengono, in un incessante processo di trasformazione, e appellano all’ascolto. Ma quale ascolto se la prevenzione di fa sull’idea di segno, sul principio di origine e sulla credenza nel suo fantasma che detta già il destino? Per cui, perché fare? Le cose accadono, accadono e basta, sta a noi accoglierle, non respingere l’offerta della cosa che accade. La cosa non sa il male, non sa il negativo, l’umano ne tenta la padronanza di un “io” padrone che vorrebbe sapere e situare dove sta il bene e dove sta il male, una linea tracciata, un’unilingua, un unidestino, sul principio dell’idea di morte. “Tutti dobbiamo morire”, “Tutti uguali!”, meglio parteciparvici, appartenervici, condividere, stare in compagnia, tutti fratelli, sorelle, un amore pacifico, salvifico, su un’idea di stesso padre cui ascendere. Per fortuna la pulsione, la forza, l’occorrenza insistono, non lasciano cadere, occasionano ciascuna volta “quella volta”, il verso, la nota, il segnale che la cosa venga presa in considerazione, ascoltata per il suo verso, per la direzione che indica senza respingerla. E andando, con lo spettro delle proprie paure, al riparo di un passo falso, marcando il passo sul sicuro sentiero, può capitare invece, l’inciampo, una svista, un sasso inavvertito, un’ansa, la via lineare si spezza sulla pietra dello scandalo, un frammento si pone dinanzi, un equivoco si espone al dirsi della cosa, un inganno dell’immagine che si pensa sapere ribalta “il questo”: non è questo, è Altro, già Altro. Il tempo è il tempo della scrittura della memoria in atto che struttura, costituisce il caso, caso di valore, il tempo interviene nell’incessante trasformazione e le cose non sono mai perdute. E tra le storie raccolte vi leggiamo ora quella che in questo libro costituisce la storia principale, Vuotopieno
Ruggero Chinaglia e Maria Antonietta Viero leggono a due voci – Vuotopieno
Ruggero Chinaglia
Un vuoto. Un vuoto a traboccare il pieno, un vuoto a rimarginare le crepe in assesto, un vuoto che di fessura lembi la luce, un vuoto a trascinare la corrente come diga all’inondo, un vuoto che attenti al cielo i suoi perché, un vuoto a scandire lenta la mano che lascia la presa, un vuoto che scava, come di viscere la terra, e lingue affilate si alzano lunghe, smarrendo e disperdendo: quale via? Un vuoto a colmare l’orrenda presenza di chi non risponde più.
Vuoto: perché vuoto il pieno? Un pienovuoto? Un orrido all’occhio, muto il saluto al nome scavato alla pietra, al Fato Lei dice: “Rispetto le loro scelte di una vita breve”. Un altro disegno, un’altra via, una corta vita. “Un’altra vita hanno scelto…”.
Due figli. “E sono costretta a amarli sempre di più e mi scuso della disperazione che ho per la loro scelta…”.
Maria Antonietta Viero
Chiara, 10 anni e,
come il fulmine che s’abbatte sull’albero spogliandolo,
bruciato nel tronco,
tronco tranciato aperto al suo feto,
in sangue rimosso,
così
nel colmo di vuoto
Gabriele, 31anni,
va a ritoccare il disegno
una sera di buio e, in asfalto,
una ruota spezzata lascia inerme il perché
di quel ragazzo al cielo.
Ruggero Chinaglia
Chiara strappata agli affetti, al gioco, alla scuola, alla casa, avvolta in asettica stanza, senza più colore il sogno, si sente chiedere se stava abbandonando il campo… “Mamma, costi quel che costi, non ti abbandonerò mai”.
Così Gabriele, nell’idea di mamma, va a raggiungere la sorella, perché? “Perché l’amore che li univa, così profondo, torni a riunirli…”.
Vite spezzate? L’arbitrio dell’idea, in fede di un disegno divino, con il cuore colmato di amore, s’inchina, suddito, alla volontà dell’Altro.
E tratteggia sul foglio il volere divino.
Divino? Destino?
Un eco aggrappa l’idea che “Ogni anima che nasce ha un suo destino”. Una predizione, un giorno alla fonte battesimale, sibila lo smembro della famiglia costruita dal giorno in cui è andata,
diciannovenne, sposa. “Devo accettarlo, è la loro scelta”.
Lasciati alla vita, era quella la loro missione?
