Vivere contro ogni speranza
- Cerruti Maurizio, Chinaglia Ruggero, Valladarès Armando
18 aprile 2013 Dibattito con Armando Valladarès, scrittore, poeta, artista, dissidente cubano, autore del libro Contro ogni speranza, Ventidue anni anni nel gulag delle Americhe, dal fondo delle carceri di Fidel Castro, Spirali. Con l’intervento di Maurizio Cerruti, caporedattore agli esteri del Gazzettino e Ruggero Chinaglia, psicanalista, cifrematico, editore. La conferenza con dibattito si è svolta a Padova, a Palazzo Moroni, nella Sala degli Anziani.
ARMANDO VALLADARÈS
Vivere contro ogni speranza. Cuba dopo Fidel Castro
Sono intervenuti
- Maurizio Cerruti, caporedattore esteri del Gazzettino
- Ruggero Chinaglia, psicanalista, editore
Ruggero Chinaglia Buonasera. Cominciamo questo incontro con un ospite graditissimo che viene da lontano: viene dagli Stati Uniti, in quanto non può abitare e vivere nel suo paese; vive da esule negli Stati Uniti, perché non gli è consentito vivere a Cuba, paese dove è nato, dove ha vissuto per un certo periodo e da cui ha dovuto espatriare per poter continuare a vivere. Si tratta di Armando Valladarès, che è autore del libro che presentiamo questa sera, Contro ogni speranza, Ventidue anni anni nel gulag delle Americhe, dal fondo delle carceri di Fidel Castro.
Già nel titolo è posta la questione: si tratta di un testimone di un’esperienza atroce, unica, un’esperienza di cancellazione, perpetrata per ventidue anni, subendo torture, vessazioni, con grandi sofferenze, con grande dolore, per non aver obbedito al dettato che gli veniva imposto, cioè aderire al regime di Filed Castro. Non era un attivista di partito, un attivista controrivoluzionario: anzi, era un funzionario dello stato nel momento in cui è stato incarcerato. Essendosi rifiutato di firmare un documento di accettazione del comunismo supportato da Fidel Castro, fu incarcerato in quanto “nemico potenziale”. Dell’esperienza della sua carcerazione, della sua vita e anche di ciò che è seguito, ci racconterà qualcosa personalmente: è per questo che è qui, per raccontare la sua esperienza, per dirci qualcosa del suo libro, ma soprattutto di ciò che fa, di ciò che sta facendo.
Dopo che è stato liberato dal carcere, anche per opera di un movimento di intellettuali internazionali e con il coinvolgimento del presidente francese François Mitterrand, non si è accontentato di aver scampato la vita, ma si è dedicato a una missione: evitare che altri finissero come lui, come molti suoi compagni, come molte persone – a Cuba, ma anche in altri paesi del pianeta – vittime di varie ideologie, vittime di vari regimi totalitari e di dittature che privano il cittadino di quel paese dei diritti di base, della dignità. Questa è una questione importante che riguarda ciascuno di noi, non solamente chi è stato in un paese a regime totalitario o che rischia di vivere in un paese così, ma ciascuno che vive anche in una cosiddetta società libera, dove però la questione della tolleranza, dell’umiltà, della generosità, dell’intelligenza è messa in questione ciascun giorno e non sempre supera la prova dei fatti.
È un messaggio forte, quello che muove da questo libro e dal racconto di Armando Valladarès. Già il titolo “Contro ogni speranza” è un messaggio che va capito, ma è un messaggio forte: si rifà a una frase di S. Paolo nella Lettera ai Romani, quando Dio annuncia ad Abramo che diventerà padre di molti popoli. Abramo dice: Ma io ho più di cent’anni, mia moglie Sara pure, è vecchissima! Vedo il mio corpo quasi morto! Ciononostante, sperando contro ogni speranza, con la fede che da queste parole divine ricava, si dispone a ciò che questo accada veramente: non per grazia divina, ma facendo ciò che occorreva fare perché questo compito venisse compiuto. Vivere contro ogni speranza, vivere senza aspettare, che accada qualcosa di positivo, vivere senza stare ad aspettare, stare a sperare, ma affrontando ciò che occorre fare per compiere il progetto e il programma di vita è una questione che riguarda ciascuno, soprattutto oggi, dove la questione della crisi funge da alibi per molti per evitare, per non affrontare, per stare al riparo dal rischio della vita stessa.
La sua esperienza, che è un’esperienza di grande atrocità, è un messaggio che è da ascoltare per non rassegnarsi a subire, alle difficoltà, per non rassegnarsi a cedere anche a quelle che possono sembrare difficoltà insuperabili ma che, se noi le paragoniamo alla sua esperienza, a ciò che ha attraversato, a ciò che ha vissuto, diventano veramente cose di poco conto. È con grande gioia che abbiamo invitato Armando Valladarès qui a Padova, per ascoltarlo, per sentire il suo messaggio, per favorire la diffusione di questo libro, che è veramente duro per il racconto che propone, ma che offre uno squarcio rispetto all’avvenire, alla scommessa che l’avvenire esige. L’avvenire non è automatico, non basta aspettare perché qualcosa accada: occorre disporsi e fare ciò che occorre.
All’insegna proprio dell’avvenire, Armando Valladarès attualmente si occupa di questioni umanitarie, per favorire i diritti civili in ogni paese, ma soprattutto a favore dei bambini. Con la sua fondazione, opera diffusamente a livello internazionale contro lo sfruttamento dei bambini, contro il lavoro minorile, contro lo sfruttamento pedo pornografico dei bambini, e soprattutto contro quello che oggi è un grande pericolo in molti paesi della terra e non solamente in quelli più lontani e apparentemente meno contollati: le stragi dei bambini per il commercio degli organi, che avvengono anche in paesi cosiddetti civilizzati, ad alto sviluppo, con grande incremento del loro prodotto interno lordo, che diventa lordo di sangue, del sangue di molti bambini, per favorire la vita di altri adulti. Ma gli adulti, mi diceva Valladarès, sono preparati ad affrontare anche alcune angherie, mentre nessun bambino lo è.
Ci sono dunque molte questioni sul tappeto, che riguardano Armando Valladarès personalmente, ma anche ciascuno di noi che si trova a vivere, auspicando che si tratti di vivere, per ciascuno, contro ogni speranza, cioè contro le facili credenze, contro quella ragione del buonsenso che è paralizzante, come constatiamo qui in Italia: basti pensare solo alla questione del nostro governo, che da più di cinquanta giorni ancora non si è costituito perché non si trova un accordo su questioni che, se le paragoniamo a quelle vissute da tante persone come Armando in vari paesi, sono veramente poco rilevanti. È in questo contesto che ci troviamo, queste sono le questioni sul tavolo e quindi invito Armando Valladarès al suo intervento, cui seguiranno poi varie domande da parte di Maurizio Cerruti, caporedattore agli esteri del Gazzettino, che ringrazio per essere qui; è un amico che anche altre volte ci ha assistito nell’accogliere ospiti che venivano da lontano. Ringrazio anche Federica Tonellotto che ci assiste per la traduzione dell’intervento di Armando Valladarès, così come ringrazio José Perez Navarro che ci ha assistito oggi, in alcuni incontri con altri giornalisti della stampa e della televisione, qui a Padova.
