
LA SAGA DELLA FAMIGLIA IMPENSABILE. Dibattito a Padova
- Buttazzoni Anna, Chinaglia Ruggero, Crispo Filippo, Guarracino Vincenzo, Parmentier Thierry, Resoli Sabrina, Viero Maria Antonietta
Giovedì 2 dicembre 2021. Testo del dibattito tenuto con Maria Antonietta Viero, scrittrice padovana, in presentazione del suo libro Viaggio di una foglia, edito da Di Felice Edizioni, organizzato dall’Associazione cifrematica di Padova con il Patrocinio del Comune, alla Fornace Carotta, a Padova
MARIA ANTONIETTA VIERO
La saga della famiglia impensabile
Sono intervenuti al dibattito
- Ruggero Chinaglia, cifrematico, psicanalista
- Filippo Crispo, regista, attore
- Anna Butazzoni, psicanalista
- Thierry Parmentier, artista performer
- Sabrina Resoli, insegnante, ricercatrice in scienza della parola
Filippo Crispo
Esergo
Nuvole lievi disegnano l’azzurro
Al mattino di maggio:
e i gelsomini sono sicuri di fiorire.
Noi veniamo da lontano e andiamo lontano.
I nostri campi sono i campi della parola,
sono i campi della nostra vita,
i campi del vento,
del nostro aquilone,
del nostro carro,
del nostro nomadismo, della nostra fiaba, del nostro volo
e della lezione della nostra vita…
Armando Verdiglione
Ruggero Chinaglia Thierry, prego! È suo il momento. È con noi questa sera Thierry Parmentier, artista di fama europea.
Thierry Parmentier
Viaggio di una foglia
E come in una folata
d’aria la vita soffia
e si stacca la foglia.
Comincia l’invenzione del mondo
e trascorre in rappresentazione,
palco pubblico del suo teatro
di recita privata, di lunga vita
se il vento la trattiene sollevata
e barcolla ché, ancora, non sa del passo
e danza e piroetta e quasi
mostra la pagina, ma poi si raddrizza
si distende e porge il suo lato,
mostra la sua curva e protegge
in quell’ansa che si forma
il lembo della sua svolta,
lembo dove anche i gabbiani
racchiudono le ali e rilasciano
all’onda del vento l’udire
del loro quasi lamento.
E, senza grido,
ma ancora in quel lembo di amaca,
la foglia,
nel sussurro del vento, si lascia posare,
là, dove poi starà.
Una vita trascorre?
Trascorsa, conclude?
Ruggero Chinaglia Buonasera, saluto e ringrazio ciascuno di voi che è con noi questa sera. Ringrazio il Comune di Padova che ci ospita in questa sala e che ci ha concesso il patrocinio dell’Assessorato alla Cultura, quindi ringrazio l’Assessore Andrea Colasio; ringrazio anche per la tempestività con cui abbiamo potuto cambiare la sala, perché originariamente la sala in cui dovevamo incontrarci era la Sala Livio Paladin del complesso monumentale del Municipio; la settimana scorsa è intervenuta una circolare, per cui la capienza delle sale è stata dimezzata. Molte erano già le segnalazioni e le prenotazioni di persone che chiedevano d’intervenire e, quindi, con celerità siamo riusciti a avere la concessione di questa sala e a potere ospitare questo avvenimento nella bella sala della Fornace Carotta, che è un bell’esempio di edilizia industriale del secolo scorso e ora è adibita, invece, ai servizi culturali per la città.
Questa sera è qui con noi, e già è intervenuto, Filippo Crispo, attore, regista, notissimo a Padova. È stato fondatore di varie iniziative culturali, teatrali e protagonista di opere di grande rilievo e questa sera, appunto, farà la voce narrante del libro e c’introdurrà nelle volute del libro che presentiamo.
L’uscita di questo libro è un avvenimento felice per noi, felice per tanti motivi, anche perché interrompe un periodo piuttosto lungo, durante il quale non ci è stato consentito di trovarci, di incontrarci, che è una delle finalità principali della nostra associazione, cioè quella di promuovere attività perché il pubblico s’incontri, discuta, dibatta e, in questo modo, arricchisca ciascuno e la città di idee nuove, di contributi culturali, artistici, scientifici. Le nostre attività come associazione cifrematica di Padova sono in realtà proseguite anche in questo periodo, però in misura molto ridotta e, certamente, attraverso la mediazione di schermi, monitor e quant’altro, che consentivano di proseguire l’attività. L’ultimo dibattito che noi abbiamo organizzato, e eravamo appunto nella sala Livio Paladin dove dovevamo essere questa sera – dibattito a cui hanno partecipato, come ricorderanno anche alcuni di voi –, è stato due anni e mezzo fa, nel giugno del 2018. Presentavamo allora, in un dibattito sulla libertà, la giustizia, la città, alcuni libri di Armando Verdiglione. Alcuni libri tra cui La grammatica dello spirito europeo, I padroni del nulla, L’operazione guru, In nome del nulla. L’accusa di blasfemia, libri che erano stati editi con molta difficoltà dalla casa editrice Spirali; difficoltà per via dell’attacco inquisitorio che ha colpito, da anni ormai, Armando Verdiglione e anche tutte le attività collegate, sia editoriali, sia artistiche, sia museali, sia convegnistiche internazionali.
Questa sera un altro libro ci consente l’occasione del dibattito. Il libro è Viaggio di una foglia di Maria Antonietta Viero, scrittrice padovana, edito dalla casa editrice Di Felice Edizioni di Valeria Di Felice. Con Maria Antonietta, Filippo Crispo e Thierry Parmentier sono con noi, per illustrare alcuni elementi della loro lettura, anche Anna Buttazzoni, psicanalista a Treviso e Sabrina Resoli, insegnante e ricercatrice nella scienza della parola a Padova. Valeria Di Felice avrebbe voluto essere qui con noi questa sera, come avevamo stabilito quando abbiamo organizzato questo incontro, ma per motivi di salute, connessi a un lieto evento che avverrà tra non molto, si è preferito non correre il rischio di una trasferta così lunga da Martinsicuro, la sede dove risiede, a Padova; dunque è con noi attraverso un messaggio, che poi leggeremo.
C’è anche un’altra defezione, come avrà notato chi ha scorso il manifesto, e si tratta di Vincenzo Guarracino, che molto ha collaborato sopra tutto per l’aspetto editoriale del libro. Non è con noi questa sera perché è in isolamento a Como, in quanto l’altro ieri ha riscontrato la positività al Covid. Siamo molto dispiaciuti, però ci ha inviato un suo testo, un suo messaggio e quindi poi lo leggeremo; per questa via Vincenzo è con noi attraverso la sua parola.
L’incontro di questa sera, che presenta il libro, convoca tuttavia a un dibattito il cui titolo è La saga della famiglia impensabile. È una nostra caratteristica quella di combinare l’uscita di alcuni libri, la presentazione dei libri, con una questione, un tema o più questioni che vi si connettono. La famiglia, la saga, l’arbitrarietà della parola sono elementi essenziali del libro che questa sera presentiamo, in cui si tratta della famiglia, si tratta e si racconta dell’instaurazione del mito della famiglia e della saga che il mito raggiunge cifrandosi, cioè approdando alla qualità. Nel libro, come ciascuno avrà modo di constatare leggendolo, si tratta proprio della questione famiglia, c’è la traversata della questione famiglia. La questione famiglia che non si chiude e non si risolve, cioè esige l’analisi e non presunte soluzioni per chiuderla. La questione famiglia è un’esigenza per ciascuno, è un’esigenza che non può chiudersi, ma esige invece l’esplorazione e l’indagine per approdare alla qualità della questione.