Maria Antonietta Viero
E un muro,
un muro alto accosta altro muro
e ancora uno a murare la casa
e la casa diviene un vuoto di pieno.
Leggére si levano le ombre
a lèggere il rigo di una mente,
in segno divino?
Ma quale divino si mangia la vita
e lascia sconfitta,
un macigno nel cuore,
chi nell’idea la vita l’ha data?
Ruggero Chinaglia
Quale vuoto come buco ha indotto il raddoppio? … La Piccola e il Grande, i suoi due figli…E Lei rammenta che – chi sa – in monito le dice: “Non si può essere egoisti e neanche possessivi”.
I figli non sono propri.
A uno, uno dopo l’altro, andati. Dove? “È la loro scelta”. Chi mai viene alla vita e sceglie di andarsene? Per volere divino o volontà dell’Altro? Dove giunge la ragione che sconfina nel vuoto?
Maria Antonietta Viero
Un passo e sei sull’orrido:
terremota la terra,
le pietre frantumano sé stesse
e le onde, come animali preistorici,
innalzano così tanto la curva dell’acqua
che schiaffa
che pare di bocca aperta
e, come vulcano, erutta
rantola e impreca il vento,
la sua voce come nave beccheggia
e scontra di pietre lo scoglio,
solleva le fondamenta di qualsiasi cosa
pensata solida, radicata,
apre ferite sulle strade e intrappola i viventi…
mortali…
Ruggero Chinaglia
Solo i plumi cantano e si allontanano veloci sbattendo le ali sempre più in alto sempre più veloci e lontano a riparare dalla predizione…
E a Lei pare ieri o l’altro ieri: la mamma e sette fratelli, una casa contadina, gli animali, come ospiti sparsi, le mucche, la stalla, le anitre mute, il maiale e i campi che vedono impegnate, dall’alba al tramonto, venti mani tolte alla terra solo per chi, in età scolare, qualche ora deve all’abbeccedario…Due camere affollate, e tanto freddo. Inverni lunghi, bui e fredda anche la cucina con il grande tavolo, dove il padre è servito per primo, il boccone più grande in diritto al padre, a chi più in forza le braccia al lavoro doveva.
Maria Antonietta Viero
Sordo il fuoco non attecchisce
sui legnetti del camino spento
e, amore,
inaudita parola “foresta”,
non giunge a pulsare il cuore
e come i legnetti
lascia il camino spento
e il suo battito oscilla il freddo
come del pendolo il tempo
e occhi non odono la culla nel battito di ciglia
e fiato di bocca non sporge al sorriso
come al balcone melodia il passare.
Ruggero Chinaglia
La mamma, per le ore impiegate non solo a fare figli e subito nei campi, prima ancora che la luce ritratta il suo volto già stanco si trova ricurva su cucito e rammendo, per questo a tavola si addormenta, seduta;
com’è bella nel suo viso ora disteso!
E Lei, scostata la sedia all’indietro, lasciando vuoto per poco il posto a tavola del pasto appena finito, preso il pettine dalla mensolina dello specchio sopra il lavandino e, delicatamente, ché non fugga al sogno, la pettina e, una carezza, l’altra mano liscia i suoi capelli. E al cuore, muta, intona il suo canto d’amore, canzone della vita. Canzone con cui ancora tinge i capelli delle signore, li lava, li mette in piega, di mestiere parrucchiera Daniela.
E l’infanzia consegna alle suore, la dottrina e la piazza, il suo grande albero, la quercia, appoggiata al tronco ché come scrigno assicuri la consegna dei suoi desideri e prosegua a sognare.
E sogno giunge in forma d’ ideale famiglia, lontano da dove è nata, Carceri, paese dal nome in metafora di sbarre, di chiavi in suono di lucchetti che chiudono porte e sbarre alle finestre che filtrino senza presa d’aria l’ora, verso l’illusa Noventa, nome che viene dalla terra in riscatto di mani sapienti, per un ragazzo, gentile, a cui dire sì in sposa, e sempre ancora si sorprende del lontano confronto, in diritto al padre, di lui che invece a tavola chiede: “Qualcuno ne vuole ancora un po’?”. E cibo abbonda. E il ragazzo gentile diviene padre una volta, due volte, e la famiglia vive la stagione della crescita per quasi un ventennio di affetto, di lavoro, di scuola, di progetti che “mettono a posto” ognuno.