Armando Valladarès Buonasera e molte grazie per essere qui con noi, per avermi dedicato questo tempo e per condividerlo con me. Voglio iniziare dicendovi che per me non esiste nessuna dittatura buona, anche se ci sono persone che dividono le dittature tra dittature buone e dittature cattive, a seconda delle loro simpatie politiche. Questa situazione doppia è assolutamente immorale, perché tutte le dittature violano i diritti umani. Lo stesso che condannava i crimini di Pinochet, li giustificava, stava zitto, non li condannava quando venivano commessi da Fidel Castro.
La dittatura cubana ha una caratteristica molto particolare: per molte persone, includiamo anche gli italiani, è una dittatura simpatica. Ci va bene perché c’è la musica, il ballo, i mojitos e questa indifferenza – allo stesso tempo appoggio, supporto alla dittatura cubana – in parte è responsabile del fatto che questa dittatura esista da cinquant’anni. Molte persone che adesso stanno visitando Cuba come turisti non hanno mai avuto il coraggio di visitare il Cile di Pinochet o il Sudafrica. Io credo che questo doppio standard è qualcosa che dobbiamo rifiutare completamente.
Tentare di caratterizzare una dittatura di destra e una di sinistra è come cercare di differenziare un ladro che cerca di rubare in banca: uno ne rapina cinque, un altro molte di più. Entrambi sono dei ladri e vanno messi nello steso posto. Tutte le dittature vanno messe nello stesso sacco. Nel 1959, io credevo a Fidel Castro. Quel torrente di discorsi che faceva Castro, quella sua ideologia di lottare per la giustizia, per il rispetto dei diritti umani, per la dignità dell’uomo: lui ingannò moltissima gente, sia a Cuba, sia fuori di Cuba. Non so se ricordate che Fidel Castro scese con una croce appesa al collo e dichiarava che non era comunista, che era contro il comunismo e contro ogni tipo di dittatura; poi, all’improvviso sostituì la dittatura di Batista, contro la quale aveva combattuto, con la propria.
In quel momento, io ero un funzionario del Ministero della Comunicazione dell’Avana. Un giorno, apparvero al mattino dei funzionari nell’ufficio dove lavoravo e mi misero una specie di targhetta sul tavolo. Su questa targhetta c’era scritto: Se Fidel è comunista, che mi mettano nella lista, io sono d’accordo con lui. Questo tipo di cartelli venivano messi su tutte le scrivanie degli uffici pubblici.
Quando toccò il mio turno, io dissi di no, che non volevo quella targhetta sul mio tavolo. Mi chiesero: “Tu non sei d’accordo con Fidel?” Risposi: “Se è comunista, non sono d’accordo con lui”.
In quel momento, Fidel non si era ancora dichiarato comunista. Questo accade nel novembre 1960; Fidel si dichiarò comunista nell’aprile dell’anno successivo.
Questo rifiuto fu responsabile della mia segnalazione come nemico potenziale della rivoluzione e il 28 dicembre dello stesso anno la polizia politica entrò a casa mia e mi arrestò. Rovesciarono un po’ dappertutto, però non riuscirono a trovare assolutamente nulla che potesse imputarmi come oppositore della rivoluzione. Lo stesso poliziotto disse: “Non abbiamo una sola prova contro di te, però abbiamo la convinzione morale che tu sia un nemico potenziale della rivoluzione e per questo motivo ti condanneremo”. Un argomento che usarono per dimostrare che ero un nemico della rivoluzione è il fatto che io avevo studiato in una scuola cattolica; io risposi che anche Fidel aveva studiato in una scuola cattolica. Sì, però Fidel è un rivoluzionario e tu sei un controrivoluzionario!
In meno di una settimana mi arrestarono, mi giudicarono e mi condannarono a trent’anni di carcere. Non ebbi nessun avvocato difensore; il tavolo del tribunale era un tavolo come questo; il presidente del tribunale aveva una sedia che si poteva spingere indietro: mise le gambe sopra il tavolo, le incrociò e io potevo vedere solo le suole delle scarpe. Stava leggendo in quel momento un giornale a fumetti e, quando c’era qualcosa di interessante, lo faceva vedere alla persona che aveva seduta accanto. Lui non stava assolutamente ascoltando il giudizio, perché le decisioni e le condanne non venivano stabilite in quel posto, ma venivano decise prima, dalla polizia politica.
Mi condannarono a trent’anni. Mi trovavo nella prigione del La Cabaña, a L’Avana; quando sono tornato, i miei amici mi hanno applaudito: erano contenti del fatto che mi avessero condannato a trent’anni, perché in quel momento esistevano solo due tipi di condanna: pena di morte o trent’anni. Significava che io ero salvo.
Se qualcuno mi avesse detto che film avrei potuto vivere in questi ventidue anni passati in carcere, sarei impazzito. Molti dei miei compagni divennero pazzi e si suicidarono in prigione, perché non hanno potuto assimilare la situazione che stavano vivendo. Però, ricordate una cosa: la prima legge biologica è l’adattamento, e la maggior parte di noi abbiano dovuto adattarci.
È molto difficile, in una conferenza così breve, raccontarvi i miei ventidue anni in un carcere e, prima di continuare, voglio dirvi che tutto quello che racconto nel mio libro e altre cose in più furono confermate da una commissione per i diritti umani dell’ONU, quando una delegazione fu a Cuba per fare delle verifiche. Ovviamente poi a Cuba si disse – soprattutto quelli che appoggiavano la rivoluzione – che quello che era scritto qua dentro era falso. Però nel 1989 la Commissione per i Diritti umani dell’ONU documentò tutto quello che io ho raccontato in questo libro. Potete trovare tutto questo materiale, le prove che questo è vero, a Ginevra, nel palazzo dell’ONU per i Diritti umani.
Io avevo un compagno di cella che aveva diciassette anni: lui fece lo sciopero della fame. Se lo sono portati in una cella. Lui si era rifiutato di prendere del cibo, non di bere. Anch’io ho fatto lo sciopero della fame, però non ho mai avuto il coraggio di fare lo sciopero della sete, perché la morte per uno sciopero della fame non è dolorosa: muori a poco a poco, senza nessun tipo di dolore o di malessere, perché continui a prendere acqua e, finché bevi acqua, ti senti sempre più debole, però dolori non ce ne sono. Invece la morte per sciopero della sete è orribile: si infiammano la lingua, le labbra, la labbra si tagliano: è una morte orribile.