Diciamo “questione” famiglia, non “problema” famiglia, perché la famiglia non è un problema, pone però la questione; questione che procede dall’apertura della parola, questione in cui si tratta della valorizzazione; questione che esige l’esplorazione anche dei fantasmi intorno alla famiglia, perché, spesso, la famiglia viene considerata come il luogo dell’origine, non già come la questione in cui si tratta di vari statuti, di varie funzioni che intervengono nella vita di ciascuno. È questa l’invenzione che la cifrematica propone quanto alla famiglia.
La famiglia non è un luogo, non è il luogo dell’origine, non ha solo un significato genealogico, la famiglia è la traccia linguistica, che accompagna ciascuno nella sua ricerca e nella sua impresa. Allora, la famiglia per ciascuno offre la chance di un approdo al valore, perché consente di esplorare la fiaba, la fabula, la saga.
La fiaba è la fiaba dove ognuno crede che gli appartenenti della famiglia d’origine abbiano vizi, difetti, siano buoni, siano cattivi, abbiano virtù, caratteristiche di varia natura e sempre problematica; proprio accade come nelle fiabe che si raccontano purtroppo ai bambini, dove si tratta dell’alternativa fra il padre e il patrigno, fra la madre e la matrigna, fra i figli e i figliastri, dove si tratta dell’alternativa tra la salvezza e la perdizione, tra la vita e la morte. Se la famiglia è il luogo dell’origine, allora, questa fantasia è imperscrutabile, non può essere analizzata, elaborata, attraversata, ma resta come marchio, come ombra sulla vita di ognuno. Se invece trascorre con la fabula fino alla saga, allora ciascuno può cogliere gli elementi di valore, anche nonostante fantasie, fantasmatiche di varia natura. E qui sta la questione della parola, la questione dell’apertura che mai si chiude, la questione della domanda che mai si chiude; la questione della domanda che non esige soluzioni e risposte, ma rilanci in direzione della qualità.
Questo è dunque l’ambiente in cui ci troviamo e in questo ambiente procediamo con Filippo Crispo.
Filippo Crispo
Chiarastoffa
Era il Mercoledì delle Ceneri, l’ora incerta, era buio, l’alba vicina, quando un vagito forte, di nascita appena avvenuta fendeva l’aria fredda a sospendere il grido materno, spostandola come in cavalloni d’onda a destra e a sinistra, impedendone così la chiusura a cerchio e, nella spirale, appena tracciata, lasciava il passo alla storia che incominciava…
Il grido trama la voce all’inciampo del filo e l’eco stordita disegna gradini che il passo sottrae.
Piange il vagito. “È femmina.”
E intorno, comari le voci, con l’abito della festa bisbigliano al mondo la notizia: “Un abito su misura deve stare a pennello: che l’antico non sporga di un filo tirato, come al grammofono la puntina spuntata, la storia potrebbe strisciarsi! È alla mamma che assomiglia?”.
Ma quante stoffe! Ha comprato un bambino?
Thierry Parmentier
Chiarastoffa
Torna sempre la cicogna a volare
nel cielo di sera, figura radente al di sopra
dei tetti a sfiorare appena camini
spenti, non sempre si ferma e
trattiene stretto nel becco il fiocco prescelto
ché il fagotto esaudisca un dì più avanti, braccine allungate e testina sul petto
a assicurare il pensiero scappato:
“Mamma.”
Filippo Crispo
Chiarastoffa
I giorni strisciavano l’angoscia sul muro di crepe, erosi mattoni trasudanti posti scambiati o mancanti cercavano farina per pasta ai vuoti o calce ché, spinto il mattone, il muro non crolli.
Uno starno torpore, lo stesso che assicurava la bambina al dormire, trova la mamma a alzarsi dal banco della piccola chiesa e a tornare là dove stava la sua bimba, là dove stava il quaderno che segnava in ore e in peso l’onda della vita. Lo sfoglia serena convinta che la sua preghiera il cielo abbia udito e vita vi trova in 30 grammi di crescita, la prima di altre nei giorni a venire. Ora la bimba succhia, la manina sul petto, apre gli occhi, sembra veda e sembra stringersi alla mamma che ora la sua vita assicura, e scrittura annota il quaderno […]
[…] La bimba varcava la soglia in mano al padre: era il 9 del 9, nel tempo della madre, un sabato mattina di sole appisolato.
Ninna nanna oh,
tutti i bambini hanno la mamma…
[…] E la madre irrompe per quel caso, caso unico, specifico, nel tempo del fare, nel tempo dell’intendere ciò che si ode, dove la cosa no ha e non sa dell’umano mortale, accanto, custode l’amore dove la mano più ne dà e più ne ha… Senza fine.
E Chiarastoffa nel 9 del 9 del 9 nella canzone del triplo evento sentirà non una ma tre volte più una, più una, più una, dirsi “mamma”.
“Femmina, quale sorte?”
“Dimmi di che stoffa sei fatta!” […]
Ninna nanna oh,
tutti i bambini hanno la mamma
ma la madre ancora no…
Ruggero Chinaglia A questo punto do lettura del messaggio di Valeria Di felice.
Buonasera a tutti. Con dispiacere non mi è stato possibile venire a Padova per condividere la gioia di un lavoro così curato e particolare. Ma sono ugualmente vicina a voi per questa prima presentazione che sono sicura sia anche un’occasione di incontro tra anime affini e aperte alla bellezza della parola.
Sono orgogliosa di aver pubblicato Viaggio di una foglia, un libro complesso, sospeso tra narrazione e poesia, con la preziosa postfazione di Vincenzo Guarracino. Un libro che sa catturare il lettore nelle maglie di una trama fitta di storie, vicende, tempi di una grande saga familiare. E soprattutto un libro che parla di amore, per le persone incontrate che diventano universi di umanità e per la vita.
Convinta che questa opera sia un dono per chi ha voglia di emozionarsi e di viaggiare insieme alla penna dell’autrice, auguro a Maria Antonietta Viero, anima spumeggiante e profonda, di continuare a sfogliare le pagine del suo mondo letterario con la stessa incisività con cui scolpisce le pagine della sua quotidianità.
Filippo Crispo
Chiarastoffa
E storia cominciava istante a istante
Come greto, sasso su sasso,
pietre come macigni,
sabbia, granelli come letto di linde lenzuola
di accogliervi l’abbraccio d’amore, incontro
di acque provenienti da ogni dove,
storie non vivono mai solitarie,
ma rami infiniti richiamanti immortale
famiglia s’intrecciano
e là in corte, sotto il portico,
una piccola stanza, un letto di cartocci,
il Moro, la Femena, la Nina,
e quel vagito, dal grido materno, tradito
dell’altare senza vera al dito, spingeva
la Piccola all’incessante veste di scrivere
la pagina bianca che la vita le offriva,
senza scelta, vivere
con forza, con forza andare.
Thierry Parmentier
Chiarastoffa
Non con i vivi,
non con i morti,
ma radici le dita scavano e premono
sotto terra, perché salda sia
la base, rami rigogliosi
le braccia rivolte in preghiera
al cielo e il busto corteccia
che sale al viso lambito
da lacrime che subito
tramutano in foglie lasciando
sul terreno tracce di rosso pennello,
sangue trasudato di umane doglie,
un sussulto, la corteccia si apre, si squarcia, lasciando
ferito il segno e un vagito
percuote come scure su roccia
l’aria, come umido soffio
di narici del toro costretto
nel cerchio alla bruta.
Ruggero Chinaglia Capita ai microfoni di abbandonarci, ma non così Guarracino che, anche se non presente, è con noi con le sue parole.
Per Maria Antonietta nella luce della sua avventura
“Assumere la mancanza, “Non ho famiglia”, “In abito pesante di stoffa infeltrita, così che neppure un filo di vento penetri il tessuto e logori l’ordito lasciando stordita la trama”, è così che dice in un momento di verità l’Autrice, colei che dice raramente io nelle pagine di un Libro che si sfilaccia come una tela al vento del Caso, della Vita, mentre la storia creduta propria prende dolentemente un’altra piega nell’avventura della parola.