Ma un giorno, un attimo, un istante, un’eternità…la linea della vita pensata lunga nel disegno del Fato lacera il palmo e scava la crepa e la mano della Piccola deve lasciare, perché non più stretta, né morbida, né calda… la bacchetta magica ha rotto sottratto sfatato l’incanto e un dolore che allucina lento gli mette il peso al piede e lento ma, in rabbia per colmo di pieno, sfora la vita, lascia il campo, e senza voltarsi va in panchina, cambio in riserva, non più in partita e ancora lento si perde, si apparta senza fare rumore, senza scalpore, e come trottola piroetta su se stesso. Lei gli fa da perno e comincia a avvolgersi addosso il dono, pellicola trasparente e poi carta, carta sempre più resistente, un panno repulso all’intruso, senza cambio di stagione, e ancora carta, carta regalo, un nastro con l’ultimo colore per un’idea di leggerezza e saluto, un quasi sorriso ché ormai al sicuro ripari il sonoro, l’urlo, il chiamo, la folla, l’amore, fino a ritrarsi dal mondo, quel mondo che l’ha colpito e tradito e il vuoto va a marcare il pieno: non c’è più.
Poi con il Grande, non più giocatore, il padre se ne va per sempre in quella che Lei chiama “malattia lenta ma inesorabile che tutto fa dimenticare, dolore su dolore.”. E al Fato dice: “Il suo un dolore di testa, il mio un dolore di cuore. E non mi sento sfortunata e neppure castigata.”.
E quel ragazzo gentile divenuto padre assenta chi è, assenta i suoi cari e caccia sé non sa più il dove. Il ricordo è inghiottito dalla crepa di terra e con il cielo confidente, a braccetto, qualche anno dopo, dalla chiusa in cui c’era s’invola e stretta la mano alla Piccola e al Grande ritrova. E Lei? Lei, rimane sola?
Già accorre ai Santi, a chi della sua domanda deve sapere e sa, che risponde con congiunture astrale, margini smagliati, sfregati dall’uso comune.
Di quale colpa si fa il campo zollato di pena? Da quale predizione innalzare bandiera bianca in segno di arresa e bruciarla come fosse la caccia alla strega?
Riparata dal sussulto della vita lascia all’oscillo del pendolo il fare del tempo. Consegnando il sussulto al volere divino. E si sottomette. All’imperscrutabile disegno. Il destino nelle mani di Dio come volontà dell’Altro. Dio insindacabile senza timbro della colpa e senza pena. Nell’immunità spirituale.
Maria Antonietta Viero
E come schizzo in disegno,
come fregio in trine di pensiero,
come onda per guizzo di vita,
purpura di rosa i capelli,
li tinge poi del sole delle messi,
poi li taglia,
li accorcia,
li allunga,
e il taglio diviene il modo
dell’offerta alla cucitura perfetta.
E disteso il viso come in palpebre gli occhi e la bocca della madre, ginnastica ogni giorno e nuova la casa, arredi e fiori, ma un filo prosegue con l’espiro di fumo e continua il mestiere e inaugura la festa di ora, il rito dei compleanni, uno in più per ciascuno dei figli, le date, gli amici; festa in ricordo, offre gli scritti, conserva le lettere a loro scritte e pare ascoltare senza l’ululo che sferza l’udito, raccolta com’è nello spirito della vita, allunga la mano salda all’amicizia, all’alleanza, all’ingenuità del suo dire, alla parola intrisa di ”rispetto e amore”
che mai muore.
La parola nel suo racconto trova la penna in uno squarcio di cielo, un cielo spirituale, e come taglio di tela si apposta tra le nuvole bianche a sbirciare in veglia chi segue ancora il suo andare, protetta e assicurata, dal “loro volere”.
Così la sua strada della sua vita insieme.
Michela Maria Rodeghiero Grazie a Maria Antonietta Viero, grazie a Ruggero Chinaglia, grazie a Mario Bagnara, grazie a Thierry Parmentier che ci ha deliziato con le sue meravigliose coreografie, consiglio la lettura di La padrona delle oche, con Maria Antonietta Viero che è in menzione speciale al premio internazionale a Camaiore, quest’anno. Grazie a tutti voi, e a Piera Baggio per le letture.
Ruggero Chinaglia Un ringraziamento va anche a Michela Rodeghiero e al comune di Asiago che hanno organizzato questo incontro e a ciascuno che ha collaborato.