Roberto si trovava per terra e chiedeva un goccio d’acqua: stava agonizzando. Entrarono quattro militari e gli chiesero: Hai sete? E i quattro gli urinarono in faccia. Roberto è morto il giorno dopo.
Nel 1961 scappai dall’isola di Pinos, che è a sud di Cuba, dove mi trovavo e mi catturarono tre giorni dopo. Nella fuga mi ruppi due ossa del piede destro: mi portarono in una cella di punizione. La mia gamba era molto infiammata e chiesi assistenza medica: i guardiani saltarono sopra la mia gamba rotta. La cella si trovava in un luogo dove il soffitto era alto come in questa sala e le pareti erano così alte: non c’era tetto, c’era una specie di griglia di ferro e i guardiani ci camminavano sopra e, con un palo, ci punzecchiavano per non farci dormire. Quando riuscivamo ad addormentarci – eravamo in quattro: ognuno aveva una cella individuale – arrivavano con un recipiente pieno di urine e escrementi e ce li lanciavano sopra.
Io so perfettamente il sapore e l’odore che hanno gli escrementi e l’urina umani, perché ho dovuto più volte togliermeli dalla bocca e dal viso e non c’era, soprattutto, acqua per lavarsi. Ho trascorso esattamente un anno in questa cella, nudo, senza assolutamente nulla addosso, dormendo per terra; la mia più grande preoccupazione era che i funghi che avevo sul corpo arrivassero agli occhi. Sapevo benissimo che le mie mani erano infette.
C’era anche una piccola turca in questa cella, ma ovviamente era già piena di escrementi, perché non veniva pulita, e sopra questi escrementi c’erano tantissimi vermi che camminavano e si muovevano per la cella. La mia paura era di prendere un’epatite, per via delle mani infette. Ci davano un piatto per mangiare, però non c’erano né forchette né coltelli: quindi, per mangiare, non facevo altro che avvicinare questo piatto e fare in modo che il cibo scendesse, per mandarlo giù. Ricordo benissimo che quando sono uscito, prima di farmi una doccia o un bagno, con un tappo di un contenitore mi grattavo una specie di crosta; durante mesi e mesi mi hanno dovuto fare dei trattamenti per questi funghi, in modo che scomparissero.
Amnesty International ha denunciato – e anche la Commissione per i Diritti umani ha denunciato, e molte altre organizzazioni internazionali – che il trattamento dei prigionieri politici a Cuba è stato inumano, degradante, caratterizzato da percosse sistematiche, negazione degli alimenti, dell’assistenza medica, della corrispondenza e delle visite. In ventidue anni io ho avuto solo dodici volte visite. La maggior parte del mio tempo l’ho passato in una cella di isolamento.
Non sono solo io che ho vissuto questo, non pensate questo: c’erano tantissime altre persone, migliaia di persone che vivevano questa stessa situazione: Fidel arrivò ad ammettere che esistevano 25.000 prigionieri politici. Però, in quell’epoca, c’erano 82.000 prigionieri politici. Fidel ha fucilato migliaia di prigionieri politici. E da un elenco militare, risulta che nel 1962, ne furono fucilati in 610 in una sola volta.
Certo, lui ha potuto seppellire questi morti perché tanto, per quelli che vivevano fuori, non esisteva una dittatura a Cuba.
Solo nel 1968 Amnesty International scoprì che effettivamente esistevano prigionieri politici a Cuba: però erano già morte decine e decine di prigionieri politici nei campi di lavoro forzato. E noi cubani quindi abbiamo dovuto aspettare quasi cinquant’anni, prima che qualcuno si interessasse dei diritti umani a Cuba.
Tutti questi maltrattamenti, l’impossibilità di comunicare, le torture avevano un obiettivo: i prigionieri avrebbero dovuto accettare la riabilitazione politica. Cosa significava questa riabilitazione politica? Bisognava firmare un documento, nel quale io dovevo dichiarare di negare le mie idee: tutte le cose in cui io credevo, dovevo negarle. Dovevo ammettere che i valori nei quali io mi ero formato erano falsi e c’era anche un paragrafo, che ricordo alla perfezione, che diceva che io dovevo ammettere che Dio non esiste che questa era una credenza oscurantista del passato capitalista; io chiedevo di poter entrare di nuovo nella società comunista per essere un uomo nuovo. Se firmavamo, potevamo uscire e tornare a casa nostra. Questo, per me, avrebbe significato un suicidio spirituale.
Molti dei miei amici accettarono e firmarono questa carta. Pensavano che avrebbero potuto recitare questa parte, nel futuro. Però non tutti sono stati in grado di farlo: molti hanno distrutto le loro vite, le relazioni familiari che avevano. Per questo atteggiamento di ribellione mi lasciarono otto anni in una cella: otto anni senza vedere la luce del sole, senza vedere la luce artificiale. C’era semplicemente una cornice di metallo, che marcava in qualche modo la finestra e la porta, e dentro, una penombra costante. All’interno della cella, niente: solamente un piatto e una specie di contenitore per prendere l’acqua. La cella era più corta di questo tavolo: otto anni trascorsi all’interno di questa cella, giorno dopo giorno. Quando ci hanno tirato fuori, non riuscivamo a camminare su una linea retta, perché, dopo tanti anni passati senza vedere la linea dell’orizzonte, il soggetto perde quella che si chiama la linea di marcia. Non ero solo io, c’erano decine di compagni nella stessa situazione in cui mi trovavo io. Quando ci hanno tirato fuori la prima volta, camminavamo come se fossimo ubriachi e continuavamo a muoverci da una parete all’altra. In questa situazione, io sono riuscito a scrivere sulla carta delle sigarette qualche poesia.
Le autorità, per obbligarci ad accettare la riabilitazione politica, ci minacciavano dicendoci che, se non firmavamo, non ci avrebbero dato più cibo: per quarantasei giorni, non ci hanno dato nulla da mangiare. Venivano con dei contenitori di cibo favolosi, cibo che normalmente non davano, in carcere. Ci chiedevano: “Mangiate? Sì, certo! Però dovete prima firmare questo documento! Se non firmate, beh, allora non mangiate!” Questa cosa durò quarantasei giorni e sospesero questa specie di trafila perché pensarono che qualcuno poteva morire. Come conseguenza di questa misura, sei prigionieri si trovarono nell’impossibilità di camminare. Si tratta di una malattia, che si chiama polineuropatia carenziale e si cura con l’alimentazione, le vitamine e l’esercizio fisico. Uno di questi compagni è ancora in sedia a rotelle, non è mai guarito. Gli altri sono riusciti invece a guarire, perché gli hanno dato le medicine.