Come resistere alla sua peripezia se non lasciarsi prendere dal suo Gioco, dalla sua cifra di Destino? “Habent sua fata libelli”, hanno ciascuno un proprio destino, i Libri non meno dei figli: si distaccano ed escono dal loro angusto angolo di appartenenza per cercarsi la propria strada, il proprio modo di essere nel disegno di tutti, come particella di un Destino, senza mimetismi, senza maschere, senza “fantasticherie”. Come una foglia: ecco, come la Foglia della metafora del titolo.
Ringraziando tutti quelli che hanno voluto fargli gli auguri di buon compleanno, Armando Verdiglione, l’inventor della Cifrematica, si è, non so se consapevolmente o meno, appellato proprio ad essa, a questa metafora dicendo come sempre cose illuminanti che qui val la pena di riprendere perché a Maria Antonietta queste cose sicuramente fanno piacere: “Ecco l’occasione: una foglia scende solenne e compiuta e si appoggia lievemente sul prato; un fiore annuncia che fra qualche giorno sboccerà; una tegola resiste al vento e alla tempesta e ora è bagnata dal sole. Ecco l’occasione: non aspetti la fine del temporale, ne analizzi il disegno, lo senti, lo ascolti, cogli il bello delle sue proprietà. Tu cogli le proprietà della ricerca. Cogli le proprietà della poesia, dell’impresa, della politica del tempo e dell’Altro. Sono inattese. Mai cercate. Mai temute. Mai entrate in nessuna fantasticheria.
E il bello dell’atto è il bello della sua aritmetica e della sua specificità linguistica: è il bello del gerundio e del suo dispositivo, è il bello dell’”humus” e dell’”humanitas”, il bello della ragione dell’Altro e del diritto dell’Altro, il bello del compimento e dell’approdo”.
Mi provo ad entrare nella sua cifra, autorizzato dal fatto che non esiste dogma se non per essere digerito, come il Libro del Veggente di Patmos, destinato a tramutarsi in Luce. “lux de luce”.
C’è un’”occasione”, che può essere come spesso accade una “mancanza”, una perdita, una faglia, ed è da essa che ti lasci portare a cogliere in essa un Disegno essenziale, quale che esso sia. La cogli come stimolo alla ricerca, come volo e momento di Poesia, di creazione, e sai che la tua storia non resterà mai come prima, che il “temporale” non cesserà di flagellarti felicemente se ti lascerai andare: questo è “bello dell’atto”, ciò che c’è un “approdo” sempre nuovo. Come Orfeo che cerca la sua Euridice e nell’atto della sua perdita scopre il segno della Poesia nel favo di api che sgorgano dalla carcassa putrefatta dell’animale sacrificale.
Maria Antonietta proprio questo ha praticato fin dal primo momento della sua avventura di scrittura, fin dall’inizio del suo “viaggio” iniziato molti anni addietro con la Ballata del Moro Canossa (2000) per approdare all’oggi di questo autentico poema, di questo prosimetrum.
Un viaggio che nel segno della fragilità, la foglia, destinata alla marcescenza, sfida con la scrittura le ragioni del bello, tenta le ragioni della Vita da inventarsi attimo per attimo, a costo di “restare in solitudine e in singolare percorso”, come dolentemente riconosce nella pagina inaugurale, quella che dà il nome e la nota musicale al libro nel segno del distacco e dell’abbandono, della “mancanza” incolmabile: “Quale è la foglia che può dire ‘vita’? Quella che ancora non giunge a riportare perché la venuta è ancora celata nel ramo e che al primo sole sicuro di non gelo si lascia sorprendere all’ignaro destino, o quella che inaugura il distacco dal ramo, labirinto del verde, sfumature infinite, tavolozza del colore che salta dal rosso al giallo, primavera e autunno?”
Ecco, qui ci sono le risposte necessarie, le risposte all’azzardo e alla scommessa di voler “cogliere le proprietà della poesia, dell’impresa, della politica del tempo e dell’Altro” nell’occasione, nel kairòs, in ciò che i Greci intendevano con questo termine come fonte di impensate risorse, come Luce e come Poesia, come inaugurazione di una Radiosità dell’attimo che è quello che le augura anche la sigla editoriale che la sta tenendo a battesimo, ossia l’Editrice DI FELICE, che con questa impresa inaugura un azzardo.
Maria Antonietta, questo invito a mettersi in gioco l’ha saputo cogliere e quel che ha fatto sta qui a dimostrarlo: con la capacità di invitarci tutti al suo Banchetto di Amore e di Sapere, amici e conoscenti, corrispondendo al suo Destino, cogliendo il bello nell’atto del suo farsi, come dice giusto in conclusione di questo primo capitolo rivendicando l’ardire e la volontà cioè di “restare e perpetuare la necessità di amare” come il punto focale della sua avventura di parola.
Filippo Crispo
L’ultimo
L’ultima guarigione,
l’ultima malattia,
l’ultima pena,
l’ultimo pagamento.
Che ristabilisca la legge dell’origine.
Che detti la norma definitiva.
Che indichi come fare senza
che l’osare inciampi nella colpa.
Sull’idea di ultimo si appunta l’elenco
e lascia libero il rigo di fondo
perché l’ignoto apponga il suo nome
e il piede in passo di via sicura.
L’ultimo: lancio di morte nel cerchio in bruta,
taglio di serie a interrompere il continuo,
respiro al soffio in ritmo di vento,
sbando di perle in collana lo strappo.
Chi può udire il suono dell’ignoto?
Chi può udire il suono di campanella l’uscita?
Chi sazia l’implume becco?
Chi di rugiada allenta l’arsura?
Chi scappa?
Verso quale lontano?
Tu che ricalchi il riflesso
perché non sia diretto il vedere
ma in distanza prendere tempo,
tu che prendi il posto dell’Altro
e in scherno minacci la presa,
tu che vorresti l’io mancante per farlo uno,
in possesso di te,
tu che allo specchio rilasci petali
che lo sguardo in corolla dipinge e raccoglie…
Perché allora insiste il suono dell’infrangere lo specchio
che spettra figure ripetute in frammenti?
Ruggero Chinaglia Invito al suo intervento Anna Buttazzoni.
Anna Buttazzoni La poesia di Maria Antonietta Viero ci ha convocato. La poesia che attraversa la sua persona, la sua vita, le sue relazioni, ora ci convoca con l’autorevolezza di una apertura appassionata.
Mai come in questo caso “poesia” interpreta il senso greco di “poièo”, fare, svolgendo un aspetto dinamico, un andare, un procedere nella ricerca, con il suo risvolto di conquista e di integrazione.
Poesia e stile assolutamente originali, unici, dove la parola viene messa alla prova, esplorata con audace sperimentazione.
Una avventura che ci spinge lontano, in percorsi che assumono sfide, risvolti imprevisti, attraverso l’inciampo della materia del dire. Sì, perché dalla materia del dire Maria Antonietta Viero, nel suo esporsi di donna al non tutto della parola, è attraversata: quasi una necessità, un lavoro perennemente in fieri, in cui poesia è vita, secondo le intricate vie del “come”, nelle cose rievocate e create.
Viaggio, alla scoperta di cose inesplorate, con la loro verità e senso profondi, nello sforzo incessante di andare oltre, al di là di ogni luogo comune, per giungere al singolare, al non prevedibile, a quel senso altro che ci sorprende, nel dolore e nella gioia.
In uno sforzo vissuto come inevitabile, il racconto della sua e di molte storie diviene la via analitica per il raggiungimento di sempre nuovi orizzonti. Poesia e racconto poetico come imperativo di esistere, affermazione della vita, occorrenza: la vita si vive e si racconta, si vive nel racconto, attraversando il dolore inevitabile, nello sforzo verso la vittoria: sforzo di vita e vittoria del desiderio.