Io in quel periodo sono riuscito a scrivere delle poesie sulla carta da sigaretta e sono riuscito a farle avere a mia moglie in modo che lei potesse usarle. Io ho conosciuto mia moglie quando venne a far visita a suo padre, che era mio compagno di cella: Marta, così si chiama, aveva quindici anni, io ne avevo ventidue. Tutti voi conoscete la figura mitologica di Penelope, che ha aspettato per vent’anni Ulisse. Marta è una Penelope vera: ha aspettato due anni in più di Penelope e ha aspettato veramente. Ha lottato tantissimo, bussando di porta in porta, chiedendo la libertà del suo sposo. C’è riuscita: io sono qui grazie a lei. Se non fosse così, sarei ancora in carcere perché, oltre ai primi trenta, mi hanno condannato ad altri dieci anni per aver interrotto la condanna con la fuga e per danni alla proprietà dello Stato, che avevo arrecato al carcere per poter fuggire.
Marta ha fatto in modo che il libro fosse pubblicato in varie lingue: questa è la ragione per cui io sono conosciuto in molti paesi del mondo come poeta; ho ottenuto anche un premio. Intellettuali di Spagna, Francia, Svezia, Norvegia, hanno creato un comitato; in Francia Fernando Arrabal, Bernard Henry-Lévy, Yves Montand chiesero al presidente François Mitterand che intercedesse per la mia libertà e il presidente Mitterand riuscì a parlare con Fidel Castro e riuscirono a fare in modo che io fossi libero, dopo ventidue anni di carcere.
Io voglio, prima di concludere, dirvi che nella più buia e scura di quelle celle non mi sono mai sentito solo: Dio è sempre stato con me. Molti mi chiedono: Che cosa hai sentito quando sei stato di nuovo libero? Io rispondo sempre che io non ho mai perso la libertà: ho perso spazio per muovermi, per camminare, il fatto di potermi sedere a un tavolo, però non ho mai perso la libertà, perché la vera libertà è la libertà che Dio dà all’uomo interiormente.
Mi hanno tolto tutto: il sole lo spazio la luce le stelle, ma non hanno mai potuto togliermi la mia libertà interiore. Sono potuti arrivare a tutti gli angoli del mio corpo, ma non sono mai potuti entrare nella mia mente e nella mia anima, mai!
Per questo io considero che il più grande successo di questa resistenza, durata ventidue anni, non è stato qualcosa di materiale: fu qualcosa di spirituale, perché non c’è un solo atomo di odio del mio cuore per nessuno, non solamente per coloro che torturarono me, ma anche torturarono mio padre, mia madre e mia sorella.
Dovete sapere che il castigo del prigioniero politico, a Cuba, si estende alla famiglia: lasciavano senza lavoro le mogli e facevano minacce ai bambini di sette-otto nelle scuole, dicendo Tuo padre è un traditore! Mia sorella è stata minacciata e torturata e tentò il suicidio due volte. Nonostante tutto questo, io non provo odio per queste persone e mi oppongo al fatto che un giorno possano essere maltrattate. Se io accettassi la vendetta nei loro confronti, non avrei la forza morale di denunciarli ora, davanti a voi: sarei al loro stesso livello e la violazione dei diritti umani non ha nessun tipo di giustificazione.
La mia speranza è che esista una società dove non vengono più violati i diritti umani, perché, se questa società fosse esistita quando mi hanno arrestato, molti dei miei amici sarebbero ancora vivi e io non avrei passato ventidue anni in carcere.
Io posso dirvi che l’organizzazione più immorale che sia mai esistita è la Commissione per i Diritti umani dell’ONU, perché questa organizzazione, quando si denuncia che ci sono esseri umani che vengono torturati, prima di rifiutare che un essere umano sia torturato, come prima cosa fanno delle ricerche sull’ideologia della vittima e l’ideologia del torturatore e, in accordo con la simpatia politiche, condannano o stanno in silenzio e giustificano.
Per finire, ribadisco che mi oppongo, a che qualsiasi comunista venga torturato e mi oppongo, a che qualsiasi essere umano possa essere torturato per qualsiasi ragione. Vi ringrazio molto davvero per l’attenzione che mi avete prestato e mi piacerebbe molto rispondere a delle domande. Grazie.
Ruggero Chinaglia Ringrazio molto Armando Valladarès per questa sua testimonianza, che è un primo accenno del materiale che ciascuno può trovare nel libro, dove, occorre dire, accanto al racconto di violenze, torture e altre cose, voi trovare anche una forza narrativa notevole. Questo diario è anche un romanzo, in cui potete apprezzare effettivamente anche il sorriso con cui, giorno per giorno, Armando Valladarès andava oltre la difficoltà, la violenza, la brutalità delle cose che subiva, affrontando il giorno che seguiva sempre con fiducia, con il sorriso che, lui dice, veniva anche dalla fede in Dio che lo ha assistito, che gli ha dato forza.
Si tratta sempre della forza, che ciascuno può trovare e acquisire con un disegno, un disegno di vita, che gli consente di superare momenti anche difficilissimi. Mi pare molto importante l’accostamento che ha fatto tra la questione del vittimismo e della vendetta. Vittimismo chiama vendetta: questa è una questione che va affrontata, che va esplorata. Noi lo facciamo settimanalmente, negli incontri che l’Associazione cifrematica di Padova fa il giovedì sera, ma è una questione che pragmaticamente Armando Valladarès testimonia per l’importanza che ha e di cui ciascuno occorre faccia effettivamente una traversata. Ora invito Maurizio Cerruti a dare una sua testimonianza attorno al libro, se lo ritiene, e comunque a formulare le domande che, anche in quanto giornalista, ritiene di rivolgere ad Armando Valladarès
Maurizio Cerruti Grazie a tutti, buonasera a tutti. Ho seguito con molta attenzione il racconto di Valladarès che ripercorre, sintetizzandolo, il contenuto del suo libro; penso che, chi lo leggerà, troverà molti spunti ulteriori di riflessione. Vorrei prendere spunto da una sua considerazione iniziale, che poi ha richiamato nel finale del suo intervento, che è quella che noi, europei e italiani in particolare, abbiamo sempre guardato con una certa indulgenza a Fidel Castro e alla sua dittatura, come se fosse una dittatura diversa dalle altre, meno crudele, meno violenta, meno oppressiva.
Direi che questo libro riporta la situazione alla realtà dei fatti e mostra come, effettivamente, questo tipo di dittatura abbia avuto soprattutto la capacità di mascherarsi, cioè di nascondere la sua vera natura, che non è poi diversa da quella di tutte le dittature classiche di tutti i generi e di tutti i tempi: purtroppo l’uomo, quando è mal guidato, mal condotto, finisce sempre per ripetere gli stessi errori, gli stessi abusi, le stesse crudeltà. Ma direi che questa considerazione riguarda in modo particolare noi italiani. Io ho ben presente i passaggi storici, come ci siamo posti nei confronti della dittatura cubana, dai tempi dell’Unione Sovietica in poi: finché c’era l’Unione Sovietica, gli italiani comunisti guardavano con simpatia Cuba, come baluardo contro il capitalismo, contro l’imperialismo, mentre quelli che non erano comunisti guardavano la situazione con occhi diversi. Poi, a un certo punto, è finito il comunismo.
Fine anni ’80, inizio anni ’90: è arrivato Gorbaciov, c’è stato il crollo del comunismo in Europa orientale e la stessa Unione Sovietica si è disintegrata. Questo nuovo mondo che si affacciava nella storia ha un po’ scombussolato, ha un po’ cambiato le carte in tavola, perché alla fine nessuno era più comunista, in Italia. Sì, c’era Bertinotti ma, insomma, sappiamo che Bertinotti non era un vero comunista: lo abbiamo anche visto successivamente. A questo punto, abbiamo guardato a Cuba come a qualcosa di strano: è comunismo, non è comunismo? Quasi come un po’si guarda a una specie in via di estinzione, con la simpatia con cui si guarda ai panda perché, in fondo, poveretti, sono lì, nella loro foresta, mangiano le foglie di bambù, non fanno male a nessuno, sopravvivono e sono un esperimento sociale che chissà che in futuro possa dare qualche frutto!
In realtà la macchina della dittatura all’interno di Cuba ha continuato ad andare avanti con i suoi soliti metodi, con i suoi soliti sistemi, con i soliti personaggi, arrivando addirittura a fagocitarsi tra di loro perché sappiamo che, dagli anni ’90 in poi, ci sono state parecchie faide interne al regime, ci sono stati riassestamenti. Alla fine, questi due fratelli, aiutandosi l’un l’altro, sono riusciti ad arrivare ben dentro il XXI secolo tranquilli e beati, con la prospettiva di andare all’altro mondo col piede al potere e probabilmente con grandi funerali di Stato e magari con la presenza di molti capi stranieri affranti.
Speriamo che non ci sia anche qualche rappresentante nostro, del nostro governo futuro. Comunque, sta di fatto che questa situazione è assolutamente paradossale perché in realtà qui non di panda, innocui e simpatici animali in via di estinzione, si tratta, ma di un qualcosa che continua a macinare vite umane e a distruggere il suo stesso popolo, in nome di ideali che, in questo lunghissimo arco di tempo in cui il mondo è cambiato – meno che là – in nome di ideali che continuano ad essere vantati, affermati e ribaditi senza, in realtà, nessun fondamento: perché la giustizia non esiste, l’uguaglianza non esiste, esiste solo la burbera corruzione e lo sfruttamento attuato da personaggi che ormai hanno superato largamente la soglia del pensionamento, ma che continuano a restare inchiodati al potere.
Fatta questa lunga premessa, di cui mi scuso: sono stato preso dalla foga, perché sono cose che sento molto profondamente, io vorrei chiedere innanzitutto al nostro autore, a Valladarès: adesso, a questo punto, abbiamo ancora Fidel Castro: sembrava morto ed è risuscitato; abbiamo suo fratello. Che sta succedendo? Che cosa succederà? Possiamo sperare che cambi qualcosa?
Armando Valladarès: La ringrazio per queste parole. Io penso che l’unica opportunità che si produca un cambiamento a Cuba è con la morte di Fidel Castro. Solo con questo. Con Raul, la dittatura è identica. C’è stato un cambiamento nella figura: il dittatore è cambiato, però c’è sempre dittatura. Due settimane fa, Amnesty International ha denunciato un imbarbarimento, una repressione. Adesso ci sono più giornalisti a Cuba di prima. Ad esempio, alla televisione italiana si è anche visto come vengono picchiate le dame, le signore vestite di bianco, in strada: cosicché la repressione continua.
C’è chi crede, pretende di vedere una apertura di tipo democratico a Cuba. Per esempio, dopo cinquant’anni vendono un computer a un cubano. Però un cubano della classe media, prima di potersi permettere l’acquisto di un computer deve lavorare almeno cinque anni. E a cosa gli serve un computer, se non ha accesso a Internet? Considerare questo un’apertura nel campo delle libertà è un’aberrazione!
Io mi trovavo in Italia quando Fidel ha nominato il fratello come successore: mi trovavo a Ischia, dove ho ricevuto un premio. I giornalisti in quell’occasione erano molto contenti, molto eccitati perché lo vedevano come un segnale di apertura: persino veniva concesso ai cubani di entrare negli hotel del loro paese! Non vi provoca vergogna pensare che questo sia un’apertura verso la democrazia? Non vi siete accorti che ha nominato suo fratello come il dittatore successore? Cosa sarebbe successo se il presidente Bush avesse nominato il fratello come presidente successivo alla Casa Bianca? Tutti voi sareste qui a protestare! In Europa ci sarebbero le capitali piene di gente che protesta! Invece a voi è sembrato normale il fatto che un dittatore si ritiri dalla politica e nomini suo fratello come successore.
Sapete perché è successa questa cosa? Perché Cuba si trova a novanta miglia dagli Stati Uniti e Fidel Castro si è messo contro gli Stati Uniti. Siccome la maggior parte dei Paesi vede gli Stati Uniti come nemici e li odia, hanno incanalato questo odio appoggiando Fidel Castro e noi siamo stati vittime di questo errore politico: perché, certo, possiamo odiare gli Americani, però allo stesso tempo potremmo dire che a Cuba c’è una dittatura, vengono violati i diritti umani, non c’è libertà, perché i due criteri non si escludono l’un l’altro. Io ho amici e collaboratori in Spagna che sono antiamericani fino al midollo, però sono anche anticastristi. Rifiutano gli Americani e con la stessa forza rifiutano anche Fidel Castro; però, purtroppo, non succede così nel resto del mondo. Se la dittatura di Castro si fosse stabilita in Africa o in Asia sarebbe già scomparsa.
Maurizio Cerruti Una domanda che riguarda l’intera America Latina: il caso Cuba è unico o può ripetersi in altri Paesi? Abbiano visto quello che è successo in Venezuela, sappiamo che in Nicaragua sono tornati i sandinisti al potere: il tipo di dittatura cubana può estendersi ad altri Paesi, oggi, nell’America latina?
A.V. Io penso che sì, che possa succedere qualcosa di simile. Quando un comandante, un politico di un paese latino americano vuole avere l’appoggio, la prima cosa che fa è attaccare gli Stati Uniti. Subito, la sinistra a livello mondiale lo appoggerà, di sicuro; sanno benissimo che la sua permanenza dipende precisamente dal suo essere contro gli Stati Uniti, per gli stessi motivi che vi ho spiegato prima, ossia che la maggior parte del mondo appoggiano la dittatura castrista. Abbiamo l’esempio di quello che sta succedendo in Venezuela, in Nicaragua, esattamente il contrario di quello che è successo in Honduras: in Honduras mancava poco che gli Stati Uniti lo bombardassero. Avrei piacere di avere delle domande da parte del pubblico.