La poesia incalza e ci invita a lasciarci andare al suo ritmo, alle sue vibrazioni, alle sue immagini enigmatiche. All’andare dell’attraversamento, alla spinta vitale che dà fiato e energia all’intensa traccia poetica del racconto. Come cuore che pulsa, il ritmo del racconto evoca il ritmo stesso del respiro a cui abbandonarsi. E le immagini, come in un film, si snodano attraverso una lettura che rende altra ogni storia, nel susseguirsi delle forme, dei dettagli, dei colori. In un tempo mitico, antico e attuale, eroico e intenso.
Pulsione pura, o, come lei stessa dice riferendosi alla “Piccola”, che mi sembra evochi qualcosa che la riguarda, “forza presa nell’incessante veste di scrivere la pagina bianca”, che la vita le offre: “senza scelta, vivere con forza, con forza andare”! Così dice la Piccola.
E nell’emergere di figure che raggiungono la semplicità dell’essenziale, forza non va senza tenerezza:
Forza: modo in cui si vive. Ma senza padronanza. Forza non padroneggiabile, tratta dalla pulsione che è vita e non può essere esercitata. Forza, che non appartiene al soggetto, ma alla parola: si trova, la forza, non si è forti!
Forza non va senza tenerezza, ma, di più, forza non è tale senza tenerezza, cioè senza l’amore.
Che cos’è l’amore, infatti, se non il lasciarsi andare in un terreno ignoto? Se non avventurarsi in passi senza garanzia alcuna? Se non desiderio di cambiamento?
Occorre amore nel confronto con la difficoltà, nella lotta per la vita che non è scontata e che non è funzione della sopravvivenza. La poesia di Maria Antonietta porta con sé questo amore.
Solo con la poesia, che non ha niente di intenzionale, che, come il sogno, percorre la via regia dell’inconscio, si perviene a certi raggiungimenti, in un itinerario che fa riflettere su ciò che conta: la vita, la morte, l’amore.
Con forza e con tenerezza, la poesia di Maria Antonietta Viero incontra temi come quelli di “donna”, “madre”, “padre”, “famiglia”.
Tematiche in cui essere o non essere, avere o non avere sono dati culturali e non naturali. Nulla di naturale in ciascuna di queste figure. Nulla di ancorato o debitore a una realtà sostanziale, definita una volta per tutte, creduta segnare limiti al fare, debiti nei confronti dell’origine o ancorata a un ambiente a cui conformarsi.
Di quale realtà, di quale verità si tratta nel significante Famiglia? Famiglia non è l’origine che ci determina, non è l’ideale cui essere debitori. Non è un dato di fatto. Famiglia, dice Freud, è una costruzione in analisi.
Qualcosa si trova in un transfert, cioè nel mito dove i fatti si trasfigurano nella storia, nelle storie.
Nessuna concezione, confinamento delle cose, assegnazione del loro ambito da cui ricevere certezze ed esercitare padronanza. Nessun confinamento: famiglia è palestra e campo aperto dell’avvenire.
Maria Antonietta, nel suo percorso, raggiunge ciò attraverso la sua poesia che è la sua ricerca, il suo passo, la sua cifra.
Poesia come arte con cui declinare la vita nella qualità e nell’eccellenza.
Il libro di Maria Antonietta mi ha evocato l’opera, sicuramente non convenzionale, dello scultore Damien Hirsch e la sua famosa mostra di Venezia e poi di Roma dal titolo “Il naufragio dell’incredibile”. Un’avventura singolare e audace, un universo sospeso tra passato e presente, che sorprende. Una mostra che è un vero e proprio percorso: con ironia, attraverso l’illusione e la disillusione si è portati a intendere, attraverso il naufragio dell’ideale, attraverso la sua caduta, che la bellezza è non tutta, la verità è non tutta.
Dall’origine immaginaria, pensata in quanto tale, a una verità che non è quella che credevi, non è più schiava dell’origine, una verità che è verità psichica.
Metafora, questo percorso, come quello che indica Maria Antonietta, di ciascun percorso analitico.
Ruggero Chinaglia Ringrazio Anna Buttazzoni per il suo bellissimo intervento poetico, analitico, artistico, generoso e invito Sabrina Resoli a leggere il suo testo.
Sabrina Resoli Poggiata sul tavolo, una borsa di stoffa straripante di fogli; fogli manoscritti, fogli dattiloscritti, stralci di lettere, biglietti e appunti, qualche pagina già pubblicata in volume e, ancora, testi scritti in messaggi WhatsApp, e le lettere rivolte a ciascun amico in occasione del suo compleanno, regalo speciale per una data importante.
A accompagnare questo profluvio di fogli, la richiesta di trascriverli al computer, per ordinarli secondo il criterio opportuno, raccogliendoli in un unico file, la chance di un libro per un altro debutto.
La vita in quei giorni mi aveva già offerto una svolta, l’occasione per un cambio di registro, per precisare il tono del viaggio: era necessario un intervento chirurgico, sul finire dell’estate, e poi qualche settimana di convalescenza. Quale occasione migliore per occuparmi di quei fogli, accogliere quell’esca che si presentava nella veste di un lavoro redazionale?
Acconsentii, infatti, senza esitare. Non sospettavo che l’impegno che si prospettava semplice, da concludersi in un paio di mesi, mi avrebbe invece condotta – come Alice – in un paese delle meraviglie abitato non da gatti e conigli, ma da parole, sillabe, lettere, lessemi e significanti, con le loro combinazioni sintattiche e frastiche, e le pausazioni a definirne il ritmo, il respiro scandito da virgole e punti, e da tanti – quanti! – puntini di sospensione.
Si avviava un viaggio linguistico che sarebbe proseguito per più di un anno, regalandomi sensazioni inaspettate.
La trascrizione comportava una prima lettura, e già mi accorgevo che, leggendo, quel testo mi sollevava come un’onda, mi lasciava cadere per poi sollevarmi di nuovo. Quando poi, di quanto trascritto si faceva la lettura a due voci, fianco a fianco con Viero, ancora quell’onda cresceva avvolgendomi, e la voce del testo mi giungeva ora come un canto alieno, strano e bellissimo, ora come una danza, dal ritmo scazonte, irregolare e irresistibile.
Qualcosa provocava un sommovimento. Combinazioni inedite e audaci di significanti, sintassi ardite e a volte scandalose per me, educata al rigore scolastico di “soggetto – predicato – complemento”. Ma la lingua di questo testo non tiene conto delle regole convenzionali; la sua lingua non è quella dei convenevoli, la lingua cortese che lascia le cose “come stanno”, per non disturbare. In Viaggio di una foglia la lingua è quella che si produce per via di lavoro onirico, perché “parlando” e “sognando” hanno lo stesso funzionamento.
La lingua, in questo testo, come accade nel sogno, attraversa e utilizza ciò che è creduto “reale” – il cosiddetto “fatto” – e lo scombina, lo stravolge, lo organizza in una grammatica nuova, indicando un’altra logica, un altro senso, un’altra natura delle cose, e questo produce turbamento per l’elemento di verità che risalta da questa nuova combinazione.
Così accade che nel testo di Viero le parole debordino dal loro ambito: i sostantivi fanno da aggettivi, i verbi diventano sostantivi, gli aggettivi si riferiscono a lontanissimi soggetti, i significanti si condensano in evocazioni, e il lettore occorre si destreggi tra le immagini che queste evocazioni suscitano, e accolga i neologismi, le metonimie e gli abusi linguistici. Non c’è altro modo di leggere e di ascoltare, non c’è altro modo di intendere che questo di accogliere ciò che giunge nuovo, difforme, anomalo, e lasciare che si dispieghi il canto della lingua sconosciuta. Così qualcosa giunge a udirsi, il canto trova voce.
Man mano che la revisione procedeva, capivo che il lavoro redazionale non comporta la rettificazione o la chiarificazione del testo, perché se qui e là questo risulta difficile, complesso, o il senso in qualche punto sembra sfuggire, si tratta della difficoltà, della complessità e del punto che la lettura rilascia come resto, il resto generoso che provoca e spinge a leggere ancora e ancora una volta.
Il dispositivo redazionale instaurato con Viero comportava poi che alla lettura a due voci seguisse la conversazione, per ragionare sull’opportunità di un punto o di una virgola, sull’uso di quella combinazione di termini, o per indagare la vicenda che aveva condotto quel significante a dirsi, proprio quello e non un altro. Solo allora giungeva l’intervento sul testo, con il criterio della valorizzazione.
Secondo questo modo della lettura e dello scambio, Viaggio di una foglia ha trovato la sua versione nel libro, passando da un file a un altro senza rimanere mai lo stesso, per via di un dettaglio, di un “a capo” in un punto diverso, di una congiunzione da aggiungere o da trovare. E si moltiplicavano a dismisura i files e le cartelle, e si intrecciavano le conversazioni, i messaggi, i WhatsApp, e testo nuovo si aggiungeva al precedente, e “dove lo mettiamo?”. E il dove era lì, tra una riga e l’altra riga, tra un racconto e un altro racconto. Il posto c’era, e il libro cresceva secondo il modo con cui, vivendo, ciascuno cresce, per aggiunta e integrazione, incessantemente.
Così, al testo con la sua poesia si sono aggiunte le poesie con il loro testo, e gli intermezzi, e i nuovi intermezzi, e in questa abbondanza noi ci siamo trovate nel lusso di constatare come uno spazio, un corsivo, una virgola cambino il respiro di una frase, e giovino alla precisione; nel lusso di constatare che il lavoro linguistico è lavoro leggero, aereo, perché aerea è la materia della parola, aerea è la materia delle cose, aerea in quanto intellettuale. Nessuna sostanza in questa materia. Nessuna sostanza in questo libro e nella sua lingua. Il “paese delle meraviglie” del Viaggio di una foglia ci accoglie, leggendo, con le sue vicende a volte dure e aspre, a volte liete, altre dolorose, che non trovano mai il peso dei “fatti” a sbarrare il cammino. La narrazione segue l’andamento labirintico della ricerca lungo la quale l’idea di fatto si dissipa, e con essa l’idea di origine e di destino. È una narrazione ricchissima per descrizioni e dettagli, e il lettore si trova a osservare i muri dai mattoni malfermi, le pareti annerite dal fumo del caliero, a seguire il volo doloroso e solenne della Mosca bianca, o a osservare la gonna arricciata sul ventre dell’Alma, di cui pare di sentire anche la voce, tanto vivida è la descrizione.
Sono certa che ciascuno, leggendo, udirà chiara questa voce, e si abbandonerà al canto di questo testo, per seguirne l’onda, ballando, come Franca e Rudy slow slow, quick quick
Ruggero Chinaglia Ringrazio Sabrina Resoli per il suo bell’intervento, che testimonia il contributo alla redazione di questo libro e il contributo anche che ne è venuto a lei stessa, contribuendo al procedere della redazione. Adesso esortando Thierry alla “Preghiera”, voglio salutare anche Nicola Canistracci vicesindaco di Noventa e Flora Tibò Assessore alla Cultura di Noventa, che ringrazio di essere venuti questa sera e con i quali pragmaticamente si porrà quindi un proseguimento a Noventa.
Thierry Parmentier
Preghiera
“Padre mio, che sei nei cieli,
donne-moi un petit morceau de pére au jour.”
“Padre mio, che sei nei cieli, dammi oggi il mio pane
quotidiano…”
Padre, datti a me un pezzettino al giorno.
E come viandante peregrino in strada
di sogno va,
e come bimbo frettoloso apre
la pagina al vento,
e si scompigliano le lettere,
e sollevano piano il disegno, ricamo
con filo dorato,
bagliore di luce al ritorno
del sole allo specchio,
e danzano nell’aria le lettere
al tremore che fioca la luce, acerbe
ballerine sulle punte dimentiche,
e libere come lucciole rapiscono
lo sguardo,
come stri lontani indicano la via,
come cicaleccio confuso ricordano le donne al mercato
così lasciano in custodia incustodita,
e bianca ritrovano
la pagina all’ascolto di chi ancora
osa il rischio dell’udire.
Maria Antonietta Viero
Padre nostro… Donne moi un petit morceau de père au jour…
Padre, datti a me come pane, un pezzetto al giorno.
E come alato, per riparo d’inganno di forma la preda, il plume, sotto l’ala, il sibilo spaurito ripara, in quell’idea che sapora di vita finita cui rivolgere come vomere la terra, come soluzione del seme smarrito. “Non ho padre”, in idea di nome che manca il suo sicuro inizio, cosi ala si dispiega e avvolge pagina annotata, pur in simpatico inchiostro, ché orma distragga l’annoto e lettere azzùrrino di cielo al loro librarsi…
Di quale volo si fa pagina di libro, in strappo di vento?…
Quale padre in idea di preda sostanzia il pane, come di casa la calce al mattone o sillaba in lettera al prestito di nome Padre, padre come Uno, come Tutto? Padre fondante famiglia di radice incerta, assunto, pensato mancante, ideale s’impianta in fertile seme, cercato e nascosto per triade di famiglia ideale e alte si ergono le colonne d’Ercole, dove prescrizione e divieto sono il bando anche dell’eco sirena di Ulisse, all’impossibile volo? E rosso il tappeto in rituale passo di androgino forma l’idea perché di morceau non vi sia sottrazione all’Uno? Assumere la mancanza, “Non ho famiglia”, in abito pesante di stoffa infeltrita, così che neppure un filo di vento penetri il tessuto e logori l’ordito lasciando stordita la trama…
Quale padre giunge mancante, assente, debole, potente, padre padrone, padre… padre come pane…pane per pasta, pane per acqua, pane per carne? Solo pane… “Prendete e mangiate”… Ideale il padre che ira d’invidia non tocchi sfidante gli dèi, al passo in vicino. E genitore non sia in copia di padre, ma lasci al nome padre la sua funzione, funzione che giunge nel lavoro incessante che inaugura la ricerca nella sua domanda d’indagine in briciole di pane, ricordi, indizi, segnali, asterischi parlando, narrando, facendo… Non ovunque ma in un dispositivo di parola dove accolta è l’anomalia che non difetta e non segna il disturbo, ma convoca all’ascolto e una storia incomincia, come nella lettera a Gianfranco: “Vieni Pietro, vieni vicino a me, ti racconto una storia”. “C’era una volta un paese… “Cos’è nonno un paese?”.”. “Un paese è dove c’è una piazza, una chiesa un campanile, le strade e le case, la casa dove dentro c’è una famiglia… “Cos’è nonno una famiglia?”. “Una famiglia è dove c’è un papà, una mamma, un bambino o anche più figli, famiglia è dove c’è l’amore, l’amore che unisce e dal camino della casa una scia di fumo… Il camino dove arde la legna, la fiamma scoppietta e riscalda l’abbraccio“.
Narrando, la storia creduta propria prende un’altra piega e dissipa con l’analisi la credenza che àncora l’idea di sostanza, di possesso, perché principia e cementa l’impossibile volo, credenza che trattiene come di apnea il respiro, e l’aria appesanta le cose, le fa proprie, le possiede, le incatena nel tempio dell’essere, dell’avere, senza mito del padre, senza mito della madre… “Ninna nanna oh, tutti i bambini hanno la mamma, ma la madre ancora no…”.