Ruggero Chinaglia Prima di passare al pubblico, ne ho una anch’io! Una questione molto importante che mi ha colpito è quanto diceva Valladarès sulla simpatia con cui in Occidente e soprattutto in Italia è stato considerato il regime di Castro. Quanto deve questa simpatia e quanto deve il mito di Fidel Castro in Occidente al mito di Che Guevara? Che Guevara, negli anni ’70-’80, per buona parte della gioventù, costituiva un simbolo della lotta per la libertà. Che Guevara aveva questo mito, di essere un combattente per la libertà, di essere quindi un combattente buono. Molto poco è trapelato di quanto Che Guevara abbia contributo invece alle stragi, agli assassinii, alle uccisioni; la figura è stata piuttosto confusa con quella del combattente buono, combattente per alcuni valori, fino a diventare addirittura un mito del consumismo: magliette, libri, poster che troneggiavano anche nelle camere di molti giovani. Come considera questa combinazione Fidel Castro-Che Guevara?
A.V. Che Guevara partecipò all’instaurazione della dittatura a Cuba e la sua intenzione era quella di andare in Bolivia, dove arrivò, per stabilire anche là una dittatura come quella cubana. Per me è difficile capire come persone, che dicono di essere contrarie alle dittature e hanno degli ideali, possano provare ammirazione per un personaggio come Che Guevara, che di fatto ha fucilato, ha torturato persone. Che Guevara fu un assassino. Lì, su quel tavolo, c’è un libro che è la biografia di Che Guevara, dove c’è la lista delle persone che uccise personalmente. E vi invito anche a cercare in Internet “le vittime di Che Guevara” e troverete lì la lista. Lui, nel 1954, era il capo della prigione La Cabaña, all’Avana: nei primi due mesi, sotto la sua direzione, sono state uccise esattamente settecento persone.
Nella storia contemporanea, forse, quello che succede è che è stata molto pubblicizzata come figura. Chi adesso indossa la maglietta con il Che Guevara non ha assolutamente idea di chi fosse: io mi trovavo a Parigi, ho visto un ragazzo che aveva una maglietta con il Che Guevara e gli ho chiesto: “Ma tu sai chi è realmente Che Guevara?” L’ha guardata e ha detto: “Beh, credo che sia un cantante rock!” È un mito della rivoluzione, certo, ma ha poi ingannato moltissimi giovani. Un giovane, se crede di avere ideali, non può essere simpatizzante di una figura che ha instaurato una dittatura, che assassinò e che ha voluto portare la dittatura in altri Paesi.
Io credo che i giovani debbano lottare per persone che hanno lottato per la libertà, debbano credere in queste persone, in chi ha lottato per i diritti umani o per la dignità. Questo è un modello che bisogna ammirare, non quello di un assassino come fu Che Guevara.
Intervento dal pubblico Io volevo sapere: secondo Lei, qual è oggi l’ostacolo maggiore alla condanna dei crimini del comunismo? Noi sentiamo spesso condannare le dittature di destra, come Lei ha accennato prima, Pinochet; lo stesso per la dittatura in Argentina, i desaparecidos. Però quasi mai nessuno dice niente delle vittime del comunismo; eppure, se vogliamo mettere la cosa quantitativamente, forse sono tantissime, tantissime di più. La mia perplessità è questa: se uno chiede a chiunque fosse per strada: Cosa vuol dire desaparecidos? Ti sa dire due o tre parole, però, se gli dice: Cosa ne pensa delle vittime del comunismo? Scommetto che nessuno ti sa dire niente. Secondo Lei, qual è il problema?
A.V. È molto semplice: le dittature di destra sempre vengono identificate con gli Stati Uniti, ed è vero che molte volte gli Stati Uniti hanno appoggiato dittature di destra. Per questo c’è un grande rifiuto nei confronti delle dittature di destra e una certa, diciamo, simpatia nei confronti delle dittature di sinistra. Sono stati molto abili, quelli di sinistra, a mantenere questo stato. Mi piacerebbe fare degli esempi di come sia stata ingannata l’opinione pubblica da parte della sinistra. Vi ho fatto l’esempio di Castro, quando aveva una croce al collo e giurò di non essere comunista. Forse avete sentito parlare della fucilazione di quindicimila polacchi durante la Seconda Guerra Mondiale, la famosa fucilazione nel bosco di Katyn. Fino a poco tempo fa, si pensava che fossero stati fucilati dai nazisti: però noi sapevamo che erano stati i comunisti della Russia. Finché non è arrivato Gorbaciov, tutti pensavano che fossero stati i nazisti a fucilarli, però, per fortuna, Gorbaciov ha detto la verità, che erano stati assassinati dai comunisti e ha chiesto perdono al popolo polacco. E così sono le bugie e la propaganda di tipo comunista, molto problematiche per gli Stati Uniti.
Intervento dal pubblico Che Guevara appoggia la rivoluzione castrista e poi, come diceva Lei, passa come guerrigliero in Bolivia. Quindi l’iconografia tradizionale lo riporta, lo configura come una persona, un guerrigliero, un uomo che lotta contro l’oppressione dei popoli. Che regime c’era a Cuba prima che Che Guevara appoggiasse la rivoluzione castrista; lo stesso in Bolivia, che regime c’era?
A.V. A Cuba esisteva, prima del trionfo della rivoluzione, una dittatura di destra con Batista. Il fatto però che ci fosse una dittatura non è un’autorizzazione a sostituirla con un’altra dittatura. Quando Che Guevara è andato in Bolivia, cercò di stabilire in quel paese una dittatura di sinistra. Aveva come obiettivo quello di trasformare tutta l’America del Sud in un grande Vietnam.
Maurizio Cerruti volevo cambiare argomento e porre questa domanda: il papa nuovo, Francesco, che è un papa latino-americano, potrebbe essere, secondo Lei, quello che è stato Wojtyla per l’Europa orientale, diciamo, dare una svolta alla situazione latino-americana?
A.V. Io penso che il nuovo Papa argentino farà sicuramente dei cambiamenti, perché la stessa Chiesa cattolica ha un bisogno urgente di cambiamenti. Il suo atteggiamento contro quelli che abusano i bambini me l’ha reso molto simpatico: non so se sapete che il cardinale americano Bernard Law, accusato per aver protetto centinai di preti pedofili, è stato mandato a Roma per essere recluso in un convento. Quando poi è arrivato a Roma, invece di punirlo l’hanno premiato e lo hanno assegnato alla cattedrale di Santa Maria Maggiore. Quando il papa Francesco arrivò e lo vide lì, pubblicamente, davanti ai giornalisti, a tutto il mondo, disse: “Che cosa ci fa quest’uomo, qua?! Non voglio che metta mai più un piede in Chiesa!” Credo che questo atto che ha fatto sia una manifestazione in più che mi fa credere in lui, che sia probabilmente anche un uomo del cambiamento in America latina.
Intervento dal pubblico Quali sono i rapporti fra Cuba e la Cina?