Che ne è di ciascuno senza il racconto di ciò che è impensabile, l’essere, l’avere, senza il tempo del divenire, della trasformazione incessante che (non) permette all’acceco di Polifemo di dirsi Nessuno? Quel Nessuno, doppiato sul niente da dare alla domanda della Piccola di qualcosa da avere, due tasche rovesciate vuote della Femena in via Rivellin, quel Nessuno prende per mano la Piccola… le sussurra di andare… prove di volo, prova di vita, per riuscire. Ma ancora non dissolta, l’idea del dove che principia l’origine cantona in mano chiusa, “Non ho famiglia”. “Non ho padre”. E il niente ritorna e si veste sogno, un niente si volge in parola, una domanda di analisi. In principio era la parola nel suo atto, dove trova l’avventura nel viaggio della sua qualificazione. Per fare la traversata fantasmatica di ogni cosa cosiddetta mortale. E giunge per così dire l’età adulta e un dispositivo di amicizia dispone incontri con i suoi pretesti e l’amico, o l’amica, compie gli anni, una nascita si rinnova, a dire grazie per l’augurio e indago sul filo dei ricordi la loro storia, la storia della famiglia, e l’intorno si veste dello squarcio che il tessuto della lingua della Pentecoste traspone nel suo mito. E storia si sussegue seguendo le date, ciascuna speciale, ciascuna unica: un canto alla vita e un inno all’amicizia, al suo dispositivo dove si narra la favola che il mito trae per il suo filo infinito viaggiando, narrando. È senza scelta la famiglia originaria e non è la famiglia d’origine pensata mancante e, in costruzione, aggiunge valore, e nessuno incarna più i personaggi, ciascuno una piuma d’ala leggera senza più il peso gravato dall’idea di origine, di destino, di appartenenza, di esclusione, piuma come foglia staccatasi dal ramo consente il viaggio di ciascun termine per la veste della vita. E padre, madre, figlio, nonni, amici, significanti in viaggio, in arbitraria combinazione, parole per la famiglia che non cessa di tracciarsi. Anche canto dell’amore: mi ami? Quanto mi ami? Amami. Amo. Storie non smettono di bussare alla porta del racconto, esigono la propria tessitura per dire la qualità della stoffa, che si tesse fin nella sua orlatura, in ricamo di trine dorate.
“Prendete e mangiate”. Alla mensa, il banchetto si fa di festa, dove la parola dispensa il suo cibo impensabile, dove siedono uno accanto all’altro i familiari, gli amici, ciascuno con l’impropria veste, fatuo l’ideale con la sua trinità, che non dava tregua a cercarlo… Ciascuna storia indica che famiglia c’è. C’è famiglia in ciascun racconto. E ciascuna lettera trova il racconto della famiglia e sfata l’idea che sia fatta di padre, madre, figlio… L’idea che si fondi sulla genealogia. I personaggi, come al circo i pagliacci, burlano l’essere, l’avere, la proprietà, la volontà, la padronanza, narrano di cieli sconosciuti, di carrozze che navigano i mari e in ciascun porto la novella si fa del racconto di stelle che incapricciano il disegno e latteano la via.
In principio era la parola, la parola nel suo narrarsi e nel racconto, a svolgere il garbuglio delle cose. Il canto della nascita, perché nel racconto la storia non è mai quella pensata, ma tesse la favola in quel che si dice ora. E sulla pagina il colore libera radici che tremolano alla voce del respiro, non più ancorate all’idea di sé, e libera la mano a scrivere l’inedito, che giunge con la lingua del vento dell’aurora.
E tu erediti il numero della tua vita. E ciò che sembrava, non è più com’era. È Altro. E l’Altro è il terreno della mano, è l’accoglienza di ciò che accade e diviene lì per la prima volta, a inaugurare questa volta, ancora altra volta. È la svolta in cui si scrive l’avvenire, nel lusso del suo superfluo.
Filippo Crispo
La stanza
La stanza: quattro mura, una finestra, una porta, un grande letto, uno singolo accostato, una branda di traverso, una cassapanca, quattro cassetti di un comò, un armadio, una nuda lampadina in nodo di filo annerito dal soffitto: la stanza… Eppure, qualcosa resta incontabile e il numero sfrangia la somma.
La stanza, quale vita? Il sonno. Il sogno. Strepitii di cartocci in solida trama. Il respiro ode il rantolo che ruba e confisca il battito e regala alla sveglia in parete il tic toc delle lancette in cambio di parti sovrapposte a mezzodì per veglia di notte e all’alba un micio chiede latte…
La mamma non c’è, ha due mesi passati, e chiede alla stanza di aprire la porta, e una mano che l’accarezzi e in grembo lo svezzi e avere il suo posto, per diritto d’amore, in quella famiglia. Il sipario si apre, sul palco una sedia, “prenda posto!”. Tremulo piede come tremula luce quando è troppo fioca, e osa il diritto d’amore, osa alzare la testa, non sa dell’invidia che scatena la pena perché minaccia si presta a superarla in altezza. Indossando l’abito fradicio forse sì, di pena per colpa in usurpo di posto. E rivendica l’amore!
Ma altra mano intreccia la paglia per sedia che accolga il nuovo arrivato. Benvenuto foresto che porti novella dalla strada di ciottoli, qui, dove i passi levigano i mattoni rossi, lasciando udire il racconto di quel che accade altrove: e romba uno squarcio nella stanza delle quattro mura dove senza il dire si ammassano sonni in cocci. Pareti spoglie, un gancio per tabarro e cappotti, scialbe lane infeltrite a coprire spalle di donne…
Dov’è la mamma che assicura il micio per sempre? Un sempre in traccia di passo che avanzi sicuro, fiammella di cuore in disegno per viaggio perenne in miraggio di arrivo, che non inciampi l’andare come di mattone discosto, e inviti la mano a alzare di poco la sedia davanti, perché il passo sia a due in equilibrio di posto.
Mamma, perché non sei rimasta in guida di faro al tuo posto?
La stanza si veste di briciole in pensiero, che non sanno di sogno ma solo di cose in ripeto da fare. La vita è così, l’ha lasciato per vezzo. Forse che al di là delle quattro mura c’è un ghigno beffardo, un triangolo rosso? Attento, il pericolo è di morte. E scure non tagli in due il posto. E bisogna raccogliere in rattoppo i punti di maglia di scialle caduti e con calce appostare il mattone malfermo ché di caduta non lasci di sagoma il segno. Le lancette insistono, al cuore rumòra il rintocco, ma ritma il tempo la via che sa di foresto.
“Mamma, dov’eri quando avevo la pertosse o la varicella e quando sulla tavola in cucina mettevo il quaderno, la matita e il pennino?”
Eppure eri. Nel rischio del tempo, del “per sempre” che non chiede di essere forzato, accettato, respinto o abbandonato.
È “per sempre” l’amore della mamma?
“Mamma, spegni la luce quando esci…”
Ruggero Chinaglia A questo punto vorrei aggiungere, a quanto è stato notato e testimoniato dagli interventi precedenti rispetto al libro, un paio di annotazioni. Io ho avuto la fortuna di assistere alla nascita, alla crescita, alla conclusione, al compimento di questo libro che, certamente, non è nato come libro; è nato come scrittura dell’esperienza che man mano proseguendo, aggiungendosi, è andata poi a costituire il libro, ma proprio in quanto scrittura dell’esperienza e, dunque, giungendo al libro come ciò che della memoria si scrive. E questa scrittura è stata occasionata, come direbbe Maria Antonietta con i suoi neologismi, di volta in volta da una foglia differente, non era mai la stessa foglia. Una volta un laboratorio clinico, di quelli che si svolgono il sabato a Milano da cinquant’anni, convocando al dibattito e alla formazione, un’altra volta era un convegno o un congresso quando ancora si potevano fare, un’altra volta un problema sul lavoro, una questione che trovava svolgimento e articolazione con la scrittura. Un’altra volta un compleanno di un’amica o di un amico a cui dava un’eco con un augurio non scontato, ma con una restituzione in seguito a una conversazione, a una intervista; una restituzione di quegli elementi che l’amica o l’amico in questione, magari, considerava nella sua vita un materiale banale, ma che combinato in questa restituzione giunge a indicare l’importanza di alcune cose, anche ritenute banali e a indicare che, dunque, nulla mai è banale. Nulla è mai banale proseguendo nella qualificazione di ciascuna cosa, quindi trovando lo statuto intellettuale di ciascuna cosa mai relegata al comune, mai relegata al banale, mai scontata.