A.V. Favolosi, magnifici! La Cina sta dando milioni di dollari, sotto forma di aiuto, a Cuba, così come li sta dando alla Corea del Nord. Voi avete capito quello che vi ho raccontato sulla dittatura cubana: la dittatura cubana, se la mettiamo a fianco della dittatura della Corea del Nord, è un paradiso e la Cina è il paese che appoggia tutto ciò. Ha molti interessi a Cuba.
Ruggero Chinaglia Per venire all’attualità: come legge Valladarès l’elezione in Venezuela? A fronte di un regime dove Chavez poteva vantare il 90% dei consensi, se non il 100%, sotto forma si esaltazione, di amore per la sua persona da parte del popolo, come è accaduto che il suo designato, Maduro, ha avuto a malapena il 51% dei voti?
A.V. Il potere del capo non è ereditario né trasmissibile: aveva un carisma enorme, Chavez, soprattutto nei confronti della parte povera. Ci sono, in Venezuela, milioni di abitanti che vivono nella assoluta povertà. Chavez, a tutte queste persone povere, regalò una casa, un frigorifero, un televisore, una motocicletta e un assegno tutti i mesi. E, a parte questo, aveva comunque carisma: era un vero leader. Maduro no: io credo che il suo governo non durerà più di un anno.
Federica Tonellotto Che cosa Le manca più di Cuba?
A.V. Io sono un esiliato politico. L’apostolo dell’indipendenza di Cuba, José Martì, diceva che non erano mai così belle le spiagge dell’esilio di quando si poteva dir loro: Addio! per ritornare in patria. Io sono nato, sono cresciuto a Cuba e piango per la mia patria. Io sono desideroso di poter tornare a Cuba, e sono sicuro che tornerò a Cuba, libero. Ho trascorso tutta la mia vita nella lotta per la libertà del mio paese. Che cosa mi manca di Cuba? Tutto!
Intervento dal pubblico Quando uno sta in carcere molti anni perde il contatto con la realtà fuori; com’è l’adattamento fuori, anche soprattutto fuori dalla propria Patria, con dei riferimenti ancora nuovi rispetto a quelli che si conoscevano prima di entrare? Che percorso è?
A.V. Da quando sono uscito da Cuba, ho viaggiato per vari paesi denunciando la mia situazione e denunciando anche quello che hanno vissuto migliaia di amici che stavano ancora in carcere. Ho viaggiato per tutta l’America latina chiedendo aiuto, per denunciare tutto quello che stava succedendo all’interno delle carceri e nessuno mi ha dato aiuto, nessun paese mi ha voluto ascoltare. Quando è uscito il mio libro, Contro ogni speranza, in inglese, il Presidente degli Stati Uniti Ronald Reagan lesse il libro. Mi ha mandato a chiamare: Per noi, sarà un grande onore che Lei faccia parte della Commissione per i Diritti Umani dell’ONU e mi ha nominato ambasciatore degli Stati Uniti.
Sono stato all’ONU e ho fatto in modo che loro poi mandassero un gruppo di investigazione a Cuba e questo gruppo confermò che tutto ciò che era stato detto sulla violazione dei diritti umani a Cuba era vero; da quel momento, Fidel Castro è seduto sul trono di rappresentante della violazione dei diritti umani e grazie a questa campagna i miei compagni sono usciti. Tutti. Quando tutti sono usciti dal carcere, io lasciai: sono andato lavorare nella mia Fondazione, che lotta solamente per i bambini. Perché, quando io ero in una cella e mi picchiavano, avevo comunque delle risorse mentali per cercare di dominare questa situazione: però un bambino non ha questi mezzi di difesa. I governi, la stampa, le organizzazioni internazionali hanno speso moltissimo inchiostro, moltissimi soldi per denunciare la violazione dei diritti umani nei confronti degli adulti e molto pochi per difendere i diritti dei bambini. Invece, secondo me, dovrebbe essere esattamente il contrario.
Tutti voi sapete qualcosa della violazione dei diritti umani a Cuba, di Batista, di Pinochet; però, ad esempio, immagino che pochi sappiano che in Guatemala, nelle miniere di oro, muoiono decine di bambini, perché si usa il mercurio per purificare l’oro. Quando, in un paese civilizzato, bisogna manipolare il mercurio, bisogna mettersi delle maschere, dei vestiti speciali: i bambini del Guatemala lo fanno senza alcun tipo di protezione e ogni anno muoiono decine di bambini con i polmoni distrutti.
Forse non sapete che a Bogotà camminano per le strade centinaia di persone ma, sotto queste strade, vivono centinaia di bambini che stanno lottando per il cibo con i topi. O non sapete forse che in Brasile ci sono più di quindicimila bambine prostitute o non sapete che, ad esempio, nella Repubblica domenicana ci sono più di ventimila bambine che lavorano come domestiche nelle case e più dell’80% di queste bambine sono violentate dal padrone di casa o dal figlio del padrone di casa; o non sapete che ci sono più di 70.000 bambini che lavorano come schiavi, in America latina. Avevate mai sentito notizie come queste? Chi di voi aveva sentito parlare di questo? Questo è solamente la punta dell’iceberg.
Intervento dal pubblico Ricordo di aver letto che qualcuno ipotizzava che anche a Guantanamo ci siano delle carceri, gestite però, questa volta, da Nord-Americani. È vera questa notizia?
A.V. Assolutamente sì, dove si violano i diritti umani. Io sono contrario alla violazione dei diritti umani nei confronti di qualsiasi persona. Lì, vicino, a cinque miglia da Guantanamo, c’è un carcere cubano con circa sessanta prigionieri politici: senza visite, li picchiano costantemente. Però non si è mai sentito parlare di quei prigionieri: si parla di quelli che sono reclusi nella base militare americana di Guantanamo.
Intervento dal pubblico Da quello che so io, c’è molta prostituzione minorile a Cuba.
A.V. Assolutamente sì: dopo la Thailandia, Cuba è considerata il paese dove più adulti vanno con l’obiettivo di avere relazioni sessuali con minori; sono stati girati anche molti documentari, all’interno di Cuba, su questa tematica. Recentemente, la televisione spagnola ha filmato a Cuba con telecamera nascosta cose come queste: gli spagnoli hanno contattato cinque prostitute; la maggiore aveva solo diciassette anni, sedici le altre: loro non sapevano che venivano filmate. È stato uno scandalo in tutto il mondo, perché il documentario è stato pubblicato. Gli spagnoli ebbero il contatto con il pappone: si possono vedere questi filmati, in Internet. Si vede benissimo che c’è il pappone che arriva in una scuola superiore, parla con la maestra e le dà un pacchettino con dei dollari; la maestra tira fuori da scuola una di queste ragazze e le dice: Vai! Puoi andare oggi e domani, ma il giorno dopo devi essere qui, perché c’è un esame da fare! Il signore chiede: Puoi portarmi fuori altre due o tre ragazze? E lei entra e gliele porta, tutte che hanno l’uniforme. Le portano via e le filmano segretamente e tutte queste ragazze raccontano come è iniziato questo lavoro: è una cosa molto triste. Ci sono molti spagnoli che vanno a Cuba per poter fare sesso con ragazze di quattordici-quindici anni e l’80% dei turisti che viaggiano da soli verso Cuba, tra cui ci sono anche italiani, vanno con l’obiettivo di avere relazioni con ragazzine di quattordici-quindici anni. Ho visto poco fa un video in TV, filmato con una telecamera nascosta, in un hotel embarcadero, che è un luogo turistico: un signore teneva per mano una ragazzina che avrà avuto quattordici-quindici anni e il giornalista (lui non sapeva che fosse un giornalista) gli chiedeva: È sua questa ragazzina? – No, no, no, no! – È la sua nipotina? (perché il signore aveva una certa età) – Non è né mia figlia, né mia nipote. Credo che questo video sia poi uscito in Spagna e la famiglia di questo signore anziano, che era andato a Cuba da solo, ha visto il filmato. Vi ripeto che, dopo la Thailandia, Cuba è il paese dove più turisti vanno alla ricerca di turismo sessuale.