Leggendo questo libro ci si accorge che ciascuna circostanza è propizia per la scrittura, sopra tutto se non è sottoposta alla legge severa del sentimento o dell’emozione, che sono codificazioni banalizzanti, che per prescrizione ideologica sono sempre biforcuti, alternativi: o positivi o negativi, o buoni o cattivi, o belli o brutti, sempre in un’alternativa. Ecco, nella scrittura di questo libro le note sono gioiose, perché quello che interviene, quello che si svolge nella scrittura non è mai preso nell’alternativa; non deve mai decidere da che parte qualcosa deve stare, perché trova il suo svolgimento in direzione della qualità, non dell’alternativa.
È un libro che ha richiesto molti anni per giungere a compimento, perché c’è effettivamente in questo libro la testimonianza narrativa della vita in viaggio. Viaggio di una foglia integra, infatti, circa cinquant’anni di vita dell’autrice, senza ripartizioni tra avvenimenti positivi o negativi, ma sempre rivolti al valore. E, così, i contributi sia degli avvenimenti della presunta, cosiddetta, propria vita sia della vita altrui risultano contributi alla saga della vita. Alla saga, cioè la vita che si rivolge al valore. Proprio per questo non è un libro biografico, anche se percorre alcune vicende, alcuni avvenimenti della vita propria e di altri; non è un libro biografico, fa la parodia della biografia, quindi oltre la cronaca, oltre la storia e rilascia gli indici del compimento della scrittura del privato.
Questo libro giunge al privato, giunge alla scrittura del privato, cioè al capitale della vita. Il privato è questo: è il capitale della vita, è il valore della vita, è ciò che si scrive dell’approdo al valore. Allora, il caso di valore non è più il caso personale, non è più il caso intimo, il caso segreto, il caso scandaloso, il caso eclatante, ma è scrittura civile, è un contributo alla civiltà, è il messaggio civile. Questo è il valore effettivo di questo libro, perché contiene un contributo civile, un contributo di valore per ciascuno. È un libro che si avvale della leggerezza e, quindi, il suo lettore per via di questa leggerezza si libra, leggero nel vento con i suoi aquiloni; con gli aquiloni che non sa nemmeno di avere e che ignora dove lo porteranno, fino a che non si rende conto del volo, non si rende conto che sta volando, perché nel momento in cui si rende conto del volo, che va oltre le intenzioni, oltre la volontà, oltre ogni volere, allora, come Icaro, precipita. Precipita sulla terrestrità, pentendosi di avere osato sognare. Icaro! Ma il lettore, invece, non si pente mai, perché non smette di sognare grazie alle pagine di questo libro.
Thierry Parmentier
L’albero
E vortica forte il vento e
Sgretola come brillo di mina il cono
Inattraversato… L’albero divelta
il seme che ha creduto appartenere…Ha ceduto,
ma non è volato via. E si adagia su un lato
del terreno. Posa la testa. Posa i suoi rami. Alcuni,
ancora verdi abbracciano il petto della terra. Altri storditi
dal vento che ha scosso violento la cima, come fuscelli
barcollanti, coriandolano le foglie.
In girotondo le radici sradicate mostrano
il nudo all’aria, il nudo all’idea di pensiero
solido, di pensiero compatto senza il dubbio del procedere.
Il tempo mostra il suo istante… […]
Filippo Crispo
L’albero
[…] È proprio ciò che vedo?
È ciò che conferma il giudizio sulle cose?
Radici all’aria… L’idea di radice ha lasciato
la presa di origine, ha lasciato
libera la mano perché l’appartenenza sciogliesse
il “Da” e “Di chi?”.
Senza presa il legittimo e l’illegittimo svolgono
l’ossimoro a procedere innanzi dissolvendo e
assolvendo i principi di alternativa e di alternanza
per la posizione di provocazione
alla domanda, al dispositivo di parola.
Come valzer viennese rotea su se stessa
l’idea di coppia, le foglie sbriciolate dalla
lama del vento musicano solitarie
l’ardita combinazione
in preghiera al cielo…
Ruggero Chinaglia C’è in sala un amico che, avendo letto alcuni brani del libro, ha chiesto di poterne dare testimonianza. Allora lo invito a darla e invito quindi Angelo Varese, psicanalista a Treviso e a Mestre, a venire al tavolo.
Angelo Varese Grazie Ruggero. Sì, ci tenevo particolarmente a dare una testimonianza e a farvi la raccomandazione, che sicuramente la lettura di Filippo Crispo vi ha già proposto, perché questo è un libro da leggere e da rileggere in tutte le sue articolazioni. Ve lo raccomando moltissimo, perché è sempre interessante avviarsi in un viaggio; è un viaggio che potete intraprendere con qualcuno, con Maria Antonietta in particolare, anche se è molto trasfigurata in quello che vi racconta.
È però è molto caratteristico, è molto relativo a qualcosa di singolare quello che ci racconta. È, vi assicuro, un viaggio che, innanzi tutto, come è capitato a me, prende, coinvolge nelle volute di quella foglia che va sospesa nel vento. Che poi foglia, foglio, narrazione, scrittura, c’è una trasfigurazione incessante, caleidoscopica, in quello che troverete in questo libro. È un tragitto imprevedibile, errabondo, inedito, ma non casuale, singolare. Nessun luogo comune troverete che faccia del caso un caso qualsiasi, il caso di tutti. Un abbandono, una perdita, una nascita, un incontro, un’amicizia, cose che capitano a tutti? No, che capitino a ciascuno dissolve l’idea del tutti. Certo, leggendo Viaggio di una foglia ci si ritrova altri e oltre a quello che si è pensato. Si sperimenta un riconoscimento che non si basa sulla somiglianza, sull’analogia, sulla similarità, sul “è capitato anche a me”, ma che ingaggia ciascuno proprio nella irriducibilità dell’Altro. Così Viaggio di una foglia, mentre rimarca la singolarità del caso e la sua particolarità, ci dice anche che il viaggio non si fa da soli. Ciascun bambino, e c’è del bambino in ciascuno, intraprende il suo viaggio, il viaggio della vita, perché qualcuno lo prende per mano; una mano che, come Maria Antonietta dice nella sua poesia, “stringe senza chiudere”, una mano aperta che lascia procedere, avanzare e a sua volta apre a nuovi incontri. Mano che stringe: stringere la mano per presentarsi, per avviare un incontro, per scambiarsi una testimonianza, stringere la mano per lasciarsi in un arrivederci. Mano che fa fede, un tempo bastava per suggellare il contratto, l’alleanza, mano che prende non per sé, ma con sé; mano che mima, come ci ha mostrato con la sua arte raffinata Parmentier, l’affidamento alla parola, alla sua tenuta, mano che con il suo gesto parla e scrive. In questo senso il Viaggio di una foglia, nel resoconto che ne fa Maria Antonietta, prende con sé, si affida e affida chi lo legge alla risorsa della parola, ci investe, ci scommette, assecondando il tour della pulsione.
Narrando non c’è intenzionalità, ma intendimento e non si incontrano personaggi, ma figure. Il caso non è umano, non è patografico, tanto meno autobiografico, ce l’ha ricordato Ruggero poco fa. La biografia è scrittura della vita, non è rappresentazione della vita. Gli oggetti, in quanto oggetti della pulsione, restano materiali linguistici, votati cioè al simbolo, nulla di naturale, nulla di fisico. Chi è il vento? Chi il cielo, chi l’albero? Che cosa dice il Vecchio e la Piccola e Chiarastoffa? Ciascuno dice nel racconto, dice qualcosa che ci riguarda. Vedrete, in questo testo troverete non un’introduzione alla psicanalisi, ma un’introduzione nella psicanalisi. Certo, occorre affidarsi alla pulsione e al rimaneggiamento che l’arte di Maria Antonietta compone e ricompone in continuazione, anche attraverso le relazioni e il disegno delle relazioni. Le cose sono altre, perché non stanno nella fisicità, le persone non stanno nella patografia, non stanno nel caso umano, stanno in una eccezionalità assoluta a cui sono promesse Vi raccomando, quindi, la lettura di questo straordinario zibaldone: troverete nuove storie e anche nuovi amici. Io mi sono ritrovato assieme a Anna, proprio come mi aspettavo, nuovi amici e amici nuovi e anche credo una nuova storia per ognuno di voi.