Intervento dal pubblico Lo Stato non combatte questo fenomeno?
A.V. In questo documentario che hanno fatto gli spagnoli, lo spagnolo dice: “Adesso vado a mettere a rischio anche la mia libertà!” Perché sembra che la polizia si lasci in qualche modo corrompere in questa situazione e puoi vederlo in Internet questo video. Lo spagnolo chiama il poliziotto al telefono e gli dice che il giorno dopo, in un certo tipo di macchina, eccetera, uno spagnolo andrà via con tre ragazzine. Quando, il giorno dopo, arriva nel posto che aveva comunicato alla polizia, c’erano vari poliziotti, il pappone è sceso e pagò in dollari, dando soldi un po’ arrotolati. Non potete entrare dalla porta a sinistra, perché lì c’è una telecamera! Questo è quello ha detto il poliziotto! Questo è quello che fa l’autorità in questa situazione. Tutti sanno che gli italiani, gli spagnoli, vanno a Cuba con questo scopo.
Maria Antonietta Viero È difficile pensare che nella situazione che ha vissuto possa dire una frase come: Non ho mai perduto la libertà. Non mi sembra che sia solo questione di fede: di che cosa è fatta questa libertà?
A.V. È ovvio che la libertà ha che vedere con la fede: per prima cosa, io ero convinto che quello che stavo difendendo era qualcosa di corretto, perché avevo anche delle profonde convinzioni religiose e per l’amore per la mia donna. Io non ho mai pensato che Dio mi tenesse nel carcere e non gli ho mai chiesto che mi tirasse fuori dal carcere. Quello che io chiedevo a Dio era che mi desse la forza e la fede per poter resistere contro ogni speranza. C’è stato un momento in cui io ho avuto paura di non farcela più e in quel momento, sempre, quando mi sono rivolto a Dio sono uscito così forte che hanno potuto farmi niente. Non c’è stato nessun atto positivo dell’umanità individuale o collettiva che non abbia avuto bisogno di una dose di fede, dalla scoperta dell’America fino allo sbarco sulla luna. Sempre, in tutti i conflitti, quando si mettono da parte una serie di ragioni, alla fine, sempre, ci sono due forze: l’odio e l’amore, e l’amore vince sempre sull’odio. Io sono qui per questo, per amore: per l’amore della mia sposa e per il mio atteggiamento di non odiare e di non permettere che i comunisti mi distruggessero l’anima. L’odio è un sentimento che ti annichilisce, la persona che odia non si accorge che tu la odi. Io vedevo alcuni compagni che si auto annichilivano di odio e io sapevo benissimo che questa cosa non sarebbe mai successa con me. Vi ringrazio per avermi ascoltato e che Dio vi benedica!
R. C. È chiaro che potremmo stare qui ancora qualche ora ad ascoltare Armando Valladarès, la sua storia, la sua testimonianza, il suo pensiero, perché sono questioni pragmatiche che ci suggerisce, ma occorre che concludiamo e vorrei farlo con un brano del libro, che invito ciascuno ad acquistare e leggere per capire la portata delle cose che ha detto questa sera e per poterle apprezzare in modo effettivo e autentico. Perché bisogna considerare che Armando Valladarès è un esule politico, ma è scrittore, è artista, è poeta.
A un certo punto,verso la fine della detenzione, scrive questo: Il 13 giugno 1981 sentii che mi chiamavano dal vestibolo. Era Rodolfo: “Fratello Valladarès, noi andiamo”. “E dove andate?” Chiesi stupito. “Sono già venuti a prenderci”. Mi venne un nodo alla gola. Credevo che mai più, dopo vent’anni di carcere, avrei dovuto affrontare il doloroso momento dell’addio a un condannato a morte. La voce di Rodolfo era serena, calma, ferma. Ripeté una frase che ero solito scrivergli nelle mie lettere, quando cercavo di prepararlo al terribile momento: Lasciamo le pagine della vita per entrare in quelle della storia, e mi incaricò di salutare diversi compagni che aveva conosciuto nelle celle di rigore. Non sapevo cosa dirgli: “Bene, Rodolfo, dì ai tuoi compagni, non avere paura e sta saldo fino alla fine!” Portarono via anche Emilio e Reloba. Li fucilarono la sera stessa.
Poco dopo, la testimonianza dell’ultimo scritto che lui ha scritto in prigione:
Un giorno presero delle misure di sicurezza senza precedenti. Si presentarono nella mia cella, la perquisirono e si appropriarono di carta e matita. Poi fecero venire un operaio che collocò un chiavistello con lucchetto alla porta del corridoio. Non avevano mai fatto una cosa del genere e designarono una sentinella apposta per me, con le chiavi appese al collo. Io ero riuscito a salvare dalla perquisizione una tavoletta e un foglietto, di quelli usati per le ricette mediche. Tagliai una scheggia dalla tavoletta che usavo come sedile sulla sedia a rotelle, la resi aguzza, mi feci un taglio su un dito e spremetti goccia a goccia ciò che sarebbe stato l’inchiostro. Così scrissi una poesia con il mio stesso sangue. Malgrado l’isolamento e le misure di sicurezza straordinarie, qualcuno si azzardò a portarla fuori: arrivò a Marta e venne tradotta e pubblicata in diverse lingue. Fu il mio ultimo scritto dalla prigione.
Ecco la poesia: Mi hanno portato via tutto, le penne, le matite, l’inchiostro, perché loro non lo vogliono, che io scriva, e mi hanno sprofondato in questa cella di rigore: però neanche così soffocheranno la mia ribellione. Mi hanno portato via tutto. Beh, quasi tutto: perché mi rimane il sorriso e l’orgoglio di sentirmi libero e, nell’anima, un giardino è eternamente fiorito. Mi hanno portato via tutto, le penne, le matite, ma mi rimane l’inchiostro della vita: il mio stesso sangue, e con questo scrivo ancora versi.