Ruggero Chinaglia Ringrazio Angelo Varese per questo suo contributo di amico e di lettore. Ora ci avviciniamo alla conclusione, ma non prima di avere dato lettura a tre brani: l’Alma, la Mosca Bianca e un omaggio, una testimonianza di amicizia a un’amica, che purtroppo ci ha lasciato da poco, ma che almeno in queste pagine, e per chi leggerà queste pagine, vivrà per sempre con noi, a Loretta.
Filippo Crispo
L’Alma
[…] Gli anni inceppano nell’età sconosciuta un poco ingobbita, capelli corti, bianchissimi, rughe come ferite rimarginate chiudono su se stesse il loro dire, occhi celeste chiaro cambiano sfumatura al variare del tempo, sole, o della pioggia, e del vento, rivolti al tramonto, perché, nonna da sempre, l’Alma è sempre nonna. E quando chiedi: “Come va?”, lei risponde: “Ah, da povera vecia.”
La gonna arricciata, colorata dagli anni e sbiadita nei colori, dai bucati stesi sul filo teso tra due pali per filari, molleggia su lente presine di legno. Gonna arricciata a coprire il rigonfio, a nascondere tra le pieghe quel cenno insalutato di maternità remote; e poi le braccia scappano dalla maglietta bianca portata come ragazzina su pelle inscurita con tanti pois che, quando si muovono, sembrano leggerissime dune di sabbia viste di traverso, sollevate appena da un alito di vento e arrivano alle dita leste che non conoscono sosta. […]
[…] Una sera d’inverno. Il cielo imbrunisce presto, aria di festa, tra poco è Natale. Era venuta a trovarmi in sedia a rotelle spinta dall’ultima badante moldava, una signora un po’ in carne soprattutto dalla vita in giù. Anche la vita dell’Alma scivola lenta in giù, in sottovoce, com’era abituata a farne parte con Bepi, già andato ma sempre il suo uomo, che solo a ricordarlo alza di più il tono della voce, “el xe sordo puareto”, come su uno scivolo meccanico per non inciampare. Ora vado io a trovarla. […]
[…] Dove si trova? Al secondo piano faccia piano… Perché? La porta è aperta, un letto che sembra molto più grande mostra un avanzo di piazza, tanti cuscini bianchi a tenerla come quasi seduta, ma più bianco di tutto, più bianchi i suoi capelli cortissimi, appena sfiorano la fronte; sul cuscino sembrano sottilissimi fili non esposti al girare del vento al volere del tempo né della crescita né del ripiego, sembrano sottilissimi steli, legnetti imbiancati per presepe preparati, è prossimo il Natale. “Ciao Alma, ciao.” Mi avvicino, lei gira un poco la testa, gli occhi, il colore azzurrissimo inganna e sorride al tempo, sorrido anch’io in quell’azzurro che pare già in mano al cielo. “Alma.” “Buongiorno Signora.” “Alma sono l’Antonietta, la Maria Antonietta, son mi Alma.” Lei è già nel mio vedere, le dita premono il lenzuolo di sopra, sembrano tasti di piano, dita che sollevano il mento dal mondo… “Buongiorno Signora.” […]
Thierry Parmentier
La mosca bianca
[…] Era bello. Armonico il viso si allungava al sole spandendo il profilo sullo sfondo del cielo, e già gli occhi azzurrissimi erano quel cielo che prometteva il volo, moto perenne, come onda del mare nella quale tuffarsi e lasciarsi navigare nel posto sconosciuto e, sull’onda urlare il grido d’amore, messaggi di vita che lasciassero scritto in ermetico tappo l’erede lettura.
E poi lasciarsi asciugare dove l’onda incontra la costa, le braccia tese, appena indietro a sostenere il busto, come cavalletti per la tela al disegno, i palmi con dita aperte sulla sabbia, come quelle di un fenicottero consegnato all’orizzonte celeste.
Si offriva così al sole e, come lucertola s’intratteneva immobile nel suo languido calore. Per sognare, entrambi, e come scultura a sfidare il tempo del sole. Un volo, passi di danza liberati nel canto, un coro soave di voci bianche che inventasse e portasse sinuose nuove disposizioni, quinte di teatro per recite a memoria, velluti pesanti per celarne i pianti, tendone di circo per un’asta, eccola finalmente tra le mani, perché acrobata, disegni nell’aria del salto volute, un passo indietro e poi avanti, ma ride sgraziato, di sotto, il buffone di corte, sbagliando portone, sbagliando momento, sussurrando tra i denti: “C’è una mosca bianca.”
E tutti a guardare, si ammassano al balcone, c’è chi scende addirittura veloce le scale e una folla si raduna nella piazza principale e tutti additano quell’uno improprio, scherno d’irrisa natura, in guisa a chi era già vivo da un pezzo, e un clown di sotto… Assassino che ride, ancora che copre le grida, grida coperte per non udire il divieto: “Come il padre non puoi essere” grida sul dirupo che portano all’oblio, grida soffocate in un ultimo amplesso con il proprio gomitolo, gabbia di ossa per dire che pur c’era in anomale vesti. […]
Filippo Crispo
A Loretta, 28 gennaio
[…] “Bello, troppo bello” ripete Loretta…
E come il vento che scompiglia i capelli ma li ritrova danzanti
ogniqualvolta la musica li convochi al ballo,
e come aria leggera su invisibile tastiera le dita si dispongono
al ritmo del suo incessante lavoro, biondi i capelli fino alle
spalle e colore della terra calda per disegni inconsci gli occhi,
ocra o oliva, a seconda del loro pensiero,
e bocca che si apre sempre in sorriso di Amica,
in sorpresa di azzurro cielo, in sorpresa dell’attuale da vivere,
in sorpresa per l’inedito incontro, mai scontato in conoscenza,
ma aperto all’effetto del suo caldo abbraccio, Loretta,
e nonostante la doppia “t” che vorrebbe l’affettuoso diminutivo,
resta invece l’intero del nome, in fiore per ogni stagione,
e accanto ai tanti infiniti fiori nel giardino dell’Amicizia,
Tiziano, come Narciso nella sua impossibile specularità,
trova e dà Amore. E Amica ciascuna, nell’insostituibile posto…
Una accanto all’altra nel concerto d’insieme,
a ciascuna il proprio strumento,
viola, violino, contrabbasso o pianoforte,
perché la sinfonia rilasci la propria canzone
nell’eternità dell’istante[…]
Ruggero Chinaglia Per concludere allora, come si usa, l’autrice sarà lieta di firmare le copie agli amici che vorranno acquistare il libro. Intanto che questo rito si compie, io ringrazio infinitamente Filippo Crispo, che ci ha trasposto nelle quinte di un teatro greco e ringrazio Thierry Parmentier che ci ha portato nel cielo della sua arte. Ringrazio Anna Buttazzoni, Sabrina Resoli, ciascun esponente dell’associazione che ha collaborato per la riuscita di questa serata. Ringrazio ciascuno di voi che ha avuto la generosità di stare qui con noi questa sera e fino a quest’ora. Ringrazio Maria Antonietta Viero. Quindi, puntiamo a ritrovarci ancora in altre circostanze e in altri appuntamenti; una data sembra già quasi fissata, poi l’andamento di questo periodo con le sue vicissitudini speriamo non comporti uno spostamento. Il giorno della Festa della donna noi ci troveremo a parlare ancora di questo libro a Noventa. Grazie ancora, arrivederci e a presto.